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Autore: LawrenceTwosomeTime    17/10/2012    1 recensioni
Due ragazzi. Una città da cui è severamente proibito uscire. Un mostro dorato che contamina il sistema nervoso. La trasgressione produrrà effetti imprevedibili. Quello che un tempo era un bambino dovrà raccogliere il coraggio e imbarcarsi alla volta dell'ignoto per salvare il suo migliore amico. E forse, non solo lui...
Genere: Avventura, Mistero, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“No, no, ancora non ci siamo!”, esclamò Wendel saltellando sul posto.

Lui e Sarm (diminutivo, questo, facente riferimento a un nome del quale il ragazzo si era sempre vergognato) si servivano da anni dello spiazzo vuoto a metà del cavalcavia per i loro allenamenti.
Wendel era alto e robusto, Sarm piccolo e filiforme. Si sarebbe detto che una divinità beffarda li avesse fatti incontrare solo per vedere che effetto facevano insieme.

Le ovocapsule alimentate a mana sfrecciavano avanti e indietro per la strada, mentre grifoncelli litigiosi si azzuffavano nel cielo arancione, e a nessuno, proprio a nessuno (inclusi i loro genitori), fregava che i due amici di una vita combattessero senza protezioni.
Era il loro gioco. Il loro svago. Serviva a distrarli dalla monotonia imperante di quella gigantesca città senza nome, sempre uguale a sé stessa, eternamente gravata da una proibizione che risaliva all’inizio dei tempi.

Sarm, incollerito e con il sudore che gli colava negli occhi, piazzò una ginocchiata volante che colpì in pieno la cassa toracica di Wendel. La boxe thailandese era il suo stile di riferimento.
Inanellò in sequenza una gomitata alla sommità del cranio, che però l’amico prevenne afferrandogli la faccia e scagliandolo gambe all’aria. Sarm ripartì all’attacco, schivò per un soffio un calcio girato (Wendel era un kickboxer provetto), parò un uno-due al volto, scattò, gli afferrò il collo tra le gambe in una morsa stritolatrice e provò ad atterrarlo, ma Wendel roteò su sé stesso con facilità e lo spedì un’altra volta gambe all’aria.

“Ok! Pausa, pausa!”, gridò Wendel prima che l’altro ci riprovasse.
Sarm sospirò e si sedette in mezzo a una montagnola di rifiuti. Gli ronzavano le orecchie, ma non abbastanza da non udire l’incessante singulto delle raffinerie di oricalco, che oltretutto spedivano in cielo corposi nuvoloni di anilina dalla puzza intollerabile.

Wendel si lasciò cadere accanto a lui.
“Cavolo, sei così pieno di energia. Ti invidio, sai?”
Sarm sbuffò.
“Si, ma alla fine vinci sempre tu”
Wendel sorrise.
“Non è perché ti manchi qualcosa come combattente… Ma chiunque non avrebbe possibilità contro un fuoriclasse come me!”
L’amico lo guardò, divertito ed esausto.
“Intendiamoci, Sarm. Tu sei più veloce di me, e ti difendi bene, ma quei pugni… si, voglio dire, hai la forza di un moscerino”
Sarm annuì.
“Se dovessi salvare la donna dei tuoi sogni, o me, o i tuoi amici, o – che ne so – addirittura l’intera città, non potresti farlo dotato solo dei pugni… Ti servirebbe un’arma”
Sarm sbuffò.
“Andiamo a fare la doccia, dai”

Per fare la doccia, i due intendevano attraversare il condotto sotterraneo in cui le ovocapsule venivano irrorate da getti di acqua ossigenata nebulizzata, e poi andare ad asciugarsi stendendosi sopra uno dei numerosi reattori che servivano a disperdere il calore prodotto dalla crepitante rete elettrica che serpeggiava sotto la Città.

E poi, forse, un panino. E una serata passata a ballare in compagnia dei Ratti.
I Ratti erano una razza evoluta di ibridi, progenitori dei roditori che si erano accoppiati con degli esseri umani qualche migliaio di anni prima. Erano glabri, avevano il muso appuntito e occhi penetranti, oltre che dita sottilissime e affusolate; molti trovavano che possedessero una sensualità fuori del comune, e tutti concordavano sul fatto che avessero senso del ritmo.
La Città era piena di discoteche gestite da loro, famose per i prodigi più sorprendenti: allucinazioni collettive traboccanti di paesaggi fantastici, apnee di schiuma commestibile, inversioni di gravità… e altre cose troppo blasfeme per essere menzionate.

Ma quella sera nessuno dei due voleva fare baldoria. A dire il vero, si erano stancati di quella routine.
Nessuno di loro aveva visto il mondo. Nessuno, a rigor di logica, avrebbe mai potuto vederlo.

Sedevano a cavalcioni di giganteschi insetti crocifissi sulla sommità di un grattacielo perché fungessero da ornamenti, moscoidi smeraldini che ronzavano appena, con discrezione.

