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Autore: Love_in_London_night    04/11/2012    9 recensioni
Una promessa difficile da mantenere, quella del titolo. Difatti è una promessa infranta.
Una scelta da cui ne conseguono tante altre, molte obbligate.
Quindi c’è Pemberley, che non si è fermata un attimo negli ultimi dieci anni e non sa quale direzione ha preso la sua vita.
C’è Nathan che è il suo passato, il suo primo grande amore. Il custode di quel cuore che poi la proprietaria si è ripresa con la forza.
C’è Rhys, che non è perfetto e lei mai si sarebbe vista con un tipo simile, ma qualcosa tra loro sta succedendo.
E c’è Naive, l’ago di una bilancia troppo delicata, come l’equilibrio che tutti questi personaggi faticano a trovare.
Rhys è l’occasione di Pem per voltare pagina dopo anni, ma cosa succede se il passato, con le fattezze di Nathan, ritorna, anche se non proprio per lei? E se ci fossero nuove responsabilità per qualcuno a complicare il tutto?
Una storia, un grande inganno su come la scelta sbagliata possa essere quella giusta.
Dalla storia:
“«Mi piace il buio» sentenziò Pemberley dopo poco.
«E perché?» lui la trovò strana come affermazione.
«Perché può essere sempre illuminato».”
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Video Trailer di Ti ruberò il cuore


