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Autore: Nocturnia    08/11/2012    0 recensioni
Perché l'universo è solo una massa indistinta di corpi e sangue, un costante e protervio fluire di demoni e angeli, sciocchi piumini di luce e feroci coaguli di tenebra.
[Nona classificata al contest "A renderci umani è la possibilità che abbiamo di fare del male" indetto da Stareem aka Macy McLaughlin sul forum di EFP]
Genere: Drammatico, Fantasy, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
- Questa storia fa parte della serie 'Nel segno del sangue'
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Disclaimer: Questa storia è stata scritta per puro diletto personale, pertanto non ha alcun fine lucrativo. L’intreccio qui descritto e i personaggi rappresentati sono copyright dell’autrice (Nocturnia) e non ne è ammessa la citazione altrove, a meno che non sia autorizzata dalla stessa tramite permesso scritto.


"Domani ti riprometti che sarà diverso.

Eppure il domani è troppo spesso una reiterazione dell’oggi. "
- James T. McCay -

Prece di Sangue



"Mio Dio, mi pento e mi dolgo con tutto il cuore dei miei peccati"

Se le tue labbra non fossero già state occupate a latrare ordini, ti saresti fatto una grassa risata: di quelle che corrodono l'aria stessa e graffiano la gola, oltraggiando un Cielo di cui volevi solo la lenta e agonica dipartita.
Avevi scartato di lato, fermando la lama nemica e spezzandogli l'elsa, infilando quel ferro rovente nell'addome del demone.
Con un colpo sordo gli avevi immerso le mani nella gola, strappandogli la trachea e innalzandola nell'aere, un grido che squarciava quell'alba amara e ferruginosa.
Rabbiosamente, l'avevi poi gettata a terra, frantumandola contro la suola dei tuoi stivali e sputandovi sopra.
Sembravano non finire mai.
L'universo era solo una massa indistinta di corpi e sangue, un costante e protervio fluire di demoni e angeli, sciocchi piumini di luce e feroci coaguli di tenebra.
I fianchi snelli e sottili di Auriel ti erano passati così vicini che eri riuscito persino a sentire il frusciare delle sue ali, il profumo dei suoi capelli.
Vacuamente, l'avevi fissata mentre si esibiva nel suo attacco migliore, la speranza la lingua con cui metteva a tacere discussioni e demoni.
Era stato quasi un ringhio quello che ti era sfuggito tra i denti serrati, il sibilo di un serpente e il maschio gonfiare i muscoli dell'animale dominante.
L'orbita cieca del tuo sguardo aveva poi seguito la parabola di fumo e lava di cui era composto il pugno di rocce su cui stavate combattendo, un'accozzaglia di terra sterile e massi bollenti.
Accovacciato sulla parete rocciosa di un dirupo, non ti eri accorto della sua presenza.
La frustrazione e l'ira ti scorrevano sotto la pelle come fiato d'inferno e lei ti aveva depositato il suo nel cuore, nelle membra, risvegliando una brama da cui avevi sempre creduto d'essere avulso.
Travolto da quei sentimenti eri diventato polvere ed erano stati i suoi respiri a dissiparti nell'aria ingorda di Matarisvan.
I suoi sospiri.

"perché peccando ho meritato i tuoi castighi e molto più perché ho offeso Te"

Rapido, come solo i sicari di un paradiso malato sanno essere, avevi estratto il gladio e gliel'avevi puntanto al petto, lasciando che una stilla di plasma rubino scorresse lenta sulla sua pelle, tra l'incavo dei seni.
Se ci ripensi ora, devi esserle parso orribile almeno quanto loro apparivano deformi alle tue iridi opalescenti.
"Cosa vuoi, puttana?"
Ti aveva sorriso, ignorando con l'elegante noncuranza del predatore un'offesa che sapevi essere solo un secondo nome per un demone del suo rango.
Quando aveva snudato i canini, l'aveva fatto per pronunciare le parole che avrebbero cambiato una storia, un mondo.
"Voglio quello che desideriamo tutti. Voglio una tregua."
Avevi steso le labbra in una piega derisoria, la mano che impugnava la spada sicura, salda: spietatamente attaccata all'unica cosa che dividesse due nature così lontane da essere uguali.
Eri polvere e macerie ancora prima di incontrarla, ma nel suo veleno avevi trovato l'amalgama che ti aveva tenuto insieme, riunendo uno spirito spezzato e una coscienza anestetizzata.
"Non ti credo."
Sinuosa, la lunga coda scagliosa si era arrotolata su se stessa, carezzandoti gli zigomi ed il torso, schiantandosi poi al suolo come una frusta di desiderio e rostri acuminati.
"Io non voglio che tu creda, piccolo angelo. Io non sono come gli altri. Io non sono un padre scellerato e demiurgo, proibizionista ed egoista, truffaldino e ipocrita."
Aveva allargato le braccia, mostrandoti la bellezza di un cosmo fatto di grigi e compromessi, una trama così complessa da risultare quasi indecifrabile.
"Io sono quella che vedi. Io non mento."
"Sei un demone. Un'assassina, un mostro violento e sadico."
Nei suoi occhi cremisi era brillata una scintilla strana, quasi il baluginio di un'ilarità nascosta.
"E sono anche una torturatrice, una puttana, non l'ho mai negato. Sono cruda e forse persino più pura dei tuoi amici laggiù.." aveva proseguito indicando con il mento la schiena di Arden, concentrato nell'abbattere la cavalleria infernale "E ti chiedo una tregua. "
Il primo atto di deliberato autolesionismo era stato quello di abbassare l'acciaio per rinfoderarlo nella guaina che portavi sulla schiena.
Il secondo, quello di rubare la pietra del mondo e nutrirla di un sentimento che non poteva essere chiamato amore, ma che eppure vi assomigliava terribilmente.
Del terzo, non ti eri mai pentito.