“’Fanculo la Prescrizione”, sbottò Sarm sputando in una direzione a caso. Il vento raccolse lo sputo e glielo restituì in faccia. Sarm ingiuriò un paio di Dei.
“È quello che dicono tutti”, commentò Wendel con bonarietà, “ma nessuno si è mai spinto oltre”
“Qui noi ci invecchieremo e moriremo. Stiamo già diventando vecchi! Vuoi finire così, qui, vincolato ai resti della Città fino alla fine dei tempi?”
“In tutta onestà, io mi sento giovane e pimpante”, disse Wendel, “e mi sembra che sia trascorsa una vita da quando nacque l’ultimo bambino. Ma anche la gente muore sempre più di rado. Ho come l’impressione che dentro queste mura sia racchiuso il segreto dell’eterna giovinezza”
“Sarebbe anche peggio”, rispose Sarm, “vivere per sempre. Come nella Favola di Tykko
“Quella dove ci sono i due ragazzini che fermano il Tempo?”
“Esatto. LawrenceTwosomeTime aveva cominciato a manifestare i primi segni di pazzia, quando la scrisse”
Infine tacquero, e guardarono il mondo. Un mondo chiuso da un altissimo recinto, sforacchiato di quando in quando dagli operosi tarli della roccia, un mondo al di là del quale esistevano solo ombre e profili, un mondo oltre il quale poteva esserci solo il nulla, per quel che ne sapevano.

Era dalla data di fondazione della Città (cui nessuno riusciva a risalire, o a ricordare), che il severo Prontuario dei Dettami Infrangibili – più un testo sacro, che una raccolta di legislazioni – affermava che era categoricamente proibito abbandonare la Città, o anche solo valicarne le Mura.
Nessuno a memoria d’uomo l’aveva mai fatto, punto.
“Stasera noi lo faremo”, disse Sarm d’un tratto.
“Non vorrai dire…”, iniziò l’amico.
“Si, e non c’è scusa che tenga”
“Ti offendi se ti lascio andare da solo?”
“Oh, avanti, Wend. Sei grande e grosso, intelligente quanto basta per non dare ascolto a quelle sciocchezze, e hai pure un amico svitato che ti accompagnerà nell’impresa. Che altro ti serve?”
Wendel sospirò sonoramente.
“Insomma, Wend, non intendo mica fuggire o che altro. Voglio solo vedere che c’è fuori. Solo una sbirciatina”
“Ti ricordo che una volta, tanto tempo fa, un uomo mangiò una mela che non doveva mangiare, e guarda che conseguenze ha avuto quel piccolo, insignificante gesto”
“Per me ha avuto delle conseguenze assolutamente positive”, obiettò Sarm, “Insomma, ci ha resi liberi. Salvo poi farci precipitare in un'altra prigione”

Wendel scosse la testa, poi smontò dalla mosca e si fece scrocchiare il collo.
“E va bene. Andiamo”



Non fu esattamente come se lo erano immaginati.
Una volta individuato un Cantone sufficientemente tranquillo, da cui poter salire senza essere avvistati, scalarono i primi venticinque metri di parete adoperando guanti confezionati con setole di ragno, poi si issarono nella voragine scavata dai parassiti della roccia e percorsero un breve camminamento irregolare. Per ritrovarsi, infine, all’aperto. Di notte.
Cumuli di mattoni sparpagliati in montagnole, qua e là, fungevano da scalinate naturali. Scesero agevolmente la massicciata e si guardarono intorno.

Erba. Piante. Alberi. Il cielo di velluto blu.

Era tutto familiare, di primo acchito. Eppure, entrambi provarono la sensazione straniante di essere vivi, di aver cominciato a vivere, per la prima volta. Come se si fossero appena svegliati da un sonno eterno.
La Città era la fonte della vita, della luce, del calore. O almeno, questo era ciò che sapevano.
Ma ora si trovavano in un’alcova pregna di ombre, umida, selvaggia e ammantata di oscurità, e sembrava loro molto più vitale del mondo in cui erano nati.

“Facciamo due passi?”, propose Sarm.
“Perché no?”, disse l’amico.

Non sembravano esserci forme di vita ostile; se non altro, non nel raggio di quelle poche centinaia di metri che percorsero. Lucciole magnetiche si scontravano in volo generando scintille, scoiattoli volanti mordevano il vento e poi strani animali dalle corte proboscidi correvano nella boscaglia, e conifere cigliate di una varietà fosforescente zampettavano qua e là, e poi ancora altre creature sconosciute dagli occhi viola sparivano e riapparivano altrove come miraggi evanescenti.

“Che ti dicevo? Ne è valsa la pena!”, esclamò Sarm.
“Dopo questa nostra gitarella, giuro che non mi tornerà più la voglia di andarmene a spasso. Mi è bastato vedere. Adesso ho il cuore in pace”, aggiunse quasi in tono di scusa.
“Io invece potrei essere tentato di mettere radici qui”, disse Wendel, la meraviglia nella voce.

Stavano ridendo per motivi che nemmeno loro conoscevano, quando sentirono un boato. Poi un altro.
Si zittirono. E si zittì anche la fauna. Un nuovo rumore fece tremare la terra, e un’intera famiglia di aspidi fuggì dal suo nido.

“Che cosa diavolo è?”, sussurrò Wendel.
“Non lo so, ma faremmo meglio a tornare indietro”, suggerì Sarm.
“Piano, un passo alla volta…”

Un albero cadde fragorosamente al suolo, e tra le ombre contorte della boscaglia apparì un gigante di metallo. Ricordava molto alla lontana un essere umano, solo più grezzo e con le proporzioni sbagliate; come un giocattolo alto due piani.
Sarm e Wendel non riuscirono a vederlo con chiarezza, e nemmeno lo desideravano, e dopo un paio di secondi stavano correndo a rotta di collo, senza voltarsi, e il reiterato rumore delle betulle che si spezzavano era la conferma che quel mostro li stava inseguendo.

