«Si informano i passeggeri del volo
Alitalia G3279 per Miami che ci sono dei ritardi a causa del maltempo. A breve
sarà comunicato il nuovo orario di partenza. Grazie per la pazienza.»
No, per favore.
Mi lascio cadere su una
sedia con un sospiro esasperato, imprecando a voce non tanto bassa. Non è
possibile, davvero. Avrò una qualche fattura addosso che riguarda i voli aerei.
«È il suo?»
Una voce interrompe i
miei borbottii e dopo qualche secondo mi volto per capire se quella voce ce
l’ha con me. Pare di sì. Una donna sulla cinquantina con un paio di occhiali da
vista poggiati sulla punta del naso è seduta due posti più in là e sposta lo
sguardo da me al Marie Claire che sta sfogliando.
«Prego?»
«È il suo volo?» Ripete
lei, con gentilezza.
«Purtroppo sì.» Annuisco
con uno sbuffo. «Anche il suo?» Mi costringo a domandare, anche se non ho
proprio voglia di fare conversazione. Già d’abitudine mi infastidiscono le
chiacchierate di circostanza, figuriamoci in un momento come questo.
«No, il mio è stato già
rimandato a domani.» Replica lei, portandosi un dito alla bocca per inumidirlo
leggermente. Gira la pagina del giornale e mi guarda, forse per cogliere la mia
espressione a metà tra lo sconcertato e l’incredulo. Ora ricordo di aver
sentito circa dieci minuti fa un annuncio riguardante un volo per l’Australia
che era stato rimandato per un malore del pilota. Ma non dovrebbero esserci i
piloti di riserva? Come può una compagnia così importante perdersi per la
cagarella di un pilota? Se proprio non avete i soldi per pagarne un altro
mettetegli un tappo e fatelo partire, magari nella stratosfera la pressione gli
crea l’effetto sottovuoto. O, male che vada, come disse un ingegnere, saranno “schizzi
di merda da tutte le parti”! Che sarà mai?
«Come mai viaggia per
Miami? Lavoro? Piacere?» La signora insiste. Che faccio, invento una scusa e
vado via o le faccio (mal)educatamente capire che forse dovrebbe farsi un pelo
gli affaracci suoi?
Perché sei così poco disponibile ai rapporti umani, Elettra?
«Che ci fa lei ancora
qui se il suo volo è stato rimandato a domani?» Okay, forse mi è uscita un
pochino male. Però non si può dire che non ci abbia provato. La signora sgrana
appena gli occhi e schiude la boccuccia contratta, sorpresa dal mio tono poco
socievole. Poi torna a leggere il giornale e borbotta qualcosa su suo marito
che è andato a prendere la macchina. Fine della conversazione con la signora. Pace.
«Mi scusi?» Neanche due
secondi dopo, una ragazza mi piomba alle spalle tutta trafelata, con due
borsoni enormi a tracolla e documenti vari tra le mani. «Scusa, sai per caso se
il volo per Miami è partito già?!» Ma cos’ho scritto in fronte, Infopoint? Non
sono neanche lontanamente vestita come le hostess di terra, che qualcuno
potrebbe confondermi. Faccio schioccare la lingua per mostrare almeno un due
per cento del fastidio che mi sta dando questa ragazza col suo respiro
affannato e gli occhi spiritati e poi scuoto la testa.
«No, non è partito. Devo
prendere anch’io quel volo ma c’è stato un ritardo, non si sa di quanto.»
«Oh, cazzo, cazzo, no!»
Neanche il tempo di pregare perché non si segga vicino a me – sembra un tipo
molto loquace – che la vedo sparire alla volta di un vero punto informazioni,
poco distante da dove sono ora. Vedo che discute animatamente con la signorina
in blu, che cerca invano di calmarla. Per un attimo mi fa tenerezza. Chissà
cos’avrà da fare di così urgente a Miami. Forse è una ballerina, il che
spiegherebbe i borsoni. Forse ha un provino in una delle migliori compagnie di
danza della Florida e se lo supera diventerà la nuova Svetlana
Zakharova.
Mh.
Ma, onestamente… chissenefrega.
***
Due ore e molti caffè
dopo, sono ancora qui.
Tra parentesi tutte le
caffetterie degli aeroporti dovrebbero essere denunciate per furto. Un caffè
espresso con uno sputo di schiuma TRE EURO E VENTI! Ma non te ne vai da
Starbucks e ti prendi un frappuccino con doppia panna? Tra volo e bevanda ti
viene a costare meno, quasi. Ho osato solo guardare una bottiglia d’acqua da
mezzo litro e per poco non versavo lo sputo di schiuma a terra. Infimi succhiasangue.
