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Autore: Fusterya    06/09/2012    28 recensioni
Dopo lo shock di Reichenbach, ognuno ha immaginato a suo modo il ritorno di Sherlock, e questo è il mio.
John è spietato, oltre che devastato. E Sherlock non è più lui.
Gli eventi stanno per precipitare di nuovo, in un modo che John non avrebbe mai potuto immaginare: ma uno è la salvezza dell'altro, come è sempre stato. Come sempre sarà.
(Era nata come OneShot, poi ho deciso di continuare, sperando di aver fatto bene.
Vi chiedo solo di lasciarmi una parolina, buona o severa che sia, per aiutarmi a capire meglio la mia strada. Grazie a tutti e buona lettura. )
NOTA: non ho fatto passare i soliti 3 anni, ma più o meno uno solo.
DISCLAIMER: nessun personaggio mi appartiene, nè lo farà mai.
Genere: Angst, Drammatico, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ok, gente, ultima fermata!

La canzone ispiratrice è Rather be, dei miei amatissimi The Verve. Ci voleva una cosa un po’ celebrativa, no? Il testo è, ancora una volta... perfetto. Soprattutto se lo canta John: proviamo a immaginarcelo tutti insieme.
 


Rather Be -  The Verve -   (link http://www.youtube.com/watch?v=OyihjeFGOzU)


There’s no need for introductions

No dark corridors and fame

you’ll find your fortune

you might find some pain

i wanna lie, lie together

feels like our last embrace

in a world full of confusion

yeah, human race


But I’d rather be here than be anywhere

is there anywhere better than here?

you know these feelings I’ve found they are oh so rare

Is there anywhere better than here?


sometimes life seems to tear us apart

don’t wanna let you go

sometimes these feelings hidden

i start to cry

cause i won’t ever let you go


Mmm… Multiplying


Always livin’ under some vow

Always on the eve of destruction

Make you wanna scream out loud

and as i watch the birds soar

amount of lies of which you spun

o mmm, while I’m still crying

Oh another day is coming


Cause i’d rather be than be anywhere

is there anywhere better than here

You know these feelings i’ve found they are oh so rare

Is there anywhere better than here


Sometimes life seems to tear us apart

don’t wanna let you go

sometimes these feelings hidden

i start to cry

Cause i won’t ever let you go


But i’d rather be here than be anywhere

is there anywhere better than here

you know these feelings I’ve found they are oh so rare

is there anywhere better than here.


Sometimes these feelings hits me

sometimes these feelings hits me

these feelings are oh so rare


                        °o°o°

Non c'è bisogno di presentazioni

Nessun corridoio nero e fama

troverai la tua fortuna

potrai trovare del dolore

Voglio stendermi, stendermi accanto a te

sembra il nostro ultimo abbraccio

in un mondo pieno di confusione

E' la razza umana


Ma preferisco essere qui che da qualsiasi altra parte

C'è un posto migliore di qui?

sai che i sentimenti che ho trovato sono così unici

C'è un posto migliore di qui?


A volte la vita sembra dividerci

Non voglio lasciarti andare

A volte questi sentimenti nascosti...

Inizio a piangere

perché non ti lascerò mai andare

Mmm… moltiplicandoci


Viviamo sempre sotto qualche giuramento

sempre sull'orlo della distruzione

voglio farti aver voglia di urlare

e mentre guardo gli uccelli che si librano

su tutte le bugie che hai raccontato

Mmm, mentre sto ancora piangendo

un altro giorno sta arrivando


Perché preferisco essere qui che da qualsiasi altra parte

C'è un posto migliore di qui?

sai che i sentimenti che ho trovato sono così unici

C'è un posto migliore di qui?


A volte la vita sembra dividerci

Non voglio lasciarti andare

A volte questi sentimenti nascosti...

Inizio a piangere

perché non ti lascerò mai andare


(...)
 


_______________________________________________________________________________________________________________________
 




-John-




Cosa è stato?

Quando è stato quell’attimo in cui è cambiato qualcosa?

Come è successo che io abbia sentito provenire da te qualcosa di diverso?

Una speranza.

Irradiata in maniera oscura, silenziosa, tesa, come sei tu.

Una speranza, davvero? Qualcosa di simile?

O è forse il mio desiderio mal celato, mal nutrito, mal protetto?

Il desiderio che mi ha riarso la gola in questi interminabili giorni in cui hai permesso che io fossi semplicemente qui, come un tizio qualunque.

Nei giorni in cui ti ho lasciato essere te stesso, ombroso, scostante, lontano, ferito, frustrato, senza infastidirti mai, perché... perché poi?

Perché sei una creatura strana e bellissima. Ma bisogna maneggiarti con cura, altrimenti ti divincoli, digrigni i denti, mordi. O voli via.

Devo essere cauto, discreto.

Devo tenere a bada ogni mia piccola felicità, ogni malumore, ogni manifestazione esagerata, non devo strafare: non posso rischiare di farmi ferire ancora.

E ancora.

Ormai basta uno sguardo infastidito, una vibrazione irritata sulle tue labbra serrate, un gesto di congedo della mano affusolata. Ognuna di queste cose, più di altre, tracciano solchi profondi nella mia carne, all’interno della mia pelle.

C’è stato un tempo in cui non vi facevo nemmeno caso, tanto erano e sono parte di te.

Ma, dopo tutto quello che è successo, il mio universo è cambiato: ora mi sento lontano, come se fluttuassi in uno spazio diverso dal tuo, e queste tue piccole compulsioni mi spingono via, sempre di più.

Come se davvero tu potessi controllarle!

So benissimo che non ne sei capace.

Sarebbe come se qualcuno pretendesse che io non sorrida a Mrs Hudson, o non dica buongiorno al negoziante che mi porge il sacchetto della spesa riempito con perizia.

Ma per me avresti potuto farlo. Dovresti farlo adesso, almeno per gratitudine.

Trattenere la tua mano dal fare quel movimento sciatto e disinteressato, equivarrebbe a prendere la mia, lo sai?

Sarebbe tutto quello che vorrei, dopo tanta separazione, dopo addirittura la morte.

A volte mi soffermo a guardarti e ancora mi stupisco. No, non del fatto che tu sia qui, ma di come ci sia arrivato io.

