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Autore: IoNarrante    19/09/2012    9 recensioni
Seguito della storia a quattro mani scritta insieme a _Shantel
Il sogno di ogni ragazza è stato sempre quello di incontrare il principe azzurro: bello, ricco, sensuale e fantastico, e quale migliore rappresentazione moderna di questo ideale c’è oggigiorno? Ma un calciatore, chi sennò?
Celeste Fiore non è d’accordo. Lei sogna l’amore, quello vero, quello epico e quello che ha smosso mari e monti per secoli. Non si sognerebbe mai di stare con un rinoceronte senza cervello.
Leonardo Sogno, invece, del calcio, ne fa la sua vita. È il bomber della Magica, l’idolo del momento, il ragazzo più sexy d’Italia. Ama divertirsi e non pensare al domani, ma soprattutto l’amore non sa nemmeno cosa sia.
Ma, ahimé, si sa che le vie dell’amore sono infinite e cosa succederebbe se Celeste e Leonardo, per un caso fortuito, si incontrassero?
Genere: Comico, Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Se il Sogno chiama...'
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CAPITOLO 16

 
Viene un giorno nella vita di un uomo in cui è costretto a mettere da parte tutte le sue angosce, i suoi pensieri, i problemi che gli opprimono il cuore soffocandolo lentamente e dolorosamente per un fine più grande, un obiettivo che si è prefissato fin da quando gli è stato messo un pallone tra i piedi.
Ecco. Quello era il mio momento.
Mi ero alzato dal letto quella mattina, dopo aver passato la notte completamente in bianco, con l’unico pensiero della partita. Celeste era stata spinta a forza e relegata in un angolo lontano della mia mente, lasciando spazio solamente agli schemi di gioco e alla concentrazione. Non c’erano parole d’incoraggiamento, non c’erano speranze, ma soltanto un obiettivo: la vittoria.
I quarti di finale erano a pochi passi da me, avrei potuto sfiorarli con le dita e sentire la consistenza del successo tornare ad essere tangibile dopo quelli che sembravano secoli. Era vero, in quel periodo la mia carriera mi era un po’ sfuggita di mano, ma ora dovevo riprendere tutto e concentrarmi. Anche se dentro sentivo un vuoto enorme, come se una voragine si stesse lentamente aprendo dall’epicentro del mio cuore, lasciando assorbire tutto ciò che di più umano avessi al mondo, dovevo farmi scivolare le preoccupazioni di dosso.
Ora che ero abbandonato di peso su una panchina negli spogliatoi, con i gomiti poggiati sulle cosce e la testa racchiusa tra le mani. Avevo infossato le dita tra i capelli. I corti riccioli scuri scivolavano tra i polpastrelli ruvidi, rovinati da anni e anni di allenamenti e corse sotto la pioggia battente. Me ne stavo a pensare, da solo, come altri miei compagni più emotivi del sottoscritto, che a pochi minuti dalla partita più importante della nostra vita si ritagliavano un angoletto, magari per pregare qualcuno lassù che ci potesse aiutare.
Vuoi che reciti il Padre Nostro?
Inspirai profondamente ignorando quel pungente pensiero del mio Ego. Non ero mai stato un tipo religioso. Da piccolo ricordavo che mia madre mi obbligava ad andare in chiesa, ma non appena avevo cominciato a giocare, le Domeniche erano state riempite unicamente dagli allenamenti, dalle partitelle o dalle gite allo stadio per vedermi giocare. Non c’era mai stato nella mia vita lo spazio per qualcun altro che non fosse Leonardo stesso. In quel momento mi sentii profondamente solo, quasi smarrito.
Strinsi le mani a pugno, conficcandomi le unghie nel palmo per poi riaprire la mano e vedere delle piccole mezze-lune impresse sulla carne. C’era così tanto di me scritto su quel lembo di pelle, una volta mi feci leggere la mano da una indovina.
Tutte stronzate.
Era difficile ignorare ciò che stavo tentando inutilmente di impormi, focalizzando i pensieri unicamente sulla partita. Non c’era in gioco soltanto il destino della società, ma anche il mio futuro. Se la Roma fosse arrivata alla semifinale, sicuramente ci sarebbe stata più visibilità per tutta la rosa, soprattutto per il sottoscritto. Se il mio desiderio di giocare in un club inglese si fosse finalmente avverato, almeno avrei potuto allontanarmi definitivamente da Roma e magari iniziare una nuova vita, senza più pensieri per la testa.
Nessuno più ad intralciare il mio percorso verso la carriera perfetta.
Verso il pallone d’oro.
Verso una vita che mi avrebbe permesso al mio nome di riecheggiare in eterno…
…tra la solitudine dei ricordi.
Scacciai via quel pensiero, insieme ad un lungo brivido di freddo. C’erano degli spifferi in quello spogliatoio, forse l’aria densa e umida di Londra non mi avrebbe fatto bene. Alzai di poco lo sguardo sul muro e vidi l’orologio che segnava mezz’ora all’inizio del big match.
Mi tesi come una corda di violino.
Solitamente affrontavo le sfide di petto, fregandomene altamente dei risultati perché ero più che sicuro di spaccare in qualsiasi cosa facessi, che si trattasse di calcio, di donne o altro. Questa volta mi sentii improvvisamente debole.
Non è che ti stai ammalando?
«Bella Leona’, nervoso?» mi domandò d’improvviso Marco, sedendosi di peso accanto al sottoscritto.
Lo fissai di sottecchi e sbuffai. Certo che ero nervoso, cazzo. Ero teso come una fottuta corda di violino!
«No. Sto sciallo,» mentii tranquillamente, ormai mi riusciva così bene.
C’era ancora quel pensiero che tornò preponderante nella mia testa, come un tarlo che scavava lentamente nel legno guadagnando centimetri nella mia materia grigia.
Quella poca che ti è rimasta…
Borriello mi fissò sospettoso. «Non me la racconti giusta, ma farò finta di crederti,» sorrise sbieco.
Più passavo del tempo insieme a Marco e più realizzavo che magari in un’altra vita aveva fatto lo psicologo, o qualcosa che andasse di gran lunga vicino a quella professione. Era come se dietro quello sguardo si nascondesse un pensiero ben più profondo, come se riuscisse a capirmi quasi meglio di me stesso.
«Te, invece?» gli domandai, riferendomi sempre all’ansia prepartita.
Marco scrollò le spalle, poi alzò lo sguardo verso gli altri che nel frattempo si stringevano le stringhe degli scarpini o si aggiustavano i parastinchi. «Sai come la penso. O la va o la spacca stasera. Non importa se vinciamo o perdiamo, l’importante è fare il culo a quel cazzone di tuo cugino,» sghignazzò, tirandomi di gran lunga su il morale.
Se c’era una cosa con cui mi sarei trovato d’accordo persino con un laziale, sarebbe stato Simone. Odiavo profondamente il suo comportamento strafottente e quella presunzione che mi sbatteva in faccia ogni volta che ci vedevamo.
«Puoi dirlo forte. A costo di consumarmi i polmoni, questa sera farò avanti e indietro pur di fargli sparire quel sorrisetto dalla faccia,» promisi, con l’adrenalina che scorreva nelle vene.
«Bene,» sorrise Marco. «È così che ti vogliamo, Sogno. Carico!»
Sorrisi a Borriello e dimenticai completamente quegli asti che c’erano stati tra di noi in tutti quegli anni che avevamo giocato l’uno affianco all’altro. Alla fine grazie a Marco avevo capito molte cose di me stesso e mi costava molto ammetterlo, ma Borriello era quanto più vicino ad un amico avessi nella mia vita.
