Wings. A lot of wings.
01
C’erano quelle giornate splendide, in cui il sole
brillava alto in cielo, le nuvole erano graziosi batuffoli d’ovatta bianca, gli
uccellini cantavano la tua canzone preferita fuori della finestra, la casa era
piena dell’odore di pancake e tuo fratello era di buon’umore.
Poi c’erano quelle giornate di merda, che faceva
freddo, il sole era in vacanza da qualche parte sull’orbita di Plutone, le
nuvole erano come delle grosse pantegane grigie cariche di pioggia, la casa
odorava dell’orribile soufflé di cipolle del giorno prima e tuo fratello era
semplicemente troppo una rottura di coglioni per questo mondo.
La giornata di cui stiamo parlano era,
sventuratamente, una di quelle del secondo tipo. Esistono anche giornate del
terzo e quarto tipo, ma ora non c’interessa parlarne. Magari saranno uno degli
argomenti che toccheremo prossimamente o magari no. Magari questo tre righe
sono solo per irritare i lettori.
In effetti è vero.
Comunque.
Stiamo parlando di una giornata di merda, davvero.
Una di quelle in cui tutto quello che vuoi è nasconderti sotto le coperte e
contare fino a sei miliardi e
settecentoottantamilamilioni mangiando marshmallow
finché la giornata non inizia a diventare bella. Ma questo non è quasi mai possibile.
Anzi, non è mai possibile.
Dean Winchester doveva aprire i suoi splendidi occhi
al mondo e prepararsi per andare a scuola o erano uccelli senza zucchero con suo padre, sua madre e quel pidocchio
del suo fratellino.
Quindi si alzò, sbadigliò deliberatamente mostrando
al mondo tutti i suoi denti, le sue carie e le sue splendide tonsille, per poi
aprire e sbattere le ali, cercando di liberarsi di quella orribile sensazione
di costrizione che ogni notte bloccava ogni singola fibra delle sue povere,
piccole ali. Fottuti letti umani. Avrebbe preferito dormire su un cazzo di
trespolo che su una di quelle bare per vivi.
Un crack
soffocato avvertì tutta la famiglia che Dean si era svegliato e che aveva
appena fatto fuori la lampada da comodino numero 174. Ma non era colpa sua.
Erano loro gli stupidi che continuavano a comprargliene una dietro l’altra,
visto che “leggere al buio è da demoni e non da umani e le piccole cose sono
quelle che permettono d’integrarci più in fretta” e integrarsi con le
scatolette di carne con le gambe era una cosa buona o giusta, o almeno così
diceva John Winchester e in casa Winchester quello che diceva John era un po’
tipo la Bibbia non scritta o un regolamento sacro.
Quindi Dean si doveva alzare, vestire, magari
mettere quella sorta di penosa imbracatura che qualche pazzoide aveva creato e
qualche amico suo aveva commercializzato, quella rivisitazione sotto acidi di
una giacca e di una camicia che doveva coprirgli il petto e al contempo
lasciare le sue ali libere. Non capiva perché gli umani fossero così fissati
con i vestiti. Come se un demone come lui (o anche un angelo) potesse prendersi
il raffreddore per essersene andato in giro a petto nudo. La nudità non era un
tabù nel loro mondo. I parchi erano pieni di angeli e demoni di entrambi i
sessi che giravano con lo stretto necessario, magari un paio di pantaloni o una
gonna, e il petto nudo. Era rilassante e permetteva di muovere le ali senza problemi.
Ma lui doveva mettersi quella dannata divisa. E
magari lavarsi e pettinarsi. E rendersi decente, in generale. Un demone
decente. Era un ossimoro.
Fra tutte le idee folli che aveva sentito negli
ultimi, tipo, mille anni, quella della coesistenza e amicizia tra angeli, umani
e demoni era la più stupida. E lui era lì quando avevano detto che gli esseri
umani discendevano tutti da una coppia che aveva avuto solo figli maschi!
I demoni facevano i cazzi loro, gli umani crepavano,
gli angeli facevano i cazzi loro e tutto filava liscio in simpatia. E invece
no, si dovevano sovvertire millenni di pacifico “tu stai dalla tua parte che io
sto nella mia” per amore di quei poveri piccoli umani che morivano come mosche
ogni volta che ad un demone e ad un angelo prudevano le parti basse e
decidevano di prendersi a cazzotti in grande stile da qualche parte.
Quindi ora dovevano essere tutti amici. Vivere
vicini. Lavorare assieme. Andare a scuola assieme. Magari anche, chi lo sa, un
giorno lo avrebbero obbligato a portare degli angeli in casa sua, a guardare la
partita sul suo televisore, seduti sul suo divano a mangiarsi la sua crostata.
Il solo pensiero lo faceva incazzare a morte.