“Le mura! Dove sono le mura?”, gridò Sarm in preda alla disperazione.
Corsero e corsero finché il fiato gli bruciò i polmoni, e d’un tratto, senza soluzione di continuità, la montagna di mattoni si profilò dinanzi a loro come unica possibilità di salvezza.
Sarm prese ad arrampicarsi mentre le prime luci del mattino rischiaravano la selva, udì Wendel gridare e si volse verso di lui. Era inciampato in una radice. Si stava rialzando. Il gigante era sempre più vicino.
Ora lo vedeva chiaramente. Era fatto di un metallo dorato al cui interno galleggiavano strani corpuscoli simili a cellule; alcune zone del suo corpo sembravano perdere alternativamente consistenza, diventando una specie di gelatina, e si spostava tremando come se avesse le convulsioni; pareva il lavoro d’intaglio di un bambino monumentale che abbia il gusto per il grottesco.

Sarm ridiscese a rotta di collo per aiutare Wendel, ma il gigante arrivò prima di lui.
Gli prese la testa in una delle sue tenaglie e lo sollevò da terra. Wendel gridava.
Poi lo investì di una sostanza azzurra che sgorgava dai suoi avambracci, che crepitava come elettricità e fluttuava come fumo. Quando Wendel ne fu completamente inzuppato, lo lasciò andare e puntò a Sarm.
Il ragazzo ebbe un tuffo al cuore vedendo la creatura che cercava di salire i cumuli di mattoni mentre Wendel, apparentemente vivo, si trascinava sul prato cercando di allontanarsi più che poteva. Lasciava dietro di sé una scia di vapore che faceva afflosciare le piante e seccava i fiori.
Dopo un minuto o più di panico, Sarm si accorse con sollievo che la macchina non era progettata per arrampicarsi, e tornò a concentrarsi sull’amico. Wendel sembrava essersi ripreso e si muoveva con fatica verso di lui.
Nel frattempo il mostro aveva deciso di desistere, e stava ritornando nella direzione da cui era venuto. Wendel non gli interessava più.

Sarm corse incontro al compagno ferito e vide che stava bene; le tracce dello strano liquido erano scomparse.
Lo toccò e avvertì una sensazione di freddo che lo raggelò fino al midollo.
“Wendel… Wend, tu non stai bene. Quella cosa ti ha imposto un maleficio”
“Sto bene”, disse Wendel ansimando.
“Un po’ di riposo e starò bene”
“No, Wend, tu non stai bene per niente. Dobbiamo portarti da uno Sciamano…”
“Ho detto che sto bene!”, strillò Wendel.
“E starei ancora meglio, se qualcuno non avesse insistito a venire qui. Tanto per cominciare, non sarei stato stritolato da un gigante di metallo, che per fortuna ha deciso di pisciarmi addosso e poi di lasciarmi andare”
“Wendel, mi dispiace, io…”, provò di nuovo a toccarlo, ma il gelo che emanava scottava le dita.
“Lasciami in pace. Voglio tornare in città. E poi voglio dormire. Anzi, no: voglio camminare. Ho bisogno di smaltire la paura”

E così, ritornarono in silenzio al tunnel che li aveva condotti lì, e di seguito alla parete di mattoni, e poi ancora in città.
Si salutarono senza calore, e Sarm insistette perché l’amico si facesse vedere da qualche specialista. Lui se ne andò senza rispondere.



Il telefono squillò. Sarm non era sicuro di essere sveglio. Forse stava sognando. Si, era probabile.
Fino a pochi istanti fa, rivedeva con la mente il corpo di Wendel sollevato di peso dalla Bestia, e poi lo vedeva sgambettare, e infine sciogliersi. E sentiva la sua voce nell’aria, che diceva: “È tutta colpa tua”
Scosse la testa più volte per liberarsi dell’incubo, e in preda a un cattivo presentimento alzò la cornetta.
“Pronto?”
“Sarmiento, sei tu?”
“Chi parla?”
“Hepzibah”
Sarm ascoltò con attenzione cosa la donna aveva da dirgli. Qualche minuto dopo, riattaccò.
La madre di Wendel sembrava più isterica che preoccupata.
Nessuno, nemmeno Sarm, poteva prevedere che le cose sarebbero degenerate nel giro di otto ore.



“Abbiamo provato a farlo sedere”, disse Hepzibah mentre lei, il marito, Sarm e Wendel camminavano a passo di marcia, i primi tre all’inseguimento dell’ultimo.
“Non riesce più a fermarsi. Non vuole mangiare, non vuole stendersi”
“Ed è più gelido di un pezzo di ghiaccio”, aggiunse il padre guardando le spalle di Wendel che avanzava a scatti, con inquietante regolarità.
“Io… non lo riconosco più”, disse Hepzibah, scostandosi dal cammino che aveva percorso il figlio mentre le mattonelle si liquefacevano e si annerivano, e la gente li fissava con sguardi basiti come se fossero un circo itinerante.

“Che cosa avete fatto?”, domandò infine col fiato corto.
Sarm non provò nemmeno a mentire.
“Abbiamo oltrepassato le mura. Io l’ho spinto a farlo”

La donna si mise le mani sulla bocca e l’uomo strabuzzò gli occhi.

“Ci siamo imbattuti… in una cosa… Un mostro. Il mostro ha preso Wendel e gli ha versato addosso uno strano liquido, e lui è diventato bilioso… All’inizio credevo che fosse solo arrabbiato con me, ma ora… quella sostanza deve avergli causato qualche alterazione dell’organismo…”
Hepzibah gli tirò uno schiaffo che risuonò nella via affollata, e lo guardò, lo fissò intensamente con tutto l’astio che poteva.
Infine disse: “Non mi importa della blasfemia che avete commesso. Non importa che siate usciti dalle mura. Quello che mi importa, è che Wendel sta male anche per colpa tua, e adesso devi farmi riavere mio figlio”
Sarm annuì con cautela. Qualunque cosa andasse fatta, lui era disposto a farla. Non c’era tempo per i sensi di colpa.