Prima che la situazione potesse calare in un silenzio imbarazzante, il Mister Montella fece il suo ingresso nello spogliatoio e il brusio calò immediatamente, riducendo il tutto ad un silenzio ovattato.
La tensione in quella stanza si poteva tagliare con un coltello.
Il Mister si posizionò proprio al centro della sala, con tutti gli occhi puntati su di lui. Sapevo che era venuto il momento del “discorso” d’incoraggiamento, uno di quei memorabili dialoghi da film epici come Ogni maledetta Domenica.
Quella che stavamo per affrontare sarebbe stata la partita del secolo. Non era certo la finale, per quella c’era ancora tempo, ma di sicuro era un passo importante per tutti, in particolar modo per il sottoscritto.
«Ragazzi miei, questa sera affronteremo una delle sfide più ardue ma non per questo impossibili da superare,» iniziò, con la voce calma e rilassata. Era entusiasmante con quanta passione affermasse quel “noi” in tutti i discorsi che iniziava, quasi come se il Mister giocasse ancora con noi, fianco a fianco, senza mai lasciarci. Tutti pendevano dalle sue labbra, compreso il Capitano che annuiva convinto. «Siamo stati molto bravi ad arrivare fin qui, sono anni che la società non raggiunge un risultato così ampio, ed è proprio per questo che non possiamo gettare la spugna. Almeno non ora. Dobbiamo insistere, combattere come gladiatori, quasi ne valesse la nostra vita.»
Lasciò calare il silenzio, in modo che ognuno di noi potesse riflettere su quelle parole.
Inspirai forte tutta l’aria che riuscii a trattenere nei polmoni, cercando di scacciare via una strana sensazione alla bocca dello stomaco. Avevo tutte le carte in regola per sfondare, avrei potuto facilmente vincere tutto, eppure era come se non mi sentissi sicuro.
Come se non fossi completo.
Almeno non più.
«Oggi non vi chiedo di fare miracoli, perché non pretendo nulla da voi, ma so che avete le possibilità e le qualità di vincerla questa partita. Io credo in voi e nel vostro talento, quindi non deludetemi,» soffiò infine, con la voce lievemente incrinata dall’emozione.
Nessuno rimaneva impassibile di fronte ad una delle sfide più importanti della stagione.
Avevamo fatto tanto per arrivare sino a lì e forse era la prima volta che cominciavo a pensare al “noi” come squadra e non solo a Leonardo Sogno. Forse davvero mi sentivo diverso dal me stesso di un mese prima.
Chissà per quale arcana ragione…
Tentai di sforzarmi per non pensare a quello, a quel pensiero che cercava di incunearsi nella mia mente e spingere per poter entrare, ma io lo respingevo fuori. Dovevo concentrarmi, non potevo permettermi altri errori.
Già avevo mandato a puttane una parte della mia vita, ci mancava anche quell’altra. Alla fine non mi sarebbe rimasto più nulla e sarei lentamente sprofondato.
«Forza ragazzi, dobbiamo andare,» ci disse il Mister, battendo le mani con la cartelletta degli schemi ferma sotto il braccio.
Il fatidico momento era arrivato e nel momento stesso in cui mi alzai dalla panchina, per la prima volta sentii le gambe tremare leggermente. Non ero mai stato un tipo emotivo. Sin da piccolo ridevo in faccia al pericolo, come qualsiasi adolescente sprovveduto, ma una prima volta arrivava per tutti.
«Te senti bene, bello?» mi chiese Daniele, vedendomi barcollante.
«Ovvio!» rassicurai subito Capitan futuro.
La sostituzione doveva essere l’ultimo dei miei pensieri. Quella partita l’avrei giocata, a qualunque costo, con quaranta di febbre oppure la nausea.
Ci avviammo lungo il tunnel che conduceva al campo dell’Emirates Stadium, mentre i miei compagni cominciavano a scambiarsi battute e a sorridere per alleviare la tensione. C’era paura nell’aria, qualcosa d’intangibile che soltanto poche volte si era percepita.
Vidi capitan Totti sfilarmi di fianco. Il suo sguardo azzurro come una falce d’argento mi inquadrò per un nano secondo, poi un lieve sorriso appena accennato fu indirizzato al sottoscritto, prima di tornare ad ignorarmi.
Nonostante le cose che gli avevo detto dietro, nonostante il mio desiderio di prendere il suo posto un giorno, oppure andarmene da quella squadra perché troppo in ombra rispetto ad un uomo ormai troppo vecchio per quel gioco, Francesco Totti riuscì in qualche modo a tranquillizzarmi senza nemmeno dire una parola.
«Nervoso, cuginetto?»
Una voce fastidiosa e pungente come mille aghi mi perforò un timpano proprio quando pensai di aver finalmente riacquistato un po’ di calma interiore. Mi voltai solo per incrociare gli occhi castano scuro dell’unico Sogno che avrei odiato ogni giorno della mia vita.
«Fottiti, Simone,» gli ringhiai contro, mentre lo vidi fissarsi le unghie ignorando palesemente la mia minaccia.
Solo alla fine rialzò gli occhi. «Sorry, hai detto qualcosa?» pronunciò, lasciando quel lieve accento britannico anche nella pronuncia italiana delle parole. Di sicuro una cosa dagli inglesi l’aveva ereditata alla perfezione, ed era l’aria snob.
Lo ignorai fissando avanti il tunnel che si apriva sotto i miei occhi, così cominciai a saltellare sul posto per riscaldare i muscoli. Sentivo che Simone mi stava ancora fissando. Quel suo sguardo bruciava come fuoco sulla mia pelle ma tentai di farmi forza. Parlando con lui avrei finito unicamente per innervosirmi ed era quello che avevo tentato di evitare sin dall’inizio.
Rimani concentrato.
«Sei conscio che la perderai questa partita,» insistette Simone, sicuro di sé. «Tu e la tua squadretta di pezzenti non potete competere contro i Gunners, contro una squadra della Premier, contro un modulo di gioco che esula completamente dal torello a cui siete abituati voi montanari.»
Strinsi le mani a pugno, facendomi forza. Avrei voluto urlargli contro che era inutile che si comportava in quel modo, come se lui fosse nato in Inghilterra e noi non condividessimo almeno un quarto dei geni. Certe volte gli avrei sputato in faccia la verità, perché per quanto si sforzasse a marcare quel fastidioso accento anglosassone, rimaneva sempre mio cugino, romano, italiano e montanaro come il sottoscritto.
«Faremo i conti,» sputai a denti stretti, fulminandolo. «Alla fine, Simone. Soltanto alla fine.»
Quelle parole suonarono come una vera e propria minaccia, ma sperai con tutto me stesso che la finisse di dare aria alla bocca. Nessuno della mia famiglia mi aveva mai ostacolato, ma Simo era stato l’unico che ce l’aveva sempre avuta col sottoscritto. Sin da piccoli avevamo gareggiato su tutto, che si trattasse di finire per primo la pasta al sugo o di arrivare a livello sedici a metal gear solid.
Una vita di eterna rivalità che forse sarebbe finita quella stessa sera.
Forse.
«Le tue minacce sono inutili, cuginetto,» ridacchiò Simone, senza dar il minimo peso alle mie parole. Nel frattempo vidi arrivare a passo sostenuto l’ormai famoso allenatore dell’Arsenal, uno dei più forti a mio parere.
