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Autore: Chara    09/09/2012    10 recensioni
Phoebe è una semplice ragazza inglese, dal carattere un po' spigoloso e una modesta esperienza di uomini imbecilli. L'incontro con Joseph Morgan le aprirà gli occhi su quanto non sia il caso di fare di tutta l'erba un fascio, anche se ci vorrà un bel po' di tempo prima che il suo cervello accetti che quella che prova nei confronti dell'attore non è semplice attrazione fisica.
STORIA DA REVISIONARE!
Genere: Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Joseph Morgan, Joseph Morgan, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Trying Not To Love You.JPG

 

 

 

I

 

 

 

Che diavolo ci facevo a Londra nel bel mezzo delle vacanze estive?

Certo, come dimenticare: niente vacanze per me. Soltanto il lavoro, lavoro e ancora lavoro. O, almeno, quell’unica cosa che potevo considerare tale, nella speranza che qualcuno si fosse degnato di accorgersi che una laurea in lingue valeva un po’ più di una giornata passata a controllare l’ingresso di una vecchia biblioteca di quartiere.

Così, con un sospiro frustrato, scesi dalla metro per riemergere in superficie e godermi quel timido sole che splendeva sulla città, ma che non riscaldava praticamente nulla, già seminascosto dalle nubi. Era quello il motivo per cui, sopra la maglietta, indossavo un cardigan nemmeno troppo leggero, rubato alla mia coinquilina, che disseminava per casa tutto lo scibile umano.

Ogni tanto mi chiedevo come sarebbe stato vivere in Spagna o, perché no, direttamente in California. La mia pelle aveva bisogno di un po’ di abbronzatura ogni tanto e le docce solari non erano decisamente una soluzione che ero disposta ad adottare. Ero nata salutista.

Fu con quei pensieri, lamentosi come al solito, che mi diressi al piccolo paradiso di tranquillità e carta in cui lavoravo da qualche anno a quella parte, per pagarmi gli studi. Di certo non era uno stipendio degno di nota, così ero costretta, nei weekend, a fare la barista in un locale dietro Piccadilly. La mia vita sociale era completamente sacrificata, i miei amici me lo dicevano sempre e non facevano che lamentarsi, rinfacciandomi una latitanza di cui purtroppo non ero nemmeno la responsabile. Ma avevo sempre sperato che capissero che non ero esattamente felice di fare la reclusa, così non mi ero mai impegnata a farmi vedere troppo spesso. Anzi, preferivo fare un turno in più nel mezzo della settimana.

Mi piazzai davanti a un semaforo, in attesa che diventasse verde, e lasciai vagare il mio sguardo lungo la strada, alla mia destra. Davanti alla vetrina di un negozio per giocattoli un bambino, un batuffolo che probabilmente non aveva nemmeno tre anni, stava litigando furiosamente con quella che immaginai essere la nonna. Forse voleva un nuovo gioco e lei si stava rifiutando di compraglielo, ipotizzai. Non mi piacevano i bambini viziati, mi ricordavano il marmocchio a cui facevo ripetizioni di inglese ai tempi del liceo. Così distolsi lo sguardo, tornando a puntare gli occhi sul semaforo che sembrava essersi fossilizzato. Avevo fretta, per l’amor del cielo!

Improvvisamente un guizzo alla mia destra e un urlo terrorizzato mi distrassero dai miei pensieri stizziti e vidi il bambino di poco prima lanciarsi in mezzo alla strada, incurante di un taxi che si stava dirigendo a tutta velocità proprio su quella corsia.

Mi sentii morire, ma, senza nemmeno sapere come, trovai la forza di scattare fulminea e portai via il bambino dalle braccia della morte. Mi lanciai sull’asfalto con quel fagottino terrorizzato tra le braccia e, per evitare che si ferisse, gli attutii l’impatto scivolando sulla schiena.