Ancora mi aggiro per la casa sfiorandone le superfici, incredulo.

Il posto che ho desiderato più di ogni altro, in cui ho lasciato più impronte di me di quanto credessi.

Briciole di John sparse sul pavimento: cellule epiteliali appiccicate ai mobili, alla carta da parati, capelli incastrati nello scarico della doccia.

Io questa casa io sono dappertutto, nel profondo.

E questa casa è dentro me, con o senza te: anche per questo non sono riuscito a tornarci.

C’era troppo me, solo me.

Adesso non più.

Sorrido, quindi, pensando a ieri: tu sei sul divano e digiti sul computer aperto sulle ginocchia, e io avverto di nuovo quella piccola speranza.

Solo perché ti ho visto andare in crisi quando hai capito che cercavo lavoro.

Una stupidaggine, una piccola cosa, che non cambierà realmente molto di noi due, ma è come se mi avessi preso per le spalle e mi avessi detto “rimani con me”.

Ecco, lo vedi?

Un piccolo gesto, Sherlock, e io farei qualunque cosa per te.

Mi sentirei patetico, se non fossi così felice.

Felicità.

Ne avevo scordato l’esistenza. Persino la parola.

E’ più di un anno che non la pronuncio, che non la penso, non la immagino.

Ed è qui. Adesso. Senza preavviso.

Solo ieri è stata una brutta giornata di malumori e dubbi: stamattina, invece, sono in cucina e mi gratto il mento davanti al frigorifero aperto, indeciso su cosa preparare per pranzo, e so che tu dormi di là, placido ed esausto, e mi sento felice.

La mia vita che torna tra le mie mani, corposa e reale come questo pacchetto di bacon che sto tirando fuori dal frigo. Cosa ci faccio? Piselli. Mi servono dei piselli. Dello scalogno, forse.

C’è qualcosa di rilassante nel prendere la pentola e fare i soliti gesti meccanici: fino a ieri mi ci sono frustrato dentro, sentendomi né più né meno che una colf.
Oggi, invece, sono di nuovo il tuo amico, e l’oppressione che attanaglia il mio petto ogni giorno, ogni ora, quella consapevolezza malsana che tutto ciò che vorrei non si realizzerà mai, oggi mi schiaccia un po’ di meno e mi fa ritenere possibile vivere così, per sempre.

Dolorante ma felice.

Rassegnato ma soddisfatto.

Spero che duri, anche se so che non succederà, ma ora voglio godermi il momento.


C’è un silenzio piacevole.

Mi lascio trascinare dal ticchettio dell’orologio della cucina come se fosse una musica, guardo le mie stesse mani tagliare e sbucciare verdure, cospargere d’olio il fondo di una casseruola, crogiolandomi nell’inusuale ordine di questa cucina che tornerà presto ad essere un convulso e insicuro laboratorio chimico/succursale di obitorio, e avverto di nuovo quella calmante sensazione di avere una famiglia che avevo totalmente rimosso per difendermi.

La mia famiglia: è questo che siamo, per me. Che tu lo sappia o no.

Non importa in che forma, non importa nemmeno se tu ne sia consapevole o meno.
Ho ipotizzato di potermene andare via, accecato dalla rabbia e dall’impotenza, ma so che non è vero. Anche se lo facessi, la mia vita girerebbe in tondo, persa in grandi cerchi inutili e senza scopo, e poi tornerebbe qui.

E tu lo sai.


Poi, come è d’obbligo, ogni cosa bella, o almeno un minimo decente, finisce bruscamente e nei modi più inaspettati.

In questo caso a causa di Lestrade, per esempio.

Greg che si presenta nel primo pomeriggio con una grossa scatola tra le braccia e un sorriso soddisfatto stampato sul volto sbarbato. Greg che vuole fare una cosa buona per te.

Tu sei di nuovo sul divano, rilassato, dopo una mattinata di sonno e un pranzo che, stranamente, hai buttato giù senza fiatare, e io sono in uno stato euforico che potrei definire ridicolo se non avessi i miei buoni motivi per ritenerlo più che opportuno.

Quando apro a Greg, sono felice di vederlo.

“E’ il tuo compleanno, Sherlock!” esclama venendo verso di te, che subito lo guardi accigliato.

“No, non lo è.”

“E’ come se lo fosse. Tieni.”

Posa la scatola sul divano, accanto a te, e si drizza nelle spalle soddisfatto.

“Cos’è?” Chiedo io incuriosito.

Tu fissi la scatola, poi guardi me. All’improvviso vedo quella scintilla nei tuoi occhi. La fame.

“Fascicoli. Casi.” Dici in tono vorace. I tuoi occhi si sono fatti grandi, le spalle si sono irrigidite nella vestaglia blu.

“Sono quattro. Grossi. Irrisolti da mesi. Li stiamo per chiudere come insoluti, ma se vuoi dare tu un’occhiata...”
Greg è speranzoso, di buon umore.

Io avverto un’improvviso disagio, come se un malefico sesto senso mi stesse avvertendo di qualcosa mentre ti guardo aprire la scatola febbrilmente e lanciare il coperchio in mezzo alla stanza.


Nel giro di pochi minuti è il caos.


“John, aiutami. Devo sedermi per terra!”

“Ma Sherlock...”

“JOHN!”


Foto sparse sul pavimento, carte che volano tra le tue dita, domande a raffica a Lestrade... ecco la macchina da guerra in movimento. Era dai giorni di Moriarty che non ti vedevo così: ho paura e mi fa male.

L’eccitazione è palese sul tuo viso, ma anche uno strano malessere, una furia che non è solo desiderio, che non è solo ingordigia di risolvere il primo caso.

E’ un’altra cosa.

Io sono in ginocchio accanto a te, che sei in terra con le gambe divaricate e le spalle appoggiate alla seduta del divano, e sfogli con frenesia i file spalancati tra le tue cosce. Ti farà male la gamba se stai troppo tempo così, ma non ho il coraggio di dire niente.

“Avete interrogato questo qui?” Ringhi a Greg sventolando un foglio con una foto allegata.

“Il primo giorno, ma non c’erano element...”

“Idioti! Imbecilli!”

Greg ti guarda a bocca aperta. Poi guarda me. Tu stai soffiando dalle narici come un toro.

Timidamente si rivolge di nuovo a te.