Capitolo 1
 
Il passato è il presente di ieri
 

Avere diciassette anni era bellissimo, specialmente se non avevi fretta di crescere ed eri la presidentessa del Comitato Studentesco.
Camminava in compagnia della sua immancabile spensieratezza per i corridoi della scuola, con lo sguardo sicuro e solare che la contraddistingueva. Era giunta con il suo passo aggraziato nella sala mensa del liceo dove, con l’aiuto dell’associazione cui faceva capo, si stavano preparando gli addobbi per il ballo di primavera. Le ragazze dipingevano fiori che con strascichi degni di un pittore esperto diventavano eleganti lettere, atte a dare il benvenuto a chiunque la sera del ballo si fosse presentato in palestra. I ragazzi invece, da buoni cavalieri, avevano deciso di dedicarsi ai lavori più pesanti, quali le costruzioni in compensato di parti del palco e della scenografia: il tema della festa erano le creature leggendarie.
Travis, dell’ultimo anno, stava costruendo un bellissimo albero finto a cui poi sarebbero state appese fronde piangenti come quelle di un salice. Quale luogo migliore per donare ristoro a meravigliose fate dei boschi?
Pemberley passò da ogni gruppo per controllare a che punto fosse il lavoro, per sapere se avevano bisogno di aiuto e per capire se occorreva altro materiale; era puntigliosa, un fatto rinomato in tutta la scuola, ecco perché ricopriva quella carica. Non c’era nessuno più adatto di lei, era la prima a esserne a conoscenza.
Dopo aver passato in rassegna ogni lavoro in corso, riunì le persone più fidate all’interno della mensa per programmare altri punti riguardo l’organizzazione del ballo: nulla poteva essere lasciato al caso, niente sarebbe andato storto, non era nel suo stile.
Stavano parlando della disposizione dell’arco davanti all’entrata, una cosa importante, dato che sotto a esso sarebbe stata scattata la foto ricordo, il problema era non creare coda all’ingresso. La discussione era entrata nel vivo, facendo permeare la serietà dei membri e prevalere il loro raziocinio, quando furono interrotti.
Lauren, una ragazza del secondo anno che si fermava a scuola il pomeriggio per frequentare il corso di economia internazionale richiamò l’attenzione della presidentessa con un timido schiarirsi di voce. Questa si girò paziente, in attesa che la ragazza parlasse.
«Pemberley ciao, scusa se ti disturbo, ma…» divenne rossa, come se continuare le costasse fatica «Ho incontrato Nathan Alcott nei corridoi, mi ha detto di dirti che il Preside ti sta aspettando per parlare riguardo il ballo».
La ragazza scostò indietro i voluminosi capelli castani, leggermente crespi, nel tentativo di darsi un aspetto sbarazzino. Fissò Lauren con furbizia prima di ringraziarla per averle recapitato il messaggio. La ragazzina corse fuori, felice di non essere più in presenza dei più grandi della scuola.
Pemberley sospirò e si scusò con i suoi collaboratori per quell’inconveniente, eppure si alzò dalla sedia contenta: una pausa era quello di cui aveva bisogno.
«Silene, lascio a te il comando». Silene Endeckis era una ragazza dai capelli scuri e gli occhi azzurri che incorniciavano e davano colore alla sua pelle nivea. Pemberley nutriva un immenso rispetto per lei, perché era una ragazza fuori dagli schemi dei normali licei americani. Se ne fregava di ciò che la gente pensava di lei, di chi fossero i più influenti e di come i meccanismi della popolarità le fossero estranei. Faceva parte del comitato studentesco per puro piacere personale, era una persona a cui piaceva avere responsabilità a cui badare. Era simpatica a molti, ma non concedeva la propria allegria ai più. Nonostante fosse sotto gli occhi di tutti, passava la maggior parte del tempo sola.
Pemberley la stimava molto, avrebbe voluto chiamarla amica un giorno, usare l’appellativo Sil a testimonianza del rapporto che avrebbe potuto legarle.
Fuori dal brusio della mensa si diede il tempo di riflettere. Le sembrava strano che il Preside l’avesse mandata a chiamare per un colloquio proprio quel pomeriggio, era sicura che fosse fuori sede. Evidentemente si ricordava male, anche ai più puntigliosi capitava di sbagliare.
Prima di avviarsi verso lo studio del direttore, si concesse una sistemata generica. Rianimò il collo inamidato della camicia, allineò con i bottoni lo scollo a punta del maglione indossato sotto una giacca elegante e sistemò la gonna a scacchi portata appena sopra il ginocchio. Non frequentava un liceo privato, ma le piaceva darsi un tono comunque, come se portassero davvero le divise.
Era abituata al meglio Pemberley Voight. Di famiglia ricca, aveva avuto un’istruzione ottima, continuata e quasi conclusasi in quella scuola. Era pubblica, ma la migliore che Princeton e dintorni potessero avere.
Le piaceva camminare nei corridoi semideserti del proprio istituto e, nonostante brulicasse di attività per i corsi extracurricolari, si sentiva a casa. Quello era il suo habitat naturale e Pemberley si muoveva al suo interno con grande maestria ed eleganza.