Sentii distintamente la mia pelle lacerarsi, ma rimasi raggomitolata sulla striscia bianca, dove nessuna auto avrebbe dovuto passare, stringendo il bambino al petto.

Lo sentivo piangere, così come sentivo gli schiamazzi della gente attorno a noi, preoccupata e terrorizzata di dover raccogliere ben due persone con la spugna.

Aprii gli occhi, cercando poi di capire se mi fossi fatta male da qualche parte. Oltre alla schiena, ovviamente. Quella bruciava come l’inferno.

«Ti sei fatto male?» domandai al bambino, cercando di regolarizzare il respiro e di allentare la presa. Alzò il capo dal mio petto, rilassando al contempo i pugni che aveva stretto sui lembi del mio cardigan, e scosse il capo, mentre due enormi lacrime rotolavano giù dai suoi occhi.

«Colin, Colin!» chiamò la nonna, venendoci incontro tra le auto ferme. Il semaforo finalmente era scattato, così mi ritrovai immersa in un vortice di ruote ferme e tubi di scarico che, a voler guardare, non facevano nemmeno tanto bene alla salute. Salutista anche nelle peggiori situazioni, insomma.

Mi alzai, tirando in piedi quello che evidentemente si chiamava Colin. Lo presi per mano e, il più velocemente possibile, mi affrettai a toglierlo dalla strada.

«Signorina, sta bene? – mi domandò la nonna – Non so nemmeno come esprimerle tutta la mia riconoscenza, grazie davvero!»

Annuii sovrappensiero, toccandomi la schiena. Bruciava da impazzire, quella era la vera riconoscenza per aver salvato il suo pargoletto dal muso nero del black cab. Nessuna buona azione resta impunita, l’avevo sempre saputo.

E dal nulla mi venne in mente quando, da piccola, cadevo sulle ginocchia e, inspiegabilmente, riuscivo a sbucciarmi la pelle senza però rovinare i pantaloni. Avevo sempre creduto che qualche amico immaginario li ricucisse a tempo di record, per evitare così di far arrabbiare mia madre, e forse avrei potuto pensarlo anche in quel momento, poiché la stoffa sulla mia schiena era integra. Probabilmente l’amico immaginario aveva deciso di pararmi le spalle dalle urla di Amber, a cui avevo silenziosamente preso in prestito il cardigan.

«Scusami, signorina – borbottò il bambino, la voce ancora tremula per il pianto che ancora sconquassava il suo piccolo petto – Ma ero ‘rabbiato con la nonna.»

«Non fa niente – sorrisi, accovacciandomi per non guardarlo dall’alto in basso. Non volevo metterlo a disagio più di quanto già non fosse – Come ti chiami?»

«Colin, picere» si presentò subito, raddrizzando la schiena e porgendomi la destra.

«Io sono Phoebe – sorrisi, stringendogli la mano – Ma dimmi, Colin, perché eri arrabbiato con la nonna? Non ti sei comportato molto bene.»

«Nelly è malata – riprese mettendo il broncio – Volevo penderle un bimbo.»

Immaginai si stesse riferendo ad un bambolotto e sorrisi, incrociando lo sguardo di sua nonna.

«Chi è Nelly?» chiesi, carezzandogli il capo riccioluto. I suoi occhi castani si illuminarono, lasciandosi alle spalle ogni traccia di pianto. Non sembrava più così viziato come quando l’avevo visto di fronte alla vetrina.

«Mia soella. Ha la frebbe

«E tu volevi prenderle un regalo per farla guarire più in fretta?»

Annuì, riportando ancora il volto verso il basso. Non alzò lo sguardo, nemmeno quando la nonna si giustificò, cercando di fargli capire che non aveva portato denaro a sufficienza, soprattutto per un negozio così costoso come quello a cui era interessato Colin. Avrei voluto comprarlo io quel bambolotto, ma non credevo di essere economicamente disposta meglio di loro.

