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Autore: Gem    03/11/2012    1 recensioni
Era un semplice insegnante di yoga, ma aveva lanciato un portapenne al capo e s'era giocato il posto di lavoro.
S'era fatto ingannare dalla promessa di un'aria più pulita e respirabile di quella di Chicago, ma a quanto pare...
[Ispirata al film "La donna perfetta". Dissacrante parodia nata come una semplice commedia ed evolutasi come una summa di tutte le mie esperienze nei fandom esteri di SS]
Genere: Commedia, Parodia | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Leo Aiolia, Virgo Shaka
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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L’uke perfetto

 

SETTE

… giorni servirono a Dio per creare la Terra.

 

«Così hai litigato con lui

La voce di Milo rimase sospesa nell’aria, in cerca di una risposta. Shaka, tuttavia, gli versò nel piatto una buona dose di funghi alla crema di tofu e fece lo stesso per Aiolia. Solo quand’ebbe finito quel rituale così importante appoggiò la teglia sul tavolo e prese posto insieme agli altri due.

«Buon appetito.» esclamò sorridendo. «Spero il pranzo vi piaccia.»

«Shaka, hai litigato con Camus?!» sbottò ancora Milo, allontanando di colpo la sedia dal tavolo. Il rumore fastidioso, però, non riuscì ad alterare il pacifico indiano, che immerse la propria forchetta in una polpetta di quinoa e sorrise ad Aiolia.

«Pure tu sei impazzito?!» vociò ancora Milo. «Ti stai comportando così per davvero?!»

«Aiolia, per favore, digli qualcosa.» sospirò allora Shaka, scuotendo la testa. «È tutto il giorno che fa così.»

Dopo un attimo di assoluto silenzio, durante cui l’indiano continuò a consumare il proprio pranzo, il tavolo tremò in maniera eclatante e un bicchiere si rovesciò. Ah, quello era davvero troppo.

«Per favore.» ripeté Shaka, tagliente, mentre gettava un’occhiata ammonitrice a Milo. Avrebbe chiuso un occhio sul tono della voce… ma non poteva sopportare di vederlo sbattere i pugni sulla tavola e alzarsi col viso stravolto dalla rabbia.

Aiolia si pulì la bocca con un tovagliolo, prima di voltarsi verso Milo e incupire lo sguardo.

«Siediti e mangia.» sibilò. «Altrimenti puoi pure lasciarci soli.»

«Aiolia, sei impazzito anche tu!» esclamò Milo, indietreggiando, urtando contro la sedia su cui prima era seduto. «Non hai visto come s’è conciato Shaka?! Ha i capelli rosa e arancioni e… i boccoli, le perle… ma che diamine sta succedendo? E l’hai visto o no che quei due là fuori ci stanno guardando da mezz’ora?»

Shaka appoggiò la forchetta al piatto e, con un sospiro, si volse verso la finestra. Sapeva di essere osservato, se n’era accorto già mentre preparava il pranzo. Tuttavia, facendo ricorso a tutta la sua buona volontà, alzò una mano in segno di saluto e sorrise.

«Mu e Aldebaran stanno semplicemente pranzando in giardino.» rispose Aiolia, raccogliendo il bicchiere che s’era rovesciato. «Per favore, siediti e mangia. Il pasto che ci ha preparato Shaka è squisito.»

In quel momento accaddero tre cose contemporaneamente: Milo si gettò a sedere e si portò la testa tra le mani, in una chiara ostentazione di sbigottimento; Aiolia riprese in mano la forchetta, con calma, e infine il telefono iniziò a squillare.

«Vado io.» disse Shaka.

Provò quasi sollievo ad alzarsi da quella tavola tanto sfarzosa e artificiosa, ad allontanarsi dall’attonito Milo e tentare, per quanto possibile, di sottrarsi agli occhi di Mu e Aldebaran. Lasciò scorrere le mani sulla cornetta e ricercò lo sguardo di Aiolia, in una tacita abitudine che non avrebbe mai abbandonato, prima di falsare tutto se stesso e aprirsi in un sorriso radioso.

«Qui parla Shaka Tuja. Pronto?» trillò come neanche il miglior centralinista del mondo.

«Oh Shaka, che piacere sentirti!» una calda voce d’uomo lo abbracciò, a dispetto del telefono. «Sono Aiolos. Spero di non aver chiamato in un momento inopportuno, ma ho davvero una grande notizia da dare a te e mio fratello.»

Shaka si sentì invadere di soddisfazione. Dissimulò ancora. «Figurati! Dimmi pure.»

«Vedi, Lord de Wyvern mi ha proposto di organizzare un evento per presentare al mondo intero questa città.» spiegò Aiolos. «Non essendoci motivi per posticiparlo, ho ritenuto opportuno fissarlo domani sera nel giardino della mia casa! Saranno presenti giornalisti di tantissime emittenti, così almeno mi ha garantito Lord de Wyvern, e probabilmente una trasmissione statale trasmetterà la diretta! Non è meraviglioso?»

Oh, sì che lo era. Era fantastico.

«Puoi contare sulla nostra presenza, caro cognato.» Shaka stavolta non riuscì a trattenersi: un vero e proprio ghigno gli apparve sulle belle labbra. «Parlo anche a nome del mio amico Milo.»

Senza attendere la risposta del sindaco, l’indiano riagganciò la cornetta e si volse verso il tavolo, dove ricevette due occhiate differenti sia per l’aspetto in sé sia per il messaggio che trasmettevano.

Se Milo, con i suoi affilati occhi azzurri, pareva semplicemente in cerca di una spiegazione per quell’assurda vicenda, Aiolia al contrario affidava ai suoi occhi da gatto il compito che usualmente spettava alla bocca.

Approvavano. Qualsiasi cosa Shaka avesse deciso.

«Domani sera vi sarà un importante evento a cui dobbiamo assolutamente presenziare.» scandì l’indiano sedendosi nuovamente, mentre i boccoli gli scivolavano lungo tutte le spalle. Tollerò: sapeva che sarebbe finito presto. «Milo, tu verrai con noi. Avrai l’occasione di rivedere Camus.»

Quelle parole ebbero l’effetto di un tornado sull’amico. Shaka lo vide rinvigorirsi e accendersi di colore, come se avesse appena avuto un’illuminazione.

«Ti prego, dimmi cosa è successo oggi al supermercato.» lo supplicò, appoggiando entrambe le mani sulla tovaglia, tormentandola quasi. «Cosa vi siete detti?»

Per estrema casualità gli occhi di Shaka incrociarono ancora quelli di Aiolia. Benché avesse già deciso di non proseguire il discorso, ricevette un’ulteriore conferma dall’uomo con cui, nel bene e nel male, aveva condiviso parte della sua vita.

