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Autore: EvilGrin    06/10/2012    0 recensioni
La pioggia decanta i loro peccati, li elenca uno ad uno, ma non li biasima, ricorda ai passanti che ognuno di loro versa ancora lacrime dagli occhi bui, per quanto ha compiuto, esattamente come quella pioggia limpida attraversa con estenuante lentezza i volti dei vivi. Quella pioggia che vuol essere ascoltata e che, per farlo, si riversa su di loro con la violenza di un uragano. Ma loro la rifuggono, non comprendono ed aprono gli ombrelli, danzando come Demoni nella notte più scura.
Genere: Dark, Mistero, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 4 – Il Giglio

 

[Data: 21th November 1042 – 22.27

Luogo: Monastero Hemsworth

Temperatura Esterna: 6°C

Temperatura Interna: 15 °C]

 

Le candele dei lampadari della magione ardono ancora, per i corridoi passa il ragazzino dei pochi presenti che si occupa di spegnerle, incappandone la fiamma con una piccola cupoletta in ferro posta in cima ad un lungo bastone, del medesimo materiale. Quelle fiamme mobili, che traballano pericolose, bruciando uno stoppino annerito e dolorante, esso si piega sconfitto al lieto scorrere degli eventi quando non trova aria per poter respirare, soffocata al termine della serata. I sospiri degli amanti pregano perché s’estingua da sé, i sussurri del compagno la uccidono per errore. Ne rimane solo una triste e sottile scia biancastra, che sale inesorabilmente verso l’alto, segnando il termine di quella momentanea vita. È come guardare un campo di battaglia, come osservare il tetto di una casa ormai arsa, come prendere consapevolezza di una fine non voluta. Sventola bandiera bianca al fine e prega per un domani migliore. Si riflette sulle iridi corvine di Sam quella scia pallida, traslucida, che canta dei fantasmi di un passato anche troppo breve. Si percepiscono unicamente i profili delle persone che giacciono in quella stanza, in comune, ci sono circa sette letti, uno è vuoto, quattro sono occupati da anime dormienti e due, uno vicino all’altro, da due ragazzetti seduti sul bordo, uno di fronte all’altro, il cui bisbigliare è stato momentaneamente interrotto da quel soffio di troppo, forse una bassa risata, forse stupore. Bryan, il ragazzetto biondo e ben poco piazzato, ha un sorriso dipinto sulle labbra, il sorriso furbo di qualcuno che ha intenzione di combinarne una delle sue, come al solito. Sam, seduto lì di fronte, lo osserva con aria seria, quasi corrucciata, un cipiglio naturale il suo, mentre par attendere il resto. Un “resto” che non tarda troppo ad arrivare, la voce di Bryan, in quel suo sussurrare, torna a riempire l’aere dei suoi pensieri.

 

«Allora? Ci stai?» chiede, entusiasta, quella voce maschile, seppur non lo si possa identificare con nulla più di un ragazzo. Stringe le labbra tra di loro Sam, il busto coperto unicamente dalla fasciatura di sempre, un paio di pantaloni chiari e dalla stoffa morbida ne fasciano le gambe, i capelli scuri sono scompigliati e gli occhi fissano quelle poche ombre sul volto dell’altro, disegnate dal pallore della luce lunare, che penetra dalle finestre. Solo dopo un po’ i sussurri di Sam si mescolano all’entusiasmo dell’altro.

 

«Vincent ha detto che non possiamo uscire, dice che dopo la morte della figlia di una vampira ci cercano e potrebbero attaccare da un momento all’altro.» mai un filo di voce macchia e sporca quei bassi sussurri, quasi perfetti nel loro essere appena udibili ad un umano orecchio. Non così basso lo sbuffare dal sapore spazientito di Bryan, che finisce con l’alzarsi da quel letto, scivolando a terra, i piedi che posano sulla pietra fredda e levigata che fa da pavimento a quel luogo. La voce dell’altro che non si limita più a sussurrare, anzi, qualcuno dei ragazzini dormienti si gira anche.