La meta era vicina, quando qualcuno la strattonò per un braccio; non era stata una presa violenta, ma sicura e salda. Avrebbe riconosciuto ovunque quel tocco. Il cuore le salì in gola, battendo all’impazzata.
L’aveva spinta in modo delicato sulla porta della presidenza senza nemmeno darle il tempo di vederlo. Sentiva solo il suo fiato sul collo, intento a baciarla.
«Velvet» sussurrò Nathan sulla pelle tremolante di Pemberley, strappandole un gemito soddisfatto. Sentire il soprannome che Nate le aveva dato la mandava in estasi.
Velluto, perché solo lui poteva saperlo. Nathan era un componente della squadra di football, e anche se non ne era la punta di diamante, a scuola era sempre stato famoso. Bravo e piacente, aveva avuto una vita confortevole al liceo, tra i ragazzi popolari, non abusandone mai. Non gli interessava, a lui importava solo di Pemberley. L’aveva conosciuta da piccola, essendo la figlia di amici di famiglia. Passavano il tempo insieme quando i genitori di entrambi si ritrovavano per le più svariate occasioni. Da piccoli c’era complicità, alle elementari sopportazione e alle medie scherno. La scuola superiore aveva cambiato tutto: li aveva fatti incontrare nello stesso istituto, dove avevano imparato a conoscersi di nuovo, come un ragazzo e una ragazza qualunque. Nathan era sempre stato innamorato di Pem, ma non l’aveva mai capito prima del secondo anno di liceo.
Stavano insieme da un anno circa, e da molti mesi Pemberley era diventata Velvet. La prima volta in cui avevano fatto l’amore lui aveva potuto constatare quanto la pelle di lei fosse morbida come il velluto, una sensazione nuova che le dita di Nathan avevano scoperto sul corpo fin troppo esile della ragazza, segnando la memoria in modo quasi doloroso.
Sorrise sotto all’orecchio di lei, risvegliando la voglia di Pemberley e provocandole un brivido lungo la schiena «Tira fuori la ragazzaccia che c’è in te».
Non era cattivo, non era nemmeno una presa in giro; la stava solo invitando a ritagliarsi un momento per loro anche lì, a scuola, dove tutto diventava proibito e, quindi, eccitante. Cercava solo di farle dimettere i panni della presidentessa del consiglio studentesco e far spuntare la Pem più vera, quella capace di sobillare una rivolta di classe per avere i pastelli a cera alle elementari, o quella capace di osare per stare con Nathan.
Pemberley fu percorsa da una scossa d’adrenalina. Sorrise sulla bocca di Nate mentre faceva scattare la serratura della presidenza. Amava Nathan e non riusciva a dirgli di no. Forse non lo voleva nemmeno. Non si ricordava l’ultima volta in cui gli avesse rifiutato qualcosa. Avrebbe scommesso su poche cose Pem, ma una di queste era il loro amore. Sapeva bene che erano adolescenti e a diciassette anni si avevano percezioni diverse e poche esperienze alle spalle per giudicare le cose in modo obiettivo, ma lo amava talmente tanto da poter giurare sul per sempre.
Lo baciò con crescente trasporto, ma non dimenticò di chiudere la porta a chiave alle loro spalle. Il bacio divenne malizioso come ogni loro atteggiamento.
Non si ricordava quando aveva iniziato ad amare Nathan, perché forse era sempre stato così e non se ne era mai resa conto. Il primo anno di liceo, però, qualcosa era cambiato. Nate stava con Stacy Roberts, una bionda tinta alquanto dozzinale per uno come lui, e a Pemberley aveva creato fastidio. Aveva sentito crescere giorno dopo giorno un senso di disagio a ogni bacio, carezza o attenzione che si rivolgevano, finché non aveva litigato con il suo amico di sempre. Aveva confessato infine, all’inizio del secondo anno, che ogni suo problema era dovuto a Stacy e alla relazione che loro avevano. Nate si era avvicinato e l’aveva baciata. Non voleva solo raccogliere le lacrime che lei aveva versato, ma fermarle. L’avrebbe fatta sorridere sempre, da quel momento in poi, non doveva più versare lacrime per lui, perché lui provava lo stesso sentimento. Era stato felice di constatare che lei provasse la stessa cosa. Per la prima volta era stato davvero felice di una sua scelta, anche se Pemberley non poteva essere considerata solo una soluzione, perché era qualcosa di ben più grande ai suoi occhi. Era la persona che gli avrebbe cambiato la vita, rendendolo una persona migliore anche in futuro.
Fu proprio lei a riportarlo alla realtà, sedendosi sul bordo della scrivania del preside. Gli sorrise con la testa piegata, come ogni volta in cui lo fissava per capire in che tipo di pensieri si fosse perso in quel momento. Nathan la raggiunse sentendo salire l’urgenza di prima che l’aveva spinto a mentire a mezzo corpo studentesco. Le accarezzò la fronte con le labbra, correndo a cercare la bocca per catturare ogni suo respiro, una cosa di cui si sarebbe alimentato a vita.