Si recarono da uno Sciamano. Seppur riluttante, Wendel ascoltava tutto ciò che gli diceva la madre; più che altro, andava nella direzione in cui lei gli indicava di andare, e questo era tutto.

Dovettero visitare sette mistici, prima che uno di loro, il più vecchio e il più dotto, formulasse una diagnosi plausibile.

“Acatisia. Si tratta di una rara forma di squilibrio del sistema nervoso descritta nel Corano delle Salamandre; una malattia leggendaria, in effetti, le cui cause sono misteriose”
“Esiste una cura?”, chiese il padre di Wendel.
“L’unica soluzione è riuscire a fermarlo. Immobilizzategli le gambe”

Provarono con le cinghie, con le morse, con le manette e le catene, ma fu inutile. Qualunque oggetto toccasse la sua pelle, o il tessuto che la fasciava, si dissolveva nel nulla.
Lo posizionarono di fronte alla parete, e lui l’attraversò come se fosse burro. Pochi attimi dopo, il compensato fumante tutto intorno alla sagoma che aveva scavato si sbriciolò.

“Che succede se non lo curiamo?”, domandò Sarm mentre la madre singhiozzava.
“Mi sembra ovvio”, rispose il mistico.
“Il suo amico camminerà, e continuerà a camminare, fino a consumarsi. Quando verrà il giorno in cui le sue gambe saranno troppo provate per muoversi, lui sarà già… beh… deceduto”



Il tramonto rosso sangue imperlava il cielo di lacrime scarlatte.
Avevano convinto Wendel a camminare in tondo lungo il perimetro della Piazza Centrale. Hepzibah aveva smesso di agitarsi.

Sarm continuava a rimandare il momento in cui l’avrebbe detto, ma in cuor suo aveva già preso una decisione da tempo.

Lo disse senza una particolare intonazione.

“Devo uscire di nuovo”

Hepzibah alzò la testa, e così fece il marito.
“Uscirò e troverò una soluzione”
“Che cosa stai dicendo?”, domandò la donna con un moto di dissimulato disprezzo.
“Vuoi farti prendere e diventare come lui?”
“No. Quello che voglio è riavere Wendel, nient’altro. Insieme abbiamo scoperto il male; ora io troverò la cura. Se quel mostro si aggira nei dintorni delle mura, allora vuol dire che al di là si trova la persona, o la cosa che l’ha creato. Quella persona ci aiuterà”
Il padre del suo amico provò a usare un tono pragmatico.
“Rifletti, Sarm. Il mostro potrebbe essere in circolazione da centinaia di anni. Il suo inventore potrebbe essere morto. Oppure, se fosse ancora vivo, potrebbe decidere di non aiutarti. Potrebbe cercare di ucciderti”
“Con tutto il rispetto, signore, i condizionali non hanno mai aiutato il progresso dell’umanità”
I coniugi si zittirono, e tanto bastò a Sarm per intendere che gli avevano consegnato il destino del figlio.



Partì all’alba del giorno successivo senza nemmeno una parola d’addio, e senza avvertire i suoi per evitare nuovi conflitti e infruttuose discussioni che gli avrebbero solo fatto perdere altro tempo; e anche per scaramanzia. In realtà, lui credeva che sarebbe tornato, con la cura o senza, un po’ perché contava di rimediare al suo errore, e un po’ per egoismo.
Diede un ultimo sguardo a Wendel che arrancava nei pressi della Fontana Inversa, l’andatura già meno decisa, e si incamminò alla volta delle Mura e del mondo al di là.



Il terrore che gli provocò l’essere da solo in quella realtà ostile e sconosciuta fu sorpassato solamente dallo stupore nel constatare che del mostro non c’era traccia.
Camminò per una, due, tre ore. Il paesaggio non mutava, la macchina non si palesava nel tentativo di fermarlo.
Magari in quel momento si trovava sul lato opposto delle mura. Magari si era momentaneamente fermata. Magari.

“Per gli Dei, non riesco a smettere di formulare ipotesi una più assurda dell’altra. E pensare che io sono quello che odia i condizionali”, si rimproverò.

Nell’arco di tempo che aveva calcolato dovesse essere all’incirca mezzogiorno si fermò e mangiò qualche provvista, ma senza abbassare la guardia. Decise di distendersi sopra un masso e dormire con un occhio aperto, come gli aveva insegnato Wendel.
Finita la sosta, riprese il cammino.

Sarebbe stato piacevole avanzare nella selva, con i suoi profumi e i cinguettii degli uccelli, se non fosse che si trovava lì per scoprire una soluzione in grado di salvare dalla morte il suo migliore amico.

Ed era perso in questi pensieri, quando la foresta improvvisamente finì.

Sarm mise un piede in fallo e rotolò giù per una discesa erbosa, suscitando l’ira di un nugolo di insetti stizziti.

La pendenza non era eccessiva, ma le dimensioni di quel buco erano enormi, e poté rendersene conto solo quando rallentò e mise le mani a terra per frenare la caduta.
Spalancò la bocca per la meraviglia.

Si trovava in una voragine talmente regolare che non poteva essere opera della Natura, completamente ammantata di soffice erba profumata e al cui centro sorgeva una spiraleggiante torretta circondata da un fiumiciattolo grigio. Dalla cima dell’avamposto usciva un filo di fumo semitrasparente che si colorava delle tinte dell’arcobaleno quando attraversava il sole.