 

«Mai visto nessuno tanto noioso in vita mia, giuro.» volta le spalle a Sam, alzando il cuscino posto sul proprio letto, affonda là sotto la mano e ne tira fuori una maglia pesante, possibile che fosse per la notte. Un paio di pantaloni scuri coprono le gambe esili del ragazzo e ben presto infila i piedi nudi in un paio di scarpe pesanti. «Se tu non vieni, vado da me, non mi va di certo di stare qui dentro in eterno e poi non possono dirci che fare e quando farlo, è già tanto se sto qui a fare i loro comodi» le ultime parole sono dette a tono basso, titubante, un po’ come se temesse che qualcuno potesse davvero udirlo e lui, nonostante possa apparire momentaneamente fermo nelle sue idee, non è poi così coraggioso come lascia ad intendere e porta sin troppo rispetto a Vincent e Kurt per pronunciare le medesime parole di fronte a loro.

 

Sam non si muove inizialmente, Bryan finisce con l’avanzare sino alla porta in legno, un pelo rigonfio e storto dall’umidità, sebbene la cosa non sia eccessiva, dato che la porta di per sé ancora si chiude senza incepparsi da nessuna parte. I passi ovattati delle scarpe del ragazzo dai capelli biondi si odono facilmente, mescolandosi solo di tanto in tanto ai respiri pesanti degli altri presenti, che oramai hanno chiuso le palpebre, cedendo al dolce invito di Morfeo e della sua mano dolce, che piano ha scivolato sui loro occhi e sulle loro coscienze. Si ferma sull’uscio, si volta per un momento in direzione di Sam e l’osserva, ma le labbra rimangono mute, non c’è invito in lui, se non nello sguardo, forse più una speranza che il ragazzo cambi in qualche modo idea e lo segua, non saprebbe dirlo con precisione nemmeno lui. Qualche attimo ed alla fine, forse rassegnato, socchiude di poco le palpebre, compiendo quei pochi passi che lo portano fuori dalla stanza, chiudendo definitivamente quella porta e dividendolo dalla presenza degli altri.

 

L’altro non si è mosso, le dita sottili e pallide hanno stretto per un momento le lenzuola sopra le quali giace, seduto, con le gambe che penzolano in avanti. Gli occhi neri si fissano per un attimo sullo stoppino scuro della candela, non c’è più quella sottile scia di fumo, non c’è più niente. Immobile nella sua indecisione, scivola verso il basso, toccando terra con i piedi solo dopo, fredda la pietra, come sempre, ma non se ne preoccupa più oramai, pare averci fatto l’abitudine in non troppo tempo. Si piega sulle ginocchia, alzando il lenzuolo che sfiora il pavimento e lasciandolo piegato su se stesso, appeso al bordo del letto. Le mani si spingono sotto il letto medesimo, sino ad agganciare le maniglie di quella che sembra essere una cosa molto simile ad una valigia. Il legno di quel piccolo baule oblungo striscia contro la pietra, producendo un rumore ben poco piacevole, vi sono vestiti ripiegati, biancheria pulita, giacche e tutto quello che può servire per non andare in giro nudi ed infreddoliti per il monastero, deve avergli procurato tutto Vincent. Mira alle giacche, prendendo quella più pesante che riesce a scorgere. Ribalta qualche altro capo piegato con cura, rovinando quell’incastro altrimenti perfetto. Posa la giacca sul letto e torna a spingere all’indietro la cassa, questo era, tornando a farla scomparire al di sotto del letto. Si drizza di seguito, afferrando il lembo del lenzuolo e lasciando ricadere anche quello verso il basso. Tira su anche la giacca, infilandola e chiudendone i bottoni sul davanti; è di un blu scuro, con dei bottoni in legno tenuti fermi da delle asole esterne. Un po’ grande per lui, gli arriva sin sotto il sedere e le maniche eccedono in lunghezza di cinque centimetri, più o meno, coprendo gran parte delle mani e delle dita.

 

Si avvicina al muro, infilando a sua volta i piedi nudi in un paio di scarpe e terminando con l’avviarsi, seppur non troppo convinto, verso la porta di quella stanza, che tanto sembra una sorta di dormitorio per giovani cacciatori, o simil cosa. Con la medesima poca convinzione posa la mano sulla maniglia della porta invecchiata, portandola indietro ed uscendo di lì: si cura di richiudere il tutto con una cura quasi maniacale, cercando di evitare di lasciare traccia alcuna di quella piccola effrazione alle regole, ben sicuro che Vincent non l’avrebbe di certo presa bene.