“Non sono stati fatti rilevamenti su di lui, la conosceva a malapena, abbiamo varie testimonianze, e poi nessuna prova... ho detto che non c’erano abbastanza elementi per ritener...”

“Siete una massa di amebe inutili e dannose!” Sbotti.

Il foglio vola via, i tuoi occhi lanciano fiamme di frustrazione.

“La linea temporale è chiara, la presenza di quell’auto in quelle foto è più che evidente! Dovete andarlo a prendere e metterlo sotto torchio!”

“Stai dicendo che è lui?’” Greg vacilla.

“Sua moglie, ma non dubito che lui sia a conoscenza di ogni cosa,” sibili. “Se tu non fossi un cretino totale, Lestrade, e se Anderson avesse fatto quantomeno le scuole serali di patologia forense, forse, insieme alle peculiarità delle ferite sul corpo, avreste visto questo!”

E, dopo averla osservata lungamente con la lente d’ingrandimento, indichi qualcosa in una foto che ritrae un gruppo di persone, una di quelle foto random che vengono scattate tra la folla curiosa che si raduna fuori dai luoghi in cui è accaduto un delitto.

“Non vedo niente,” ribatte Greg.

Tu sbuffi e serri le mascelle, battendo il dito sulla foto. “Concentrati, specie di primate! Tra queste due persone. C’è uno spazio infinitesimale. Cosa vedi?”

“Una roba... viola...?”

“Rossa. Una roba rossa che questo tipo di carta fa sembrare viola. Un faro. Posteriore. Di un’auto. Quell’auto.”

Cerco di guardare anche io, è proprio una cosa impercettibile.

Ora che sono stato imbeccato, posso dire che sembra proprio il faro di un’auto, ma da solo non ci sarei arrivato mai. Non so da cosa tu possa assumere che è di quel modello, di quell’auto, ma, lo sai, mi fido sempre delle tue intuizioni.

Non dubito che tu abbia catalogato nel tuo personale database cerebrale tutti i modelli di tutte le auto del pianeta.

“In questa non c’è più.” Sbatti sotto il muso di Greg la foto successiva, scattata nemmeno un minuto dopo. Le due persone in primo piano si sono leggermente allontanate tra di loro, ora si vede solo una minuscola porzione di prato verde.

“Era lì... e se ne stava andando solo allora? Quale imbecille farebbe una cosa del genere?” Obietto io.

Chi resterebbe così a lungo sulla scena di un delitto tanto da aspettare la polizia e poi andarsene con tutto comodo?

“Una donna molto gelosa, molto stupida e che vede troppo crime in tv, sicura di poter tenere sotto controllo la situazione grazie a siffatto addestramento!”

Me lo dici come se mi volessi sputare addosso.

“Come sai che fosse lei alla guida e non il marito?”

“Cristo, John! Sei un medico! Guarda le ferite sulla vittima: è stata palesemente uccisa da un’altra donna.”

“Ma non abbiamo nessun elemento probante per poter ritenere che...”

“Lestrade, se potessi alzarmi ti prenderei a calci! Dovete riaprire il caso e vivisezionare questi due.”

“Senza prove.”

“Ma con un indizio.” Sventoli di nuovo la foto sotto il suo naso.” Se sarete bravi, cosa di cui francamente dubito, basterà per trovare altro.”

“Gregson non acconsentirà mai.”

Oh, dio. Gregson! Chissà se gli è andato a posto il naso che gli ho rotto!

“Gregson è l’essere meno senziente in assoluto di tutti voi sottosviluppati yarders, aggiralo. Se solo potessi uscire di qui, te le darei in cinque minuti, le tue prove! E dammi un altro fascicolo!”

Greg sospira e mi guarda, cominciando a rendersi conto che non è stata una buona idea.

Per te bloccato, ancora inabile e incapace di alzarti e correre dietro alle tue prove, questo esercizio è una bomba a orologeria.

Che non tarda a scoppiare.

Questo secondo caso è molto meno semplice e coinvolge un ragazzino di 14 anni, il che è già di per sé disturbante. Almeno per me.

Hai sequestrato me e Greg con te da ore: io sono riuscito a malapena a convincerti a sedere almeno sulla tua poltrona mentre noi ti passiamo documenti, foto, referti e quant’altro, e Greg ti ripete le stesse come un registratore.

Ma non si arriva da nessuna parte.

Ti vedo stringere gli occhi, ti sento pensare, posso quasi udire lo stridio del tuo cervello che macina ferocemente informazioni, tenta di collegarle, di dare loro un senso.

So che, se potessi alzarti, ora staresti percorrendo la stanza in lungo e in largo, sbattendo cose e gesticolando, farneticando tra te e te con le mani tra i capelli.  

A un certo punto resti in silenzio per un tempo lunghissimo, piegato in avanti, con i gomiti puntati sulle cosce e la faccia tra le mani, con noi accovacciati ai tuoi piedi: sembriamo un grottesco trittico di qualche pittore fiammingo, questo penso mentre mi massaggio la nuca indolenzita. E’ quasi sera, e io ti osservo preoccupato.

“Devo andare in quella casa,” mormori all’improvviso tra le dita. “Devo vedere, toccare... così sono inutile... queste carte sono inutili.... devo interrogare i genitori... devo andare... devo andare... così sono inutile, inutile, inutile....”

Sento l’angoscia risalirmi lungo la spina dorsale.

So cosa significa. Mi preparo ad alzarmi dal pavimento.

Greg si muove leggermente verso di te: “Sherlock, va bene così, possiamo continuare domani.”

“Inutile!” urli all’improvviso.

Con uno scatto impossibile per le tue condizioni, calci con la gamba buona il tavolino da caffè che è davanti a te, e tra me e Greg, ribaltandolo con violenza e rovesciando fascicoli, carte, tazze da thè.

Io salto in piedi. Greg è diventato bianco in volto. Del thé gli è schizzato sulla camicia, e ora la macchia si sta allargando sulla sua spalla come se fosse sangue color nocciola scuro.

“Greg, vai.” Lo esorto con tono perentorio.

Tu ti sei riaccasciato su te stesso.

Inutile, inutile, inutile, mormori di nuovo tra le tue mani.

“Non posso capire... non posso sentire... percepire... devo andare in quella casa, devo andare là, devo osservare di persona... devo osservare, John!”