E a cui doveva moltissimo.

Portò alla bocca una polpetta di quinoa, la masticò lentamente, si pulì le labbra quando l’ebbe ingoiata.

«Cosa ti preparo stasera, Aiolia?»

 

Casa di Aiolos, con la sua bella tinta gialla e le finestre che per forza di cose Shaka conosceva molto bene, era illuminata da almeno sei riflettori che la facevano apparire più grande di quanto non fosse. Il giardino, inoltre, era talmente pieno di persone che non sarebbe stato difficile riconoscere qualcuno gettando semplicemente un’occhiata.

La notte era ancora giovane…

Shaka lasciò scorrere il braccio sotto quello di Aiolia, aprendosi in un sorriso tanto dolce quanto spaventoso. Sapeva bene che più si fingeva docile e mansueto, più il demone che era in lui scalciava per porre fine a quella vicenda; ogni gesto, ogni espressione veniva quindi a macchiarsi di un dettaglio che finiva per mostrare qualcosa di inadeguato.

Ma a Shaka, quella sera, proprio non importava. Stava tutto per finire.

Se lo ripeteva lentamente, mentre si faceva osservare come se fosse una divinità; se lo ripeteva mentre sconosciuti borbottavano ad Aiolia che sì, doveva essere proprio un tipo fortunato, per avere un uke tanto perfetto, e se lo ripeteva come una nenia mentre camminava tra i giornalisti, ben conscio di avere una pettinatura tutt’altro che ordinaria.

«Sono stanco di essere trattato come se non esistessi.» sberciò all’improvviso Milo, ponendosi di fronte a lui e Aiolia. «Vorrei sapere cosa avete intenzione di fare.»

Con un’occhiata gelida, Shaka si fermò e si guardò intorno. Grazie al cielo nessuno aveva prestato troppa attenzione alle parole di Milo.

«Non è ancora il momento.» mormorò stringendo con più forza il braccio di Aiolia. «Per favore, continua a seguirci senza parlare.»

«Aiolia, ti prego, perché anche tu stai facendo così?» esclamò ancora Milo alzando le mani in aria, sconvolto. Ma nessuna risposta si levò dallo scrittore, che sorrise a Shaka e riprese a camminare.

Il giardino ospitava tra i tanti presenti anche gli abitanti di Yaoi City. Shaka non si stupì, dunque, quando si accorse di un elegantissimo Shura che parlava con un giornalista, ma trasalì – e anche vistosamente – quando incrociò per sbaglio lo sguardo di un collerico Camus vestito completamente di rosso e nero, neanche fosse un ballerino di flamenco. Si fermò.

«Da questa parte.» sibilò subito, cercando di portare Aiolia e Milo altrove, ma era già troppo tardi.

«Che diamine…»

Le labbra di Milo rimasero schiuse, tremule, mentre il suo dito si alzava nella direzione del fidanzato.

Quella proprio non ci voleva, pensò Shaka. Fece mente locale della situazione: era talmente vicino a realizzare il suo piano, che mandarlo in fumo soltanto per i capricci di Camus sarebbe equivalso ad abbandonare una maratona a dieci metri dal traguardo.

«Perdonami, Aiolia.» mormorò staccandosi da lui.

Si diresse – o meglio: si catapultò – verso Milo e gli gettò le braccia al collo, voltandolo in maniera tale che avesse Camus alle proprie spalle. Lo strinse quindi in quell’abbraccio di circostanza e, facendo forza affinché non si liberasse, analizzò il comportamento del gatto dai capelli rossi.

«Lasciami, Shaka!» vociò Milo, cercando di staccarselo di dosso, ma per tutta risposta l’indiano gli bloccò il viso tra le mani e appoggiò la propria fronte alla sua.

Gli occhi di Milo si spalancarono.

«Io ti amm-»

«Se dici un’altra parola ti spedisco nel mondo delle bestie.»

Shaka non avrebbe voluto essere così drastico, ma Milo certo sapeva essere fastidioso. Lo vide sgranare ancora di più gli occhi, guardarlo come se fosse un fantasma, cercare di ritrarsi da quella presa troppo intima e facilmente equivocabile. Ma Shaka non poteva mollare, no: non adesso, almeno, che vedeva Camus dimenarsi come una furia tra le braccia di Shura.

Eppure è ben noto che le disgrazie non vengono mai da sole.

«Ehi, ma cosa combinate!»

Shaka lasciò andare Milo nello stesso momento in cui Shura e Camus scomparvero dal suo campo visivo. Non si curò né dell’espressione sconcertata del povero amico, né di quella tristemente comprensiva di Aiolia; si volse invece verso colui che aveva parlato e congiunse le mani, come se non fosse successo alcunché.

«Aphrodite, mio caro.» salutò, aprendosi in un sorriso forzato. «Da quanto tempo!»

L’uke lascivo si portò le mani ai fianchi, ad occhi socchiusi. «Mio caro? Mpf! Finché non ti farai tagliare i capelli, tra di noi potrà scorrere soltanto invidia!»

Sta per finire tutto.

Manca poco, Shaka, poi riporterai le cose alla normalità.

Tutti questi ragazzi sono nelle stesse condizioni di Camus. Pensaci.

«Allora arrivederci.» tagliò corto Shaka. «Salutami Death Mask.»

A passi svelti condusse Milo e Aiolia lontano da Aphrodite, in silenzio. Poteva scorgere con la coda dell’occhio l’espressione confusa del primo, ma apprezzò il fatto che fosse rimasto zitto e non facesse più alcuna domanda. A suo modo era una manifestazione di fiducia.

Si fermò, infine, tra due schiere di giornalisti, a pochi metri da un palco allestito vicino al garage della casa. Dal viavai di gente che portava microfoni e sedie dedusse che da lì a poco qualcuno avrebbe parlato. E allora sì che si sarebbe divertito come mai in vita sua.

«Va tutto bene, tesoro?» sussurrò allora Aiolia, voltando il capo verso di lui. «Ti vedo un po’ turbato.»

Sta per finire tutto.

Shaka fece un altro sorriso. Eppure, questa volta, non era artificioso.

«Sì, Aiolia. Non preoccuparti.»

«SIGNORI! Benvenuti!» una voce rombante, resa ancora più potente dal microfono, spezzò il chiacchiericcio dei presenti e concentrò tutte le attenzioni verso il palco. Persino Shaka si volse a guardare, sospirando di sollievo. Tutto stava per compiersi.

«Signori, benvenuti a Yaoi City! Il mio nome è Sion e sono uno dei tanti abitanti di questa meravigliosa città!» continuò il ragazzo mentre salutava con la mano e si muoveva sul palco come il più esperto dei presentatori. «Lasciate che vi presenti Doko, ovvero mio marito. Perché sì, amici miei, in questa città il mio matrimonio è valido!»

