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Autore: Nocturnia    09/10/2012    2 recensioni
Ci sono storie che affondano le loro radici nelle viscere dell'umanità.
Ci sono alcune storie - quelle brutte, quelle dal sapore tragico della profezia - che dipingono il proprio svolgimento con i colori della guerra e del sangue.[...]L'ho vissuta e infine compresa, abbracciandola. E nel suo abbraccio ho trovato una risposta.
Una fine e un inizio.
Genere: Fantasy, Guerra, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Nel segno del sangue'
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loooooooooooool
Disclaimer: Questa storia è stata scritta per puro diletto personale, pertanto non ha alcun fine lucrativo. L’intreccio qui descritto e i personaggi rappresentati sono copyright dell’autrice (Nocturnia) e non ne è ammessa la citazione altrove, a meno che non sia autorizzata dalla stessa tramite permesso scritto.



Signa Infero


A guardarla, quella giornata, pareva uguale a mille altre.
Pareva una giornata in cui morire era impossibile, quasi sacrilego.
Si ha l'ottusa convinzione che, nelle belle giornate, le tenebre corrano a nascondersi in qualche buco dimenticato, rabbrividendo alla sola vista dell'astro rosseggiante.
Nessuno pensa al loro odio, alla loro invidia per quella luce che, di alba in alba, omaggiava le terre di Matarisvan.
Nessuno immagina quanto esse siano determinate, lucide e implacabili nella ricerca della creazione di un mondo in cui l'unico colore sia il nero della notte.
Nessuno sa quanta bile abbiano masticato per anni e tengano nelle fauci, pronte a vomitartela addosso, corrodendoti.
Fu proprio in una di queste giornate che conobbi la mia prima morte.

Avevo appena sedici anni e due gambe lunghe da cervo quando le truppe demoniache entrarono a forza nel mio villaggio, un piccolo insediamento rurale a ovest di Bramwell.
Non avevo mai visto un demone in vita mia e quelli che si stagliarono all'orizzonte furono abbastanza spaventosi da farmi orinare addosso.
Seduta sul bordo del pozzo, fui felice quando una donna mi rovesciò sulla gonna il contenuto del suo cestello, mascherando lo stigma di una paura che non trovava confini.
Non è possibile. ero solo in grado di pensare Non posso morire. Non è possibile. Domani devo andare al fiume e poi c'è la raccolta del dragoncello, non posso. Io non posso finire qua.
Il mio cervello si era spento, per far posto al nulla più assoluto, quasi fossi diventata una di quelle bambole di pezza a cui puoi strappare gambe e braccia: tanto non sentono.
Feci qualche passo all'indietro, il primo dardo che veniva scagliato e colpiva un uomo poco lontano.
Mia madre fece appena in tempo a spingermi via quando la seconda freccia infuocata si abbatté sui pagliericci dei tetti, le vecchie anziane sgranare preghiere a un cielo purpureo.
In pochi istanti, Silverkin divenne un rogo annichilente, nell'etere fiotti di sangue densissimo e nerastro, mentre il sole continuava quella sua patetica recita.
Sorrideva, quella stella, persino mentre tutto ciò che conoscevo veniva schiacciato, abbattuto.

"Vai." aveva sibilato Tasasi, premendomi una mano sul costato "Vai e non ti voltare mai indietro."
Era durissima e feroce la voce di mia madre, nell'inflessione di quelle parole tutto il coraggio residuo di una città morta.
Avevo tentennato, indecisa, ma quando i denti di un tagaririm si erano fatti strada nelle sue spalle, squarciandola, la paura mi aveva schiacciato.
Uno spruzzo di plasma e pelle mi invase la bocca, sul bel viso di mia madre farsi spazio una crepa grottesca.
Non guardarmi, non guardarmi. supplicavo, mentre il demone rialzava il capo per incontrare il mio sguardo.
Per alcuni, allucinati, secondi il tagaririm aveva piantato i suoi occhi, vuoti e privi di pupilla, verso di me.
Alto poco più di otto piedi, dondolava e spazzava il suolo con le braccia sproporzionate.
Le dita, munite di rostri, scricchiolavano contro la roccia, quasi il gemito di un animale morente.
Con uno scatto repentino si era poi spostato verso sinistra, attirato dal pianto stridulo di un bambino.
Tra ossa biancastre e briciole di stoffa, il petto del bambino si era aperto con un crac' sordo, quasi una rosa oscena e sanguinolenta.
Un morso. Due morsi. Masticare. Deglutire.
Al terzo morso stavo già correndo.