Il tono della tua voce è lamentoso, straziante.

Non è il caso che ti strazia. E’ tutto quello che hai passato. Tutto ti sta ritornando addosso, ti sta trapassando, ti dilania. E non lo puoi combattere così come sei ora. Non è vero?

Nessuno ti conosce come me, Sherlock.

Nessuno.


“Greg, ti prego...”

Anche lui si è alzato e annuisce, con l’espressione colpevole di chi ha commesso un involontario guaio, raccoglie velocemente le sue cose e arretra verso la porta di ingresso, mentre mi guarda sedermi sul bracciolo della poltrona e poggiarti delicatamente una mano sulla schiena.

Ci scambiamo un cenno da lontano e va via.

Inutile. Inutile. Inutile.

Continui a mormorarlo come se fosse una preghiera. Macabra. il tuo tono di voce è lugubre. E’ spaventoso.

Ti accarezzo la schiena come si fa con i grossi cani, lentamente ma con forza.

“Sherlock, ti prego. Guardami.”

Inutile. Inutile. Inutile.

“Sherlock, ti prego.”

Ma tu scuoti la testa e non mi ascolti.

So cosa fare. Ormai lo so e basta.

Scivolo giù, di nuovo, stavolta sulle mie ginocchia, davanti a te, e ti prendo i polsi, ti costringo a toglierli da quella faccia angosciata.

“Smettila,” sussurro “smettila, non sei inutile, lo sai. Smettila.”

Lottiamo per un attimo, tu con i tuoi polsi, io con le mie mani, ma poi vinco io. Allenti la resistenza, mi permetti di abbassarti le braccia e di entrare nel tuo spazio.

“Un mese, forse meno. Sarai quello di prima, lo sei già.”

“No no no...”

Sei sempre piegato in avanti, posso vedere solo la massa dei tuoi capelli neri.

“Sherlock, fidati di me, ti prego. Ascoltami.”

Il triste mantra inutile, inutile, inutile, è diventato John, John, John. Appena poco più di un soffio, sarebbe anche bello se io non sapessi cosa significa.


Aiuto.

Sono qui.


So qual è la tua angoscia più profonda.

Non ne abbiamo mai fatto parola, ma io la conosco come se fosse mia. Ho capito molto di te in questi anni, più di quanto tu possa sapere e  immaginare.  

Faccio con determinazione ciò che in passato non avrei fatto mai, ma non siamo più quelli, non è vero?

Non siamo più quei due.

Siamo altri. Diversi. Sfregiati da cose più grandi di noi, di te, anche se non lo vuoi ammettere.

Ti lascio andare i polsi e ti abbraccio.

Non come quella volta sul tuo letto, ma in un modo ben più vigoroso: devo spezzare questo momento, lo devo bloccare con l’unica cosa che ho.

Me stesso.

Riesco a stringerti forte le spalle, a fare in modo, quasi con uno strattone, che tu appoggi il mento sulla mia spalla destra. Ti scuoto un po’, con forza.

“Sherlock, ascoltami... “

Ora taci. Posso sentire solo il tuo respiro accelerato. Guardo la finestra, dritta davanti a me, e resto un attimo sospeso ad osservare le ombre proiettate dalla strada sui muri, sul soffitto.

“No...”

La tua voce è piccola, lontana. Come se mi stessi sfuggendo via. Ma non te lo permetterò.

Ti appoggio una mano dietro la nuca, accosto di più la tua testa alla mia, ho la presa salda, sento i muscoli tesi. Quasi respiro nei tuoi capelli.

“Sì, ascoltami. Tornerà tutto come prima. Stai guarendo, tra poco potrai uscire, camminare, riprendere a fare tutto quello che facevi.”

“No, non tutto... no no no, ho qualcosa che non va! C’è qualcosa che non funziona in me...”

Eccola. E’ venuta fuori, finalmente.

Come se io non sapessi quanto imputi a questo le cose che fai. Questa bestia nera che tu credi che esista, e che invece non c’è. Quando te ne sei convinto, Sherlock? Da ragazzino? Da adulto?

“No,” ti stringo di più “Non hai niente che non vada. Niente. Non voglio sentirtelo dire.”

Non. dirlo.

Non devi, non è vero.

“Non è vero... non è vero, Sherlock.”

Resti in silenzio, restiamo in silenzio. Non accenni a liberarti dalla mia stretta, io non accenno ad allentare la presa.
E’ un abbraccio doloroso per me, e pieno di paura: il contatto più intimo e profondo che abbiamo mai avuto, e che non mi fa sentire felice.

Mi spezza, invece. Mi fa essere terrorizzato per te.

“Tu credi davvero che io sia normale?” dici finalmente, la tua voce è di nuovo tua, quasi. Mi parli nell’incavo del collo, posso sentire il tuo fiato bollente mentre pronunci le parole.

Chiudo gli occhi e prego che tu mi creda.

“Cosa intendi per normale? Non sei... normale, e lo sai cosa voglio dire. Ma non sei certo pazzo. Come ti viene in mente?”

Ansimi un pochino, non rispondi, ma sento che ti stai calmando. Sono bravo con te, cristo, ci so fare.

Non so se sia una benedizione o una condanna.

“Nemmeno dopo quello che ho fatto... a te, a tutti.”

Questo mi scuote. Mi accorgo solo ora che hai le braccia intorno al mio busto.

Ti sei aggrappato a me per tutto il tempo e io non me ne sono accorto.

“Nemmeno dopo quello che hai fatto.” Sorrido tra i tuoi capelli.

“Non sei normale: tu sei straordinario. Fantastico. Non ricordi?”

La tue spalle sussultano, stai ridendo. Sento il sommesso rombo della tua bassa risata contro la pelle del mio collo.
Ecco, così va bene.

Così posso cominciare a sentire davvero quello che provo in questo abbraccio.

Soprattutto perché ora mi stringi di più, mi tieni come se io dovessi svanire in una nuvola di fumo da un momento all’altro, ed io faccio scorrere lentamente le mie mani sulla tua schiena, godendo del contatto dei miei palmi che premono sulla tua muscolatura tesa e calda, e comincio a indugiare con il naso tra i tuoi capelli, respirando deliziato, accostando senza pensare le mie labbra al retro del tuo collo, appena dietro l’orecchio, tradendomi inconsapevolmente.