Uno scroscio di applausi si levò all’istante. Shaka si guardò intorno, per valutare la situazione: come previsto, c’erano diverse telecamere più tantissimi fotografi già all’opera.

«Sono serviti parecchi mesi per portare a termine questo progetto, ricordate? All’inizio esisteva un’unica grande città, poi smembrata grazie all’operato di due persone meravigliose: il sindaco Aiolos Anthelios e il suo segretario Saga Valiant!» strepitò ancora Sion.

Shaka si volse verso il palco, aggrottando la fronte. Dalle scale stavano salendo sul palco, mano nella mano, i due uomini che Sion aveva nominato. Mpf, sembravano così felici… non sanno ancora quello a cui vanno incontro.

«Essi hanno davvero votato le loro esistenze a questa città. Sono stati lontani dalle loro famiglie per più di un anno!» Sion strinse la mano al sindaco, gesto plateale che serviva solo ai fotografi. «L’hanno progettata, l’hanno battezzata sei mesi fa, e poi entrambi si sono candidati a sindaco… ma hanno infine deciso di continuare ad amministrarla insieme! Non trovate che sia una cosa bellissima?!»

Shaka fece scorrere una mano lungo il braccio di Aiolia.

«Devo andare.» gli bisbigliò all’orecchio, la voce assolutamente tranquilla. Lo guardò negli occhi: vide l’assoluta devozione. «Grazie di tutto, Aiolia.»

Lo scrittore gli sorrise, poi gli scostò la frangetta e gli stampò un bacio sulla fronte. Per una volta, Shaka ignorò il fatto di scambiarsi effusioni in pubblico.

«Vai.» fu la risposta di Aiolia.

Staccandosi quasi a malincuore, Shaka indietreggiò e rivolse un’ultima occhiata al palco, dove Aiolos stava per prendere la parola. Era quello il momento di agire: afferrò il braccio di Milo energicamente e lo tirò con sé a ogni passo. Dopo un’iniziale resistenza, sempre nell’assoluto silenzio, riuscì a ottenere la fiducia dell’amico e lo condusse lontano dal palco, dall’altra parte del giardino.

Dopodiché si volse a guardarlo.

Nessuna pietà nei suoi occhi azzurri.

«Milo, adesso vieni con me.» sibilò strappandosi con un gesto deciso le perle dai capelli e gettandole a terra. Dannazione, quanto aveva desiderato farlo! «Spero che tu sia ancora atletico come un tempo.»

Milo lo fissò come un pirata fisserebbe un tesoro. Poi gli si gettò addosso.

«Ma allora tu sei normale!» biascicò quasi singhiozzando, mentre Shaka tentava di sottrarsi all’abbraccio. «Ti prego, dimmi cosa è successo a Camus!»

«Abbassa la voce, sciocco.»

Shaka afferrò Milo per un polso e lo trascinò verso un cespuglio vicino a una finestra, dove si acquattò. Da lì poteva vedere ancora le ultime propaggini di folla. «Dobbiamo prendere una cosa dalla cantina di questa casa. Dopodiché riavrai il tuo Camus.»

L’amico prese ad annuire spasmodicamente, corrugando il viso giovane in un’espressione di seria disponibilità. Si passò una mano sulla fronte e con l’altra si slacciò il primo bottone della camicia.

«Come possiamo entrare?» mormorò iniziando subito a guardarsi intorno, accalorato. «Tutte le porte sono visibili dal palco…»

Shaka si sciolse anche la coda di cavallo e si lasciò sfuggire uno sbuffo di ovvietà.

«Entreremo dalla finestra.»

Milo si volse a guardare quella alle sue spalle. «Devo romperla?»

«No!» Shaka continuò a togliersi anelli e bracciali, senza però trattenersi dall’assumere un’espressione risentita. «Da questa stanza l’unica uscita porta a un corridoio con una vetrata dall’altra parte del giardino, saremmo in trappola.»

«E quindi?»

Alzando una mano, Shaka indicò la finestra del piano superiore. Ah, com’era felice di tutta quell’edera…

«Sei impazzito?!» esclamò Milo, sobbalzando.

Shaka però lo incastrò nel suo stesso gioco: «Hai detto poco fa che sono normale, o sbaglio?»

Senza nemmeno dargli tempo di replicare, spiccò un salto e si resse sia a una sporgenza della parete sia al legno del sostegno dell’edera. Non era difficile arrampicarsi, anzi, in qualche secondo riuscì a giungere a un cornicione e camminare sino alla finestra, dove finalmente si sedette.

Con grande piacere si accorse che era stata lasciata aperta di due dita. La schiuse del tutto, sorridendo infervorato, quindi si concesse una prudente occhiata a Milo.

Che, per la cronaca, non s’era mosso di un millimetro.

«Sali!» gli soffiò mentre scivolava all’interno della camera. «Questo graticcio sicuramente sostiene fino a 80 chili.»

«Ma ne peso 84!» si lamentò Milo.

Shaka diede un’occhiata al giardino. Grazie anche alla parziale oscurità, nessuno sembrava aver notato i due scalatori provetti, perciò fece segno a Milo di venir su e – onde evitare disgrazie – resse per quanto possibile il sostegno di legno. Eppure notò con sorpresa che l’amico era svelto quanto lui, se non di più: quello infatti si issò sul cornicione in poco più di tre passaggi e si aggrappò agilmente alla finestra.

«Questo è solo per Camus.» sibilò a denti stretti.

Shaka non riuscì a trattenersi dall’alzare un sopracciglio. «A quanto pare sei ancora atletico.»

Senza tergiversare oltre, oltrepassò il letto di Saga e aprì la porta della camera. Ricordava ancora quel corridoio, perciò evitando di farsi scoprire accendendo la luce prese per un polso Milo e lo condusse per le scale che conducevano al pianterreno.

Nel completo silenzio continuò a vagare per la casa, tra fotografie mute e silenti e quadri dalle cornici preziose. Era incredibile quanto fosse simile a una villa normale: nulla lasciava immaginare cosa realmente si nascondeva tra quelle pareti ostili.

Si fermò di fronte a una specchiera lunga quanto un’automobile. Con la luce che entrava dalle finestre Shaka riusciva a scorgere debolmente il riflesso proprio e di Milo, ma non si fece distrarre. Si concesse solo un sospiro, lasciando il polso dell’amico. Adesso sì che il gioco si complicava.

«Mi hanno portato qui.» sussurrò, avvicinandosi alla parete, dove un telefono spezzava la monotonia della vernice bianca. «Ed è da qui che si accede alla cantina.»