Mr. Arsene Wenger camminò velocemente lungo il corridoio, dritto come un fuso, con i capelli bianchi che ondeggiavano ai lati del viso spigoloso. Simone si ammutolì al suo passaggio, quasi come quando mio padre passava a controllarci per vedere se ci scannavamo a vicenda o meno.
Era un fottuto codardo, nient’altro che questo.
Vedemmo gli arbitri in cima alla fila, vicino all’uscita del tunnel. Da quella posizione potevo intravedere il verde del campo e i cori già riempivano il silenzio dello stadio. Dalla televisione avevo appreso che molti tifosi avevano lasciato la Capitale per dirigersi a Londra con il primo aereo, solamente per seguire la squadra.
Magari qualche tempo fa non me ne sarebbe fregato nulla, ma adesso era motivo d’orgoglio per me.
Il via libera ci fu dato qualche secondo dopo, quando sentivo ormai lo stomaco rivoltato e annodato su sé stesso. Forse non mi era mai importato nulla del futuro come in quel momento, adesso che mi rimaneva soltanto quella parte di vita a cui aggrapparmi con tutte le forze.
«Ci vediamo al novantesimo minuto, non piangere mi raccomando,» mi avvertì Simone col solito ghigno elfico stampato in faccia.
Non gli risposi nemmeno. Mi limitai a rifilargli un’occhiata mista tra il “Ti incenerisco” e il “Prova a ripeterlo e ti incenerisco”.
Inspirai forte, scacciando via la tensione che si stava accumulando, poi avanzai lentamente verso le luci artificiali montate sopra la volta dell’Emirates Stadium. Per un momento quel tunnel mi parve infinito, quasi come se si trasformasse a poco a poco nella metafora della mia vita.
Ne avevo attraversati tanti di tunnel così, a partire dall’indimenticabile esordio in serie A all’Olimpico, applaudito da tutto il popolo di Roma. Alla fine la mia intera esistenza, tutti i ventitré anni di Leonardo Sogno si riducevano ad un chilometro, forse meno, di pavimento in linoleum maleodorante e umido, alla cui fine si celava la vittoria o la sconfitta.
O bianco o nero.
Il cinquanta percento delle possibilità, perché non era quasi mai contemplato il pareggio. Nella mia vita non esistevano le sfumature, non c’era il grigio, forse perché troppo spento e triste per uno come me.
Avrei preferito di gran lunga l’azzurro. Anzi no, il celeste.
Non ebbi altro tempo per pensare. La luce stava diventando sempre più intensa, passo dopo passo, inghiottendo ogni fibra del mio corpo e costringendomi a deviare lo sguardo. Socchiusi le palpebre, ignorando il senso di solitudine, e lasciai che i migliaia di tifosi seduti sugli spalti fossero le uniche cose di cui avessi bisogno.
 
***
 
Londra era una città ferma nel tempo, o almeno questa fu l’impressione che ebbi appena messo piede a King’s Cross.
Eravamo atterrati ad Heatrow in orario e avevo passato la maggior parte del tempo a sentirmi stritolare la mano da un Robbeo frignante in piena crisi isterica. Non sapevo cosa lo avesse spinto a salire su un aereo, quando aveva paura perfino di affacciarsi fuori al balcone.
«Siamo atterrati?» squittì.
«No.»
«Ora?»
«No.»
Lasciò passare altri tre minuti, aumentando l’intensità della stretta e poi mi cercò con la coda dell’occhio.
«Manca poco!» sbottai e Ven mi fissò incredula. Così come tutto il resto dei passeggeri.
Ennesima gaffe per colpa di quel fifone del mio migliore amico, ma c’ero abituata.
 
Eravamo sulla linea 97, quella che collegava King’s Cross al lato nord di Hyde Park, dove avevamo l’albergo. Cercai la testa fulva di Romeo, due sedili più avanti, intento in un’animata conversazione con un vecchietto.
Per lo più era lui che parlava, rigorosamente in inglese, mentre il mio migliore amico si limitava ad annuire, seguendo qualche parola. Era buffo vederlo così e dovevo ammettere che mi era mancato in quei giorni.
«Insomma, non è male evadere dalla realtà di tanto in tanto, no?» mi domandò la mia migliore amica, seduta al mio fianco.
Le sorrisi. «Per ora sono felice,» le dissi.
Soffocai mentalmente il ricordo di ciò che era successo in quei giorni, seppellendolo da qualche parte della mia mente. Ero venuta lì per rilassarmi, per non pensare e per dimenticare.
Venera mise da parte la piantina della Tube che stava consultando e sospirò. «Celeste,» disse cauta. «Sei qui, nella capitale inglese, con i tuoi amici, in vacanza. Possiamo pensare esclusivamente a divertirci?»
Annuii riconoscente.
Aveva ragione. Per quanto ancora mi torturassi con tutta quella storia, mi auto-distruggessi sino a soffocare, avrei rischiato col perdere quello che avevo.
Non ora che finalmente io e Romeo avevamo ricucito la  nostra amicizia.
Arrivammo in hotel e lasciammo subito le valigie in stanza. Scoprii che Romeo avrebbe condiviso la nostra stessa camera, essendo una matrimoniale con letto aggiunto.
Ovviamente Ven svenne di colpo.
Mentre le sventolavo la piantina della Tube energicamente sul viso, sperando riprendesse i sensi in fretta, notai quanto quell’albergo fosse costoso. Mi stupii che se lo fosse potuto permettere, soprattutto per uno che andava in giro con quel pandino-killer.
Il mio lato detective entrò subito in azione.
«Dev’esserti costato un patrimonio portarci qui,» osservai.
Lo vidi sgranare quei suoi limpidi occhi azzurri e annaspare in cerca d’aria. Aveva capito che non poteva avere scampo con me.
Basta bugie.
Si grattò la nuca fulva nervoso. Era evidente che stesse prendendo tempo per poter accampare qualche tipo di scusa. Come poteva permettersi un viaggio a Londra per tre persone se nemmeno lavorava? Inoltre, come aveva fatto a prenotare quel lussuoso hotel?
Mi diedi della sciocca per non averci riflettuto prima.
«Senti Romeo,» sbuffai stufa. Ero a tanto così dal mandare tutto all’aria e tornarmene a Roma col primo volo disponibile. C’era un limite alle bugie ed io lo avevo oltrepassato.
«Sono davvero stufa di tutti questi giochetti. Lo sento che mi stai mentendo. Sputa fuori la verità!» gli intimai.
Romeo deglutì a fatica, poi abbassò lo sguardo mortificato. «Non lo so.»
Ven scelse proprio quel momento per rinvenire miracolosamente. Sospettai che non avesse avuto alcun tipo di malore e che stesse aspettando solo l’attimo adatto per intervenire.
«Ha trovato tutto nella cassetta delle lettere,» spiegò lei. «Era una busta senza mittente.»
Guardai i miei due migliori amici sconvolta. «Mi avete mentito ancora? Dopo tutto quello che è successo?» sbottai.
Romeo si sentì in dovere di intervenire. «Io non volevo! È stata la puffa!»
Ven lo zittì subito con un gesto della mano, annoiata.
«Una piccola bugia a fin di bene. Non sempre si mente per fare del male, Cel. Sai che esistono anche le bugie bianche,» sospirò.
«Bianche?» chiese Romeo confuso.