Non è un bacio, è solo un tocco.

E’ unicamente un appoggiarmi sulla tua pelle e restare lì ad inspirare piano, senza far niente se non cercare di arrivare a te in quell’altro modo, istintivamente, senza premeditazione, ma me ne accorgo troppo tardi.

Tutti i miei propositi, tutti, dal primo all’ultimo, si sbriciolano nell’esatto istante in cui sento che ti irrigidisci contro il mio petto, e le mie mani congelano il loro massaggio amorevole.

E’ adesso che mi si blocca il respiro, e il sorriso mi muore sulla bocca.

Anche tu taci.

Percepisco fisicamente... non saprei come altro spiegarlo... sì, fisicamente, il pensiero che è esploso nella tua testa, si è dilatato velocissimo, è tracimato tra le mie braccia.

Non so se muovermi o meno.

Non so se respirare più forte.

Se espandere i miei polmoni un po’ di più significherà infrangere questo momento così incomprensibile con un solo, impercettibile movimento della mia cassa toracica contro la tua.

Non voglio. No. Non respiro.

Ma poi tu cominci a sollevare la testa, a staccare il viso dalla mia spalla, permettendo a dell’aria fresca di insinuarsi e pungermi là dove ti sei appena scostato, e so che, appena potrai, mi guarderai con occhi severi, forse arrabbiati, o forse no, magari saranno solo carichi di nubi grigioazzurre e pietà.

Pietà.

Il solo pensare la parola mi atterrisce. E allora no, no, non voglio...

Non voglio.

Lo faccio io.

Mi stacco da te repentinamente, allargo le braccia e ti respingo all’indietro quasi con brutalità, e ora sì, posso vedere la tua faccia incredula mentre mi allontano, perdo l’equilibrio, cado seduto per terra.

Resti fermo con le mani vuote, respiriamo rumorosamente.

So che stai leggendo tutto sul mio volto, tutto quello che non mi spiego tu non abbia letto prima.

E’ scritto qui, nei miei occhi spalancati, sulle mie guance impallidite, nelle mie labbra strette dall’angoscia: è sempre stato scritto qui.

Dai tempi di Irene Adler, dalla notte a Baskerville, dalla sera in cui siamo fuggiti insieme ammanettati.


Non leggere, ti supplico, non leggere, non leggermi.


Vedo le tue iridi chiare saettare sul mio volto, posarsi su ogni angolo, tracciare ogni ruga, soffermarsi su ogni piccolo fremito dei miei muscoli facciali.

Credo, spero di aver congelato ogni mia espressione, ma ovviamente non è così.

Abbasso lo sguardo, mi alzo goffamente aiutandomi con le mani, schiacciato dal tuo scrutinio sanguinario, e credo di farfugliare qualcosa a proposito della cena.

“John?”

No. Stai zitto.

Ho il cuore che scalcia contro le costole, mi fa male, per cui stai zitto.

Non rispondo, mi volto e provo a uscire dalla stanza, sento di avere le spalle curve come non lo sono state mai.

“John,” mi chiami, la voce profonda come l’oceano.

Mi giro a guardarti con mestizia, non so perché lo faccio: dovrei già essere fuori di lì.

“Tu mi ami?”


Ecco.


Guardo altrove, la finestra. Guardo la sua cornice scrostata, i vetri appannati di polvere, il rosso ruggine dei mattoni del palazzo di fronte, che ormai conosco a memoria, che comincia a fondersi con la luce del tramonto.

Non sento un tuffo al cuore, non sento emozioni che dovrei impiegare pagine e pagine a descrivere, solo un piccolo fremito nel petto, umiliante come la verità.


Sono all’angolo.


“John, guardami.”

Ti guardo.

E’ come dicevo io, hai gli occhi pieni di nubi cangianti.

Non c’è affetto, non c’è tenerezza.

Nemmeno pietà, per fortuna.

“Non ha importanza,” ti dico stancamente.

“Ha importanza per me.”

Perché fai quello sguardo?

Sei sempre così... furioso. Pretendi. Esigi. Non accetti mai un no come risposta.

Cosa ti cambia? Cosa potrai mai fare per me che metta fine a tutto questo?

“Più di qualunque cosa,” ammetto con una semplicità di cui non mi sarei mai creduto capace.

E non mi vergogno.

Per lo meno ti ho ammutolito. No?

Mi giro di spalle ed esco dal soggiorno, diretto non più in cucina ma verso le scale.

Per la prima volta da mesi.

Mi chiami più volte, disperato.

Non mi fermo, non mi volto, e tu non puoi corrermi dietro.

Va bene così. Non posso farlo adesso.



Non vengo a trattenermi qui dentro da quando sono andato via, cioè il giorno dopo la caduta, trascinato via dalle braccia compassionevoli di Gregory Lestrade.

Ogni tanto ci salgo per dare una sistemata, togliere un po’ di polvere, prendere qualche vestito che non sono riuscito a infilare negli armadi di sotto.

Hanno risistemato anche questa stanza, è dipinta di fresco, il materasso è nuovo, ancora arrotolato e coperto dal cellophane, i mobili all’interno sono stati puliti e ora sono immacolati.

Da stasera dormirò qui.

Sono crollato seduto sulla nuda rete del letto e sto respirando con la faccia tra le mani.

Ho rovinato tutto.

La nostra amicizia è rovinata.

Da oggi mi guarderai come uno strano animale; forse avrai timore di me, forse un po’ di disgusto. Ma in fondo, che ne so? Chi ha mai capito cosa davvero passa in quel tuo cervello paradossale?

Credevo di saperlo, e ho peccato di presunzione.

Mi hai chiamato per un po’ dal fondo delle scale, a cui sarai arrivato sulle stampelle: hai detto delle frasi che, attraverso il filtro della porta chiusa, non sono riuscito a capire, poi ho sentito la suoneria dei messaggi del mio cellulare provenire dal piano di sotto. Hai provato a fare anche quello, ma io l’ho lasciato giù.

Hai smesso.

E’ seguito uno strano silenzio calmante, che adesso dura da almeno mezz’ora.

E’ ovvio che scenderò.

Dovrai mangiare. Dovrai cambiarti e andare a letto.