Torno a guardare il
tabellone dei voli – che non sapevo esistesse anche in Italia – e il mio sguardo
cade sempre sulla scritta “DELAY” che compare accanto al numero del mio volo da
troppo tempo. Quasi quasi preparo una bella lettera di reclamo, magari propongo
anche degli ottimi antidiarroici per la cagarella dei piloti, tanto non ho
niente da fare. Tra l’altro questo trolley mi sta iniziando a stancare. Comodo
un emerito ca…volo
– mi sono ripromessa di non dire più parolacce, vero Ele? Ecco, da brava – devo
denunciare anche la Samsonite. Il commesso mi aveva detto che può fare più
chilometri di una Ferrari senza scalfirsi di mezzo millimetro, e invece queste
ruote della mi…seria – accidenti,
però una sana parolaccia a volte rende proprio bene il concetto, no? – già
stanno iniziando ad incepparsi. Questo viaggio si sta rivelando proprio
fortunato, insomma. Si sapeva. Può mai andarmi bene qualcosa?
#I’m at a payphone
trying to call home all of my change I spent on you#
Eh, Adam, che figo che
sei. Sospiro – purtroppo è solo il mio cellulare che squilla – e faccio
scorrere il dito sul display del mio Galaxy per
rispondere.
«Eva?»
«Ele! Tutto a posto? Ma
non sei partita?»
«Evidentemente no, se ti
sto rispondendo.»
Per niente scalfita
dalla mia risposta sarcastica – dopotutto ci è abituata – mia sorella riprende
a parlare immediatamente: «Era una domanda retorica, in effetti. Ho letto su
internet che ci sono ritardi ovunque, pare che ci sia maltempo…»
«A meno che non sia
Katrina che si vendica con un altro uragano, non vedo perché non farci partire
lo stesso. Che sarà mai un po’ di pioggia? Com’è possibile che ci sia il
nuvolone di Fantozzi su tutta l’America?!»
«Parli proprio tu che ti
fai sotto ogni volta che prendi l’aereo. Per favore. Non fare la sbruffona con
chi ti conosce come i propri calzini, toppe e buchi inclusi. Il tuo calzino ha
un buco sull’alluce enorme come quello della Befana, ed è la paura di volare.
Quindi ringrazia. E non sbuffare. Ho fatto la rima e sono più bella di prima.»
«Ma…» Eva è l’unica che
riesce a zittirmi. Davvero. Ed è anche l’unica persona che sopporto sulla
faccia della terra, il che è tutto dire.
«E comunque non hai da
prendere nessuna pillola a Miami, ti ricordo.»
«Ma tu non sei a lavoro?
Non hai qualche vita da salvare? Qualche emorroide da impomatare?» Se c’è una
cosa per la quale potrei prenderla in giro tutta la vita è il suo lavoro di
infermiera, con tutti gli annessi e connessi scomodi e schifosi del caso.
«La tua, se continui a
bere caffè come sono sicura starai facendo già da un po’ troppo.»
«Guarda, al massimo mi
viene una diarrea.» E siamo sempre lì, agli antidiarroici per il pilota.
«E non- uo- dare- gno-»
La voce di Eva si sente a tratti. Mi sposto per trovare un punto migliore per
il segnale, e mi porto due dita all’orecchio per cercare di ascoltare la
risposta di mia sorella; sto per chiederle di ripetere quando vengo
praticamente alzata in aria da qualcuno che correva con i paraocchi.
«STRONZO, guarda dove
metti i piedi!» Scusate, ma quando ci vuole ci vuole. Mi massaggio il sedere
che è stato il primo ad atterrare sul pavimento e recupero il cellulare che
nella caduta mi è scivolato di mano. Se non funziona glielo faccio mangiare,
digerire, espellere e comprare nuovo! No, okay, funziona. La linea però è
caduta definitivamente.
«Oddio, scusami! Scusa,
sono scivolato!» Un giovane uomo con occhi azzurri e capelli scuri mi si para
davanti, tendendomi le mani per aiutarmi a rimettermi in piedi. Lo ignoro e mi
alzo da sola.
«Sei scivolato? A quanto
andavi, Alonso?» Questi pavimenti sono talmente ruvidi che nemmeno con venti
passate di cera diventerebbero scivolosi.
Lui mi sorride
impacciato e si scusa di nuovo. «Ti sei fatta male?»
«No, sfracellarmi sul
pavimento è il mio passatempo preferito, ormai ci ho fatto il callo.» Gli
rivolgo un sorriso tirato e mi chino per raccogliere il trolley. La botta l’ho
presa eccome, emerito imbecille. Mi uscirà anche un bel livido.