 

Il corridoio vuoto, al termine del quale scendono verso il basso le scale che portano all’uscita sul lato est della magione, quella più discreta. Sam di per sé è abbastanza sicuro che Bryan sia sceso da quella parte, voleva uscire per andare a vedere cosa succede poco lontano di lì, dicono che sono stati avvistati degli animali particolari, fondamentalmente bonari, ma anche molto schivi. E si sa, dopotutto, che la curiosità dei bambini è la loro più grande peculiarità, sebbene vi sia chi riesce a resistervi e chi, come Bryan, non può fare a meno di cedere a quell’invitante desiderio d’avventura e scoperta, tutto è nuovo, tutto è messo lì apposta per essere riscoperto, non riesce a sopportare l’idea di lasciarlo morire a se stesso, deve esserci qualcuno audace abbastanza da scrutarlo come non farebbe nessun altro. I passi del giovane risuonano a malapena, si muove quanto più silenziosamente possibile, nel tentativo di sbrigarsi abbastanza per non rimanere troppo indietro e perdersi definitivamente Bryan, non va molto lontano senza il senso dell’orientamento dell’altro e la possibilità che ci rimanga bloccato, per il pendio, è elevata.

 

Scende le scale di fretta, lasciando scivolare la mano sulla pietra che costeggia quella scala a chiocciola, arrotolata su se stessa sino ad arrivare alla fine, in un piccolo atrio, un corridoio lungo che dà da una parte sulla sala da pranzo, le cucine e dei piccoli salottini di ritrovo e ristoro; dalla parte opposta vi è ovviamente la porta che dà sull’esterno. E’ ancora socchiusa, la cosa lo fa sorridere, significa che non è troppo in ritardo e che Bryan non ha avuto l’accortezza di lasciare tutto come stava. Deve almeno tenerlo d’occhio, non si perdonerebbe più di tanto se dovesse succedergli qualcosa durante la sua assenza, è più piccolo, ma ha comunque quella coscienza che premerebbe sulla sua umanità con un pressante “non ero lì con lui” se solo qualcosa colpisse in qualche modo Bryan.

 

Si volta, richiude la porta piano, lasciandola aperta per uno spiraglio tanto piccolo e sottile da poter risultare perfettamente invisibile. È fuori adesso, possono colpirlo ora, possono trovarlo, ucciderlo e molto altro ancora. Prende un respiro profondo all’idea e finisce con l’avanzare, piano, nel tentativo di drizzare le orecchie e cogliere un qualsivoglia rumore che possa dargli degli indizi sulla posizione corrente del compagno. L’aria è umida, sembra voglia piovere da un momento all’altro e non è detto che inizi, il tempo, lassù, non è mai niente di che, sempre troppo scuro e pesante, sempre carico d’acqua in qualche modo. Le foglie degli alberi ed i filamenti d’erba quasi riflettono quella stessa umidità, dimostrando definitivamente quando possa esser elevata la presenza d’acqua.

 

Un fruscio poco avanti a lui, il lieve spostamento di alcune foglie, che gli lasciano intendere che, probabilmente, Bryan non è molto lontano o che, male che vada, avrà occasione di scrutare uno di quegli animali di cui tanto si parla. Il terreno, proseguendo, diviene a mano a mano più scosceso, una piccola discesa inizialmente, che acquista sempre più pendenza, costringendo Sam ad aggrapparsi agli alberi per non pestare qualche sasso e finire a ruzzolare per tutto il fianco della montagna. Il respiro solo poco irregolare, non è affatto abituato a sforzare i muscoli, in nessun caso, e quel tipo di terreno lo mette non poco in difficoltà. Un piede dopo l’altro, una sottile risata, la riconosce, è sicuramente di Bryan, pare rasserenato dalla cosa, dischiude le labbra, un alito un pelo più forte, mai macchiato di quella voce che quasi pare mancargli o che comunque non sembra amare far sentire agli altri, come fosse una cosa strettamente personale, sua e di nessun altro, ed in quanto tale sua deve rimanere.