Si unì alla mandria semicomatosa che si dirigeva
pigramente verso le porte della scuola, le ali attentamente ripiegate sulla
schiena e lo sguardo perso.
Notò Pamela ciondolare vicino alla porta, Jo che le
camminava accanto e Ash che strisciava i piedi dieci metri dietro di loro. Alistair, quel porco viscido bastardo (perché esistono anche
demoni bastardi a questo mondo, sappiatelo) sorrideva a una ragazzetta umana e Uriel lo guardava arruffando le penne, pronto a difendere
la fanciulla (o a dare man forte ad Alistair nel
distruggerla psicologicamente, entrambe le possibilità erano piuttosto
plausibili). Poco più in là Rachel discuteva con una ragazza di cui non conosceva
il nome.
In mezzo alla folla di umani fragili e tremanti
c’erano delle ali. Un sacco di ali. Avevano dovuto rimodernare la scuola e
creare aule e corridoi più grandi per far passare tutte quelle ali e cambiare
tutti i mobili.
Conosceva tutti in quella scuola, o meglio, tutti
conoscevano lui. E conoscevano anche suo fratello, quello abbastanza stupido da
essersi innamorato di un umana. Ed eccoli là, i piccioncini che camminavano
mano nella mano nella folla, felici come se al mondo non ci fossero altro che
rose e arcobaleni e coniglietti che cagavano uova di pasqua. Povera Jess, non
immaginava cosa l’aspettava: nessun’essere umano si metteva con un demone e ne
usciva integro.
Poggiò la testa contro il suo armadietto e sospirò,
troppo preso a sguazzare nel mare dell’auto-compatimento per notare un leggero
tossicchio e una vocina fina fina che sussurrava qualcosa.
Si voltò grugnendo e li vide. Vide gli occhi più grandi, blu e splendidi che avesse mai
visto. Deglutì a vuoto, osservando un ragazzo con un brutto trench e la
cravatta annodata a mo’ di cappio attorno al collo, lo zaino che pendeva da una
spalla e la scarpa destra slacciata – Scusami- pigolò il ragazzo – ma quello è
il mio armadietto.
Dean si voltò verso l’armadietto, colpendo un
ragazzino con le ali nel voltarsi, notando che, sì, quello non era il suo
armadietto. Era così impegnato a sguazzare nella tristezza del lunedì piovoso che era andato a sbattere la testa
sull’armadietto altrui.
- Scusami- bofonchiò – non l’avevano notato.
Il ragazzo annuì leggermente e tirò fuori dalla
tasca un foglietto stropicciato – Sai come si aprono?- domandò porgendogli il
foglietto – Il professore me l’ha spiegato ieri, ma l’ho già dimenticato.
Dean sorrise – La maggior parte di questi cosi si
aprono a pugni. Ma puoi anche aprirli con la combinazione. Guarda, ecco, devi
solo ruotare questa manopola, fammi vedere il foglio, quindi sei, otto,
sette, due, che combinazione del cazzo amico, ecco, sette, diciassette,
aperto. Ta-dan.
Il ragazzo guardò incuriosito l’interno
dell’armadietto – È piuttosto grande.
- Sei nuovo?
- Sì, è il mio primo giorno.
- Allora scoprirai presto che per voi piccoli umani
sono piuttosto stretti.
Era un peccato che quei begli occhioni
appartenessero ad un umano. Insomma, lui
aveva atto del “non mischiarsi con gli umani” una regola di vita, eppure in
quel momento provava una voglia pazza di mischiarsi con quell’umano nella
maniera più sudaticcia e scivolosa possibile.
Il ragazzo inclinò leggermente la testa, corrugando
le sopracciglia – Ma io non sono un umano.
- Sì, certo. Infatti vedo le tue splendide, ampie e
lucenti ali da-
- Angelo- lo fermò il ragazzo – sono un angelo. Ma non
ho ancora le ali.
- Impossibile.- sbottò Dean incrociando le braccia,
mentre le sue ali mimavano l’azione, incrociandosi leggermente sulle punte,
dove l’osso era scoperto e formava un piccolo uncino – Cosa sei, un pulcino? È
impossibile che tu non abbia ancora le tue ali. Hai qualche problema o cosa?
Il ragazzo lo guardò dritto negli occhi e poi
abbassò lo sguardo, fissandosi intensamente le scarpe.
- Non è colpa mia.- pigolò prima di allontanasi
nella folla, lasciando Dean accanto all’armadietto vuoto a sentirsi uno
stronzo.
- Sammy!- Dean passò una
mano lungo la curva esterna delle ali di suo fratello, che si voltò scocciato.
- Ti avrò detto mille volte di non chiamarmi Sammy, Dean.