Pem gli tolse il maglione per poter arrivare all’orlo della maglietta. Si prese un momento per appoggiare le labbra alla base del collo, lì dove poteva sentire il battito del cuore di lui, dove riusciva anche a rubare un po’ del suo profumo non troppo costoso, ma mai dozzinale.
«Velvet, sei con me?» e per richiamare ancora di più la sua attenzione fece camminare le dita dalla coscia fino alla biancheria nascosta sotto la gonna, facendola sussultare «Sai che non sei costretta a fare nulla. Volevo solo sentirti su di me. È un bisogno costante».
Pemberley infilò la mano sotto la sua maglia, aggrappandosi ai timidi muscoli che facevano capolino sulla schiena mentre languida gli baciava un punto impreciso tra la gola e la giugulare «Se non volessi essere qui con te sarei già tornata in mensa tra palloncini e pailettes».
Le era costato fatica parlare, perché la voce era resa roca dal desiderio che si era scatenato in lei.
Avrebbe voluto rimanere lì dentro con il suo ragazzo per molto tempo, ma non potevano rischiare di essere scoperti, e quindi espulsi, pochi mesi prima del diploma. Se fosse successo avrebbe dovuto rinunciare al suo posto alla Columbia.
Eppure era stanca di giocare, così si stese sul legno lucido della scrivania, prendendo Nathan per il colletto e attendendo che il corpo di lui seguisse il suo movimento. Erano talmente in sincronia che gli ci volle poco per seguirla.
Velvet era nato la loro prima volta, quando Nate aveva accarezzato un lembo scoperto della sua pelle. L’aveva scoperta per non dimenticarla più. Liscia e innocente, Pemberley era formata dalla sua purezza e scolpita dalla propria spontaneità. Nathan, quando era entrato in lei, le aveva accarezzato le guance e aveva ammirato il rossore che le colorava di secondo in secondo, sempre di più.
Velluto. Semplice, liscio e arrendevole al suo tocco.
Velvet. Pura, innocente e spontanea. Sua.
Le aprì la camicetta con una certa foga, perché giocare con la scintilla che poteva scatenare l’incendio per lui era sempre stato pericoloso; lo spingeva al limite.
Conosceva i punti deboli di Pem, e quando arrivò al reggiseno, con la lingua accarezzò il bordo di pizzo che separava la bocca dalla carne, scatenandole un gemito che, roco, le morì in gola. Continuò così nella sua personale tortura, mordendole il seno sinistro ancora coperto dalla stoffa. Affondò i denti nel corpo con gentilezza proprio all’altezza del battito accelerato, tanto che lei inarcò la schiena, come a chiederne tacitamente ancora.
«Ti ruberò il cuore». Una promessa facile da rispettare al momento, ma difficile mantenerla nel tempo.
E Pemberley non gli disse mai che il suo cuore già lo possedeva, perché si donava a una sola persona, e non poteva lasciargli tutto questo potere; erano ragazzi, anche se lo amava come si amavano gli adulti. Lo vedeva con i suoi genitori.
Nate non sapeva di averlo in mano, e  avere la capacità di accudirlo o distruggerlo con un solo gesto.
Non l’avrebbe mai saputo.
Ma sveva sbagliato Pemberley, perché doveva ricordargli che una persona che ti rubava una cosa importante come il cuore, poi non poteva restituirtelo a piccoli pezzi; doveva tenerselo in qualsiasi stato fosse, nonostante la colpa non fosse imputabile al custode che l’aveva conservato al meglio.
«Nathan, basta giocare, ti prego». Gliel’aveva sussurrato morsicandogli un lobo, stuzzicandolo con la lingua. Impazziva con quel gesto, e lei stava implodendo. Avevano poco tempo e lo stavano sprecando in preliminari sì piacevoli, ma inutili.
Non se lo fece ripetere una seconda volta e, con entrambe le mani, andò sotto la gonna per sfilarle gli slip ormai umidi della sua voglia, mentre lei, fragile e tremante, slacciava la chiusura dei jeans.
Amava sentire il suo fisico modellato dal football sotto le sue mani e sopra la propria figura ma, soprattutto, dentro di sé.
Non era il quarterback, la scuola non viveva sulla sua vita, per quello esistevano il capitano della squadra e le cheerleader. Lui era un linebacker, colui che doveva fermare le azioni in corsa. Un ragazzo come tanti che credeva nel concetto di squadra ma ancor di più in quello di amicizia, così tanto che non dava confidenza a molti, infatti i suoi più cari amici si potevano contare sulle dita di un amano, e ne sarebbero avanzate pure un paio.
Era introverso e taciturno. A scuola non viveva sotto i riflettori, ma nella luce che dal centro di essi si spandeva intorno, perdendo la propria luminosità, creando penombra. Aveva solo l’idea di sopravvivere al meglio al liceo, per poi vivere davvero al college. Era un po’ sulle sue, e contribuiva agli occhi delle ragazze ad accrescerne il fascino.
Si ricordava come con fretta, d’un tratto, era entrato in lei… Come certi dettagli facessero la differenza ma, a diciassette anni, non gli si dava peso.
Era così che ricordava il giorno in cui le era cambiata la vita.
 