«Permettimi di offrirti
un caffè, per farmi perdonare.» Avevo ripreso a camminare col cellulare
all’orecchio per richiamare Eva, ma la sua mano sulla spalla mi costringe a
fermarmi. Noto il velo di barba, lo sguardo sicuro di sé, le labbra carnose.
«Non bevo caffè, mi
dispiace.» Mi volto prima che il mio naso arrivi a Miami, e mi dirigo verso un
punto informazioni per sapere quand’è che si decideranno a farci partire.
«Allora un tè, una
camomilla, una coca-cola?» Oddio, ma quanto ti ci vuole per riconoscere i segnali
di un chiaro e semplice rifiuto? Il ragazzo mi riappare davanti, e stavolta non
nascondo uno sbuffo scocciato.
«Sto per azzopparti col
mio bagaglio e lo farò sembrare un incidente. Decidi tu se vuoi offrirmi
qualche altra cosa.» Gli sorrido, serafica. Lui aggrotta la fronte e scuote la
testa, probabilmente pensando che io sia appena uscita dalla Carica dei 101 – e
non nel ruolo di Anita – e poi, finalmente, alza i tacchi e scompare.
Tu hai qualche serio problema.
No, è lui che ha un
problema. Io sono perfettamente normale.
Mi avvicino a una delle
hostess di terra dietro al banco e prendo un bel respiro. Conta fino a dieci e
non dire la prima cosa che ti passa per la testa.
Uno, due, tre…
«Mi dica.» Dice la
ragazza, con un sorriso cordiale.
Quattro, cinque, sei…
«Qualche problema?» QUALCHE PROBLEMA? Ho metà sangue e metà
caffeina in corpo, tu non vuoi
davvero chiedermi se c’è qualche problema.
Sette, otto, nove…
«Secondo lei faccio
prima a prendere il brevetto come pilota e offrirmi per il volo diretto a
Miami, o riusciremo a partire entro la prossima fumata bianca?» Okay, poteva
andare peggio.
La ragazza impallidisce
e digita veloce qualcosa sul computer.
«Le faccio subito sapere
qualcosa…» Mentre controlla, mi lancia occhiate impaurite alle quali rispondo
con la massima indifferenza. Poi si morde il labbro e si schiarisce la gola.
«Il server è stato appena aggiornato, il suo volo per Miami partirà domattina
alle nove.» In quel preciso istante, la voce metallica e gracchiante annuncia
dagli altoparlanti la stessa cosa. «Alitalia mette a disposizione una camera
d’albergo per i passeggeri e si scusa per il disagio.» Prosegue la giovane
donna, leggendo la frase così com’è scritta sul suo computer. Poi mi porge un
foglio fresco di stampa sul quale è riportato il nome dell’hotel e la
prenotazione a nome mio. «Mi dispiace.» Mi dice, con un sorriso di
comprensione.
«Certo, posso solo
immaginare quanto.» Rispondo ironica, e vado via.
***
Sospiro, provata, e mi
butto a peso morto sul letto, affondando la testa tra i cuscini.
Mmh, sono morbidi.
Devo farmi una doccia.
Sì, solo cinque minuti…
Mi alzo, controvoglia, e
mi avvio ciabattando verso il bagno. Mi sfilo i vestiti con una pseudo-velocità
dettata più che altro dalla frustrazione di essermi alzata da quel comodissimo
letto e apro l’acqua. Ma l’acqua non scende.
Siamo ancora sul letto, baby.
Ohhhh. Mi capita sempre.
Penso di aver fatto una cosa e invece la sto solo sognando a occhi… beh,
chiusi.
Okay, ora mi alzo. Il
mio alter ego interiore – che in questo momento ha assunto le sembianze di un
bradipo – sbuffa e si strofina gli occhi. Stavolta nel bagno ci entro davvero,
mi svesto alla bene e meglio, lasciando cadere distrattamente sul pavimento quello
che indosso, e rabbrividisco appena per il contatto con la ceramica gelida
della doccia sotto i piedi. L’acqua fresca mi risveglia appena dal torpore, e
porta via un po’ di sonno. Sbadiglio. Quando esco, avvolta da un asciugamano di
spugna rosa pallido, faccio una smorfia. Non c’è un tappeto e non ho messo nulla
per simularne uno, per cui si è formata una piccola pozza d’acqua ai miei
piedi. Pazienza, qualcosa dovranno pur fare quelli delle pulizie, no?