Milo tentò subito di staccare la specchiera dal muro, ma non ci riuscì.

«No, è una porta nascosta.» spiegò subito Shaka. All’improvviso, senza nemmeno finire di parlare, si aggrappò con forza al telefono e lo staccò dal muro, gettandolo a terra senza troppi fronzoli. Non si curò dell’espressione stupita di Milo ma al contrario iniziò a strappare tutti i fili che fuoriuscivano dalla crepa.

«Ma che stai facendo?!»

A Shaka sembrava parecchio ovvio, ma volle dare una spiegazione ancora più esaustiva. Spingendo  l’amico dentro un’altra stanza, e allontanandosi a propria volta, raccolse da terra il telefono e lo lanciò contro il vetro. Decine di frammenti schizzarono via liberando quell’inconfondibile rumore cristallino, ma subito dopo l’indiano tornò ad accanirsi contro i fili nel muro arrivando addirittura a staccare pezzi di parete.

«Shaka…!» frusciò allora Milo con voce sconvolta, osservando ciò che si nascondeva dietro lo specchio. Beh, Shaka l’aveva già visto: gettò una semplice occhiata di sottecchi a quella specie di porta blindata, poi riuscì a staccare una grande lastra metallica su cui erano incastrati diversi fili.

«Così rischi di prendere la scossa!» quella volta Milo rese la voce più incisiva e arrivò addirittura a bloccare i polsi dell’altra. «Non riuscirai mai ad aprirla, così. Rischi solo di bloccarla del tutto.»

«Ah, davvero?»

Shaka non era particolarmente avvezzo a ricevere ordini, soprattutto quando aveva già deciso cosa fare. Si districò dalla presa dell’amico e si portò la mano a uno stivale, lanciandogli un’occhiata di sfida. Un attimo dopo ne estrasse il manico di quello che sembrava un martello.

«Chi ti ha detto che io voglia aprirla?» proseguì, mentre tirava fuori dall’altro stivale una massa. Mentre univa le due parti della mazzetta, si compiacque di esser stato così bravo da scalare il sostegno dell’edera pur avendo un simile peso alle caviglie. Di sicuro non era un comune essere umano!

Benché Milo lo fissasse incredulo, Shaka proseguì nel suo intento. Gettò un’occhiata alla più vicina finestra per assicurarsi che la festa in giardino continuasse, quindi con rapidi colpi iniziò ad allargare il buco nel muro. Il rumore non era eccessivo, ma prestò comunque la massima attenzione.

«Sei pazzo a prescindere, Shaka.» biascicò a un certo punto Milo, mentre si avventava sullo squarcio e iniziava a tirar via pezzi di mattone a mani nude. «E se questo fosse stato un muro portante?»

«Saresti già morto sotto le macerie.» fu la secca replica.

Il buco nella parete divenne appena più grande di un comunissimo forno a microonde. Milo strappò via un’altra scatoletta di giunzione, ma a quel punto Shaka lo fermò per un polso e scosse la testa.

Sapeva che quello che stava per dire aveva una certa componente di follia, ma dando un’ultima mazzata in profondità al muro riuscì finalmente a trovare un vano. Era il momento.

«Aiutami a entrare.»

Milo si portò le mani alla testa. «Tu sei-!»

Dieci secondi dopo le spalle di Shaka erano incastrate nel muro. Un braccio, però, aveva già raggiunto il vano e cercava di spingersi in avanti aiutandosi con la mazzetta; le gambe, al contrario, erano allacciate a qualcuno che tentava disperatamente di farle entrare in quello squarcio.

«Spingi ancora.» soffiò Shaka, tentando di non pensare a quali assurdi doppi sensi potevano nascere da quella frase. Sentì le mani di Milo stringersi intorno ai propri polpacci e indirizzarlo sempre più in profondità. Il dolore fisico, Shaka, nemmeno lo conosceva: aveva sofferto molto di più indossando le perline tra i capelli.

A un certo punto si sentì scivolare in avanti nel buio più assoluto. Era fatta! Cadde a terra, dall’altra parte del muro, facendosi scudo unicamente delle braccia, ma fu lesto a tirarsi in piedi e iniziare a tastare la parete.

Alla fine sentì una lastra metallica più fredda del resto del muro su cui alcuni bottoni in rilievo avevano una consistenza diversa. Li premette tutti, esultando tra sé e sé per quella vittoria, quindi si affrettò a guardare con soddisfazione il retro della porta blindata aprirsi. Al tempo stesso, alcuni deboli neon sul soffitto si accesero e illuminarono finalmente quella stanza segreta.

Milo entrò dall’ex specchiera, ma non tardò a commentare sconvolto: «Tutto ciò non ha senso.»

Shaka alzò le spalle, dirigendosi verso una rampa di scale con i vestiti totalmente strappati sulle braccia e sul busto.

«Se può interessarti, io sono scoppiato a ridere quando Saga ha scritto la combinazione d’apertura sul telefono.» sospirò Shaka con aria di superiorità. «Avevo già capito che il resto del muro non era stato rinforzato. Ora sbrigati.»

Senza tergiversare ulteriormente Shaka scese le scale che conducevano al piano inferiore.

La luce dei neon era ancora abbastanza debole quando arrivò in un’altra sala, più grande della precedente e molto più accessoriata: a tutte le pareti erano state infatti addossate delle scrivanie che reggevano computer di grosse dimensioni, come se fossero processori di sistemi di sicurezza nazionale. Erano tutti accesi, con lo schermo che mostrava quelli che parevano sismogrammi; soltanto a un’occhiata più accorta – che Shaka non si risparmiò – si potevano scorgere nomi e cognomi di centinaia di persone.

«Cosa diamine…» Milo si portò una mano alla bocca, mentre i suoi occhi sgranati correvano da un computer all’altro.

«Credo che Saga sia un genio.» constatò Shaka, battendo le dita sulla targhetta di un processore che recava la scritta CIA. «Un genio del male. Forse troppo scomodo persino per il governo.»

Milo continuò a fissare i vari schermi.

«Perciò cosa c’è di meglio di creare un piccolo mondo su cui governare?»

Shaka si avvicinò alla porta di un’altra stanza. «Guarda, Milo.»

«C’è il nome di Camus!» esclamò Milo all’improvviso, indicando uno schermo, poi si volse verso di lui. «Qui c’è an-»

S’interruppe.

Shaka sapeva benissimo che gli schermi, per quanto interessanti, non potevano competere con la stanza in cui stava entrando. E Milo, mpf, cos’altro avrebbe potuto fare, se non zittirsi e seguirlo?