E’ ovvio che scenderò, tra poco, e farò come se niente fosse, accompagnandoti e prendendomi cura di te, come sempre: dammi solo cinque minuti per poter dire a me stesso quanto sono stupido.

Poi, però, dormirò qui. E’ la mia stanza, no?

E’ ora di mettere una certa distanza tra noi due.

Non stai più così male, è da tanto che non ti svegli durante la notte, e poi c’è sempre il cellulare, o l’interfono...

Farò finta di niente.

Mi passerà.

Se ne vorrai parlare, ne parleremo, e io ti chiederò di ignorarmi perché mi passerà, ricomincerò ad uscire, incontrerò qualcuno, vedrai... non dovrai sentirti imbarazzato per me, farò in modo che non succeda.

Farò in modo di non essere imbarazzato nemmeno io: io le so gestire, le emozioni, so come si fa, non è il caso di preoccuparsi.

Respiro in profondità, prendo grandi boccate di ossigeno sperando che abbassino il rating del mio battito cardiaco.

Non so se questo disperato tentativo di tenere insieme i miei pezzi mi venga così facile per superficialità o puro istinto di conservazione.

Mi sento quasi pervadere dall’ottimismo: individuato il problema, mi posso concentrare sulla sua soluzione.

Andava fatto.

Doveva venir fuori.

Dovevo darmi un motivo per scuotermi, per riprendere la mia vita in mano, e lo penso quasi con sincero sollievo, come se mi avesse investito un autocarro e io pensassi “oh, mi sono solo fratturato il bacino, ma non sono morto.”

E’ il dolore, la cosa difficile.

Ma sono passato attraverso la tua morte.

Posso farcela anche stavolta.
 


Poi sento un grattare sconnesso.

Dei tonfi sordi. Rumori ovattati e non meglio definiti, all’inizio, forse perché sono ancora piegato con le mani attorno alla mia testa e cerco ancora di dirmi idiozie autoconsolatorie, che non so quanto stiano funzionando.
Inghiottisco il ciclico pensiero che mi dice che ti ho perso, soffocandolo con deboli frasi da film come a
ndrà tutto bene, è tutto ok.

Voglio che il mio cervello ci creda, anche se la mia tachicardia e il bruciore che sento dietro gli occhi gridano il contrario.

Ecco, chiamerò Greg. Verrò giù fra cinque minuti e ti sorriderò come se niente fosse, preparerò la cena, lo chiamerò, andrò con lui a bere una birra, e prima di uscire ti aiuterò a metterti a letto.

Nel turbinio di pensieri sconnessi, il mio orecchio lentamente comincia a riconoscere il rumore per quello che è.

Metallo che  graffia contro il muro. Gomma rigida che batte sul legno.

Stampelle.

Oh, dio.

Dio.


Mi alzo come se qualcuno mi avesse accoltellato alla schiena e corro verso la porta: non ho bisogno di aprirla per sapere che stai salendo su per le scale.

“Che stai facendo?” Urlo appena attraverso la soglia e guardo giù.

“Se non scendi tu, salgo io. Un po’ di logica, John!”

Sei a metà e mi fissi con occhi spiritati: ansimi, hai i capelli appiccicati alla fronte sudata, posso vedere chiaramente le stampelle tremare sotto lo sforzo delle tue mani...

Come ti viene in mente, cristo? Ancora così debole... basta una vertigine, un calo di pressione, il femore che cede sotto il peso caricato malamente...

Cristo santo!

Ma io sto già correndo giù, perché nella vita non posso fare altro, già costretto ad allacciare le mie braccia attorno alla tua vita, come prima, eppure in un modo totalmente diverso, perché stavolta non devi cadere.

Non devi cadere.

Ma che sia ben chiara una cosa.

“Devi lasciarmi in pace,” ti ringhio mentre ti strattono verso di me con la mia presa ferma “lasciami vivere la mia cazzo di vita.”

Mi aspetto una battuta cretina o una frase caustica, non certo che tu lasci andare volontariamente tutto il tuo peso contro di me, facendomi sbattere di spalle al muro, costringendomi a piantare le gambe sul gradino con tutta la mia forza per impedirci di ruzzolare giù insieme, e che sgraziatamente provi a baciarmi.

Confusione.

Odo il frusciare della tua vestaglia sul mio maglione, lo scricchiolio dell’unico gradino che sostiene entrambi, il sospiro buffo che ti sfugge, inondandomi di fiato caldo la parte destra del volto: piccoli dettagli estremamente vividi, adesso, in questo momento, senza che io sappia il perché, mentre agganci senza delicatezza il mio labbro superiore con la tua bocca, lo graffi con i denti.

C’è una piccola lotta comica per mantenerci stabili, io sto perdendo l’equilibrio e tu hai sbagliato mira: per la differenza di altezza, per inesperienza, per puro caso, chissà...

Non c’è niente di comico, invece, in come io tengo gli occhi spalancati sul tuo viso, mai stato così vicino al mio, pressato al mio, tanto da farmi notare ogni minimo dettaglio della pelle sul tuo zigomo sinistro, come un piccolo capillare che nasce di là e muore più giù, sulla guancia lattea.

Una stampella rotola giù, provocandomi un microinfarto, ma poi con quel braccio ti avvinghi al mio collo e so che lo hai fatto apposta, così come hai abbassato di più la testa, l’hai angolata meglio, e adesso quello che mi preme su tutte le labbra è un bacio che ha senso, anche se subisco passivamente e non corrispondo ancora.

Sono ritratto nelle spalle, attaccato al muro come se mi stessi aggredendo, e tu sai di medicine, di normalissima saliva, come l’ho assaggiata in altre occasioni, da altre persone, e stranamente, da così vicino odori di inchiostro di giornale.

O magari non lo è, è il mio cervello che lo interpreta così, per poter catalogare in qualche modo... questo.

“La gamba...” mi parli in bocca, letteralmente.

Posso sentire il vibrato della tua voce oscura direttamente sulla mia lingua.

Non ho il tempo di restare ammaliato, di restare immobile a godere di questa cosa inverosimile e insensata.

“Vai giù lentamente,” ti dico io stavolta, nella tua bocca, perché non è pensabile per me staccarmi ora, e stringo forte la tua vita sottile accompagnandoti nel movimento, facendoti delicatamente sedere sul gradino superiore a quello su cui siamo, e sul quale mi inginocchio, io inclinato in avanti e tu che mi soffochi il collo con le braccia.