Venera roteò gli occhi e sbuffò. «Davvero l’hai perdonato? Non possiamo sbarazzarcene?»
«Ehi!» protestò lui.
Bugie bianche. Bugie dette a fin di bene. Menzogne che servivano unicamente a far star meno male le persone a cui si teneva.
Sapevo bene il significato di quelle parole.
«Ciò non toglie che mi avete mentito,» precisai. «Entrambi.»
Era passato troppo poco tempo da Leonardo e dalla storia piena di menzogne che mi aveva propinato. Era stata dunque finzione sin dall’inizio?
Quel dubbio atroce non faceva altro che logorarmi l’anima.
Stavi aspettando pazientemente le scuse di uno dei miei due presunti migliori amici, quando una chioma rosso fiamma attirò la mia attenzione.
Era impossibile scambiarla per qualcun altro.
«Annalisa…» soffiai.
No. Non poteva essere vero. C’era una spiegazione a tutto quello, ai misteriosi “biglietti” apparsi nella cassetta della posta di Robbeo e alla stranissima coincidenza di quell’incontro.
Romeo fu più veloce di me nell’alzarsi e nel raggiungere la ragazza coi tacchi a spillo. Io e Ven gli fummo dietro quando lui le strinse energicamente il polso, bloccandole l’avanzata verso l’uscita dalla Hall.
I grandi occhi verdi di Annalisa si spalancarono dalla sorpresa, così come la sua bocca carnosa che prese una deliziosa forma a cuore.
«C-Cos…» balbettò incredula.
L’espressione di sorpresa che aveva in volto sembrava sincera, come se non si aspettasse di vederci lì. Anzi, di vederlo lì.
Magari non era stata lei a spedirci i biglietti.
E perché avrebbe dovuto farlo, poi?
Già, non aveva alcun movente. Non ci eravamo state simpatiche sin dall’inizio, perché avrebbe dovuto “farmi un favore”?
A meno che non ci fosse sotto dell’altro…
«Cosa ci fate voi qui?» chiese lei, abbandonando immediatamente quell’aria spaesata che non si addiceva al suo carattere viziato e arrogante.
Romeo assottigliò lo sguardo. Non sapevo bene il perché, ma sembrava proprio che ci fosse del risentimento tra quei due, quasi come se avessero litigato.
«Dovresti dircelo tu,» insinuai, magari avrebbe abboccato alla storia del viaggio.
«Non far finta di non sapere dei biglietti,» si aggiunse Robbeo.
Annalisa spostò lo sguardo prima su di me, poi sul mio migliore amico. Sembrava davvero confusa e per quanto potesse essere falsa, quella non era finzione.
«Davvero, siete fuori,» disse alzando le mani. «Io me ne vado.»
Venera la bloccò parandosi davanti. «Quindi non sei stata tu a spedire i biglietti aerei con la prenotazione al tuo stesso hotel a questo babbeo qui?»
Annalisa le lanciò uno sguardo di fuoco. «Non chiamarlo così,» sibilò.
«Non so nulla di questi biglietti,» aggiunse poi. «Questo non è solo il mio hotel, ci alloggia tutta la squadra e lo staff.» Si spostò una ciocca di fulvi capelli dietro l’orecchio. «Ora devo proprio andare, c’è qualcuno che mi aspetta e devo prendere una macchina.»
Rimasi a fissare il vuoto, metabolizzando ancora il fatto di poter incontrare Leonardo in qualsiasi momento. Anche ora che non ero affatto pronta.
Annalisa era scagionata e per quanto facessi ormai fatica a riconoscere i bugiardi, lei mi sembrò sincera. Io però ancora non sapevo l’identità del misterioso benefattore.
Romeo però mi distrasse, perché scattò nella direzione della rossa e le si mise davanti, impedendole di uscire e raggiungere la berlina nera che attendeva in strada.
«Aspetta un attimo,» disse.
Sembrava quasi una scena di un film d’altri tempi, proprio quando i due protagonisti raggiungono il climax.
Annalisa lo fissò in tralice. «Cosa vuoi da me, eh? Ti sei spiegato benissimo l’ultima volta che ci siamo visti, so che razza di persona pensi che io sia.»
C’era qualcosa che mi sfuggiva. Avevo come la sensazione che tra quei due fosse nata una specie di relazione che andava ben oltre il “reciproco sopportarsi” che fino ad ora ci avevano fatto credere.
«Forse dovremmo…» tentai di dire a Ven, ma lei mi zittì.
«Fai silenzio e goditi la scena madre,» mormorò risoluta. «Peccato non ci siano i popcorn.»
«Non ho mai detto questo,» ringhiò lui, serio.
Era raro vedere Romeo con quell’espressione in volto. Con Anna, sembrava un’altra persona e lei era forse l’unica ragazza – tranne me e Ven ovviamente – con cui si comportava da persona normale, senza la necessità di fare in buffone e di farsi etichettare come un cretino.
«Ah no?» rise lei, isterica. «Senza riserve, hai subito pensato che fossi stata io a spifferare tutto, che avessi tradito la tua fiducia e quella di Sogno.»
Una lacrima le sfuggì dall’occhio. Un lungo brivido mi fece accapponare la pelle.
Annalisa era la dimostrazione vivente che anche la persona più stronza di tutto l’universo qualche volta veniva ferita. E che a farlo fosse stato Robbeo, mi lasciava allibita.
Si asciugò in fretta il viso con il dorso della mano. «Non credevo di meritarmi questo. Pensavo fossimo amici.»
Lei e Romeo? Amici?
«Siamo… amici,» disse Romeo, avvicinandosi.
In quel momento mi sentii davvero di troppo, così cercai Ven per dirle di lasciar loro un po’ d’intimità – sembrava ancora strano, pensarlo – ma lei non voleva saperne di perdersi quella scena.
Annalisa era ancora restia a lasciarsi toccare, soprattutto perché sembrava che il mio migliore amico l’avesse davvero trattata malissimo. Ed era incredibile pensarlo di uno come Robbeo.
«Mi dispiace,» insistette lui, sfiorandole appena le dita. «Mi dispiace per tutto quanto, per come ti ho trattata, per quello che ho detto di te. Vorrei solo poter tornare indietro, sono stato uno stupido.»
Indietreggiai lentamente, lasciando loro un po’ di spazio e mi trascinai dietro Venera che continuava a scalciare.
«Smettila.»
Anna stava cedendo. Potevo vederlo riflesso nei suoi occhi lucidi e sentirlo nella sua voce incrinata dal pianto.
Allora mi sovvenne il ricordo di Leonardo, il modo in cui mi aveva guardata implorante alla festa di J. e ai suoi tentativi di scusarsi. La scena mi parve molto simile, quasi sovrapponibile e mi fece star male.
Se ci fosse stato un modo per quantificare il dolore, mi sarei trovata in bilico tra due orizzonti: da una parte c’era il perdono, la possibilità di passare sopra tutto e darmi un’altra chance; dall’altra ricordavo l’umiliazione della menzogna e del tradimento.
«Guarda che per me non è stato facile credere che tu potessi davvero tenere ad uno come me,» continuò Romeo, stupendomi. «Ad una persona normale
Amare una persona normale, comune. Uno come Romeo o come me… persone che non avevano una bellezza o un talento straordinari, che non avevano né soldi né fama.
Persone che potevano dare soltanto loro stesse.
«Nemmeno io credevo fosse possibile,» ripeté lei. «E questo fa ancora più male!»