«Ehi, bella addormentata, ci sei?». Silene le stava passando ripetutamente la mano davanti agli occhi, risvegliandola dal proprio torpore. Erano al JFK da più di tre ore, il loro volo aveva subito un leggero ritardo.
L’amica era andata a fare un giro per i negozi del Duty Free, e Pemberley era rimasta lì a riposare, dato che la mattina aveva comunque lavorato nonostante l’imminente partenza.
E, in quel momento di relax, la mente era tornata ai giorni spensierati del liceo, dove la sua vita aveva preso la direzione opposta a quella che si era sempre prospettata. Ma si sapeva, se si stava a guardare la vita questa decideva per te.
Annuì stanca.
«Hanno chiamato il nostro volo, è ora di andare». E le sorrise in modo entusiastico. A lei, che quel viaggio non voleva nemmeno intraprenderlo.
Era l’inizio di dicembre e New York era una grande, gigantesca, lampadina. Tutta illuminata dagli addobbi natalizi, era uno spettacolo che contagiava i sorrisi che si incontravano in ogni passante, impossibile rimanerne immuni. Le dispiaceva quindi abbandonare la sua città in quel momento.
Si stropicciò la faccia stanca con le mani e seguì l’amica verso l’imbarco, sospirando rumorosamente.
Perché aveva desiderato essere amica di Silene un tempo? Perché erano cambiate così tanto le cose?
Una volta sarebbe stata lei a proporre viaggi impossibili e imprese impraticabili, ora si ritrovava nel ruolo di quella che rifiutava sempre, la classica persona che metteva i bastoni tra le ruote nei progetti altrui.
La spina nel fianco.
In coda, Pemberley guardava distratta le luci della pista, lo sguardo perso nei suo pensieri, di nuovo. L’essere riflessiva era uno dei suoi maggiori difetti, o lei lo considerava tale. Ragionare la portava a una sorta di impasse in cui era ferma da dieci anni, nonostante pensasse di aver fatto dei grandi passi avanti.
Era sicura di essere tornata al presente, ma avrebbe potuto giurare di sentire l’odore di legno e libri vecchi che alleggiava nell’ufficio del preside. Era qualcosa di familiare e rassicurante, ed era la sensazione di Nathan, collegata infine del suo odore. Era come quello di erba tagliata. All’inizio faceva arricciare il naso, dopo, quando ci si abituava, diventava fresco e indispensabile.
Familiare e rassicurante, appunto; un po’ come le luci della grande mela che rivedeva tutte intorno alla pista.
Silene lasciò andare la maniglia del bagaglio a mano e la prese per le spalle.
La scrollò per ricevere la sua attenzione. «Pem, ascoltami. Andrà tutto bene. Il mondo va avanti anche senza di te. Tutti sopravvivranno anche se ti allontani per un po’ di giorni, non è un problema».
L’altra storse la bocca, poco convinta, così Sil continuò nella sua filippica «Da quant’è che non ti prendi una vacanza?»
«Quest’estate!» rispose l’altra quasi offesa.
«Una vacanza dai tuoi ruoli e dalla tua vita. Quando è stato?». Era seria, voleva un risposta e pretendeva fosse sensata.
«Dieci anni fa, circa» ammise Pemberley controvoglia.
Non le importava quanto tempo prima avesse preso una pausa dalla sua vita. Quando aveva scelto ciò che era più giusto fare, sapeva a cosa sarebbe andata incontro, non poteva prendersi una vacanza dai propri doveri, anche se poteva essere un suo diritto.
Sacrificarsi per gli altri. Altro difetto che la caratterizzava.
«Allora fammi il sacrosanto piacere di dimenticare cosa ti aspetta a New York, per cinque giorni ritorna a essere solo una ragazza nel fiore degli anni che deve recuperare un sacco di esperienze».
Ricopriva troppi ruoli nella sua vita perché potesse dimenticarseli o anche solo sperare che non la schiacciassero; erano troppo forti e lei troppo piccola e concentrata sui vari aspetti che la circondavano perché non si intrecciassero e la sopraffacessero.
«C’è solo un problema… Non ricordo come si fa».
L’altra sorrise più rilassata. «Non c’è problema, basta che segui me. Sorridi, divertiti e non pensare a nient’altro. Rilassati!».
Una parola. Rilassarsi non era compreso nel vocabolario di Pemberley Voight. Non ne conosceva il significato.
Mentre avanzavano verso le hostess che controllavano i biglietti aerei Silene continuò «E, soprattutto, trovati qualcuno con cui fare un po’ di sesso. Questo aiuterebbe a rilassarti».
Pemberley si imbarazzò e guardò le persone che le stavano intorno per scusarsi. Non era colpa sua se aveva un’amica che parlava di sesso così liberamente, anche davanti a sconosciuti.
«Trovati un bello straniero con cui flirtare. Sei bella, giovane e potresti avere tutto quello che desideri, se solo non ti mettessi sempre in punizione».
Evitò di rispondere alla seconda parte, concentrandosi sulla precedente. «Oh sì, non vedo l’ora di trovarmi un bel francese… Sarebbe l’ideale avere una relazione a distanza. Come ho fatto a non pensarci prima?».
Assunse un’aria ingenua, gli occhi fuori dalle orbite e la bocca spalancata, come le migliori oche giulive.
Con la mano libera si tolse i capelli biondi, e non più crespi, che le erano ricaduti sul volto. Odiava averne così tanti, ma erano belli nonostante fossero troppi e difficili da tenere in ordine. Con gli anni i prodotti per disciplinarli e le piastre erano migliorati, quindi gestirli non era poi un grosso problema. Solo un grande impegno. Un altro da aggiungere alla sua già infinita lista.
«Ti esce bene la faccia svampita, chissà perchè». Le fece una linguaccia mentre porgeva all’hostess i propri documenti di viaggio.
Fu lungo il corridoio che portava all’aereo che Silene si girò e puntò gli occhi chiari e splendenti di felicità in quelli di Pem. «Non vedo l’ora di presentarti tutti. E poi forse Jacques potrebbe piacerti davvero. Oh, quando arriviamo? Quando, eh?».
Lei scosse la testa divertita e rise
Nonostante non avesse voglia di allontanarsi da Princeton, staccare la spina le avrebbe fatto bene. Inoltre era felice di accompagnare Sil in questo viaggio a cui lei teneva molto.
Aveva trascorso sei mesi fuori dagli Stati Uniti per lavorare in un’azienda affiliata alla propria. Là aveva lasciato un sacco di amici e di belle esperienze e, con la scusa della festa della città, quei giorni di dicembre aveva deciso di tornare, e voleva farlo con la sua migliore amica.
«Su, forza bambina, prima sali sull’aereo, prima partiamo» le aveva detto con un tono esasperato, tirando a sé il piccolo trolley.
«Ok, ti darò tregua fino all’atterraggio, poi sarai tutta mia». La guardò con espressione famelica, come se fosse stata la sua prossima vittima. Poi, come se nulla fosse, diede il passaporto all’hostess che la salutò cordiale per accoglierla sul velivolo.
Pemberley sorrise e si domandò perché avesse avuto la fortuna di avere un’amica così.