“Dev’essere un’illusione”, ponderò Sarm, “cose come queste non esistono nella realtà”

Man mano che si avvicinava, distingueva sempre meglio la fattura elaborata delle decorazioni che impreziosivano i vari piani della torre, nero su bianco su grigio su rosso: fregi che rappresentavano battaglie mitologiche, divinità estinte, animali leggendari e una serie di raffigurazioni per la maggior parte indescrivibili a parole.

Alla fine giunse nei pressi del fiume, e vide che era poco profondo. Ringraziò la Provvidenza di aver optato per degli stivali alti fino al ginocchio, e guadò.
Un passo dopo l’altro, bizzarre reazioni chimiche avvenivano sulla superficie del cuoio che gli rivestiva le gambe; qua e là comparvero squame, da una parte spuntarono peli, dall’altra il pellame divenne invisibile – tanto che temette si fosse sciolto. Approdò sull’altra sponda con un certo sollievo, e fronteggiò l’alto e stretto portone d’entrata.
C’era una cordicella che sembrava essere lì apposta per essere tirata.

Sarm deglutì e suonò il campanello.

A sorpresa, il portone si aprì con uno scatto come se fosse stato soggetto a qualche misteriosa torsione idromeccanica, e sulla soglia comparve, vestita dei soli capelli, una bambina.

“Ciao, Sarm. Entra e sii il benvenuto”

Il ragazzo provò un istintivo timore per quella figurina dall’aria innocente, una sorta di repulsione mista a venerazione. Ciononostante, accettò l’invito.

L’interno era, se possibile, ancora più mirabolante dell’esterno. La dimora della bambina si estendeva completamente in verticale, con passatoie, ascensori e carrucole di porcellana che consentivano di spostarsi tra i vari piani.

“Ero stata messa a parte del tuo arrivo già da un po’, ma mi sono detta: ‘perché rovinargli il piacere di questa bella passeggiata, quando ha finalmente l’occasione di vedere le meraviglie che ha tanto sognato?’. La mia scelta di non venirti incontro è stata giudiziosa, dico bene?”
Sarm annuì involontariamente. Quella ragazzina aveva una voce melodiosa e i capelli di un colore indefinibile, bellissimo, e nonostante fosse alta un terzo di lui, era impossibile non rimanerne affascinati.

“Ora ti mostrerò ciò che cerchi, ma ti avverto… Da quello che vedrai non c’è ritorno. La tua decisione potrebbe influenzare l’abbattersi o il non abbattersi di certe calamità sull’universo che conosci e in cui sei cresciuto. Sei pronto?”
“Io voglio solo salvare Wendel”, rispose il ragazzo.
La bambina sorrise e fece strada fino a un elevatore. Schiacciò il pulsante dell’ultimo piano e le porte si chiusero.
Faceva fresco, ma non era freddo, l’illuminazione soffusa donava a ogni cosa un aspetto evanescente e nell’aria aleggiava un leggero profumo di gigli e incenso.
“A proposito, io sono Cassandra Erodiade, Signora dei Circuiti – ma detto tra noi, questo è solo un nomignolo altisonante che mi sono affibbiata per acquisire un’aura d’importanza. Non che ne abbia realmente bisogno”
Sarm era assolutamente d’accordo, ma non lo disse.

Sbucarono in una soffitta ingombra di ragnatele, la cui zona nevralgica era rappresentata da un’enorme tavolo quadrato in mezzo a cui sorgeva il modellino di quella che appariva come una metropoli di legno.

“Che cos’è?”, chiese Sarm, paralizzato dallo stupore.
“È bella, vero?”, disse Cassandra Erodiade contenendo a stento l’orgoglio.
“A essere onesta non sono ancora riuscita a trovarle un nome. Nessun nome plasmato da una mente umana può essere degno di descrivere un’opera così mirabolante. Ho impiegato secoli a conferirle la forma che ha attualmente”
Sarm ridacchiò.
“Secoli? Sei solo una bambina…”
“Metti in dubbio la mia parola?”, chiese lei.
Il suo tono di voce, la luce nei suoi occhi, emanarono un’autorità che non lasciava adito a obiezioni.
Sarm chinò la testa.
Poi chiese: “Perché mi mostri questo? Che cosa c’entra con Wendel?”
“Guarda”, disse lei, “Wendel è proprio qui”
La bambina si chinò e indico il cuore di una minuscola piazza. Poco vicino all’intaglio di una microscopica fontana, sostava una figurina talmente piccola che Sarm sospettò fosse un abbaglio.
“Il Mostro di Metallo, come l’avete chiamato, invece, è poco fuori città”, e indicò un punto oltre le mura sottili che recintavano il modellino; in mezzo a una folta boscaglia sostava un essere simile in tutto e per tutto a quello che avevano incontrato durante la loro sciagurata gita; solo, in miniatura.
“Tu, piuttosto, sei il primo che riesce a uscire dalla mappa. Qui non ci sei”

Sarm aveva la bocca secca. Riprese a ridacchiare, questa volta di un riso isterico, disumano, alimentato dal rifiuto che il suo cervello aveva emendato di fronte a quella rivelazione.

“Oh, suvvia… Mi stai dicendo che io, le persone che conosco, addirittura la mia città… che tutti noi saremmo il frutto di un passatempo che ti sei costruita per vincere la noia?”
La bambina ammiccò.
“Avrei dovuto minacciare dei provvedimenti più severi, quando ho steso il testo della Prescrizione”
Sarm inarcò le sopracciglia.
Tu avresti scritto la Prescrizione?”
“Usando il ciglio di una zanzara intinto nell’inchiostro eterno”, annuì Cassandra Erodiade avvicinando pollice e indice, “su di un foglio piccolo così”

Sarm sbottò: “Avanti, è ridicolo! Queste… tutte queste figurette nemmeno si muovono! Non sono persone!”
“Anche il mondo è immobile, agli occhi di chi lo abita”, ribatté lei.