Era ovvio che fosse così. Quando si possedeva tutto, ogni cosa si desiderasse, come si poteva distinguere tra amicizia per interesse o per sentimento?
Annalisa era la figlia del presidente della squadra di Leonardo e chiunque avrebbe potuto sfruttare la notorietà che sarebbe derivata dal frequentarla.
Compresa me stessa.
Anche tu avresti potuto approfittarti di Leonardo, della sua fama se lui ti avesse subito rivelato la sua identità. Magari è stato per questo che ha mentito. Per proteggere sé stesso da quel mondo falso.
«Lo so, che fa male,» continuò Robbeo. «Ma io ti giuro che per me è stato tutto reale. Tutto quanto. Ogni pomeriggio passato a fare shopping con te, a reggerti le buste, a fare finta di essere il tuo amico gay o ad ascoltare i tuoi problemi. Tutto.»
Fu dopo quelle parole che vidi il cuore di Annalisa sbocciare come un fiore a primavera.
Lei si aprì in un sorriso sincero e gli corse incontro, gettandogli le braccia al collo.
«Che scena disgustosa,» commentò Ven acida. «Sto per vomitare.»
Quando le loro labbra si sfiorarono in un bacio appena accennato, mi ritrovai a sorridere. Mi sentii stranamente leggera e d’improvviso percepii uno strano senso di vuoto dentro, come se mi mancasse qualcosa.
O qualcuno.
Ricordai le giornate sulla vespa, i pomeriggi passati a ridere davanti alla TV. Ricordai nonna Annunziata, le feste e le bugie che mi aveva detto ma che ci avevano permesso di andare avanti.
Per quanto potessi essere arrabbiata con Leonardo, per quanto lo odiassi per avermi resa debole e cieca, lui rimaneva comunque un punto fermo nella mia vita.
Venera mi guardò pensierosa. «Ti è sovvenuto all’improvviso un posto che vorresti assolutamente visitare per primo?» chiese con un sorrisetto.
La rabbia di essere stata raggirata mi aveva reso cieca, aveva fatto sì che perdessi di vista l’altra faccia della medaglia. Non mi ero fermata un momento a riflettere sul perché Leonardo si fosse comportato così, il motivo che lo aveva portato a mentirmi anche dopo che l’amore aveva fatto tutto il resto.
La ragione ero stata sempre io.
Ero la sola che aveva scatenato tutto questo, col mio odio per il calcio e il fatto che non mancassi mai di sbandierarlo ai quattro venti. Lui si era soltanto comportato di conseguenza.
«Dovrebbe esserci una partita di calcio, stasera,» dissi seria.
Annalisa e Romeo mi guardarono all’unisono, mano nella mano. «Vuoi provare davvero?» chiese il rosso.
Annuii convinta.
«Anche se sarà impossibile trovare i biglietti?» suggerì Venera.
Annuii con meno convinzione.
Annalisa allora ridacchiò. «A noi non serve alcun biglietto.»
Tutti la fissammo sconvolti e solo all’ultimo ricordai chi fosse davvero la Cavalli. Venera si mise subito in testa al gruppo e uscimmo in strada, montando sulla berlina mentre il sole calava all’orizzonte.
«Di qua!» urlò all’autista, ma Romeo la corresse.
«Veramente l’Emirates è dall’altra parte.»
Proseguimmo il resto del viaggio in macchina con le urla e gli schiamazzi dei miei due migliori amici che non la finivano di prendersi a parolacce.
Davanti ai miei occhi, le immagini di Londra al crepuscolo scorrevano ad alta velocità facendomi riflettere. Forse ero ancora in tempo per rinunciare. Non sapevo se fosse o meno la scelta giusta, se avevo ceduto troppo presto o se fossi ancora in tempo per rimediare.
Purtroppo non ero sicura di niente, però mi sentii in dovere di tentare.
Il solo vederlo mi avrebbe fatto male, ne ero conscia, ma per me stessa dovevo farlo perché quello che c’era stato tra noi – se autentico – meritava almeno un chiarimento.
Un’altra opportunità.
 
***
 
Ventitreesimo minuto…
L’aria si fa sempre più rarefatta nei miei polmoni, mentre corro in lungo e in largo per tutto il campo, tentando di sfondare il muro della difesa. Simone è sempre lì, lo vedo, mi sta col fiato sul collo e non mi molla.
Ha sempre quel sorriso stampato in volto, quel ghigno che mi ricorda secondo dopo secondo tutti i miei fallimenti, sia nella carriera che nella vita. Tento di dribblare un difensore, non ricordo nemmeno più il suo nome, ma quello si staglia come un muro di fronte a me e m’impedisce di passare.
Marco corre vicino a me, mi sorpassa e mi offre l’occasione di liberarmi del pallone ed io capisco al volo le sue intenzioni, peccato che anche Ramsey intuisce il nostro gioco e si frammette rubando il pallone e puntando in direzione della porta.
Mr. Montella si infuria dalla panchina, urlando indicazioni a destra e a manca mentre attorno a noi si è scatenata una vera e propria tempesta di grida, bandiere e il frastuono dei petardi lanciati al bordo del campo.
Come se una vera e propria guerra infuriasse in quell’arena.
Gladiatore. Io sono un gladiatore.
Prima di ritornare a dare man forte alla difesa, vedo Simone sfrecciare verso l’area della Magica e sorridermi soddisfatto di quello che la sua squadra è riuscita a fare. Non era ancora detta l’ultima parola.
 
Venticinquesimo minuto…
Simon ha appena sventato un possibile contropiede dell’Arsenal, rubando palla a Van Persie ed ora la Magica può volare all’attacco, perché si è aperto un varco nell’insormontabile difesa.
La vedo. Vedo i pali bianchi della porta difesa da Almunia e vedo anche la possibilità di segnare, sento un brivido corrermi lungo la schiena, come monito di quello che potrebbe accadere di lì a poco. Il bagno di folla, l’abbraccio dei compagni ed un passo sempre più vicino a quella che sarà la semifinale della competizione più importante d’Europa.
 
Due secondi dopo…
L’intervento di Simone in scivolata per poco non aveva rischiato di rompermi una caviglia e mentre mi rotolavo per terra dal dolore della lussazione, lo vedevo ghignare.
L’arbitro Webb accorse per sincerarsi delle condizioni di entrambi, poi Simone venne a tendermi la mano con fair play.
«Ancora deve venire il bello, cuginetto,» sorrise e finse di abbracciarmi. In seguito mi guardò negli occhi, quegli occhi scuri e malvagi. «Attento, la prossima volta potrei anche puntare alle articolazioni.»
Lo fissai sorpreso e sperai che scherzasse.
Era ovvio che Simone Sogno non giocasse pulito. Mai.
Tornai verso il pallone, pronto a battere la punizione che ci avevano assegnato per colpa del fallo di quel cretino di mio cugino.
Daniele mi si affiancò. «Vai verso l’area. Provo a crossare il pallone e tu colpisci di testa. Cerca di aggirare tu cugino, altrimenti semo fottuti,» mi sussurrò.
Come idea non era male, il difficile era metterla in atto.
Per quanto non sopportassi Simone, dovevo ammettere che l’Arsenal era una squadra ben assortita. Già l’allenatore era metà rosa.
Corsi nell’area protetta da Almunia, dopodiché attesi il fischio dell’arbitro che non tardò ad arrivare. Simone mi fu addosso, spintonandomi, così come altri suoi compagni. Era chiaro che fossi io l’obiettivo da marcare con insistenza, ma avrei preferito di no.