Dicono che tutto rallenti, quando la scarica di adrenalina ti invade e quando la Morte ti si palesa, teschio ghignante e denti marci di puttana.
Dicono che la tua vita ti scorra davanti, frammenti spezzati di quello che eri e che avresti potuto essere.
Stronzate.
Tutto accelera, diventando una macchia indistinta di colori e odori, in cui l'unico rumore che ti è permesso sentire è il tuo stesso battito del cuore nelle orecchie.
Per ricordarti che sei vivo.
Che DEVI vivere.
Tutto il resto cessa di esistere: l'amore, l'affetto, la ragione, il dolore, la paura.
Smetti semplicemente d'essere.
Diventi una palla di carne e ossa che scappa, i muscoli rispondere all'antico precetto triviale della sopravvivenza.
Correre per vivere, ancora.
Correre, fino a sfondarti i polmoni e a ridurti i piedi a un'unica piaga sanguinolenta.
Correre, perché la fuga è il primo comandamento dei vigliacchi, che però volgono sempre il loro profilo migliore alla storia.
E correre fu proprio quello che feci.

Era un tramonto rosso sangue quello che videro le terre di Silverkin, quel giorno.
Era la morte di un sole complice e colpevole quella che coprì il tanfo di un massacro annunciato.
Una donna avanzava tra quei cadaveri con l'arroganza di chi, la morte, la porta nell'animo, non incisa sulla pelle.
Dietro il cappuccio scuro un paio d'occhi indagatori e guardinghi lanciavano occhiate in tralice agli angoli delle case bruciate, alle stalle pericolanti, al simbolo di sangue che, come una cicatrice, svettava sul terreno brullo.
La figura inclinò il capo, annusando l'aria: nessun demone nei dintorni.
Sorrise sardonica al ricordo del primo insegnamento che la vita le aveva inoculato a suon di pugni:
I predatori cacciano per fame, quando sono sazi se ne vanno. I demoni cacciano per divertimento. E quello non si esaurisce mai.
Ma quando una vittima smette di urlare e contorcersi, di supplicare, tutto il gaudio se ne va.
Quando, oltre al sangue e alla dignità, non fluisce più niente da quei fantocci di carne che essi chiamano 'umani', allora, per i demoni, non c'è più niente di cui poter ridere.
Niente per cui valga la pena di sprecare anche solo un'oncia del loro tempo immortale.
Lentamente, si avvicinò ai resti di ciò che una volta era stato un bambino, estraendo dalle viscere, ormai contorte e penzolanti, un rostro bianchissimo e grande come il suo palmo.
Lo squadrò per alcuni istanti, uno snudar feroce di denti l'unica mimica si leggesse su quel volto adombrato.
Si rialzò fluida, spolverandosi i pantaloni e sistemandosi meglio il mantello sulla schiena.
La prima luna stava già sorgendo quando un particolare, finora non notato, attirò la sua attenzione.
Impronte.
A prima vista potevano essere di un adolescente maschio, ma più probabilmente erano di una giovane ragazza.
Perlustrò anche il terreno circostante, ma non ne notò altre, né di demone né di umano.
Come un triste segnale, le dita mozzate di una donna indicavano il sottobosco, quasi a incitarla.
Volse le pupille a quel fitto complesso di rami e alberi, alcuni bruciati e ormai anneriti, altri ancora rigogliosi, svettanti verso un dio che osavano sfidare.
Sospirò, scrollandosi nelle spalle e cominciando a correre, alla sua destra le orme dell'ennesima orfana di Matarisvan.
Addakra Oronar volse un ultimo sguardo alla cittadina, tra le lunghe ciglia né stilla né sale.
Perché piangere è il lusso di chi possiede ancora un cuore, un'anima.
E la sua se n'era andata tanto tempo prima, tra le nevi di Indantium.

Quella sera, la dama bianca accolse Silverkin tra le sue braccia pietose, coprendo con un velo argenteo una speranza che aveva cessato di esistere solo poche ore prima.
Tra i corpi mutilati, quello di Tasasi di Albir sembrava una bambola grottesca, occhi opachi e arti divelti.
Addakra a quel tempo non poteva saperlo, ma era sua la mano tesa nell'ultimo spasimo di vita.
Erano sue le dita mozzate che accennavano alla boscaglia.
Era l'ultimo regalo di una madre alla figlia prediletta.
Era l'ultima azione di Tasasi di Albir.

E avrebbe cambiato un destino.
   
 
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