Le pareti totalmente bianche erano occupate da grandissimi schermi blu su cui spiccavano in bianco dei disegni anatomici di varie parti del corpo. Ma ciò che costituiva il nocciolo dello stupore non era tanto quella lezione di anatomia fuori programma, quanto tutte le numerose componenti meccaniche che erano state inserite con precisione nei muscoli, nelle giunzioni neuromuscolari, in alcuni organi… e nel cervello.

Un lettino al centro di quella stanza, circondato da infiniti strumenti da sala operatoria, non lasciava dubbi di interpretazione.

«Li hanno completamente trasformati in androidi…» sussurrò Milo, pallidissimo.

Shaka annuì greve, mentre si portava vicino a una grande lastra spessa almeno due dita su cui v’erano oltre un centinaio di piccole antenne. Alcune avevano la punta illuminata, altre invece spenta. E proprio queste non erano accompagnate da nessun nome, mentre le prime recavano tutte un’etichetta con gli stessi nomi che poco prima si leggevano sugli schermi dei processori.

«Abbiamo vinto, Milo.» disse l’indiano, quindi lasciò la mazzetta sul lettino e prese in mano la lastra. «Tieni.»

Milo non si fece ripetere due volte quell’ordine. Iniziò anche lui a guardare con evidente sgomento le antenne e le etichette, finché non impallidì ancora e mormorò, alzando gli occhi: «Ma Shaka… quell’antenna ha il tuo nome.»

Per concludere la sua spiegazione, Shaka prese un altro oggetto e lo puntò dritto contro di lui. Una pistola più grande di una comune revolver, con una canna di metallo dentellata e la punta talmente fine che sembrava adatta per introdurre qualcosa in un corpo umano, era adesso ferma a qualche centimetro dal naso di Milo.

«Saga ha lasciato il compito di immettermi il chip di controllo ad Aiolia. Con questa.» sussurrò mentre i suoi occhi si facevano più freddi del ghiaccio. «Fa credere che la decisione finale spetti a coloro che chiama “seme”, mentre attende nell’altra stanza che si attivino i parametri vitali.»

Milo trasalì. «Ma se tu sei normale, allora…»

Shaka portò subito le dita intorno all’antenna che portava il suo nome, rigido.

«Aiolia è l’unica cosa che mi lega a questa spregevole umanità.» mormorò chiudendo gli occhi. «Non avrebbe mai potuto ridurmi in quello stato.»

Staccò e frantumò poi tra le dita il trasmettitore.

 

Colto da un conato di vomito, come se avesse perso del tutto l’equilibrio, Aiolia barcollò in avanti e si portò le mani alle tempie. Fu solo un istante, perché dopo acquisì la totale consapevolezza di essere nuovamente libero e non dover sottostare a nessun ordine.

Shaka ce l’ha fatta.

Sollevò lo sguardo.

«Signor Valiant, posso farle una domanda?»

Fece appena in tempo a scorgere una mano alzarsi, vicinissima al palco, poi distinse l’uomo che aveva parlato. Era Lord Rhadamanthys.

«Prego.» rispose tranquillamente l’altro, mentre gli faceva cenno di raggiungerlo sul palco. Un attimo dopo il Lord fu accanto a lui, serissimo come al solito, con le braccia incrociate. Saga tuttavia non gli passò ancora il microfono, ma aggiunse: «Quest’uomo è un critico molto famoso che ha deciso di vivere in questa città. Il suo nome è Lord Rhadamanthys de Wyvern! Fate un applauso!»

La folla iniziò a battere le mani, mentre Aiolia sgusciò più vicino al palco per incrociare gli occhi del critico. Dovette attendere qualche istante, ma quando intercettò lo sguardo si fece sfuggire un largo sorriso ferino: missione compiuta.

«Faccia pure la sua domanda.» lo incitò Saga passandogli il microfono.

Il Lord se ne appropriò immediatamente. «Grazie. Vorrei sapere, se possibile, cosa ne pensa lei del controllo mentale.»

La folla cadde in un gelido silenzio. Aiolia vide Saga impallidire, diventare di un bianco quasi cadaverico; notò persino una scintilla di paura nei suoi occhi, subito sostituita da un lampo di rabbia.

«Lord Rhadamanthys, non pensa che questa domanda sia inappropriata all’evento?» biascicò il vicesindaco, senza microfono, ma a voce abbastanza alta affinché si udisse nei dintorni del palco. «Mi dia il microfono.»

«Ma signor Saga.» Rhadamanthys indietreggiò, sfuggendo alla mano di Saga. «La prego, risponda: com’è possibile che dopo aver letto i suoi volantini decine di ragazzi decidano all’improvviso di comportarsi come uke ribelli, uke lascivi, uke stuprabili…?»

«Aiolos, fallo smettere.» ruggì Saga.

Tuttavia, proprio in quell’istante, Aiolia si portò proprio sotto il palco e tra il mormorio stupito della folla iniziò ad applaudire con studiata lentezza, senza mai distogliere lo sguardo da quello del cognato. Brutta situazione, eh? Pensò soddisfatto. Adesso ti faccio pentire di aver toccato mio fratello.

Saga abbassò gli occhi proprio su di lui. Sgranati, sgomenti, quasi lucidi; il demone si sentiva sotto scacco, a quanto pare. Aiolia lo vide dischiudere la bocca e, benché il volume fosse troppo basso per essere sentito, riuscì a capire cosa avesse detto semplicemente leggendogli le labbra. Shaka.

Con uno scatto felino, il segretario si diresse verso le scalette del palco, ma lo scrittore non era tanto stupido da lasciarlo fuggire. Anzi, forse per la sua naturale propensione a immaginare trame complesse, pensò che quello avesse già intuito l’inganno di Shaka e volesse correre a bloccarlo.

Tsk! Aiolia lo placcò immediatamente ma ricevette una strenua opposizione. Saga aveva una forza davvero notevole a dispetto dell’apparenza raffinata, come se nascondesse dentro di sé una galassia pronta a esplodere.

«Aiolos, digli di lasciarmi!» vociò allora, voltandosi verso il palco. «Lo sai che io sono nel giusto!»

La folla allibita iniziò a mormorare sempre più insistentemente e numerose telecamere si puntarono verso i due ai piedi del palco. Sempre tenendo ben stretto il vicesindaco Aiolia gettò un’occhiata al fratello, sperando che facesse qualcosa, ma quello continuava a stare immobile a pochi passi da Rhadamanthys con un’espressione impassibile in viso.

Ma perché…?

«Aiolos!» la voce di Saga divenne un vero e proprio grido. Gli occhi erano adesso colmi di terrore. «Aiolos, se Shaka riuscisse a-»

«Niente se, Saga.»

Aiolia avrebbe riconosciuto quella voce ovunque. Si volse, verso la folla che non capiva e che vociava, verso Camus che s’aggrappava a Shura, verso Milo che reggeva una lastra di metallo.