“E sentiamo, mia venerata genitrice, perché l’avresti fatto? Qual è il vero motivo?”
La bambina sbuffò.
“Tocchi un tasto dolente. La verità è che io ero come te: curiosa. Abitavo in un continente che si trova al di sopra delle nuvole, e giace più in profondità dell’Inferno… la perduta terra di Lemuria. Ogni cosa era perfetta, ma a me non bastava. Ero affamata di nuovi mondi, nuovi incanti, e di conoscenza.
Così violai il sacro patto e sconfinai qui, nel mondo delle cose mortali. Realizzai troppo tardi che non c’era rimedio alla mia profanazione. Non potevo più tornare indietro”
“Non sai come tornare?”, azzardò Sarm.
Certo che so come si torna. Ma qualora rimettessi piede nella terra che mi ha dato i natali, verrei giustiziata. Ormai sono sporca, sono corrotta. L’impurità di questo livello mi ha contaminato per sempre”
Sarm si guardò le mani, si toccò il volto. No, non era finto. Era una persona.

“E questo ci riporta al motivo per cui tu – anzi, per cui tutti voi – vivete”, riprese Cassandra Erodiade.
“Vi ho costruiti usando il frassino, il legno della reincarnazione. A quel punto, mi è bastato dare un nome a tutti voi, e il verbo si è fatto carne. Ogni tanto aggiungo qualche nuovo pezzo…”, ammiccò in direzione di Sarm, “ogni secolo o due; e talora ne scarto altri”, e indicò un pasciuto vaso di forma ovale che conteneva montagnole di trucioli.
“Voi siete il mio orgoglio e il mio diletto, voi mi date uno scopo per cui vivere”
“Sulla Città ho relativamente potere, dato che non ha un nome… Per questo ho costruito il Guardiano. Perché nessuno potesse attaccare la Città, e nessuno ne potesse uscire… senza perdere la ragione e la vita.
…Devo ammettere che però le ere mi hanno ammorbidita. Tu sei il primo che trova il coraggio di avventurarsi al di fuori, e perciò… perciò ho deciso di trattenere il Guardiano. Ero curiosa di vedere a cosa ti avrebbe condotto la tua ricerca. A quanto pare ho fatto bene: la demenza dipinta sul tuo volto è per me una grande fonte di delizia”

Sarm si appoggiò a una travatura e cercò di ricordare il motivo per cui era lì.
Concentrati, non perdere la calma, si disse. La situazione non è esattamente come l’avevi immaginata, ma puoi ancora rimediare.

“Signora… Signorina creatrice”, iniziò, “la prego, faccia guarire il mio amico. Non chiedo altro”

Cassandra Erodiade fece un sorriso a trentadue denti.
“Niente di più facile. Basterà sostituirlo”
“In che senso, sostituirlo?”, disse Sarm, la voce strozzata.
“Si butta via il pezzo danneggiato e se ne crea uno nuovo”, spiegò lei come se stesse parlando a un bambino lento di comprendonio.
“Poi si riversano i ricordi e le esperienze dell’individuo precedente in quello attuale, ed ecco che riappare il tuo amico. Certo, non avrà memoria di quello che gli è capitato di recente, e non sarà un originale, ma per il resto sarà lui”
“Non voglio un altro Wendel, io voglio quello vecchio”
“Ah, tu mi metti alla prova”, disse la bambina succhiandosi il pollice.
“In effetti, esisterebbe anche un altro metodo. Ma richiede un prezzo”
“Quale prezzo?”
“Esigerei da te la totale obbedienza. Rimarresti qui, come mio consorte. E mia esclusiva proprietà. In cambio, darò un nome nuovo al tuo amico, e il male abbandonerà il suo corpo”

Sarm si sentì mancare le gambe.
No, no, non avevo previsto che finisse così. Wendel guarirebbe, ma che ne sarà della mia vita? È giusto? È giusto conoscere questi segreti e lasciare le cose come stanno?
Oppure esitava sempre a causa dell’egoismo? Quel sentimento aveva fatto capolino più di una volta nell’arco degli eventi che erano occorsi.

Ma per quanto spaventoso fosse il potere di cui quella bambina-che-non-era-una-bambina disponeva, non aveva nessun diritto di esigere una retribuzione per porre fine al male che lei stessa aveva provocato.

“No”, disse allora Sarm, “io non sarò lo schiavo di nessuno, e tu guarirai Wendel, altrimenti tornerò in città e dirò a tutti di te, della tua casa, del tuo artificio. L’intera popolazione si farà strada fino a qui e ti deporrà
Lei gongolò: “E tu pensi che crederanno alle parole di un ragazzino presuntuoso?”
“Perché no?”, rispose lui, “In fondo, l’hai detto tu: sono il primo che abbia avuto il coraggio di uscire, le mie parole valgono più dell’oro colato”

Cassandra Erodiade sorrise come fanno le belve prima di azzannarti alla gola.
“E sia, patetico omuncolo. Non ho l’ardire di ucciderti, sei troppo attraente… e troppo stupido. Quello che farò…”, e raccolse un acciarino a pietra focaia, “sarà distruggere tutto ciò che hai di più caro”
Fece scattare l’acciarino in prossimità di un edificio dalle linee sottili, e questo s’infiammò nel giro di pochi attimi.