Una stretta fortissima, non potrei divincolarmi nemmeno se lo volessi.

Ma io, ovviamente, non voglio.

Non riesco a chiudere gli occhi, li tengo fissi e spalancati sulle tue ciglia nere, non riuscendo a mettere a fuoco la tua faccia perché sei troppo vicino, troppo, e sento la tua lingua, bollente, dio, scivolare con assoluta prepotenza dentro di me.

Chi l’avrebbe mai detto che saresti stato capace di una cosa simile?

Dio... non respiro.... sto perdendo l’equilibrio... non stringere così...

“Sherlock...”

Non riesco nemmeno ad ansimare, devo fare forza per potermi allontanare di un millimetro, appena per permettermi di articolare un suono, ma tu serri di più la stretta attorno al mio collo... e io non ho fiato... non ho terra sotto i piedi... mi sta sfuggendo il gradino da sotto il ginocchio, mi aggrappo attorno alla tua vita strappandoti un gemito per le ferite non ancora del tutto guarite e ti gravo praticamente addosso con tutto il mio peso.

“Così ti faccio male...” gemo terrorizzato, sapendo che sei di schiena sul taglio dello scalino

“Sì, me ne fai,” mormori succhiandomi il labbro superiore.

Io ancora non so se sono sveglio o meno, e se questa è davvero la mia vita.

So, però, che il mio stesso battito cardiaco mi sta scardinando le ossa nello sterno.

E’ meraviglioso.

E io ho paura. Paura. Paura.

Riesco a udire solo il nostro leggero ansimare che in qualche modo riempie tutto il vano delle scale.

Hai un sapore singolare.

Ne ho baciate di persone, nella vita, ma questo sapore è solo tuo.

O io voglio che lo sia.

L’ho immaginato tante volte... nei miei più patetici sogni immaginavo sapessi di frutta, o thé, o, chissà perché... cuoio misto a dentifricio, o una qualunque di quelle stupide descrizioni presuntuosamente poetiche che si leggono nei romanzi minori.

E invece sai del mio stesso sapore.

Sento me stesso in questo bacio, sento umido e calore sulla lingua, ma non distinguo la tua saliva dalla mia, e se non fosse per il retrogusto dei medicinali e per quella vaga nota dolciastra del caffè iperzuccherato che hai bevuto dopo pranzo, no, non saprei dire quale sapore sei tu e quale sono io.

Non so dire, in questo momento, dove finisco io e dove cominci tu.

Mi viene da piangere. No, no. Non adesso, John, andiamo!

“Sherlock...”

“Stai parlando troppo.”

No, non sono parole. Sono sussurri.

Ho la gola completamente chiusa.

“Sherlock... ne sei sicuro? Sei sicuro?” Vorrei continuare a parlarti sulla bocca per sempre. Tu non ne hai idea. Non ce l’hai.

“Stai ancora parlando troppo.”

Anche tu sussurri, ma è più un basso ringhiare sommesso.

Poi non posso dire più nulla, perché mi mangi letteralmente via ogni volontà con le labbra e con i denti, e lavi via ogni mio equilibrio con la lingua.

E io non voglio piangere, ma piango.


“John.”

“Cosa?”

“Credo che dovremmo cambiare location. Mi si sta incrinando la spina dorsale.”

Rido e tiro su col naso, ho la faccia affondata sul risvolto anteriore della tua vestaglia e sì, anche a me si stanno incrinando le rotule.

Non posso credere stia succedendo a me.



Sono vari minuti che stiamo sul tuo letto, così, labbra su labbra, senza baciarci.
Respiriamo. Condividiamo l’aria, semplicemente.

Sono riuscito a farti sdraiare lentamente, mentre tu trattenevi qualche mugugno di dolore per non farmi capire che ti fa male un po’ dappertutto.

In tutta la manovra, dalla discesa dalle scale fino a qui, non ci siamo guardati, non ci siamo parlati, ma ora ti sei sdraiato e mi hai portato giù con te, delicatamente, tirandomi per le spalle.

Ti sono addosso, attento a non schiacciarti, guardo nei tuoi occhi e vedo delle cose che non avevo mai visto prima.

“E’ gratitudine,” dico in un soffio. Ho gli occhi rossi ma mi viene da ridere.

“Sei un idiota,” mi rispondi. Ovviamente.

Occhi. Li guardo da vicino, da così vicino non li ho visti mai.

Non so dire davvero di che colore siano. Verde, blu, grigio, celeste... i colori non hanno mai avuto così senso da che ho la capacità di percepirli.

Li assorbo, chiari e trasparenti, come se mi stessero entrando letteralmente nelle pupille. Né ha una spiegazione il calore di questo fiato che lambisce il mio labbro superiore.

Da quando sono te? Da quando voglio una spiegazione?
E da quando tu sei me, e agisci d’istinto?

Se non fossi ancora convalescente, se non sapessi che ogni mio tocco più ardito, che ogni pressione più intensa possano farti male, ti crollerei addosso, letteralmente.

“Cos’è... questo?” Ti chiedo durante un altro bacio.

“E’ quello che é. E’ la verità.”

Sorridi appena. Mi baci ancora, con più foga. Se continui così, mi ucciderai.

E’ come se mi succhiassi via un dolore per volta, assottigliando le stratificazioni che mi si sono sedimentate dentro da quando ti conosco.

La paura di vederti prendere quella capsula.

Il timore di averti ferito con Sarah.

Il terrore di vederti con i puntatori laser sulla fronte, a pochi metri da un giubbotto pieno di esplosivo.

Irene. Oh, Irene... la paura più grande.

L’essermi sentito dire “io non ho amici”.

La distanza, l’inganno: la caduta... l’abbandono.

Tutto, tutto stai risucchiando via da me.

Sta bastando così poco... forse è poco più di un’illusione, cosa succederà più tardi... domani? Lo vorrai ancora? Non lo so, ma per adesso funziona: mi alleggerisce il petto.

Mi toglie anni di angoscia, spiana le righe in più che mi hai provocato, mi restituisce una felicità che non ho mai davvero provato.
Mai, da quando sono nato.