 

«Bryan.» lo richiama, quella sottile risata s’interrompe. Sam si ferma, rimanendo con una mano poggiata contro la corteggia arzigogolata dell’albero che ora come ora gli funge da appoggio ed appiglio, quella cosa che lo salva e che gli fa abbassare la guardia dal punto di vista dell’equilibrio, donando lui anche la possibilità di potersi guardare meglio intorno, nel distinguere le varie ombre che la luce della pallida luna va formando, disegnando così i profili degli oggetti e di quel paesaggio fermo. Per lunghi istanti non arriva nessuna risposta dall’altro, minuti che passano e che lasciano crescere inevitabile l’ansia nel giovane ed inesperto animo del bambino dai capelli scuri. Il battito cardiaco aumenta inesorabilmente, ma è quando sente arrivare un mugolio ben poco rassicurante che quel cuore perde uno, forse due battiti. Le palpebre che nascondono le iridi nere di Sam si spalancano, la sinistra, che non poggia contro l’albero, viene repentinamente portata allo stomaco, come in un forte moto di nausea, si piega di poco in avanti. L’espressione del volto è contratta in qualcosa di ben poco piacevole, ha lo stomaco che si stringe in spasmi continui, uno dietro l’altro. Un gemito di dolore viene sputato fuori da quelle labbra tirate sino all’inverosimile. Piega le ginocchia, incontrando il terreno in breve tempo. Le dita premono con ben poca forza contro addome e corteccia. C’è qualcosa che non va, c’è qualcosa che gli impedisce di muoversi, qualcosa che gli da fastidio sin nel profondo.

 

Non passano molti istanti prima che lo colga alla sprovvista l’urlo lanciato da Bryan, squarcia il silenzio di quel posto, la sua staticità, crolla tutto in poco tempo ed oltre a quel malessere fisico, Sam, riesce a percepire tangibile dentro di sé, salire inesorabilmente un malessere ben diverso, quello che ti fa tendere i muscoli, che ti spinge ad attaccare quando sei spalle al muro e scappare quando hai anche solo una vaga via di fuga: la paura. La paura che Bryan possa aver incontrato un vampiro, la paura che possa averci lasciato le penne, la paura che possa arrivare anche da lui, ucciderlo, la paura di quello che succederà con Vince dopo, ogni singola paura emerge, sovrastando quella più piccola, in un effetto domino considerevole. La stessa paura che, tuttavia, gli permette ora come ora di fare forza sulle gambe e ritirarsi in piedi, di ignorare, con quella forte scarica adrenalinica, di poter ignorare il dolore ed il fastidio allo stomaco, con tutta l’intenzione di raggiungere Bryan, di cercare di fare qualcosa, fosse anche solo distrarre qualunque cosa gli stia facendo male.

 

I passi vengono messi uno avanti all’altro con quanta più velocità possibile, si intrecciano di tanto in tanto, rischiando di farlo finire a terra, il pendio rende difficile lo spostamento, ma sente quel mugolare sempre più vicino e non sembra avere particolare cura di quel dolore addominale, che aumenta per un attimo, che diviene più acuto, un segnale dall’arme, forse, non saprebbe dirlo, un malessere che non aveva notato prima, non saprebbe dirlo. Aumenta, acuendosi, sin quando qualcosa non lo rimpiazza di colpo; sin quando qualcosa non gli fa strabuzzare gli occhi e dischiudere le labbra. Un gemito strozzato gli muore in gola, laddove è nato. Il petto si inarca in avanti, inesorabilmente, per il forte colpo ricevuto in mezzo alle spalle, all’altezza della bocca dello stomaco. Annaspa per più di un solo momento. Le ginocchia tornano a piegarsi, ma non impatta su di loro stavolta. La pendenza del fianco della montagna ha la meglio e Sam finisce con il cadere di lato, atterrando su un fianco, in un tonfo per niente rassicurante e relativo scivolare. La terra rovina la stoffa della giacca che ha indossato, lacera i pantaloni bianchi, graffia e lacera la pelle del volo, qualche sasso finisce con il lenire la pelle strappandola.