«Te lo compro io» disse improvvisamente una voce alle mie spalle. Mi voltai, vedendo una giovane uomo sorridere al piccolo Colin e alla nonna, e una consapevolezza piovve dal nulla: quel ragazzo era l’attore che, alcuni anni prima, aveva recitato in Hex. Amber adorava tutte quelle serie inutili e, a meno che mi stessi clamorosamente sbagliando, recitava anche in quella serie americana sui vampiri che tanto spopolava tra le ragazzine arrapate. D’accordo, la mia coinquilina aveva un ragazzo con cui sfogare gli ormoni e non era nemmeno più una ragazzina, ma evidentemente non le bastava.

«Chi scei? Suo amico?» chiese il bambino, mentre indicava me con un dito. Quasi mi accecò e mi sbilanciai all’indietro nel tentativo di evitare il suo indice paffuto, ma il nuovo arrivato si spostò rapidamente dietro di me e finii con la schiena contro la sua gamba. Trattenni un gemito di dolore e alzai lo sguardo, incrociando i suoi occhi azzurri che mi fissavano con quello che sembrava rimprovero. Che diavolo voleva?

Lasciò che riacquistassi il mio equilibrio e poi si accovacciò al mio fianco. Apprezzai quel gesto, nonostante l’avessi già bollato come essere antipatico e indegno di considerazione per quell’entrata fenomenale e da supereroe. Grazie al cielo Colin non sembrava essere così affascinato dalla sua voce profonda e continuava a preferire me.

«Ehm, sì. Sono Joseph, un amico di…» mi lanciò uno sguardo allarmato, rendendosi conto che si era messo nei casini da solo. Avrei anche dovuto tirarcelo fuori, vero? Solo per comprare quel maledetto bambolotto alla sorellina di Colin.

«Phoebe» mormorai, per poi fingere un colpo di tosse. Mi sforzai di fingere collaborazione, sebbene non mi piacesse affatto fare squadra con un damerino. Non andavo pazza per i tipici gentiluomini britannici, infatti quella zecca che mi aveva rovinato l’ultima volta veniva dal continente. Dopo di lui, avevo smesso di apprezzare anche i mezzi tedeschi.

«Stai bene, Phoebe? – mi chiese quel Joseph dei miei stivali, facendo per darmi una pacca sulla schiena. Sembrò ripensarci fortunatamente, perché mi carezzò soltanto un braccio – Comunque, dicevo, sono un suo amico. Vuoi quel bambolotto?»

«Per Nelly» precisò orgoglioso, come a rimarcare il fatto che lui non giocasse con quisquilie del genere. Dio, quel maledetto orgoglio maschile era già presente anche alla sua età. Incrociai lo sguardo con sua nonna, che sospirò spazientita, sorridendomi poi con comprensione. Ci eravamo perfettamente intese a riguardo. Dopotutto era una donna anche lei.

«Certo – sogghignò il damerino, alzandosi e porgendo la mano a Colin – Andiamo a prendere il regalo a Nelly, allora.»

Il bambino agguantò le sue dita lunghe, stringendole tra le sue. Rimasi imbambolata a fissare quella mano, così elegante e sicura di sé. Il classico genere di mano che ogni donna avrebbe voluto avere addosso.

«Non vieni con noi, Phoebe?» mi disse Joseph, sfoderando di nuovo la sua voce profonda. Il mio nome sembrava quasi esotico se pronunciato da lui, non mi sarebbe affatto dispiaciuto sentirglielo ripetere. Scossi il capo per scacciare quei pensieri molesti. Alla fine era sempre così che andava: gli uomini più affascinanti erano quelli che avrei più voluto prendere a pugni.

Gli comprò davvero la bambolina, pagandola fior di sterline, così la gratitudine andò tutta a lui e non a me. Che importava se avevo la schiena a brandelli, ma il portafogli vuoto? Ah, il consumismo! Era inutile che me la prendessi a quel modo, davanti ad una mazzetta anch’io mi sarei dimenticata della mia schiena. Insomma, sarebbe guarita o presto o tardi.