“John. Oh, John.” Mi dici quando di nuovo affondo il viso sul tuo collo e respiro piano.
Singhiozzo piano, privo di ormai qualunque difesa.

Da quando sono così sentimentale? Mi fai scoprire cose che non credevo di essere, soprattutto se strofini la mia schiena con le mani, come stai facendo ora, e poi stringi forte.

Non ho il coraggio di chiedere di più, però la verità è che voglio di più, ma ho paura. Di quello che dirai, di come ti comporterai. Se questo che stai facendo... è vero. Se non è perché hai compassione per me.

“Non pensarlo, smettila.”

Non mi chiedo più come tu faccia a leggermi nella mente da tempo, ormai.

Sento le tue labbra sulla tempia, bollenti. Sicure.

“Io sono capace di questo, John. Di amarti. Lo sono.”

Amore. E’ quello che hai detto.

Oh, io lo so che ne sei capace, non sei mai stato un mostro, uno scherzo della natura, sei il più umano tra gli umani, io lo so, ti ho sempre visto... ma... me?

“Amare?” Ripeto con la voce malferma. “Me?”

“Nessun altro. Mai.”

Un sussurro perentorio che si spegne sulla mia guancia e me l’asciuga.

“Mi devi promettere che...” cerco di dire, ma tu mi interrompi come sempre hai fatto e sempre farai.

“Lo prometto.”

Cosa, non lo so bene: ma è qualcosa di definitivo, di talmente desiderato che mi sento deflagrare dentro. Lo sappiamo io e te.



Ore dopo.

Migliaia di parole e silenzi dopo.

E baci, fino alla consunzione, fino a sentire le labbra secche e screpolate e l’anima a un passo dalla trance.

E’ buio. Notte fonda.

Ci siamo dimenticati le cena, le medicine, persino di bere un po’ d’acqua.

Le mani. Ho le mani stanche, ho fatto troppo, di tutto.

Ho passato settimane e mesi a muovere le mani per fare cose, sono esauste.

I miei polsi sono indolenziti, gli stessi che tu stai baciando lievemente adesso, e io non ho più la forza di essere incredulo.

Sono abbandonato in uno stato di grazia che mi ha fatto sciogliere ogni muscolo, ogni nodo nel mio collo teso, ogni brutto pensiero passato e presente.

Sei qui, vivo, capace di muoverti, capace di stare qui, sdraiato con me, a togliere ogni male dal mio corpo stanchissimo.

Per varie volte e per lunghi minuti ci siamo avvinghiati e strusciati, ed ho avvertito ogni volta la lingua saettante dell’eccitazione far tremare entrambi; ho sentito il sangue pulsare sotto il tuo collo e nel mio inguine, come nel tuo, ma poi, ansimando, ci siamo calmati.

Io non so da dove cominciare, e tu sei ancora troppo malandato per uno sforzo simile.

Non so come farlo, ti ho detto onestamente.

Non sono mai stato con un altro uomo.

Lo so io, mi hai risposto, stupendomi, e nel buio ti ho sentito sorridere.

Mi insegnerai a tempo debito, mi racconterai come fai a saperlo a tempo debito: non è questa la cosa importante, adesso.

Ciò che conta sono le mie mani sulla geografia aspra del tuo corpo, che ho curato e che conosco ormai a memoria, per motivi diversi da questo: scivolano sulle cicatrici, che adesso sono più numerose delle mie, più scabre, profonde e pericolose, e le mie labbra scorrono su ogni centimetro di pelle, su ogni osso sporgente, su ogni turgore inaspettato, su ogni punto morbido che addirittura tu hai.

E viceversa.

Non c’è nulla di me che tu non stia toccando lentamente, con i palmi e con la bocca.

Con candore.

Dolcezza.

Con una devozione che mi fa ritornare varie volte le lacrime agli occhi senza che tu te ne accorga. O forse sì, chi voglio prendere in giro.

E’ un’altra forma di sofferenza, liberatoria, stavolta.

E’ una redenzione dolorosa, come quando il sollievo dopo uno scampato pericolo ti fa cadere sulle ginocchia: tu sei il mio grande pericolo, e ti sei trasformato in salvezza come il più grande dei miracoli.

Cosa avrei fatto se fossi morto in quell’ospedale, Sherlock?

Se ti avessi avuto solo per quell’istante in cui mi hai riconosciuto mentre ti rianimavo, e poi di nuovo mai più?

Il pensiero mi brucia negli occhi e nella carne, e nemmeno mi rendo conto che ti sto baciando con disperazione e che la mia voce disegna parole sulle tue labbra.

Ti amo ti amo ti amo.

Sento il tuo abbraccio farsi più stretto, il tuo respiro tremare.

Ci sarà tempo per dire altro, mi auguro.

Tempo, tanto tempo: non ne abbiamo mai avuto, il poco tempo che tutto il mondo ci ha concesso non ci ha mai permesso di allungare le mani e intrecciarle come adesso.

Ci diremo perché, perchè non lo abbiamo fatto prima, e ci racconteremo cosa c’è stato prima e cosa ci sarà dopo, se ci sarà un dopo.

Certo che ci sarà, a giudicare da come mi stai sussurrando sulla pelle del collo che non ci separeremo più.

Non è importante parlare ora.

Ora conta solo che io ho smesso di sanguinare insieme a tutto quello che mi circonda: te, la casa, le altre persone del nostro strano universo.

Guarire... ognuno a modo suo, per merito tuo. Ecco cosa conta.

Voglio che stiamo sdraiati qui, insieme.

Voglio stare qui più di ogni altra cosa: non ti lascerò andare, non mi lascerai andare.

Mai più, amore mio.




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- Nota personale -

Ci siamo. E’ finita.

Ho amato questa storia per quello che mi ha lasciata esprimere e l’ho odiata per la fatica che ha comportato, soprattutto alla fine, quando ormai l’ispirazione è difficile da trovare e nella testa premono nuove idee.

Chiedo perdono per il vergognoso fluff, stavolta davvero senza ritegno alcuno, ma basta con il dolore. Soprattutto perché dedico questo finale a tutte le mie ragazze del gruppo TCATH, e allora non può che esserci amore.

Grazie di cuore per tutto l’affetto e per ogni singola recensione passata, presente e futura.

God bless this fandom and EFP!












  
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