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Autore: LawrenceTwosomeTime    29/08/2012    3 recensioni
Un'epidemia di odio e libidine sconvolge il mondo, mentre due ragazzi che sono rimasti immuni al contagio tentano disperatamente di sventare la minaccia. Per la prima volta i protagonisti di una mia storia provengono dai miei fumetti.
Genere: Avventura, Horror, Satirico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Febo soppesò nella mano la confezione di caffè, la rigirò, guardò il prezzo.
“È pazzesco quanto ci fanno sborsare per questa merda. Con gli stessi soldi potrei pagarmi una spogliarellista”
Mise comunque il caffè nel carrello; poi, smadonnando a random come era solito fare per stemperare l’indignazione, si diresse alla cassa.
Mentre superava lo scaffale di pannolini ed omogeneizzati, una signora sui trent’anni gli lanciò uno sguardo ammiccante. E si mise un dito in bocca. Lo succhiò.
Strappato alle sue elucubrazioni, Febo si fermò di botto, disorientato, chiedendosi se non avesse avuto un’allucinazione. Quelle cose non capitavano mai a lui.
Fece dietrofront e guardò la corsia. Non c’era nessuno.
Sbigottito e vagamente deluso, ritornò sui suoi passi.

Il cassiere, un uomo obeso dalla calvizie incipiente, lesse meccanicamente il codice a barre dei prodotti con l’apposito strumento (una scatola di preservativi che sarebbe rimasta sul comodino a prendere polvere, due lattine di Redbull, stuzzichini al formaggio e un pacchetto di nazionali senza filtro), poi premette il pulsante per calcolare il totale.
18 euro e 58 centesimi
Febo estrasse dal portafoglio una banconota da venti.
“Per caso ha dieci centesimi?”, domandò il cassiere.
“Spiacente, sono a secco”
“Guardi meglio”, rincarò l’uomo con un tono tra lo spazientito e l’aggressivo.
Febo inarcò un sopracciglio e lo fissò negli occhi.
“Le ho detto che sono a secco. Non li ho i suoi dieci centesimi del cazzo”
Il cassiere si sporse dalla sedia e sbatté le ampie mani sul bancone.
“Chi ti credi di essere, bastardo fottuto? Sei troppo fottutamente importante per darmi un aiuto con il resto, eh? Figlio di puttana!”
Febo puntò il dito in direzione dell’uomo.
“Senti, amico, non so che razza di giornata hai avuto, ma è chiaro che non è stata uno spasso. Io voglio solo il mio merdosissimo resto, e poi me ne vado di qui e non mi vedrai per una settimana, vero come l’oro”
Il cassiere lo afferrò per i corti capelli e gli schiantò la faccia contro il nastro.
Lo choc dell’impatto rese Febo cieco per qualche secondo. Quando recuperò la vista, si accorse delle macchie di sangue che aveva lasciato sul ripiano; il naso era un dolore sordo che si estendeva fino alla fronte; e gli fischiavano le orecchie.
Incapace di parlare, vide che l’uomo aveva gli occhi rossi e sbavava come un cane rabbioso. Tremava, nell’evidente sforzo di tenere a freno la violenza.
All’improvviso si sentì pungolare alla schiena da qualcosa di freddo. Istintivamente si voltò, e dietro di lui c’era un ragazzo di colore, molto alto, filiforme, che reggeva un pacco di birre.
“Ti sbrighi, cazzo? Sto per perdere la mia cazzo di pazienza”
Febo rabbrividì.
“Che avete tutti quanti? Vi siete messi d’accordo? È un giorno particolare?”
Il nero gli tirò un violentissimo calcio nelle palle, così, a bruciapelo. Febo si accasciò al suolo emettendo un gorgoglio.
Riusciva a sentire la voce del cassiere che diceva: “Togliete di mezzo questo figlio di puttana, o gli spacco la faccia con le mie mani. E tu che cazzo hai da guardare, negro di merda? Hai voglia di fare casino?”
Poi percepì una presenza che lo scavalcava, probabilmente il ragazzo di colore, e poi ancora frasi sconnesse, grida, un rumore liquido come di impatto, e varie altre cose.

Si tirò in piedi e barcollò verso l’uscita, stando attento a evitare gli sguardi della gente. Sia uomini che donne gli parevano equamente invasati, forse con una leggera differenza nelle rispettive espressioni. Gli uomini accecati dal malanimo; le donne, ma non ne era convinto, rapite, trasportate da un’impellenza interna. Preferì non approfondire e attraversò le porte scorrevoli.