 

Senza respiro non ha nemmeno tempo e forze per urlare, quel forte istinto di sopravvivenza pare piuttosto accendere, negli occhi neri del ragazzino, una luce insolita, pare dar vita ad una sfumatura prima d’ora sopita, uno scalpitare di una natura auto conservatrice, sino all’ossessione, la prima cosa da fare quando si è in pericolo di vita è salvare la propria, non quella degli altri. Secondo quell’istintivo criterio dalla mente di Sam scompare definitivamente la figura di Bryan, il cuore pompa sangue più velocemente, la mascella si serra e le dita cercano di afferrare qualsiasi cosa trovino durante quella discesa pericolosa. Per qualche metro l’unica cosa che riescono ad acciuffare è terra, ma non salda, anzi, friabile, che viene via e non fornisce un valido appiglio al corpo del ragazzino. Solo quando incontra un albero riesce ad appuntarsi ad una delle radici, terminando solo a quel punto la sua discesa.

 

La pelle è rovinata, ferita, sia sulle mani che sulla parte destra del volto, meno sulle gambe e le ginocchia, ma i pantaloni sono lordi, stracciati, in special modo all’altezza delle ginocchia e sul lato destro. Il sangue cola sul viso disegnando improbabili rivoli, che scendono solcando la muta pelle con crudeltà, la macchiano di un colore peccatore, togliendo da quel viso, per una volta, il carattere innocente che ha sempre avuto prima di quel giorno. Tutto tace adesso, non vi sono più spostamenti, non un solo fruscio, non un verso od un mugolio da parte di Bryan, dando solo due possibilità alla cosa: si è allontanato troppo, lo hanno ucciso. Serra le labbra, dando inconsapevolmente per buona la seconda risposta.

 

Fa forza sulle braccia, tirando verso l’alto ed issandosi, sino a puntare i piedi dapprima contro la corteccia dell’albero, poco dopo sulla radice alla quale s’era aggrappato con la mano. Si issa, sino a potersi tenere puntato con i piedi e starsene sdraiato a terra, per poter evitare di sforzare ulteriormente un corpo già tremendamente indolenzito di suo. Si issa, sino a porsi supino, le gambe che circondano il tronco di quell’albero tutto sommato piccolo, abbastanza da non risultare scomodo. Contrae l’espressione per un momento. Il dolore lo pervade. Non ha un fisico robusto, piuttosto è l’esatto contrario, per questo sente i muscoli delle braccia tirare e la pelle bruciare, laddove è stata ferita.

 

Piega il capo di lato, non sente più nessun rumore. L’unica cosa positiva di quanto successo è che il dolore allo stomaco è sparito, piacevolmente sparito, per la precisione. Socchiude le palpebre, Sam, più preoccupato, adesso, per quello che avrebbe detto Vincent e, soprattutto, intenzionato a tornare alla magione unicamente nel giorno successivo, nella speranza di poter recuperare, durante la notte, quel briciolo di forze in più che gli avrebbero permesso di tornare sino in cima. Socchiude le palpebre. Allunga la destra lungo la terra, sino a lambire lo stelo di un piccolo fiore, un semplice giglio, eppure quella cosa lo attira in qualche modo, ne cattura la totale attenzione. Esso gli ricorda di uno identico, era uscito addirittura da casa per poterlo andare a cercare e quello che ne aveva ricavato era solo una prigione che si spacciava per casa. Nient’altro.

 

Le palpebre cadono definitivamente, mentre il vento freddo impatta contro la pelle ferita, sente male, sì, ma non osa nemmeno per un momento aprir bocca per lamentarsi, no, pare piuttosto imporsi di starsene in silenzio e rannicchiato, in attesa di prender sonno, cosa che sarebbe avvenuta solo pochi minuti dopo, sovrastato, il fisico, anche dal bisogno di annullare per qualche istante almeno tutto il dolore accumulato ed il freddo che ora e solo ora si riversa sulla sua carne, messa a nudo dalla discesa poco piacevole, affrontata solo poco prima. Una lacrima degna d’un bambino e non d’un uomo corre lungo la guancia a far bruciare ancor di più quelle ferite riportate. La paura che a poco a poco torna ad assalirlo, scomparsa solo in un momento e tornata ora a tormentarne i sonni.

  
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