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Autore: Anor    16/09/2012    5 recensioni
Anno 2137.
Italia, pianeta Terra.
La storia di un ragazzo che vive in un futuro ipotetico e decisamente inquietante le quali parole d'ordine sono controllo, silenzio ed organizzazione.
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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2137 ~ capitolo 1

 
Anno 2137.
Italia, pianeta Terra.

 
Sono le 7.23 antimeridiane, e al tavolo di un caffè quattro ragazzi siedono ricurvi, inzuppando una brioche nello schiumoso cappuccino, inutilmente decorato con un cuore di cacao.
Ogni tavolo del bar è occupato, il bancone pieno di lavoratori in giacca e cravatta che trangugiano velocemente i loro caffè per correre a lavoro, ma nell’aria non vibra alcun suono a parte il metallico tintinnio dei cucchiaini che sbattono sulle tazze.
Ormai nemmeno le monete fanno rumore. Non esistono più.
Anche un caffè si paga con la carta di credito, leggera, piccola e soprattutto silenziosa.
Il silenzio. È lui il padrone del futuro.
Per le strade non si sente più alcun rumore: le macchine sono silenziose e persino i passi delle persone sono, col tempo, divenuti in pratica impossibili da udire.
La tecnologia avanza, e con essa anche l’uomo. Spirito d’adattamento, lo chiamerebbe qualcuno. Evoluzione, preferirebbe dire qualcun altro. Autodistruzione.
Fatto sta che i nostri quattro ragazzi siedono ormai da ventitré minuti in completo silenzio, chini sui loro smartphone attaccati alla rete Wi-Fi gratuita, ormai estesa in ogni luogo del pianeta.
Puoi trovarti nella bocca di un vulcano, con il metallo e la plastica del telefono che ti si sciolgono in mano, ma il Wi-Fi arriva lo stesso.
Puoi trovarti in una delle favelas brasiliane, senza nemmeno un centesimo virtuale rinchiuso in una carta di credito, ma puoi stare tranquillo che internet funziona.
Potresti anche finire nello stomaco di un pescecane come Geppetto, magari nel mezzo dell’Oceano Pacifico: il Wi-Fi riesce a raggiungere anche le profondità marine e a superare lo strato di grasso sottocutaneo vascolarizzato del pesce, per permetterti una navigazione veloce anche in situazioni di emergenza: non si sa mai quando puoi avere bisogno di una rapida controllata al tuo profilo Facebook.
Uno dei quattro, quello con la felpa blu, mette in tasca il telefono e si avvia alla cassa con gli avanzi della colazione. Li appoggia di fronte alla cassiera, che gli porge una macchinetta, sul quale display lampeggia l’importo totale (iva inclusa) del pasto.
La transizione è veloce e silenziosa: le 6450£ passano dal chip metallico alle casse del locale senza un bip. Basta premere sei tasti gommosi ed aspettare che l’aggeggio sputi lo scontrino, e hai finito. La transizione è avvenuta, senza il fastidioso suono delle monete sul banco e lo schiocco della cassa che si apre; senza che le banconote stropicciate frusciassero contro la pelle del portafogli.
Felpa blu torna al tavolo dagli altri, e già prima di sedersi ha estratto il telefonino dalla tasca.
Un altro dei ragazzi, sistematicamente, si alza e va a pagare. Non c’è coda, alla cassa. Ognuno sa esattamente qual è il suo turno. Nessuno protesta, nessuno litiga, nessuno fa rumore.
È semplice la politica del silenzio: dai alla gente ciò che vuole ed essa non sentirà più il bisogno di alzare la voce.
È per questo che, adesso, nessuno guarda più la televisione senza cuffie.
È per questo che, adesso, nei negozi non c’è più musica.
È per questo che, adesso, viene data a tutti la possibilità di crearsi una propria realtà perfetta ed isolata dal resto del mondo: per avere silenzio.