Canticchio una canzone
dei Nickelback mentre, nuda, frugo nella valigia alla
ricerca del pigiama. Vorrei stare il più comoda possibile, penso, mentre tasto
il morbidissimo pigiama di Intimissimi
di cotone lilla e bianco. Purtroppo però in questa camera fa un caldo infernale
e non mi va di accendere l’aria condizionata, che sicuramente si paga a parte –
che tirchi, quelli dell’Alitalia! – quindi opto per quello marcato Victoria’s Secret, un regalo di laurea, di satin
nero. Un po’ meno comodo dell’altro ma sicuramente freschissimo, dato che
praticamente copre soltanto lo stretto necessario e poco altro. Lego i capelli
in una treccia veloce e finalmente accontento la me-bradipo che anela il
contatto con quei cuscini dal primo momento in cui li ha visti.
Ahhh… relax.
Oh, no, devo lavarmi i
denti. E ho anche lasciato il cellulare in bagno. Due ottimi motivi per rialzarmi.
Mi dispiace, Siddina,
mormoro al mio alter ego, che mi manda allegramente – anzi, non tanto – a quel
paese. Recupero il beauty-case dalla valigia e ne tiro fuori spazzolino e
dentifricio. Torno a canticchiare, stavolta sono gli Hoobastank.
Come sono melodrammatica stasera. Davvero nel mio stile, essere masochista e
ascoltare o cantare canzoni tristi quando già l’umore è quello che è. Alitalia
del cacchio. Mpf… Beh, se non altro si può dire che non mi aspettavo di essere
trasferita in albergo per l’attesa, anche se potevano sempre scegliere di
meglio, perché la- oddio. Cos’è stato quel rumore?
Sembrava la porta della
camera. Tendo l’orecchio per capire se mi sono impressionata e sento la porta
che si chiude. Oh, merda. Cerco con lo sguardo un oggetto che almeno dia solo
l’impressione di essere pericoloso e non trovo di meglio della pinzetta per le
ciglia.
Ah certo, se è un ladro o un qualsiasi altro malintenzionato
si fermerà, vedendoti puntargli addosso quella.
Esco titubante dal bagno
nascondendo la pinzetta nel pugno stretto e mi blocco, vedendo un tizio fermo
al centro della stanza con due borsoni, che fissa la mia valigia sul letto con
un’espressione a dir poco confusa.
Okay, definisci meglio la parola ‘tizio’, Elettra. Credo che
chi ti legga ne abbia bisogno.
Il ‘tizio’ è un uomo
sulla trentina, con una giacca di pelle nera e un paio di occhi disarmanti.
Hai dimenticato i capelli biondo scuro che gli incorniciano
il viso squadrato e forte, le spalle larghe e decisamente muscolose, le labbra sottili
increspate in un sorriso, nonché la sua stessa presenza che riempie
la stanza e crea una strana tensione...
Ah, bene. Grazie per
averci fornito maggiori dettagli. Ma sono sicura che questo non risolverà il
problema creatosi, né dissolverà nel nulla la domanda che mi lampeggia in
testa, e cioè CHE DIAMINE CI FA QUESTO TIZIO NELLA MIA STANZA?!
~ Note
Orbene, bella gente. Non credevo di farlo
prima della prossima era glaciale, ma pare proprio che invece io stia per
cliccare su “pubblica una storia”. Se state leggendo, in effetti, l’ho già
fatto.
Non ho molto da dire, se non che di tutte
le storie che ho scritto – incluse quelle che non pubblicherò mai – questa è
quella a cui tengo di più. Non so bene perché, forse perché Elettra mi somiglia
più di quanto io voglia ammettere – dunque mi odierete profondamente, sì – o
forse perché sono innamorata persa del tizio che è appena piombato nella camera
della protagonista, come se lo conoscessi davvero. Intendo proprio il
personaggio, non l’attore che ho scelto per dargli un volto (anche se il caro
Hemsworth non mi è affatto indifferente).
Insomma, ci terrei a sapere il vostro
parere. Grazie in anticipo per aver letto, e spero di pubblicare presto il
secondo capitolo. Dipende tutto da voi. Intanto vi lascio un piccolo spoiler,
un assaggino.
«Stai
dicendo che sono una pazza isterica?» Chiedo, e mi rendo conto di essere passata
al tu anch’io. Pazienza. Ci adattiamo alla maleducazione.
«Pazza
non credo, isterica direi di sì. Esagerata anche, un tantino. Io non avrei
reagito così al posto tuo.»
«E io
non sarei mai entrata nella camera di un altro, non avrei mai poggiato le
valigie a terra, non mi sarei spogliata e non me ne starei mezza nuda
sull’uscio della porta del bagno! DI UN
ALTRO!»
E vi ricordo, per chi mi conosce già, o vi
informo, per chi mi sta leggendo per la prima volta – fuggite, sciocchi! – del
mio gruppo su Facebook, per spoiler, domande, critiche, scleri e tanto altro.
Ora vado a pentirmi di aver pubblicato.
Un abbraccio,
Sara.