- E io ti ho detto mille volte che non smetterò mai
di farlo, Sammy.- Dean sorrise porgendogli un
sacchetto marrone – Pranzo della mamma. Panino al fegato umano e un paio di
coniglietti scuoiati.
Jessica lo guardò disgustata e Sam sospirò – Sono
solamente panini con il pollo e delle carote a pezzetti, Jess. Lo stronzo qui
presente ha un particolare gusto per il macabro.
Jessica rise e Dean sbuffò, lasciandosi cadere
sull’erba accanto a loro – Allora, cosa mi raccontate?
- In classe mia è arrivato un ragazzo nuovo- disse
Jessica porgendo un biscotto al cioccolato a Dean – è carino e silenzioso. Si
chiama Castiel.
- Attenta Jess, potresti rendere Sammy-pohh geloso.-
ghignò Dean con la faccia piena di briciole. Sam alzò gli occhi al cielo e
Jessica sorrise – Sam sa che amo solo lui.
Dean guardò i due scambiarsi uno di quegli sguardi
da innamorati e provò l’opprimente desiderio di spararsi in bocca con una
carabina o qualcosa del genere.
- Per chiedere, ha i capelli neri tutti incasinati e
gli occhi blu? E magari un trench da cesto delle offerte a tre dollari al
supermercato?
- Ha parlato il maestro dello stile.
- La solita vipera, Sammy.
Ci ho preso?
Jessica annuì – Guarda, è laggiù.- disse indicando
un ragazzino con la divisa della scuola che rosicchiava qualcosa seduto sotto
un salice – Scusatemi, ragazzi, ho da fare.- Dean raccolse il sacchetto con il suo
pranzo e si diresse verso l’albero.
Il ragazzo lo guardò incuriosito – Posso sedermi qui
o la tieni occupata per i tuoi amici immaginari?
- Questo posto è libero. E anche se fosse occupato
potresti sederti lo stesso, perché gli amici immaginari sono, per l’appunto,
immaginari e non occupano veramente uno spazio fisico e tu potresti comunque
sederti senza problemi perché sarebbero i miei
amici immaginari e di conseguenza per te non esisterebbero-
- Okay, okay, mi siedo e basta, va bene? Niente più
battute del cazzo, prometto sulla tomba di mia nonna.
Dean si lasciò cadere sulla panchina – Cosa mangi?
- Mars.
- E fai quella faccia da funerale mentre mangi un mars? Amico, io ho delle fottute carote.
Il ragazzo si voltò verso di lui con gli occhi
brillanti – Vuoi fare a cambio?- domandò porgendogli la cassetta di WonderWoman che a quanto pare conteneva il suo pranzo – Mio
fratello ha riempito di questa roba dolce e io, davvero, non la sopporto più, non mangio altro. Le carote per tutto quello
che ho qui dentro.
Dean aprì circospetto la cassetta, ritrovandosi
davanti qualcosa come cinquanta dollari di caramelle e cioccolatini di varie
forme e incarti – Tu sei un cretino. Ma accetto. – il ragazzo sembrò più che
felice dell’accordo e si mangiò anche l’insalata del panino che Dean aveva
accuratamente scartato.
- Mi chiamo Dean.-
biascicò con la bocca piena di roba dolciastra.
- Io sono Castiel.-
Dean pensò che magari doveva chiedere scusa al
ragazzo per quello che gli aveva detto prima o qualcosa del genere, ma pensò
che qualunque cosa avesse detto avrebbe finito per rompere quell’atmosfera
strana e piacevole che si era andata a creare.
Così si limitò ad allungare una mano, strofinando il
palmo tra le scapole di Castiel, laddove, prima o poi, le sue ali sarebbero spuntate,
crescendo fino a coprire tutta la schiena di soffice piumaggio.
Castiel lo guardò e sorrise.
Quella sera sua madre gli fece i compimenti perché
aveva finito tutte le verdure e Dean le chiese se poteva mettergli più carote
nel pranzo, d’ora in poi. E magari un paio di mele.
- Le mele fanno bene per le ali, vero?
A.Corner____
Ed ecco a voi la mia nuova fan fiction! Come se
avessi bisogno di altre storie da finire! Ma chissenefrega,
yayyyy!
AU!Highschool, demon!Dean, angel!Castiel, wing!kink, adolescentiecretini!Dean&tuttoilcast, AngelandDemoninheat!kink.
Cazzo, quanti punti
esclamativi.
Questa storia potrebbe continuare, oppure no. Non
saprei, davvero. L’ho ripescata oggi dalle profondità del mio computer, l’ho
riletta e ho capito che era un gran pezzo di storia e che meritava l’attenzione
del grande pubblico.
E ho anche capito che sono un tipo umile e modesto.
Parlando d’umiltà e modestia, ci saranno sicuramente
degli errori di battitura qua e là.