Quei quattro ragazzi non sanno di essere seduti allo stesso tavolo. Probabilmente non si conoscono neanche, ma tutte le mattine sono lì, al tavolo numero 23, a mangiare una brioche che sa di cartone. A sorseggiare quel cappuccino non molto diverso dall’acqua calda.
Si chiamano amici, ma non conoscono la voce l’uno dell’altro.
E probabilmente, se venisse chiesto loro il colore degli occhi o dei capelli di quello che gli è stato di fronte durante tutta la colazione, non saprebbero rispondere.
Si alzano ed escono dal locale. La porta non sbatte, non cigola, le suole di gomma non producono alcun suono. Camminano in silenzio, con gli auricolari nelle orecchie e il cellulare in mano, seguendo un percorso che potrebbero fare (e che in effetti fanno) ad occhi chiusi.
Non importa guardare dove metti i piedi, il percorso è prestabilito e le macchine non possono girare nel centro cittadino.
I quattro ragazzi entrano in uno dei grandi edifici storici della città senza nemmeno alzare lo sguardo. L’insegna di pietra sopra al portone reca la scritta “SCUOLA”, ma probabilmente nessuno l’ha mai notata. E nessuno ha mai notato la bidella, anzi, l’assistente scolastica, di guardia all’ingresso, grassa e ingrigita dal tempo trascorso a guardare la gente entrare ed uscire silenziosamente dall’edificio.
Felpa blu si divide dal gruppo ed entra in una delle aule. Sopra la porta è incisa la scritta: “IV ANNO -LICEO SCIENTIFICO”.
Funziona così, adesso. Ogni città ha la sua scuola, una sola scuola che istruisce i giovani dai cinque ai diciotto anni. Che tu voglia fare il cardiologo, il letterato o la porno star, frequenterai quella scuola. La divisione tra diversi indirizzi è solamente interna.
Felpa blu si siede al banco 4LS/B3, estrae il tablet dal cassetto e sostituisce i propri auricolari con quelli bluetooth posti sulla superficie.  Una voce metallica preregistrata comincia a parlare dopo il bip: “Tredici Novembre 2137. Matematica. Corso avanzato. Analisi delle funzioni”. Mentre la donna-metallo spiega la lezione del giorno, i ragazzi prendono appunti sui loro apparecchi, che automaticamente archivieranno ed invieranno le informazioni al computer dell’allievo. Non c’è comunicazione tra insegnante e allievo, non c’è possibilità di fare domande, perché il corso è completo di ogni informazione utile.
Lo scambio di opinioni è vietato dalla politica del silenzio.
È per questo che nelle scuole non s’insegna più filosofia.
Socrate ed il suo elogio al dialogo minerebbero la stabilità del Paese, aprendo la mente alle persone, istigandole ad uscire dal guscio, a mettersi in discussione.
È per questo che molti libri sono stati banditi dalla politica del silenzio.
I ragazzi ascoltano e sfiorano lo schermo del tablet con le dita senza ticchettare con le unghie, troppo corte per raggiungere il vetro e creare disturbo.
Ebbene sì, la società del silenzio controlla anche la lunghezza delle tue unghie.
La società del silenzio è puro controllo. Una muta e continua osservazione.
La voce metallica dice: “FINE LEZIONE” e con tre bip la registrazione si spegne, i dati vengono salvati e trasferiti. Nessuno si alza dalla propria postazione prima che siano terminate tre lezioni. Durante l’intervallo, l’allievo può recarsi ai bagni e al bar.
E persino in bagno, la società del silenzio riesce a controllarti.
Non puoi pisciare senza che la quantità di sali minerali nelle tue urine venga monitorata. Viene rilevata la presenza di sangue occulto nelle feci, al bisogno. Non hai più necessità di fare controlli medici, perché se c’è qualcosa che non va, il cesso se ne accorge prima del miglior dottore del mondo.
Sei quello che mangi, nella società del silenzio.
Nella società del silenzio, sei i tuoi scarti.
Felpa blu se ne sta seduto al proprio posto per tutte e sei le ore di lezione, poi si alza e torna a casa. La casa, nel mondo del domani, è l’unico posto dove puoi far sfoggio delle tue corde vocali. Puoi, ma sei così abituato a stare in silenzio che non ne senti il bisogno. Lasci atrofizzare quei muscoli, inutili al giorno d’oggi. Avvizziscono nella laringe come fiori in una cantina buia, fino a che di esse non resta che un velo sottile e viscido, formato da maglie di tendini ricoperti da umida mucosa.
Ma non è questo che importa alla società del silenzio.
In casa tua hai la libertà di parlare, per cui non protesterai.
Non alzerai la voce, perché quella membrana ormai floscia ti impedisce di produrre qualsiasi suono. Gli ultimi resti della tua voce saranno flebili e gracchianti. Stonati. Inadatti alla perfezione del mondo che ti circonda. Per cui non protesterai, non alzerai la voce.
Felpa blu esce dalla scuola e docile prosegue la sua strada verso casa.
Non è una decisione, è un gesto dettato dall’abitudine. Un passo dopo l’altro, un respiro dopo l’altro. Non è lui che decide.
Inspira. Espira. Inspira.
Sistole. Diastole. Sistole.
Destra. Sinistra. Destra.
Tutto è automatico.
Come un respiro, come un battito del cuore.
E tu lo fai, senza nemmeno accorgertene.
Espira. Inspira. Espira. E dieci secondi della tua vita sono fottuti.
Diastole. Sistole. Diastole. Sistole. E ti sei bruciato altri cinque secondi
Sinistra. Destra. Sinistra. Destra. Sinistra. E sei quattro metri più vicino al baratro.



Note dell'autrice
Questa storia trae ispirazione da un autore che io letteralmente ADORO: Chuck Palahniuk (una delle sue opere che quasi sicuramente conoscerete per sentito dire è "Fight Club").
Il fine ultimo, ovviamente, non è copiare o cambiare un suo racconto, ma quello di lasciarmi trasportare dalla sua folle genialità e di imparare qualcosa, magari.
E' una storia sperimentale, ovviamente non finita qui. Fatemi sapere le vostre opinioni!
Un bacione,
Anor

   
 
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