* * *


Buon rainy day a tutti! Come va?
Io ho pensato di farvi compagnia in questa giornata sonnachiosa con una nuova long, spero vi faccia piacere.
Per chi non mi conoscesse beh, benvenute, sappiate che potete aver letto in giro il mio nick a causa di questa storia:
Loverdose

Se invece mi conoscete già, oddio... MI DISPIACE PER VOI!
Detto questo, passiamo alla storia: so che non si capisce molto, ma i miei primi capitoli sono così. Un punto strano di partenza o sblocco per l'intera vicenda, e qui si parte addirittura da un flash-back.
Spero che comunque possa avervi incuriosito.
Inoltre ringrazio IRIS per la fantastica copertina, perchè ovviamente non l'ho fatta io.


AVVISO IMPORTANTE: La storia prende spunto da un telefilm che mi piace molto, non è uguale, ma alcuni aspetti sono simili, io poi ho apportato modifiche e ricamato sopra gli accaduti che sono i punti di partenza, suppongo. Ora non vi svelo il nome per lasciarvi brancolare nel buio e per non spoilerare sulla trama, dato che l'elemento fondamentale per renderlo simile al tf verrà inserito più avanti. A tempo debito il titolo di questo telefilm verrà svelato senza tanti problemi, perchè non ho mai fatto mistero di questa somiglianza. Se tutto va come deve andare, si scoprirà alla fine del terzo capitolo.

Niente, se qualcuna volesse può trovarmi nel mio gruppo fb per spoiler, volti e quant'altro, Love Doses, se no ci si ritrova qui tra una decina di giorni, suppongo.
Vi ringrazio per aver letto, spero di sentirvi a breve.
E giuro che presto rispondo alle recensioni dell'ultimo capitolo di Loverdose.
A presto, sbaciucchiamenti, Cris.

   
 
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