Daniele calciò la punizione, arcuando la palla verso l’area di rigore, ma ero troppo pressato per riuscire a saltare.
In ultimo, vidi Rosi che correva nel bel mezzo dell’area, indisturbato. La difesa era troppo impegnata a marcare me e il Capitano, senza curarsi di “pesci più piccoli” come l’ala destra della Magica. A quel punto, sapevo cosa fare.
Attirai l’attenzione della difesa dell’Arsenal su di me, imitando una specie di colpo di testa e quando furono abbastanza lontani da Rosi, lui cominciò a correre velocemente verso il portiere che urlava.
Ormai era troppo tardi perché se ne accorgessero.
Te l’ho fatta, stavolta, Simo.
Non avevo messo in conto l’intervento di Van Persie che, come un’aquila nel cielo, piombò direttamente sul povero Alejandro togliendogli la palla e consegnandola direttamente in mano al portiere.
«Cazzo!» sibilai col fiatone.
Simone mi passò di fianco e sorrise. «Tic toc.»
 
Trentottesimo minuto…
La partita non voleva saperne, di cambiare le sorti dello zero a zero e i tifosi di ambo le parti sembravano abbastanza scontenti. L’azione non era ancora cominciata, perché eravamo troppo accorti per osare.
La Curva rumoreggiava e le bandiere sventolavano con forza, così come i fumogeni che impregnavano l’aria rendendola quasi irrespirabile. Più di una volta Webb era stato costretto a fermare il gioco, per via della nebbia che gli copriva la visuale.
Se continui così, non arriverai da nessuna parte.
Ne sono consapevole.
E allora osa, per l’amor di Dio!
Guarda, non parliamo di amore, va’.
Per un nanosecondo ero riuscito a cacciare fuori dalla mia mente il pensiero di Celeste ed ora il mio caro Ego, o Coscienza o dir si voglia, si metteva lì a ricordarmelo.
Mi distrassi solo un secondo, poi tornai con la mente in campo. Il Capitano aveva recuperato palla ed ora spingeva il tridente d’attacco a puntare la porta di Almunia. Vedevo riflesso nei suoi occhi celesti la determinazione di vincere quella partita, di portarsi a casa il risultato e non potevo che essere d’accordo.
Gli feci cenno di seguire i miei movimenti, così ingannai uno dei difensori in scivolata e schizzai veloce verso l’area di rigore.
C’era poco tempo per agire, e forse sarebbe stata l’unica azione valida prima della fine del primo tempo. Aggirai Squillaci e cercai lo sguardo di Francesco che agganciò immediatamente il mio. Era difficile da quella posizione crossare, soprattutto per il modo in cui Simone e Song lo stavano pressando.
Daje Capitano, daje, pensai, sperando udisse le mie suppliche.
In un qualche modo davvero sorprendente, con una giravolta riuscì ad eludere la marcatura di quel coglione di mio cugino, tenendosi libero per il cross migliore di sempre.
Mi arrivò diretto sul piede, ed eseguii uno stop da manuale, facendomi rotolare il pallone tra le gambe ed evitando l’ultima barriera che mi divideva dai pali della porta.
André Santos mi fissò deciso ed io non evitai il suo sguardo.
Fu una sfida silenziosa e diretta tra due che facevano quel mestiere da una vita, tra sacrifici, rinunce e tutto il resto. Soltanto un altro calciatore poteva sapere cosa si provasse a non avere una vita privata, ad essere denigrato dal pubblico per un solo errore.
Un calcio di rigore sbagliato, un passaggio troppo forte… qualsiasi cosa.
Dribblarlo uno contro uno sarebbe stato impossibile, soprattutto perché si trattava di un armadio a due ante. L’unica soluzione era tentare una finta e provare il tiro dalla distanza.
Eccolo! Finalmente sei tornato.
Leonardo Sogno era tornato più in forma di prima, senza riserve. Sarebbe stato la stella della sua Magica, poi di qualche squadra di un club inglese magari… chissà.
Avrei conquistato le copertine di ogni rivista. La fama era l’unica cosa che mi rimaneva, ora.
Detto ciò, misi in pratica ciò che avevo pensato. Sulle prime la finta mi riuscì ma il brasiliano era evidentemente più furbo e intuì ciò che avevo in mente.
«Leona’!» gridò Daniele alle mie spalle, pronto per avanzare con uno dei suoi colpi di testa brevettati, ma lo ignorai.
Quel goal era mio. A tutti i costi.
Quella partita era stata il motivo per cui avevo sacrificato Celeste, per cui mi ero allontanato. Avevo detto addio all’unica cosa reale che mi era capitata da una vita, la sola che stesse con me non tanto per i soldi, né per la fama.
Soltanto per Leo.
Ignorai il suggerimento di Capitan futuro e tentai il tiro dalla distanza. Fortunatamente il pallone non fu intercettato da Santos e prese un effetto soddisfacente. Furono i cinque secondi più lunghi della mia vita, mentre sentivo chiaramente il cuore battere forte e il fiato che mancava nei polmoni.
L’occasione di una vita a pochi minuti dallo scadere del primo tempo.
Andare in vantaggio al 38’ significava sollevare i tifosi, rincuorare la squadra e far si di studiare una tattica vantaggiosa che ci consentisse di raddoppiare o quantomeno proteggere il risultato.
Il pallone galleggiò nell’aria come se fosse telecomandato ed io finii col trattenere il fiato finché non avessi sentito il tipico rumore del cuoio che s’infrangeva contro la rete. Un sonoro “toc” e poi il boato della folla.
«Pittore! Pittore! Pittore!»
Leonardo Da Vinci, un genio.
Questo è quello che avrei dovuto udire dai cinquemila tifosi che erano lì a Londra, solo per vedere la loro squadra giocare. Invece ci fu un boato di delusione e di protesta, perché il pallone s’infranse proprio contro il palo.
SDENG!
Quello fu il suono che si udì all’Emirates, nel silenzio dovuto alla suspense del tiro.
Almunia, sorpreso da quella fortuna, accorse a togliere immediatamente la sfera dalla testa di Daniele che era saltato per ritentare.
Rimasi imbambolato a fissare la porta senza reagire.
Il Capitano mi posò una mano sulla spalla ed io sussultai sorpreso, mentre lo stadio aveva ricominciato ad urlare. «Il calcio è un gioco di squadra, ricordalo,» disse solamente, ma lo sguardo furioso che mi lanciò Daniele fu abbastanza eloquente.
Suppongo che avresti dovuto passare il pallone.
Ma non mi dire.
Simone se la rideva alla grande, fissandomi come se avesse ottenuto una doppia vittoria da quel mio sbaglio. Era insopportabile. Ancora mi chiedevo quale forza divina mi aveva impedito di soffocarlo con un cuscino quando eravamo piccoli.
Il portiere rinviò la palla da fondocampo, mentre tutti ritornarono ai loro posti in attesa dello squadrone dell’Arsenal che avanzava minaccioso.
Simone era in testa al gruppo, riusciva a manovrare il resto della squadra senza nemmeno aprire bocca. Dalla panchina, si udivano le indicazioni di Mr. Montella di rientrare, mentre il pallido allenatore dei gunners fissava il campo come un’aquila.
«Forza, rientrate!» gridò Rodrigo, riferendosi a quei pochi di noi che erano volati in attacco.
Cominciai a correre, anche se il fiato mancava, ma dovevo resistere.