Davanti all’uscita, una vecchia cenciosa protendeva la mano cantilenando nella sua lingua.
Quando incrociò lo sguardo di Febo, smise di borbottare e mosse le gambe quasi invalide al suo indirizzo.
“Che cosa vuoi, vecchia? Guarda, non ho soldi, perciò è meglio se stai…”
Prevenendo qualsiasi reazione, la megera gli saltò addosso, avvinghiando saldamente le gambe al suo bacino, e gli infilò la lingua in bocca. L’assurdità del gesto lo colpì più dell’alito fetido, che però gli provocò dei conati di vomito.
Picchiò disperatamente i pugni sul cranio della strega, che sembrava posseduta e non accennava a mollare la presa. Infine, con un colpo sordo se la scrollò di dosso e si diede ad una fuga precipitosa.

Avvertiva tutto intorno a lui come un’aura di desiderio represso: desiderio di morte, desiderio di sesso. L’aria crepitava come se fosse carica di corrente elettromagnetica, le persone sembravano cercare di urtarlo di proposito. Gli uomini gli comunicavano profonda soggezione, ma quelle che gli incutevano veramente timore erano le donne: di tutti i ceti, razze ed età, davano l’idea di volerselo mangiare.
Il loro sguardo era talmente profondo da prosciugargli la bocca. E a proposito di bocca…
Al limitare della visuale riusciva già a scorgere scene di un’assurdità inaudita: ragazze che si avvinghiavano come tarantole ai loro compagni, o a persone che sembravano sciamare indistintamente tra la folla, e li baciavano con un trasporto inumano; una stava frettolosamente strappando i pantaloni di dosso a un anziano. Ma non si trattava solo di quello.
Gli uomini sembravano godere, ma la loro espressione malevola si accentuava in proporzione. E le picchiavano. Duramente. Le donne si contorcevano per il dolore e poi ripartivano alla carica.
La piazza principale si stava trasformando in un’orgia di singulti di sofferenza e gemiti di piacere.
Febo pensò che in fondo al suo cuore, da qualche parte, doveva aver formulato fantasie analoghe. Ma la loro realizzazione era qualcosa che valicava l’oscenità più grottesca. Si sentì indirettamente responsabile per il fenomeno.

Infine, esausto e dolorante, si chiuse alle spalle la porta del suo appartamento.
Un’ombra tremolante lo scrutava attraverso le tende mosse dal vento. Febo rabbrividì.
L’ombra si fece avanti, camminando con quel passo spedito che lui conosceva bene.
Betta, la ragazza con cui conviveva. A giudicare dal suo sguardo, anche lei era caduta vittima dell’ondata di follia.
Al diavolo, pensò Febo. Se il mondo è impazzito, tanto vale approfittarne.
La raggiunse e le mise una mano intorno alla nuca; con l’altra le cinse i fianchi. La tirò a sé.
Fu solo vagamente consapevole dell’agonia scaturita dal calcio nelle palle, il secondo quel giorno, che lei gli aveva assestato. Poi il dolore fluì liberamente.
“Ma che… ma che ca…”
“Vedo che non hai perso la testa come gli altri”, disse lei nel suo solito tono pratico.
Febo sollevò di poco il capo per guardarla.
“Tu… tu… sei normale
“Che colpo di scena, eh?”, ribatté Betta con una nota di disprezzo.
“Non ti sei lasciato scappare l’occasione di mettermi addosso le tue manacce. Tipico di te”
“Io… io… pensavo che il mondo fosse impazzito. Che non ci fosse più legge”
“Bravo, continua a ripeterti che hai fatto quello che avrebbe fatto chiunque altro”

Febo e Betta condividevano quell’appartamento da tre anni, all’incirca dal giorno in cui avevano cominciato l’università: lui ingegneria informatica – che aveva presto traslato in cazzeggio indiscriminato – e lei ingegneria tradizionale.
Avevano stipulato un patto che prevedeva un reciproco rispetto degli spazi, degli orari di lavoro e dell’altrui intimità. Nella pratica, lui non si faceva problemi a girare nudo per casa nella speranza che lei prendesse una cotta per il suo ciombolino. Naturalmente invano.
Si conoscevano abbastanza da sapere cosa c’era da sapere l’uno dell’altra: lui era in pratica un maniaco sessuale frustrato, bilioso e maschilista; lei un’intellettuale spiritualmente e fisicamente frigida, probabilmente bisessuale, ma incline a tenere per sé le sue pulsioni, se mai ne aveva avute.

