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Autore: Elizabeth_Tempest    09/09/2012    6 recensioni
Nella Danimarca settecentesca, il destino di una testarda contessa e di un misterioso giovane venuto da lontano s'intrecceranno.
"Friederieke guardava fuori dalla finestra, annoiata, rigirandosi pigramente il lavoro tra le mani; il cucito non l’aveva mai entusiasmata, lo aveva sempre trovato noioso dato che non ne trovava una vera utilità pratica –del resto i suoi abiti arrivavano sempre da qualche sartoria della capitale, dove suo padre spendeva un vero e proprio patrimonio per farle avere sempre i modelli più in voga alla corte francese.
Si concentrò sul ricamo, tentando di ricordare cosa fosse di preciso… forse un usignolo? si chiese, lanciando un’occhiata perplessa ai fili azzurri.
Non le sovvenne nulla ed alzò lo sguardo, sperando di poter sbirciare il lavoro della signorina Bernstein che invece pareva tutta presa dalla sua opera e la teneva in modo tale che la fanciulla non potesse vedere cosa stesse ricamando." [dal primo capitolo]
La storia è ambientata prima degli eventi di The Lost Canvas, ed è collegato ad uno dei gaiden.
Genere: Angst, Avventura, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Nuovo Personaggio, Pisces Albafica
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Incompiuta
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Capitolo I

Era una giornata noiosa, il cielo era grigio, l’azzurro coperto da nubi che promettevano pioggia e saette e l’aria era tanto pregna di umidità che l’acqua la si poteva respirare; la sagoma dell’antico maniero spiccava, scura e a tratti minacciosa, dominando il villaggio di casupole che era cresciuto a ridosso dei signori di quelle terre che, in tempi immemorabili, le avevano difese valorosamente.

Ma erano appunto tempi immemorabili, persi nell’oblio delle gesta passate, in parte dimenticate ed in parte ingigantite, impreziosite da fantasiosi dettagli, fatte leggenda e poi mito: dei valorosi padroni di quell’angolo di mondo non era rimasto che un anziano conte, che dimorava nel palazzo coi suoi figli, un baldanzoso giovanotto dai modi raffinati e dall’animo sregolato ed una fanciulla tanto bella quanto notoriamente caparbia e scapestrata.

L’anziano conte era un uomo conosciuto soprattutto per la sua biblioteca, che vantava volumi antichissimi, copie pregiate e raffinate eseguite da monaci amanuensi, ma anche tomi moderni ordinati dalla Francia e della Germania ed alcuni addirittura dalla Spagna e l’impressionante mole di conoscenza spaziava dagli autori antichi come Plinio il Vecchio alla matematica, dalla botanica all’alchimia, dai grandi filosofi greci fino ai pensatori contemporanei, vi erano spartiti e riviste, tragedie greche e commedie latine.

Chiunque, anche il più povero dei mendichi di Danimarca, conosceva l’infinito numero di libri in possesso del conte  Frydendahl, la cui ragione di vita era collezionarli e sfogliarli, per poi ripetere nozioni su nozioni, aforismi e citazioni colte con la sua voce profonda e un po’ petulante nei salotti della capitale durante la stagione invernale, quando vi si recava coi figli nella speranza di veder maritata la figlia diletta con un buon partito, magari qualche appartenente alla corte reale o qualche ufficiale dell’esercito con una buona rendita ed un’ottima posizione.

Il conte non era mai stato famoso per essere attraente o brillante, al contrario, fin dalla più tenera infanzia, si era mostrato una persona pacata e tranquilla, dall’aspetto piuttosto spiacevole –era infatti molto in carne e bassoccio, aveva dita tozze e grassocce, i capelli sottili di un indefinito castano ormai grigio e due occhietti infossati azzurri e offuscati che spiccavano sull’incarnato pallido e malaticcio del viso tremolante-, amante della buona tavola quanto di un buon librone, costretto a letto da frequenti polmoniti e stretto conoscente delle arti mediche e dei loro praticanti, ad egli estremamente invisi.

I suoi più intimi conoscenti non potevano non rimproverargli una certa pigrizia e ingenuità, ma, a conti fatti, non era né meglio né peggio di altri nobili: si recava alle feste e ai salotti quando vi era invitato, si metteva in mostra quando era richiesto dal suo ruolo di studioso, altrimenti stava nel suo maniero, dedicandosi alla lettura e, con scarsi risultati, all’amministrazione delle sue terre.

Non era portato per esser né guerriero né pensatore, era sempre indeciso e preferiva di gran lunga lasciare agli altri i compiti spiacevoli; aveva gran cuore, ma era incapace di aiutare concretamente gli altri e le sue opere di carità si riducevano sempre a qualche corona donata alla chiesa del villaggio o al figliolo di qualche bracciante messo di servizio presso qualche suo conoscente o in una bottega.