Verso Shaka, che aveva in mano una pistola.

Bloccò Saga con più forza.

 

«Niente se, Saga.»

Shaka socchiuse gli occhi. Poteva scorgere, sebbene non fosse vicino a loro, Aiolia e Saga intenti in una colluttazione ai piedi del palco, e anziché crucciarsene se ne beò: lo scrittore aveva riacquistato la sua indole abitudinaria.

Gettò a terra la pistola di iniezione, mentre spostava lo sguardo prima sui vari giornalisti increduli, poi sul sindaco Aiolos che era in piedi sul palco, assolutamente impassibile e col viso spento, come se non avesse ben compreso cosa stesse succedendo.

Alzò le spalle nella sua direzione.

«Credo che sia ora di fare chiarezza, Aiolos.» disse con un certo risentimento. «L’idea è stata di Saga?»

«Aiolos, fermalo!»

Saga gridò in preda alla collera, ma questa volta Aiolia lo buttò a terra e lo placcò con più forza, tappandogli la bocca. Sebbene non amasse simili scenari di forza bruta, Shaka non trovò motivo di opporsi e, avvicinandosi a Milo, staccò subito un’antenna dalla lastra.

«Cosa succede?!» osò chiedere un giornalista temerario.

Ma la risposta non fu data da Shaka. Si udirono alcuni forti colpi di tosse provenire dalla folla, che si dispiegò mentre l’uomo che tossiva veniva avanti, una mano sulla bocca, gli occhi rivolti al palco.

Kanon Valiant era salvo.

«Come… come hai potuto…» mormorò mentre la rabbia tingeva il suo viso di rosso. Shaka seguì il suo sguardo: non era di certo Aiolos il destinatario, oh no, né tantomeno il fratello Saga.

Lord Rhadamanthys in fondo non era del tutto innocente.

Shaka inasprì lo sguardo. Con un veloce gesto, ruppe le antenne di moltissimi altri ragazzi e lasciò che il cortile si riempisse di gemiti, ansiti, colpi di tosse e persino urla, mentre il mito di Yaoi City iniziava a cadere.

Con la coda dell’occhio vide anche Camus staccarsi da Shura, portandosi le mani tra i capelli tagliati, e Milo che sorrideva in silenzio, trattenendosi il labbro inferiore con i denti. Sentiva i mugolii di protesta di Saga, adesso bloccato anche da altre persone, e avvertiva come se fossero schiaffi tutti i flash dei fotografi.

Ho vinto.

Mancavano ormai pochi trasmettitori.

Tuttavia, mentre li disattivava, si accorse che alcune etichette non erano contraddistinte da nomi, bensì da numeri. Si fermò quando rimasero soltanto sette antenne, contraddistinte proprio dai numeri da 1 a 7.

Poi Milo, davanti a lui, sgranò gli occhi e gli rifilò una spallata per spostarlo.

«Attento, Shaka!»

Barcollando, l’indiano fece qualche passo e finì tra la folla impaurita. Si volse subito, cercando di capire cosa fosse successo, ma riuscì solo a scorgere Shura avventarsi velocemente su un furioso Death Mask.

«Fallo smettere, Shura! Non pensi all’incidente?!» urlò quello, mentre alle sue spalle Aphrodite guardava la scena senza reagire. «Shura, lo capisci che cosa sta per fare?! Shura! Fallo smettere!»

Incidente.

Shaka trasalì, vittima di un brutto presentimento, ma non riuscì a fermarsi. Corse di nuovo da Milo che reggeva la lastra e afferrò i trasmettitori 6 e 7, quindi li ruppe.

Un urlo di terrore spezzò la confusione che s’era creata dopo l’aggressione di Death Mask. Persino quello smise di placcare Shura, atterrito, mentre il suo viso sbiancava vistosamente.

Non… non c’era tempo da perdere.

Shaka scambiò un’occhiata perplessa con Milo, confuso quanto lui, poi avvicinò il palmo della mano ai trasmettitori restanti. Li ruppe tutti tranne il numero 1.

Sapeva di aver indubbiamente fatto la cosa migliore. Sapeva che, per mettere fine allo scempio di Yaoi City, avrebbe dovuto distruggere ogni cosa creata da Saga e restituire alla natura tutte le sue facoltà; non era forse per quello che sia Rhadamanthys sia Shura avevano deciso di aiutarlo?

Di conseguenza si sorprese quando vide, sul palco proprio davanti a sé, il giovane Sion e il suo compagno scivolare a terra, senza fare alcunché per limitare i danni della caduta. Ancora qualche urlo si levò dalla folla, ma l’attenzione di Shaka fu calamitata da ciò che successe a pochi passi da lui.

Death Mask lo guardò a bocca aperta, cereo, sconvolto, un attimo prima di afferrare Shura che scivolava a terra come Sion. Non staccò lo sguardo nemmeno quando sorresse Aphrodite che, poco prima di chiudere gli occhi, lo aveva abbracciato da dietro.

Shaka rimase immobile.

La sua mente elaborava un’unica, terribile, agghiacciante spiegazione.

«Shaka, loro sono… sono m…» balbettò Milo. «Sono…»

In quel momento Death Mask si sedette a terra, stringendo i corpi dei due ragazzi esanimi, poi coprì con una mano gli occhi di Aphrodite e abbassò il capo.

Chi vuol trovare la verità si metta sulla strada del dubbio.

Ma Shaka, il dubbio, lo aveva sentito nascere nel cuore solo in quel momento.

«NO! FERMO! FERMO!»

Sollevò gli occhi giusto in tempo per vedere Saga liberarsi da coloro che lo bloccavano, Aiolia compreso, e correre verso di lui. Col viso paonazzo, lo sguardo fuori di sé. Esagitato. In lacrime.

«Fallo, Shaka!»

La voce del sindaco fu un tuono potente.

Quando Shaka spezzò l’ultima antenna si ritrovò Saga davanti, in lacrime. In lontananza invece non vide altri che Aiolos cadere dal palco.

«Perché…» mormorò Milo, mentre lasciava scivolare a terra la lastra metallica. Camus lo raggiunse, gli prese il viso tra le mani e glielo nascose sulla propria spalla, come se volesse proteggerlo da quell’orribile verità; Shaka vide quel gesto, sì, ma vide anche Aiolia portarsi le mani alla bocca, mentre osservava il corpo senza vita del fratello.

«Shaka, sette giorni servirono a Dio per creare la Terra. Ho preteso troppo.»

Saga cadde in ginocchio, mentre la folla intorno a lui si ritraeva atterrita.

«Mi dispiace di non poter essere io a darti le risposte che cerchi.»