Più volte, con sorpresa di entrambi, si erano trovati all’unisono sulle questioni della vita, senza però aspirare a una conoscenza più profonda: lui perché si sarebbe fatto tutte le donne che vedeva, lei perché era inevitabilmente convinta che tutti gli esseri umani – e i maschi in particolare – fossero dei porci arrivisti.

Dopo che gli ebbe preparato un tè e dato una borsa del ghiaccio per lenire il dolore al naso (le palle erano troppo malconce e non avrebbero retto ulteriori sollecitazioni), decisero di fare il punto della situazione.
“Le cose non vanno così male. Voglio dire, non ancora. Non è venuto nessuno a sfondare la porta”, disse Betta.
“Aspetta che arrivi la notte… Tu la fai facile perché non hai vissuto la cosa in prima persona”
Lei si accigliò.
“Guarda che tu non sai un bel niente. Stamattina sono andata in piscina, e mentre mi facevo la doccia una ragazza che non avrà nemmeno finito le superiori si è strusciata sulla mia… Hai capito. È stata un’esperienza traumatica”
“Si, traumatica…”, disse Febo sbavando.
“Avrei voluto essere presente”
Lei lo guardò come si guarda una larva che si decompone in una pozza di fango.
“Pe-per darti una mano, cosa credi?”
“Si, vabbé, cambiamo argomento… Cosa abbiamo visto fino a ora?”
Febo si grattò il mento.
“Uomini incazzati neri, e donne… affamate di cazzo. Ma non solo”
“Qualche idea sul perché noi siamo immuni?”
“Eddai, Betta! Io sono capace di costruirti un dominio virtuale in meno di due giorni, non ne so un cazzo di parapsicologia, morbi esotici e isteria di massa”
“Questo perché con la scusa che sei un mago della tecnologia te ne sbatti altamente di tutto il resto. Senti la mia teoria”
Betta si abbracciò le ginocchia.
“Per un caso fortuito, siamo entrambi incompatibili con questa forma di pazzia perché reagiamo in maniera differente rispetto alle persone comuni”
“E cioè?”
“Tu, che ti incazzi per qualunque cosa e hai fatto dell’incazzatura la tua ragione di vita, insieme alle sottane…”
“Ehi!”
“Fammi finire. Tu, dicevo, possiedi gli anticorpi: abituato come sei a perdere il controllo, non avverti la pressione esercitata da questa specie di… influenza, o qualunque cosa sia”
“Vorresti farmi credere che tu sei immune perché sei una figa di legno?”
“Poco ortodosso, ma a grandi linee è così”

Osservarono per un poco il cielo punteggiato di rondini.
Betta si stuzzicava distrattamente una pellicina, rimuginando sui possibili sviluppi, mentre Febo meditava sulla possibilità di rapire una ninfomane a caso e incatenarla in camera da letto.
“Nessuno ha idea di come sia successo”, disse infine la ragazza.
“Cosa?”
“Questo casino”
Febo sbuffò.
“Fanculo com’è successo, piuttosto pensiamo a un modo per sistemare le cose”
“Per una volta sono d’accordo con te”
Si alzò e prese un foglio da una mensola. Prese a schizzare una piantina.
“Cosa combini?”
“Dobbiamo raggiungere l’Università. Il garage è troppo lontano, ci renderebbe esposti. Procederemo a zig-zag, avvalendoci delle vie secondarie, gli spazi non interdetti tra gli edifici e, se necessario, i canali di scolo”
“E che cazzo ci andiamo a fare, alla tua Facoltà? Perché è lì che vuoi andare, vero?”
“Te lo spiegherò quando ci arriveremo”
“Frena un momento, bella. Qui rischiamo di rimetterci la pelle: voglio sapere per cosa mi giocherò la vita”
“Se te lo dicessi non mi crederesti. Per ora posso solo anticiparti che si tratta di un… progetto scolastico”

Venti minuti dopo, Febo e Betta arrancavano in un condotto di scarico pieno d’immondizia, sussultando ad ogni piccolo rumore. In lontananza si udivano grida smorzate, lamenti di anime in pena. Percepirono chiaramente odore di cherosene, mentre il cielo si oscurava per il fumo prodotto da un incendio.
Febo si era equipaggiato con la pistola a pallini regalatagli dal padre, un coltello a serramanico e una mazza da baseball legata alla cintura; Betta aveva portato con sé un taser e una bottiglietta di spray al peperoncino.