Era vedovo da molti anni di una graziosa fanciulla, Amalie, che era morta al terzo parto con la sua creatura e l’aveva lasciato coi due figlioli ancora bambini, Ludvig, di dodici anni e Friederieke, di sei, che avevano ereditato molto dalla madre e quasi nulla dal padre: erano entrambi belli ed affascinanti, estremamente benvoluti pressi tutti i salotti e i balli di Copenaghen.

Erano però di carattere differente: il giovanotto, ormai uomo, era di carattere allegro, gioviale e gaudente, sempre preso in piacevoli attività come la caccia –indifferentemente alla volpe o alle fanciulle, nubili o sposate che fossero- o far bisboccia con i suoi compagni di collegio e piuttosto spendaccione.

La fanciulla era invece introversa e sempre taciturna, ma dimostrava spesso una mente brillante e attenta, che ne aveva fatta la prediletta del padre, il quale passava molto tempo ad insegnarle la matematica e la filosofia, preferendo però affidare il resto della sua educazione ad una rigida istitutrice, la signorina Bernstein, fatta venire dalla Prussia per il decimo compleanno della bimbetta, il cui compito era stato insegnare a Friederieke il canto, la danza, il cucito, il francese, il disegno, la composizione di amene poesie sui prati fioriti e a discorrere da vera signora, cosa che invece la giovinetta -cresciuta come una selvatica per quattro anni dalla morte della madre e a cui avevano badato distrattamente le serve del maniero e la cuoca- aborriva, preferendo le cavalcate o le camminate solitarie per la campagna e i giochi col fratello.

Oppure le visite all’anziano Jens, il fratello della capo-cuoca, che per anni aveva svolto il lavoro di capo-stalliere e maniscalco e che era stato il marito della sua balia, un uomo schietto e sincero, sempre molto simpatico, che l’aveva messa sulla groppa del suo primo cavallo e che, con una cerca soddisfazione, l’aveva osservata per anni introdursi nelle stalle di soppiatto per scappare dalla signorina Bernstein.

 

Friederieke guardava fuori dalla finestra, annoiata, rigirandosi pigramente il lavoro tra le mani; il cucito non l’aveva mai entusiasmata, lo aveva sempre trovato noioso dato che non ne trovava una vera utilità pratica –del resto i suoi abiti arrivavano sempre da qualche sartoria della capitale, dove suo padre spendeva un vero e proprio patrimonio per farle avere sempre i modelli più in voga alla corte francese.

Si concentrò sul ricamo, tentando di ricordare cosa fosse di preciso… forse un usignolo? si chiese, lanciando un’occhiata perplessa ai fili azzurri.

Non le sovvenne nulla ed alzò lo sguardo, sperando di poter sbirciare il lavoro della signorina Bernstein che invece pareva tutta presa dalla sua opera e la teneva in modo tale che la fanciulla non potesse vedere cosa stesse ricamando.

Con un sospiro a stento trattenuto, la ragazza fece vagare lo sguardo per il salottino -molto femminile, avrebbe squittito la severa donna tedesca, estasiata dal lavoro che aveva fatto per rendere la stanza adatta alla presenza di una “signorina di una certa levatura sociale e morale”-, soffermandosi sui dipinti appesi alle pareti, alcuni opera della giovane nobildonna –in gran parte paesaggi dei dintorni e qualche ritratto qua e là-, sui mobili di squisita fattura francese –“così moderni” li aveva definiti sua cugina Sophie durante l’ultima visita- di legno laccato e dalle imbottiture pompose, lontani dal resto dell’arredamento del maniero, antico e reso lucido dalle mani generazioni di Frydendahl, di legno scuro e pesante, che raccontava di congiure e vendette, di tradimenti e passioni mai sopite.

Ma Iedike era quasi certa che, dall’epoca del nonno di suo nonno, la congiura più eclatante fosse stato un cambio nel menù natalizio. La sua attenzione andò tutta al caminetto e alle fiamme: almeno quello si era salvato dalla signorina Bernstein, si disse. Dei mobili, dei drappi, dei tappeti e delle pellicce che una volta avevano riempito quella stanza non rimaneva molto.

-Una vera signorina non ozia inutilmente quando ha un ricamo da terminare.- la riprese l’istitutrice, senza nemmeno alzare gli occhi.-Una vera signorina termina il suo ricamo con attenzione e perizia, perché il ricamo è un’attività piacevole e conveniente.

Volse di nuovo gli occhi cerulei alla finestra, quasi supplicando il cielo di scagliare un fulmine sull’insopportabile signorina Bernstein. Pazienza se quello non era un comportamento da cristiana, Dio di sicuro l’avrebbe capita.

Provò a finire il suo ricamo, decidendo che il disegno informe doveva essere un usignolo, ma ogni tentativo di concentrarsi scompariva appena l’ago di faceva strada nella tela candida e la sua tenue determinazione si trasformava nella noia più tetra e arrivata al punto in cui era ormai sicura che quella fosse la punizione per chissà quale grave colpa, qualcuno bussò alla porta: era una delle serve, una ragazzetta mingherlina e pallida, mai vista prima d’allora –di certo doveva essere la serva nuova, visto che in casa la servitù era sempre ridotta all’osso- che fece una riverenza.