39’… 40’… 43’
I minuti scorrevano come gocce di pioggia attraverso il tombino di una strada e mi era impossibile fermarli. Scivolavano via, così come quando il quarto uomo, con la lavagnetta luminosa, indicò 1’ come il tempo di recupero.
Fu in quell’istante, dopo un corner che avevamo concesso un po’ troppo superficialmente che dovetti assistere ai sessanta secondi più brutti della mia vita.
Cinquantotto, quarantacinque, trentasei…
Cercai immediatamente lo sguardo di Simone mentre il pallone viaggiava al di sopra dell’aria di rigore, percorrendo una parabola quasi perfetta. Lo vidi smarcarsi da Simon e gli altri, Marco cadde addirittura a terra, ed io allora lo rincorsi per impedirgli di saltare.
Quel metro e novanta di muscoli e precisione non ci avrebbe perdonati.
Feci di tutto per arrivare fin sotto di lui, rischiai anche di calpestare i miei stessi compagni, ma dovevo fare qualcosa. Mi aggrappai alla sua spalla, cercando di non commettere fallo e tentai in tutti i modi di caricare il salto e togliergli la palla dalla testa.
Simone se ne accorse e allora mise più potenza.
Mi superò di una spanna senza alcuno sforzo, arrivando in perfetto tempismo con il pallone che aveva iniziato a scendere. Lo colpì in pieno, con tutta la potenza di tiro di cui era capace e la angolò.
Cazzo se quello era un colpo di testa!
Martin tentò di afferrarla sbracciandosi come un puma che balzava sulla propria preda, ma era troppo preciso e potente quel tiro.
Il pallone s’insaccò nella rete al 46esimo e l’arbitro Webb fischiò la fine del primo tempo.
 
Il rumore di tacchetti riempì il silenzio che c’era nel tunnel di rientro agli spogliatoi. Fissavo il grigio del pavimento di linoleum senza pensare a niente. Desideravo solo sparire e darmi del cretino.
A quest’ora, se avessi passato quel maledetto pallone, magari saremmo sul punteggio pari.
Simone era stato trattenuto da un giornalista per rilasciare un’intervista a caldo, così ne avevo approfittato per dileguarmi prima che mi prendesse di mira.
Erano lontani i tempi in cui nonno Pietro ci aveva dato quei palloni per regalo, facendoci condividere in un modo del tutto suo la passione per il calcio. Ora tra me e quel demente c’era solo guerra, nient’altro.
Fotografi e giornalisti di tv locali si sbracciavano per poter ottenere qualsiasi commento, ma tentai il tutto e per tutto al fine di evitarli. Non avevo voglia di parlare, non avevo voglia di nulla. Ancora una volta mi ero dimostrato un cretino che non sapeva fare nemmeno l’unica cosa in cui era bravo.
«Ehi! Ehi!» sentii una voce che mi chiamava, così accelerai il passo.
Volevo sedermi sulla panca, ascoltare gli scleri del mister, beccarmi le occhiatacce dei miei compagni di squadra e magari farmi sostituire.
'Sti cazzi.
Ero stufo di dover portare quel peso, di vivere con l’angoscia di dover dimostrare sempre qualcosa. Ora che Celeste era scivolata via dalla mia vita, avevo bisogno di fare chiarezza e ricominciare. Lei era solo una distrazione.
«Leonardo!»
Ecco. Ora sentivo anche la sua voce nella mia testa e non era normale.
Hai cominciato a bere di recente?
Ci mancava soltanto la pazzia a completare quel quadretto davvero rassicurante. Altro che infortuni o doping, avrei chiuso la mia brillante carriera in qualche manicomio.
«Leo! Girati!»
Sgranai gli occhi. Quella era la sua voce, ne ero certo.
Mi voltai sperando che si trattasse solo di un’illusione, ma un’orda di flash accecanti mi costrinsero a socchiudere le palpebre e a schermarmi con un braccio.
«Mr. Sogno ha da lasciare qualche dichiarazione?»
«È stato un errore della difesa?»
«Si poteva evitare?»
Tutte quelle domande cominciarono a confondermi, tanto che pensai di essermi davvero immaginato tutto. Possibile che Cel mi mancasse a tal punto da giocarmi questi brutti scherzi?
Stavo per rinunciare e tornare negli spogliatoi, quando sentii alcuni giornalisti protestare e spostarsi, spinti da una qualche forza soprannaturale. Soltanto in ultimo, quando la folla cominciava a diradarsi, mi resi conto che si trattava di quell’elfo dell’amica di Celeste.
Veneziana.
Veranda.
Terzo tentativo e sei out. Ce la puoi fare.
Venerea!
Quella la conosci bene.
«Sei irraggiungibile, porca miseria!» sbottò, aggiustandosi un ciuffo ribelle di capelli dalla fronte.
Dietro di lei, come una visione, c’era Celeste.
I suoi occhi azzurri erano spalancati, così grandi che avrei rischiato di finirci dentro. Si stava torturando una ciocca di capelli biondissimi tra le dita, senza sapere cosa dire. C’era troppo chiasso attorno a noi, troppi rumori.
Nemmeno io riuscivo a parlare.
Cosa avrei potuto dirle ancora? Scusarmi? Tentare di nuovo?
La sua presenza lì mi aveva spiazzato del tutto. Non sapevo spiegarmi il motivo per cui mi avesse raggiunto. Alzai ancora di più lo sguardo e trovai Annalisa, mano nella mano con quel cazzone di Robbeo.
Forse era merito del destino?
«Non c’è un posto più appartato dove potete parlare?» mi domandò Ven – direi che quel nomignolo le stava a pennello, visto che non mi ricordavo il resto.
Come svegliato dal coma, annuii. «Da questa parte.»
Le condussi verso l’ufficio per lo staff, in quel momento del tutto deserto. Prima di aprire la porta, però, ricevemmo la gradita visita di chi avevo tentato inutilmente di evitare fino a quel momento.
Simone.
«È off-limits quell’area,» commentò, in un perfetto inglese da cazzone.
«Falla finita!» ringhiai. «È una questione… privata,» dissi in un soffio, rivolgendo uno sguardo timido a Celeste.
Era così strano vederla silenziosa, lei che col suo indice “pungolatore” non mancava mai di bacchettarmi. La mia maestrina dispettosa.
Simone sfoderò quel ghigno bastardo. «Ci rivediamo, piccola,» mormorò malizioso. Lanciò anche un’occhiata distratta a Ven, facendo una smorfia.
«Come avrai sicuramente capito, la famiglia Sogno non è famosa per i fiori,» sghignazzò avvicinandosi.
Cercai di frappormi, almeno per proteggere Cel da quel cretino, ma Venera fu più veloce.
Hai azzeccato il nome!
«Oh, il circo è tornato in città, vedo. Il gibbone è fuggito dalla gabbia,» ridacchiò.
La tipa ci sapeva fare.
Simone sibilò. «E questo cos’è? Ti sei portato dietro il bassotto?» sghignazzò.
Lentamente aprii la porta dell’ufficio staff, così da lasciare Simone in dolce compagnia con Ven che sembrava sapergli tenere testa meglio di chiunque altro conoscessi.
«Per di qua,» sussurrai a Celeste, trascinandola dentro.
Lei annuì.
«Bassotto a chi? Spilungone montato che non sei altro!»
Questa fu l’ultima frase che udimmo prima che la porta si chiudesse con un sonoro clack e ci ritrovammo da soli in quella fredda stanza. Non avevo molto tempo prima che iniziasse di nuovo la partita ed ero più che sicuro che sia il Mister che i compagni mi stavano dando per disperso.