“Quanto cazzo dista la fottuta università?”
“Parla piano. Ci siamo quasi”

L’Università era un austero blocco di cemento fiancheggiato da blocchi più piccoli, incasellato in un parchetto sterile circondato da una recinzione alta poco più di un metro e mezzo. Il cancello era aperto.
I due procedettero in linea retta in un cimitero di auto abbandonate, soprabiti gualciti e sigarette accese.
All’interno, era come se un violento tornado avesse ristrutturato pesantemente i corridoi.
Lo spettacolo offerto dalla desolazione era accentuato dalla luce che penetrava, impietosa, dalle imposte aperte.
Un cane abbaiò da qualche parte.
Sulla sedia che era stata della segretaria giacevano, in posa sgraziata, la segretaria stessa e il rettore, abbracciati. Lui l’aveva dissanguata a morte con un morso alla giugulare, e ora ansimava pesantemente, probabilmente per la prolungata attività sessuale.
I ragazzi passarono oltre.
“Di qua”
Ai piani superiori si aggiravano studenti in stato di trance: non guardavano nemmeno dove mettevano i piedi. Perlopiù strisciavano.
“Questi devono essere esausti”, disse Betta.
“La seconda porta a destra”
Sgusciarono furtivamente in un laboratorio. Era deserto.
“Bé, siamo stati fortunati”, disse Febo.
Un ragazzo pallido e scarmigliato sbucò da dietro la porta e cercò di soffocarlo con un braccio.
Febo si mise a strillare, barcollò, quasi cadde.
Si sentì uno sfrigolare e l’odore di carne bruciata. Poi l’assalitore crollò a terra.
Betta rinfoderò la pistola elettrica. Entrambi sospirarono.
“Coraggio, femminuccia. Tirati su”

Il laboratorio era ingombro di aggeggi dall’utilizzo dubbio, in parte componenti meccanici, in parte strumenti di precisione, ma anche vecchi grammofoni, pezzi di radio, memoria RAM e lettori laser.
“Che… diavolo sarebbe questo posto?”, chiese Febo.
“Il progetto a cui stavo lavorando con due miei compagni. Uno l’hai conosciuto poco fa”, disse Betta accennando al ragazzo svenuto.
“Ma è legale?”, disse Febo toccando uno schermo in cui si alternavano una mappa del cervello umano e un tesseratto in perenne trasformazione.
“Teoricamente si, finché non azioniamo la macchina”
“Quale macchina?”
Betta spostò una pila di scatoloni, sgarbugliò un intrico di cavi.
“Aiutami”
Sotto la montagna di materiali giaceva un cubetto argentato attraversato da una retinatura di fori simile alle uscite audio dei pc portatili.
“Cosa sarebbe questo affare?”
“Non ha ancora un nome. È incompleto, ma potrebbe rappresentare la soluzione ai nostri problemi e ai problemi di tutta l’umanità”
“Abbiamo fatto tutta questa strada per un fottutissimo hard-disk?”
“Ma quanto sei noioso! Ascolta… sono quasi tre anni che stiamo cercando di mettere a punto un sintetizzatore di stimoli cerebrali”
“Un che…?”
“Una macchina che influenzi i sogni durante la fase REM. Sai, per decidere cosa visualizzare prima di addormentarsi”
“Tutto questo è molto affascinante, ma in che modo ci torna utile? Quei tizi là fuori non sono addormentati”
Betta si succhiò un pollice.
“C’è una… funzione secondaria che abbiamo scovato quasi per caso. È stato un incidente di percorso, a dirtela tutta”
“Di cosa si tratta?”
“Il cubo può, in parole povere, invertire gli status emotivi, nel nostro caso le pulsioni, o se preferisci la sfera legata all’istinto (il cubo non fa differenza tra conscio e inconscio), riportandole così ad una condizione neutrale”
Febo fischiò.
“Ok, come lo azioniamo?”
“Devo avvertirti che non l’abbiamo mai sperimentato su esseri umani. Nella peggiore delle ipotesi, potrebbe fottere il cervello a qualunque persona nel raggio di cinquanta miglia. Noi inclusi”
“Chi se ne frega, tanto è già andato a puttane”
“Vero. Non ci resta che raggiungere una stazione radio e diffondere in modo sistematico il comando di default”
“Una stazione radio?”
“Il cubo emette delle frequenze ultrasoniche inudibili dall’orecchio umano, ma percepite al livello subcosciente. Ci basterà un semplice microfono”
“Oh, bella. Credevo che fossi solo una fighetta che se la tira”
“Muovi quel culo, difensore della morale”