Sarm scattò in direzione del piccolo incendio, provò a soffocarlo con le mani, si ritrasse emettendo un urlo di dolore.
“Troppo tardi”, disse la bambina, “in questo momento, le tue radici bruciano insieme a ciò che chiamavi casa. Io non ho più niente a che fare con questo stupido, vecchio gioco, tutto ciò che lo riguarda, non riguarda più me medesima. Costruirò una nuova Città, e questa volta non ci sarà posto per i tarli della roccia. Ora che farai? Andrai a piangere sulle macerie carbonizzate di quella che un tempo era la tua dimora, o resterai con me?”

Sarm tremava dalla testa ai piedi, ma si contenne.

“Non hai più niente a che fare con noi, dici? Bene: spero che sia sempre così, d’ora in avanti. Se fossi in te, mi augurerei di non rincontrarmi”, e dopo aver pronunciato queste parole – che volevano essere di commiato, ma anche di ammonimento – Sarm corse all’ascensore e lo azionò sotto lo sguardo mortificato di Cassandra Erodiade.
Scese a tutta birra, attraversò l’atrio, uscì dalla torre, guadò il fiume, risalì a balzi il parapendio, e si tuffò nella foresta.
Mentre correva, si ricordò di portare ancora lo zaino; allora lo gettò.
Gli stivali gli erano d’impaccio. Se li tolse.
E poi corse, corse, e corse ancora, corse finché non temette di stare per morire.
Si fermò e si stese a terra. Da morto non sarebbe stato utile a nessuno.

Riprese a correre a un ritmo più regolare, e più umano.
Un’ora dopo, riusciva a scorgere una colonna di fumo scarlatto sollevarsi all’orizzonte. Aumentò l’andatura per quel tanto che gli era possibile.

Quando finalmente giunse in vista delle mura, il fuoco stava divorando anche i mattoni. Grida e implorazioni si fondevano nell’aria come acuti richiami d’uccelli.
La foresta intorno a lui era deserta.
Perché nessuno fugge attraverso le gallerie nella muraglia?, si chiese. La risposta giunse poco dopo.
Hanno paura. Anche di fronte alla prospettiva di morire, hanno timore di offendere gli dei e i loro avi. Anche se né gli uni né gli altri sono mai esistiti.

Sarm cercò di riflettere, ma la cappa di fumo soffocante e i versi disperati gli ottenebravano la mente.
Non posso mettermi a scavare tra i mattoni.

Poi, come un’ancora di salvezza, gli sovvennero le parole che gli aveva detto un amico non molto tempo prima: “Se dovessi salvare la donna dei tuoi sogni, o me, o i tuoi amici, o – che ne so – addirittura l’intera città, non potresti farlo dotato solo dei pugni… Ti servirebbe un’arma

Sarm si riscosse e iniziò a seguire il perimetro delle mura sul lato sinistro.
Mentre correva, perlustrava i dintorni con lo sguardo, cercando movimenti inconsueti, tentando di captare rumori anomali.
Ti prego, fa’ che non sia lontano. Fa’ che sia da queste parti.

Dopo un tempo oltre il quale chiunque avrebbe desistito, lo trovò: si aggirava nei pressi di un masso ricoperto di muschio, scavando nel terreno con le pesanti tenaglie alla ricerca di non si sapeva cosa.

“Ehi, schifoso ammasso di ferraglia, sono qui!”, si sbracciò Sarm. Il Mostro si girò e subito caricò nella sua direzione.
“Si, bravo! Vienimi addosso! Vieni avanti se hai il coraggio!”

La Bestia stava per travolgerlo, ma Sarm era veloce, molto veloce, e la scansò all’ultimo momento.
La creatura di metallo impattò contro la parete e mosse alcuni passi indietro, disorientata dall’urto. Fu allora che Sarm prese ad arrampicarsi sulle sue gambe, e poi sulla schiena – ricoperta da una sorta di carapace – agile come una scimmia, implorandolo silenziosamente di non secernere il suo composto tossico.
Quando giunse in prossimità della testa, a cavalcioni sulle sue spalle, il mostro stava sollevando le mani rudimentali per afferrarlo.
Sarm tentò il tutto e per tutto, e infilò le braccia nel cranio della creatura. Come aveva sperato, aveva la consistenza del caramello e non oppose resistenza. La Bestia si bloccò, apparentemente privata della volontà. Sarm ora stringeva tra le mani quello che doveva essere il suo cervello.
Si concentrò intensamente sull’ordine di chiudere le tenaglie.

Chiudi le tenaglie. Chiudi le tenaglie. Serra quelle dannate tenaglie, maledizione!
Nessuna reazione.
Allora Sarm fece pressione sul cervello stringendoglielo come se volesse schiacciarlo. Le tenaglie si chiusero con un sonoro clack.

Ci sei, bastardo. Ora avanza.
Sarm ruotò sul suo asse il corpo molle come se fosse un volante. La Bestia avanzò.

Bene. Distruggi.

Uno strattone violento, e il mostro di metallo abbatté la gigantesca mole delle tenaglie contro la muraglia.
Alcuni pezzi della parete si staccarono. Sarm insistette e continuò a insistere, ordinando alla cavalcatura di attaccare con tutta la sua forza, avanzando e sbriciolando, sgretolando e colpendo ancora più forte.

Finché una spessa crepa nel muro non si estese fino a provocare il crollo di quanto ne restava, che per poco non si abbatté sulla testa di Sarm.

Ora vedeva la città. Come se avesse ripulito la lente ossidata di un cannocchiale. Bruciava.
La gente correva in tutte le direzioni, in preda al panico.

“Ehi!”, gridò con tutto il fiato che aveva in corpo.
Alcuni si voltarono. Li conosceva quasi tutti.