Però volevo dare a Celeste il tempo necessario per riordinare le idee.
Se ne stava sulle sue, evidentemente pensierosa. Infine cercò i miei occhi ed io ricevetti una stilettata dritta al cuore. Non avrei mai immaginato che stare lontano da una persona per tutto questo tempo fosse tanto doloroso.
Io che ero abituato a vivere alla giornata, ad avere donne diverse ogni giorno.
Non ricordavo nemmeno i loro nomi.
«Di preciso non ho chiaro il perché sono qui,» sputò fuori all’improvviso. Quegli occhi di ghiaccio erano così seri. Lontani dalla Celeste spensierata e solare che ricordavo. Questa era una ragazza ferita da tutte le menzogne che avevo detto e che non mi ero mai pentito di dire.
«Se vuoi dare la colpa al destino o altro, mi hanno convinto a venire a Londra e casualmente ho incontrato Annalisa.»
Il tono di voce era dannatamente profondo. Per un attimo pensai che si fosse fatta tutti quei chilometri per bidonarmi di nuovo.
«Cel, io…» tentai di dire, ma lei mi zittì.
«Forse ho giudicato troppo presto le tue azioni, non mi sono fermata a riflettere a sufficienza. Ero troppo arrabbiata con te per quello che mi avevi fatto, per ciò che mi avevi nascosto. Mi sono sentita tradita perfino da me stessa! Come diavolo posso esser stata così cieca!» sbottò.
Avrei voluto dirle che magari c’entrava il fatto che stesse troppo bene in mia compagnia da surclassare tutto il resto, ma tacqui.
«Ho googlato il tuo nome l’altro ieri,» soffiò imbarazzata.
Le sorrisi. «Su internet girano certe scemenze,» le risposi un po’ imbarazzato.
«No, no,» insistette ed io la lasciai parlare. «Ho letto di quando hai iniziato la carriera, delle coppe che hai vinto, dei premi… il pallone…?»
«Il Pallone D’oro, sì, sono in lizza per vincerlo,» dissi fiero, gonfiando il petto.
A Celeste sfuggì un sorriso che sembrò illuminare la stanza intera. «Credo di averti giudicato troppo superficialmente. Mi dispiace. Forse avrei dovuto ascoltarti, anche perché penso, anzi, credo, che quello che c’è stato tra di noi fosse autentico.»
«Lo era!» intervenni, forse con un po’ troppo fervore.
«Già,» rispose lei, sedendosi.
Ci fu un momento in cui cadde il silenzio e nessuno dei due sembrava aver voglia di riprendere la parola. Erano minuti delicati quelli, forse più importanti della partita che ci sarebbe stata di lì a poco.
C’erano due piatti della bilancia e su di essi era posata la mia vita. Da una parte Cel e la sua spontaneità che mi avevano stregato, dall’altra tutto il mio mondo.
«Leona’, ‘ndo stai?» la voce di Alejandro mi fece sobbalzare.
«Ti stanno cercando,» osservò Celeste.
Annuii pensieroso. «C’è tempo. Vai avanti,» la incalzai.
Lei giocherello con i ghirigori impressi sul tavolino in legno, poi sospirò. «Non vorrei essere trattata di nuovo da stupida, se è questo che vuoi sentirti dire. Ho sbagliato, ma anche tu hai la tua parte di responsabilità,» mi accusò.
«Ho dovuto mentire!» mi giustificai.
Lei mi lanciò un’occhiata assassina. «All’inizio è stato solo un gioco, ammettilo almeno.»
Sospirai sconfitto. C’era poco da fare, quando Celeste annusava una traccia era poco ma sicuro che ti sgamava.
«Okay!» mi arresi. «Magari è iniziata così.»
«E poi ci hai preso gusto e hai continuato a mentire, facendoti quattro risate con quel maleducato di tuo cugino!»
«Ma sei impazzita?» sbottai.
«Provami il contrario, allora!» e si alzò in piedi, sbattendo le mani sul tavolo.
Deglutii gli ultimi residui di saliva che si erano arrampicati sul palato. «Non c’è un modo semplice per spiegartelo, Cel. La verità è che non lo so nemmeno io,» cominciai. «Sono entrati in ballo sensazioni nuove, roba che non faceva per me.»
Mettersi a nudo in senso metaforico, era davvero dura.
«La verità, ho bisogno solo di questo. Per una volta,» rincarò lei.
Annuii. «È sempre stata solo una, Cel. È che mi sei entrata dentro e non te ne sei più andata via, ecco qual è.»
Lei rimase quasi sorpresa da quella mia ammissione.
«Quindi tu…» tentò.
«Sì, io,» le risposi.
Sorrise ed io mi sentii più leggero. «Ho bisogno solo di un’altra occasione, e nient’altro. Stavolta sul serio. Non ti mentirò più riguardo a nulla. Lo giuro,» promisi.
Lei parve ancora confusa, così mi avvicinai e le strinsi le mani nelle mie. Cercai i suoi occhi, un contatto, qualsiasi cosa le impedisse di sfuggirmi ancora.
«Non so se riuscirò a sopportare tutto questo,» disse, sfiorandomi la maglia della Magica con la punta delle dita e soffermandosi sullo stemma.
Le afferrai la mano e gliela strinsi, premendola contro il mio cuore. «Lo faremo insieme.»
Celeste allora si lasciò andare veramente questa volta, lasciandomi sbirciare finalmente la sua vera persona. Mi era mancata troppo, come l’aria, quasi come il fischio finale dell’arbitro al novantesimo della partita più importante del mondo.
«Ora vai a vincere,» soffiò infine, alzandosi sulle punte e cercando appena un contatto con le mie labbra.
Sorrisi leggero come non lo ero mai stato prima. «Per te, soltanto per te,» e corsi via.
Verso il campo dell’Emirates Stadium, verso quel verde che mi avvolse come una vaporosa coperta e verso quel profumo che sapeva finalmente di casa


Allora, innanzitutto mi scuso profondamente anche a nome di _Shantel che non so che fine abbia fatto. Questa storia è rimasta in stand-by per troppo tempo, ma purtroppo era un lavoro scritto a 4 mani, perciò serviva necessariamente la collaborazione dell'altra autrice. Ho provato più volte a contattarla, ma mi ha detto di avere problemi in famiglia e che non poteva perder tempo dietro a EFP.
In altre parole, mi ha dato il permesso di continuarla da sola. Ammetto che non è la stessa cosa, che per me è stato difficile immedesimarmi in Celeste, però ci ho provato per il bene di questi due personaggi che meritano un bel finale, un finale come si deve.
Inoltre, devo approfondire il rapporto degli altri personaggi.
Vi chiedo "scusa" a nome di entrambe se vi ho fatto sospirare questo capitolo, ma prometto e giuro solennemente di portare a termine Come in un Sogno da sola, che venga bene o meno. Ci proverò.
Mi rimetto alle vostre considerazioni e non esitate a farmi notare qualche pecca nel carattere dei personaggi, è da tanto tempo che non mi cimento in questa storia e devo riprenderci la mano. >.<
Detto questo, ho creato la raccolta "Se il Sogno chiama..." dove potrete trovare tutto ciò che riguarda la famiglia Sogno :3
Al prossimo aggiornamento - CHE SICURAMENTE ARRIVERA'-
Baci, Marty

   
 
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