Raggiunsero il garage e presero la macchina. Fu sorprendentemente facile, malgrado i drappelli di invasati che pattugliavano le strade. Il punto debole dei “contagiati” era che non agivano come una forza compatta, bensì attaccavano indiscriminatamente qualunque loro simile si trovasse nelle vicinanze.
A bordo della vecchia Fiat Panda la situazione divenne gestibile, ma non tanto da far abbassare loro la guardia.

Radio Smegma distava una decina di chilometri appena usciti dalla città. Niente che non potessero affrontare.
Quando Febo stava per addormentarsi al volante, il clacson di un tir lo fece sobbalzare.
Un camionista sporco di sangue rappreso gli mostrò il medio dalla cabina, poi procedette allo speronamento.
“Porca puttana, Betta! Sembra di stare in quel cazzo di film di Steven Spielberg!”
“Dai gas”
Procedettero a novanta all’ora raschiando il guardrail, finché Febo non sterzò infilandosi in aperta campagna. Il camionista lo tampinò, senza considerare che il suo camion non poteva superare un simile dislivello rimanendo in equilibrio sulle ruote, non con quella massa, non a quella velocità.
Il mezzo si rovesciò in un fragore di imprecazioni.
Febo esultò e riprese la via della strada.
Procedettero senza altri incidenti – a parte la visione di un boeing 737 che precipitava poco distante – e un quarto d’ora dopo, giunsero in vista della stazione radio.
Parcheggiarono davanti all’entrata e abbandonarono l’auto.
La stazione odorava di linoleum e marijuana. L’illuminazione era intima e soffusa.
“Questo posto non mi piace”, mormorò Betta, mostrando per la prima volta tracce di paura.
“È il cazzo di pianeta Terra che ha un problema”, rispose Febo.
Dei gemiti strozzati li fecero sobbalzare.
Un uomo di mezz’età, completamente nudo, si precipitò fuori inseguito da una torma di donne svestite che bramivano come animali in calore. La scena aveva un che di comico.
La mandria li superò in velocità, placcando il fuggitivo e sommergendolo.
Febo si accese una sigaretta.
“Mi ricorda un po’ la copertina di…”
“Di quel fottuto album di Jimi Hendrix”, completò Betta.
“Si. Oppure la pubblicità del deodorante Axe”
“O il finale di quel cazzo di film di Von Trier”
“Va bene, basta così”

La sala di trasmissione li attendeva dietro un vetro che costeggiava uno stretto e polveroso corridoio.
Si rinchiusero dentro e predisposero l’attrezzatura.
“Sei sicura che funzionerà? Voglio dire, quelli non se ne staranno seduti in casa a bere tisane al finocchio e ascoltare la radio”
“Non ce ne sarà bisogno. Le onde faranno effetto comunque”

Accesero l’apparecchio e incrociarono le dita.
Passarono vari minuti.
Febo fumava come un ossesso, tanto che la sala era diventata una muraglia di foschia, e Betta muoveva la testa a ritmo con le canzoni del suo iPod.
Ad un certo punto il ragazzo domandò: “Come facciamo a sapere che ha funzionato?”
Lei lo guardò di sottecchi.
“Suppongo che dovremo controllare di persona”.

Deglutendo e posticipando, si fecero forza e abbandonarono il rifugio sicuro. Presero la porta sul retro e uscirono all’aperto.
Betta gli afferrò la mano e disse: “Non serve a niente immaginare il peggio. Dopotutto, cosa potrebbe esserci di peggio della situazione corrente?”
Svoltarono l’angolo.

Una muraglia compatta di donne li squadrò per un attimo che sembrò eterno, una luce assassina negli occhi.
Tra le compagini, sparuti gruppetti di uomini dal cazzo snudato e turgido contemplavano i ragazzi con sguardo famelico.

Febo lasciò cadere la sigaretta.

“Oh, merda”
  
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