Fu troppo veloce, fu troppo imprevisto.

Shaka ebbe solo il tempo di notare Saga raccogliere la pistola da terra, ma non riuscì a evitare che si spingesse in petto sia la punta sottile sia la stecca dentellata della lunga canna.

Kanon urlò.

 

 

 

 

 

EPILOGO

 

Appoggiando una mano a un lampione, Shaka si assicurò che anche l’ultimo poliziotto avesse abbandonato il giardino che guardava ormai da qualche minuto. Poco dopo, mentre rimaneva immobile, due volanti si allontanarono a sirene spente e lasciarono dietro di sé una scia di fumo grigiastro.

Di grigio, tuttavia, non c’era solo qualche gas pronto a disperdersi nell’aria. Le strade quasi deserte, le case silenziose, il Sole prossimo a tramontare sembravano a Shaka privi di colore almeno quanto il proprio stato d’animo.

Quando ci sarà la fine del mondo, dicevano i catastrofisti di Chicago, io voglio essere in Kentucky, perché ogni cosa accade lì vent’anni dopo essere accaduta nel resto del mondo.

Ma Shaka l’aveva già vista, la fine del mondo. Del suo mondo. E l’aveva vista proprio in Kentucky.

Si allontanò dal lampione e varcò il cancello del giardino, diretto verso la porta della casa davanti a sé. Gettò distrattamente un’occhiata alla più vicina finestra del pianterreno, mentre i ricordi si facevano quasi opprimenti.

Battendo la mano a pugno solo due volte, bussò alla porta di casa e si sfregò le scarpe con rispetto sullo zerbino, ben attento a non urtare i due cespugli di rose che crescevano ai suoi lati.

Si sentì sollevato, quando la porta si schiuse appena e un viso spuntò dallo spiraglio lasciato aperto. Nessuno dei due parlò per qualche secondo, poi, senza aver fretta, il padrone di casa indietreggiò e sparì all’interno, lasciando volutamente aperta la porta.

Shaka entrò in silenzio.

Benché fuori imbrunisse, nessuna luce era accesa e il poco chiarore proveniva da una finestra semiaperta. Ciò nonostante, l’indiano non ebbe difficoltà a scorgere ciò che si trovava intorno a lui.

Un divano era stato coperto con un lenzuolo bianco e sopra di esso erano stati ammucchiati, confusamente, diversi scatoloni già sigillati. Un tavolo, invece, era stato capovolto e alcune sedie posizionate su di esso in modo da non sporgere oltre le quattro gambe.

Alle pareti non si trovava appeso niente, ma appoggiati a terra v’erano grossi rettangoli impacchettati che avevano l’aria di essere – o esser stati – quadri.

Soltanto un mobiletto era ancora intatto nella sua forma e funzione. Su di esso, però, tutte le cornici erano state capovolte nascondendo ogni fotografia.

«Posso fare qualcosa per lei?» parlò allora il padrone di casa.

Shaka gli puntò gli occhi addosso. «Spero di non disturbare, signor Death Mask. Vorrei farle una sola domanda.»

Death Mask per tutta risposta raccolse un tappeto da terra e iniziò ad arrotolarlo.

«Scommette che indovino?» borbottò secco, senza esternare una singola emozione, mentre faceva scorrere le mani sul tessuto. «L’incidente, vuole sapere? Non può aspettare che la polizia finisca le indagini e le comunichi tutto?»

«Io voglio saperlo da lei.»

La voce di Shaka suonò parecchio dura, ma non si arrestò: «Lei è un avvocato, dovrebbe sapere che la verità non sarà mai resa pubblica. Non quando c’è di mezzo un agente della CIA, perlomeno. O anche più di uno.»

Death Mask si bloccò, alzando gli occhi di scatto.

«Mi permetta di dirle…» mugugnò torvo. «… che se indovina anche quale nome si cela dietro la mia identità fittizia, il prossimo a lavorare alla CIA sarà lei.»

Shaka non raccolse la provocazione, si limitò ad alzare una volta le spalle e puntare lo sguardo verso il divano. E dire che proprio lì s’era consumato uno degli episodi più assurdi della sua esistenza.

«Cosa c’è da spiegare?» fece allora Death Mask, tornando a occuparsi del tappeto. Ma a Shaka non sfuggirono i movimenti più nervosi. «Sa, c’ero io, c’era Saga, c’erano gli altri. Poi sono caduto a terra. E tutto ciò che ricordo è Aphrodite con la schiena spezzata che giaceva accanto a me.»

L’indiano non si concesse nemmeno il diritto di sgranare gli occhi. Si limitò a osservare l’altro mentre finiva di avvolgere il tappeto e lo appoggiava accanto ai quadri, disordinatamente.

«In questo universo la gente nasce e muore come se fosse polvere.» proseguì Death Mask, sfregandosi le mani. «Non è d’accordo?»

Shaka esitò un attimo prima di rispondere.

Fallo smettere, Shura! Non pensi all’incidente?! Shura, lo capisci che cosa sta per fare?! Shura! Fallo smettere!

Non reputando utile far notare la contraddizione, si limitò ad annuire. «Anche se mentre si è in vita si cerca di ottenere l’amore e la gioia per superare la sofferenza, alla fine tutto finisce invano con la morte.»

«Sono d’accordo.»

Con un ghigno visibilmente forzato, Death Mask aprì uno dei cassetti del mobiletto e iniziò a rovistare tra il contenuto.

«Di Aphrodite era rimasto soltanto il viso. Tutto il resto, in quella testa, gliel’aveva sistemato Saga.» proseguì, strappando alcuni fogli e appallottolandone altri. «Allora è proprio meglio che sia morto.»

Shaka stavolta tacque del tutto. Notando che Death Mask era ormai impegnato a sistemare i cassetti, decise di tener fede alla propria iniziale richiesta di una sola domanda e si diresse verso l’uscita. Non c’era nient’altro da fare, se non lasciare quell’uomo al peso delle sue considerazioni.

Tuttavia, mentre si voltava per chiudere la porta, lo sorprese a sollevare una delle cornici.

Anche se mentre si è in vita si cerca di ottenere l’amore e la gioia per superare la sofferenza, alla fine tutto finisce invano con la morte, aveva detto, ma adesso quasi si pentiva di non aver aggiunto, forse per presunzione, che in realtà la vita umana è come un lampo di luce.

Si diresse velocemente verso la strada, senza guardare indietro. Le ombre ormai lunghissime accompagnavano il Sole che s’avvicinava sempre di più all’orizzonte.

Quando già s’era avviato per il viale, si accorse con la coda dell’occhio che un’automobile sulla strada aveva rallentato. Riconobbe la vettura, ma ebbe una ulteriore conferma ai suoi pensieri quando il conducente gli fece un segnale con gli abbaglianti.