«Grazie Phibe» mi disse Colin. Mi stupii quasi che si ricordasse di me, con in mano quel giocattolo. Gli sorrisi, scompigliandogli la zazzera di ricci castani, e lo guardai redarguire la nonna su come dovesse tenere la borsa per non sgualcire il fiocco.

«Lei lavora alla biblioteca della signora Flynn, non è vero? Quella che c’è là all’angolo» mi domandò improvvisamente la nonna, aggrottando le sopracciglia con fare pensieroso.

Incrociai lo sguardo di Joseph, illuminato da uno scintillio di interesse, e annuii, i denti serrati per il fastidio di far sapere al maledetto damerino anche dove lavorassi.

Che poi, perché lo chiamavo damerino? Indossava una semplice tuta blu, una maglietta bianca e delle auricolari erano abbandonate sulle sue spalle. Non era poi così elegante. Ah, al diavolo. Lo odiavo comunque, ecco la verità. Aveva quell’aria supponente e fintamente caritatevole che mi dava il voltastomaco.

«Non guardarmi a quel modo» mi disse quando rimanemmo soli in mezzo al marciapiede.

«Veramente non ti sto guardando affatto» precisai stizzita, tenendo d’occhio l’orologio.

«Ma hai quell’espressione di disgusto stampata in viso – ribatté, trascinandomi per un braccio fino alle scale che portavano alla stazione della metropolitana – Dimmi dove abiti.»

«Cosa? – sbottai, puntando i piedi a terra – Non devo andare a casa e non ho bisogno dell’animaletto da compagnia per andare dove devo. Non mi interessa se sei quasi famoso, la balia falla a qualcun altro.»

«Senti, ragazzina – sibilò, alzando un sopracciglio con freddezza – Ti ho vista cadere sull’asfalto e quella schiena sarà tutta graffiata. Ti aiuto a disinfettarti.»

«Il mio ragazzo ti prenderà a pugni» sorrisi melliflua, sbattendo gli occhi rapidamente.

«Non ce l’hai un ragazzo – sbuffò, guardandomi come se fossi stata una povera malcapitata – O altrimenti non saresti così caustica. Non credi?»

«No.»

«D’accordo – sospirò, scendendo le scale senza accennare a lasciarmi il braccio. Così fui obbligata a seguirlo, senza ovviamente smettere di divincolarmi. Le occhiate dei passanti erano tutto dire, ma non avrei certo smesso di comportarmi a quel modo per tranquillizzarli – Dove abiti?»

«Al 10 di Downing Street» replicai, e sembrò stizzirsi.

Mi lasciò il braccio proprio in quel momento e rischiai di cadere all’indietro, data la forza con cui cercavo di opporre resistenza, ma lesto passò le braccia attorno ai miei fianchi e finii spalmata contro il suo corpo. Ad una distanza così breve dal suo viso potei rendermi effettivamente conto di quanto azzurri fossero i suoi occhi e di quanto le sue labbra fossero invitanti. Ah, maledizione. Forse aveva ragione lui, mi serviva un ragazzo.

«Credo che il Presidente sia un tantino meno recalcitrante di te e, se fossi sua figlia, sarebbe terribilmente a disagio nel saperti così odiosa

«Sei tu quello che…» m’interruppi, sentendo le sue dita premere contro la mia schiena, e boccheggiai, nascondendo il viso nell’incavo del suo collo per evitare che vedesse quanto stravolta dal dolore fosse realmente la mia faccia.

Dio, che buon profumo.

«Dimmi dove abiti» sospirò di nuovo, allentando la presa senza però lasciarmi andare. Così cedetti, lasciando che mi accompagnasse a casa.

 

 

 

*

 

 

 

Ringrazio Ili_sere_nere per aver betato tutta la storia e per avermi regalato il bellissimo banner che vedete là sopra.

   
 
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