“Sono io! Sono Sarm! Non abbiate paura! Sono uscito dalle mura e ho scoperto cosa c’è dall’altra parte! Sono qui per liberarvi!”

Quand’anche fosse difficile credere di primo avviso alle sue parole, nessuno osò contraddire il tono imperioso e l’aura di maestà che emanava quel ragazzo, i capelli vaporosi e scarmigliati come la criniera di un leone, i piedi scalzi, novello profeta, in sella a una bestia dorata in grado di sbriciolare la roccia. E lo seguirono.



L’incendio impiegò giorni a spegnersi.
E anche quando fu spento, i sopravvissuti non si erano ancora ripresi dallo choc.

Tra di loro vi erano i genitori di Sarm, che erano stati tra gli ultimi a uscire e tra i primi a riguadagnare una parvenza di lucidità, ed Hepzibah, ed il marito di lei, con metà della faccia ustionata fino ai muscoli, e Wendel. Wendel.
Parlava poco, e accettava di buon grado quello che gli veniva offerto da mangiare, niente più che un paio di mele e un tozzo di pane recuperati prima che tutto finisse.
Aveva le gambe magre come fuscelli, e non riusciva a fermare il tremito alle mani. Ma era lui. Era di nuovo lui.
Da quando la Città era andata perduta, lui aveva ritrovato il senno.

Nel frattempo la Bestia si era ridotta a un cumulo di rifiuti, probabilmente per l’intrusione forzata di Sarm nel suo cervello.

Le cose sembrarono stabilizzarsi, fino a che il Sindaco, insieme allo sparuto gruppetto di assessori superstiti – in larga misura donne – pretese che Sarm fornisse loro una spiegazione.
Il ragazzo decise di prendersi il suo tempo, e quando fu pronto, radunò la sua gente perché lo ascoltasse.

“Voglio dire a tutti, a tutti voi”, cominciò, “che io vi ho condannati”
Vociare esterrefatto.
“Vi ho condannati a una vita da nomadi, a patire gli stenti, a non avere più un luogo da poter chiamare ‘casa’. Uscendo una prima volta dalla nostra terra madre, ho scatenato l’ira degli Dei”
La gente cominciò ad agitarsi, solitari gridi di dissenso si infittirono.

“Ma è stato uscendo una seconda volta, non più guidato dall’arroganza, ma dalla contrizione, che sono andato a implorare il loro perdono. Perdono che mi hanno concesso, a scotto di una punizione”
Le persone radunate in cerchio sembrarono placarsi un po’.
“Gli dei… hanno deciso di trasformare la nostra bella città in un Inferno sulla Terra, al cui confronto le lande desolate che la circondano sono l’Eden, un giardino di delizie terrene”
Tu hai trasformato la Città in un Inferno, nessuna penitenza potrà mai restituirci quello che ci è stato tolto!”, gridò un uomo che fino al giorno prima faceva il panettiere.

Sarm chinò il capo. Con la coda dell’occhio, vide che Wendel lo guardava con un’espressione di muto incitamento.
Allora sollevò di nuovo gli occhi e disse: “Hai ragione. Non posso scusare il crimine che ho commesso, e mi sottoporrò alla giustizia che questi bravi uomini e donne rappresentano. Ma se la mia sorte deve essere per forza stabilita da qualcun altro, lo stesso non vale per voi, che oggi siete più liberi di quanto non lo siate mai stati. Pensate a cosa avete perso…”, esitò.
“Ma soprattutto, pensate a cosa avete guadagnato!”

Le sue parole echeggiarono nel silenzio assoluto che gli si era fatto intorno. Il Tempo parve davvero arrestarsi, allora, e così il cuore di Wendel, che temeva per il suo amico.
Sarm non aveva più paura. Aveva già accettato qualunque destino avessero in serbo per lui.

Poi ci fu un cambiamento nella qualità dell’aria. Non si percepiva, in un primo momento, ma c’era qualcosa di diverso.
La volontà di riscatto che si respirava tra le file degli sfollati perse d’importanza: non c’era più niente da riscattare.
La grandiosità dell’ultimo discorso di Sarm, anche. Riconobbero che erano parole fondate, ma non vi era niente di straordinario, in realtà: era semplicemente logico.

Perciò non vi fu un’ovazione, e nemmeno un grido di disapprovazione. La gente si disperse, senza fretta e senza clamore. Pace era fatta.



Un crepuscolo di dodici anni dopo, Wendel e Sarm sedevano sopra un tronco abbattuto lasciando vagare lo sguardo su quello che era il loro nuovo villaggio, costruito dalle loro mani, e non per tramite di qualun’altro. Che cosa erano mai dodici anni, in confrontò all’eternità?

Solo Wendel era a conoscenza della vera versione dei fatti, e ancora adesso i due continuavano a parlarne: dopotutto, non è possibile scordare gli eventi dolorosi nella loro interezza; una cicatrice rimane sempre.

Un delicato reticolo di rughe comparse poco alla volta impreziosiva i loro volti abbrustoliti dal sole.

“Accidenti, Sarm”, disse Wendel, “ricordo che quella volta il tuo discorso mi fece venire un coccolone. Voglio dire, di colpo parlavi benissimo, sembravi un re o qualcosa di simile. Non hai più parlato in quel modo”
Sarm sorrise e lo guardò con aria enigmatica.
“Quando la situazione lo ha richiesto, ho anche rifiutato la proposta di matrimonio di una dea, e ho affrontato un gigante di metallo dotato dei soli pugni. Non sono un eroe mancato o che altro”, disse il ragazzo divenuto uomo.

“Sono solo un essere umano che si è dovuto arrangiare”
  
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