Si avvicinò.

«Shaka, noi partiamo adesso.» con voce inflessibile, Camus si sporse dal finestrino smuovendo appena la corta capigliatura. «Incontriamoci alla prima area di servizio.»

L’indiano gettò un’occhiata all’abitacolo, dove Milo guardava fuori dall’altro finestrino. A giudicare dai suoi occhi spenti, tuttavia, era completamente sovrappensiero.

«Sì.» rispose allora Shaka. «Ci vediamo dopo.»

Con un cenno del capo, Camus alzò il finestrino e riprese la marcia lungo il viale. Shaka, al contrario, attraversò il giardino di una delle case per risparmiare tempo, quindi prese a camminare lungo la strada dell’altro isolato.

Fu qui che vide, parcheggiata davanti una grande villa, una decappottabile sui cui sedili posteriori c’era una grande gabbia per animali. Anche questa volta non dovette sforzarsi molto per riconoscere il proprietario: uscì in quell’istante dalla casa un uomo in jeans strappati che portava al guinzaglio un alano di grossa taglia. Subito dopo altri due uomini lo seguirono correndo.

Shaka si fermò.

«Kanon, dove vuoi andare in quelle condizioni?» a parlare era stato Lord Rhadamanthys, visibilmente scosso. «Non hai fatto altro che vomitare tutto il giorno.»

L’altro, per tutta risposta, aprì lo sportello della macchina e lottò per spingere il cane nella gabbia. Quello oppose resistenza, ma alla fine Kanon ebbe la meglio. Quindi il Lord si avvicinò.

«Allontanati.» replicò Kanon con un’occhiata assassina. «Apparteniamo a due mondi diversi. Non c’è niente su cui discutere.»

«Ma Sag-»

«Non nominarlo.»

Il tono fu così gelido che persino Shaka, seppur lontano dal trio, trasalì.

«Non nominare mai più mio fratello. Addio.»

Chiudendo la portiera con uno schianto fortissimo, Kanon balzò in auto e mise in moto senza nemmeno allacciarsi la cintura. Voleva andarsene, pensò Shaka. Vuole andarsene perché non ha più niente qui, se non una tomba su cui piangere. Vicino a un’altra su cui piangeva e per sempre avrebbe pianto uno scrittore che proprio non s’immaginava un simile epilogo.

Shaka sospirò, riprendendo a camminare in direzione opposta. Malgrado il rombo del motore, malgrado i latrati del cane, malgrado le invocazioni di Lord Rhadamanthys, fu troppo facile avvertire i singhiozzi di Kanon perdersi nell’aria di quella soffocante città.

La sagoma della propria casa era ormai visibile in lontananza.

Non contò i passi che lo separavano da quella meta, tutt’al più si preoccupò di contare quante macchine stavano abbandonando quel posto. Si trattava di un esodo lento, ma necessario. C’era chi aveva perso il proprio carattere e la propria dignità per mano della persona più amata, chi invece con l’inganno; altri, addirittura, s’erano trovati a vivere la vita di una mera macchina robotica.

Trovò Aiolia appoggiato al cofano dell’auto. Senza dire una sola parola, gli fece un cenno col capo invitandolo a salire e si diresse senza esitazioni verso il posto del guidatore, quindi montò a bordo e si allacciò la cintura.

Lo scrittore fu più lento nei suoi movimenti, ma una volta che Shaka ebbe messo in moto chiuse gli occhi e si coprì il viso con una mano.

L’uke perfetto.

Tsk, qualcuno aveva addirittura pensato che il nome Shaka Tuja potesse confarsi a quella descrizione senza controllo mentale. Strinse i denti, indignato.

Chiunque leggerà questo romanzo è destinato ad essere ucciso dal grande Kasha Juta.

Accelerò non appena imboccata la strada che conduceva alla provinciale.

Egli è Verità, Egli è questo romanzo, e in quanto tale non può essere violato dai vostri occhi infami e perversi. Egli è il Mondo su cui oggi vive l’umanità.

Dando un’occhiata allo specchietto retrovisore, riuscì a scorgere il cartello segnaletico della città. La scritta “Benvenuti a Yaoi City” era ancora leggibile, ma qualcuno s’era premunito di sbarrare quell’infame nome con una vernice rosso scarlatto. Più in alto, con lo stesso colore, un nuovo toponimo brillava sotto gli ultimi raggi del Sole.

Egli lottò contro il Male che sembrava Bene e contro il Bene che sembrava il Male. Ha vinto ogni battaglia: ciò che resta è una tomba silenziosa in cui tutti i vivi hanno sepolto i propri ricordi.

“Benvenuti al Santuario”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Okaaaaaaay, fatemi spiegare!

Quando iniziai a scrivere la fanfiction non avevo assolutamente intenzione di farla finire così, mi sarei allontanata dal film per un lieto fine più divertente. Anzi, essendo una parodia dissacrante, sarebbe dovuta sfociare in un altro dei tanti luoghi comuni dello yaoi. Tuttavia siccome sono passati secoli dalla stesura del primo capitolo ho cambiato idea e mi sono detta “Oh beh, tanto qui ho combinato già abbastanza casini, perché non complicare ulteriormente la situazione? In fondo Saga l’ha fatta grossa!”.

Ed effettivamente in questo capitolo scopriamo che, dopo un indefinito incidente che ha coinvolto sette agenti della CIA, soltanto Saga e DM sono riusciti a sopravvivere in maniera “naturale”. Da qui il comprensibilissimo gesto di Saga di creare delle vere e proprie macchine pensanti per sostituirli, e quello un po’ meno discutibile di usare la propria abilità per piegare al proprio volere tutti gli abitanti di una città creata ad hoc. Ma questo l’ha capito solo Shaka: dubito che racconterà la verità completa ad Aiolia.

Se vi fosse sfuggito i numeri 6 e 7 indicavano Mu e Aldy, non a caso Kanon si porta via il loro cagnolone Fuffi. E molla Rhadamanthys senza nemmeno pensarci due volte. Anche nelle AU un saint e uno specter non possono pretendere rose e fiori ù__ù

Comunque in questo capitolo ho usato molte citazioni tratte dal manga per il dialogo Shaka/DM; anche la frase sul Kentucky l’ho letta da qualche parte e l’ho inserita perché nel contesto era azzeccata.

Mh…

Grazie a Dio è finita. Non sapevo più gestirla ù___ù;;;;

Perdonatemi, nobile Shaka, per avervi coinvolto nelle mie folli idee di tre anni fa. Accadrà di nuovo, ma non saranno AU di questo calibro.

Tutti a vedere La Donna Perfetta adesso! è_____é

  
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