-Signorina Bernstein, il signor conte l’attende nel suo studio.- sussurrò, quasi avesse paura della sua stessa voce e, appena venne congedata, per poco non corse via.

La donna si alzò dal sofà su cui stava lavorando, ritirando il suo lavoro e lisciandosi le pieghe dell’abito blu notte.

-Torno subito signorina, voi continuate il vostro ricamo.- le disse con un tono che sapeva di ordine e quindi uscì, lasciando Friederieke da sola.

La ragazza posò il lavoro e si alzò, quatta, accostò l’orecchio alla porta e solo quando fu certa che ormai la sua “carceriera” fosse lontana, la spalancò, correndo fino alle cucine, evitando i corridoi principali e scegliendo quelli di solito usati dalla servitù.

Entrò nell’ampio e fumoso locale, ringraziando di indossare una semplice veste da casa e non uno degli abiti nuovi che suo fratello le aveva portato dal suo viaggio in Inghilterra, altrimenti chissà quali invisibili macchie la signorina Bernstein sarebbe stata in grado di scovare.

La capo-cuoca senza nemmeno salutarla, ma col sorriso di chi la sapeva lunga, le indicò un involto su uno dei tavolacci attorno a cui, normalmente, alle ore dei pasti si affaccendavano le sguattere della cucina.

-Se passate per la casa di mio fratello, portategli un po’ di zuppa… ah, se non ci pensassi io a lui, signorina Iedike!- borbottava la donna, tagliando le cipolle.

La fanciulla annuì, infilando la mano in un piccolo vano che i costruttori del palazzotto avevano lasciato nelle pareti delle cucine ed estraendo un paio di stivali di cuoio e una mantella di lana scura; s’infilò stivali e cappa e, preso sottobraccio l’involto, salutò la giunonica donna, allontanandosi dal maniero e sistemando il cappuccio e le falde della mantellina affinché nessuno potesse conoscerla.

Il villaggio non distava molto dal maniero e, dopo una breve camminata sul sentiero proprio a ridosso del fiumiciattolo che irrigava quella zona, si trovò nella piazza principale proprio quando una lieve pioggerella iniziò a cadere. La giovane fece l’ultimo tratto di strada correndo, uscendo dal villaggio e prendendo un sentiero polveroso, attraversando il ponticello che portava al mulino e proseguendo verso la casupola di legno al limitare del bosco.

Bussò alla porta. –Jens, sono io, Iedike, apritemi. Vostra sorella mi manda con la vostra cena.

Sentì il cane di Jens, un grosso bestione di razza indefinita, dal manto folto e scuro, abbaiare, riconosciuta la voce della ragazza e poi la porta si schiuse, rivelando il volto cotto dal sole e solcato da profonde rughe dell’anziano.

-Signorina Iedike! Entrate, entrate! Ma non avete visto che tempo fa? Voi volete proprio ammalarvi!- esclamò l’uomo, facendosi in la per far passare la contessina, che svelta s’infilò nell’ambiente caldo, che profumava di carne messa a seccare, di resina e di zuppa di cipolle, sfilandosi il cappuccio di lana e sorridendo all’omaccione ricurvo, una volta imponente ed ora ridotto pelle e ossa, dolorante per i reumatismi.

L’enorme meticcio continuava a saltare, cercando di infilare il muso sotto le gonne della ragazza e di annusare l’involto contenete la zuppa per l’anziano Jens, che da parte sua cercava di mettere il bestione a cuccia.

-Mi ammalerei se rimanessi sempre ferma a ricamare notte e dì come vuole la signorina Bernstein! Non so con che fanciulle abbia avuto a che fare in Prussia, ma le donne danesi sono di altra pasta, non son fatte per star tutto il tempo con le mani in mano! Se Dio avesse voluto ch’io fossi una damina di porcellana, non sarei stata certo una Frydendahl!- rispose la fanciulla, ridendo e voltandosi verso il tavolo, per poi ammutolire.

Seduto al tavolo, con una grazia ed un’eleganza fuori dal comune, vi era l’uomo più bello che avesse mai visto, che la fissava curioso.

 

 

 

 

 

 

 

****L’angolino dell’autrice****

Lo so, ho tipo sedicimila storie da finire e lo so, sono stra in ritardo, ma questa storia andava scritta.

Che dire se non che nasce dalla mia mente malata e già questo dice molto? Nulla, a parte il fatto che il nostro bel sconosciuto è uno dei miei personaggi preferiti del LC.

Ah, e ringrazio petitecherie perché io della Danimarca so giusto la posizione sulla cartina e la capitale. E che ci stavano gli juti… e i sassoni, credo. E i vichinghi :3

Buona, ho già detto abbastanza cavolate, a presto!

Beth

 

P.s.: Iedike è il diminutivo danese di Friederieke.

   
 
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