"infinitamente buono e degno di essere amato sopra ogni cosa."

Era stato un ansito rauco quello con cui eri affondato in lei, una bestemmia masticata quella che ti era invece sfuggita dalla gola quando avevi perso il controllo.
"Dio..." avevi mormorato contro la sua spalla, saggiando una grana di cenere e sudore.
Matharet aveva riso, carezzandoti i capelli e socchiudendo le palpebre con l'indolenza della belva sfamata.
"Ti prenderebbe a calci in culo il tuo dio, Varok, se vedesse quello che hai appena fatto.
"Che vada a farsi fottere."
Un'altra risata si era fatta spazio tra le tende del santuario, quell'appendice scagliosa che avevi tanto detestato che ti si arrotolava intorno alla vita, nella ridicola imitazione di un gattino indifeso.
Ed era così... strano.
Più guardavi il suo profilo nell'aria notturna, più ti convincevi di volerla.
L'alba della creazione di Matarisvan era stata officiata da una manciata di angeli ed un nutrito gruppo di demoni, di cui Matharet si era fatta leader e portavoce.
Per mesi avevate consolidato un'alleanza che pareva più un abominio, la bizzarra curva di un destino che non conosceva remore e limiti, confini e razza.
Protetti e isolati dagli occhi indagatori di una guerra che non avrebbe mai avuto fine, avevate osservato la vostra gente crescere e diventare un popolo.
Un pugno feroce di ali squamose e soffi d'eternità, che però parevano il più bello dei futuri.
Ma è l'abitudine, quella che frega.
Quando impari ad essere compagno e non più soldato, quando afferri quelle mani artigliate, buone solo ad ammazzare e a lacerare, senza orrore, ma cercandone il palmo tiepido e segnato dalle cicatrici della guerra, allora sei perduto.
Nel particolare, la tua, di abitudine, aveva la pupilla uncinata di fiera e una chiostra di denti bianchissimi e famelici.
Aveva il sapore della libertà e la consistenza di una vittoria inaspettata, ma non per questo meno cercata.
Era un demonio, lo sapevi.
Lo sapevi anche mentre la rovesciavi sotto di te, sfiorandole le vertebre flessibili della schiena alla ricerca di un'espiazione che trovava luogo solo tra due cosce d'alabastro.
E sorrideva Matharet mentre si consegnava a te, dominandoti il cuore ancora prima che le membra.
Sorrideva quasi il taglio di una lama, fatta per squarciarti e dividerti, ma tu la baciavi con la stessa rapace determinazione che mettevi nella rena, sancendo un sentimento che era umido e avido di parole.
Ti ha mai veramente amato?
Forse no, oppure sì, nel contorto modo che hanno i demoni di fare l'amore.
È un audace insieme di voglia e prevaricazione, dominio e dominazione, l'arrendevolezza dell'agnello che diventa infine lupo.
Poteva conficcarti quelle unghie nel petto e non avresti sentito niente, poichè la sua lingua demoliva ogni dolore.
Potevi farle male, sfogando l'insana debolezza di uno spirito fiaccato da una guerra mendace, e lei ti avrebbe replicato stringendoti tra le braccia.
È il buio di una coscienza svuotata quello che ti ingoia.
È il seme di un nuovo domani quello che hai piantato in lei.
È l'epifania della tua fine.

"Propongo col Tuo santo aiuto di non offenderti mai più e di fuggire le occasioni prossime di peccato"

All'inizio, non avevi ben capito cosa ti porgesse tra le dita sottili e ungulate.
Una massa di stoffe? Una strana accozzaglia di tessuti colorati?
L'avevi guardata negli occhi, frugandoli alla ricerca di un qualche indizio, poi quella cosa aveva emesso un debole pigolio, che era diventato un gridolino eccitato.
Titubante, avevi scostato il vello cremisi che lo ricopriva, per incontrare un paio d'iridi uguali alle tue e un potere che avrebbe potuto aprirti un buco al centro del costato, masticando con soddisfazione ciò che sarebbe restato delle tue ossa.
"È tuo figlio."
Era rimasta in silenzio mentre te lo accostava al viso, il capo lanuginoso del bambino che si reclinava contro le piastre dell'armatura dorata.
"Eri sparita..."
Patetico, ma non avevi saputo replicare altro che la mera constatazione dei fatti.
Ti si era affiancata, toccandoti con lascivia una gamba ed esibendo un sorriso beffardo, quasi volesse sottolinearti l'ovvio.
"Eppure adesso sono qui."
A vedervi, saresti potuti sembrare la cupa parodia della famiglia felice, se non fosse stato che tutto percepivi, eccetto la gioia.
"Si chiama Uldyssian." ti aveva mormorato leccandoti il collo "oppure Artoth. Credo che vadano bene entrambi."
Avevi stornato lo sguardo dall'orizzonte, un tripudio di barbagli rossi e viola, per posarlo sul bambino che riposava tra le tue braccia.
Con l'orribile consapevolezza del perdente, ti rendesti subito conto che no, non lo volevi.
Non volevi quella creaturina e temevi, penosamente, che potesse distruggerti tanto era grande l'aura che gli brillava intorno.
Doveva averlo fiutato quel demonio di donna, perché te l'aveva strappato dalle mani con la stessa rapidità con cui ce l'aveva depositato.
"NO!" aveva latrato quasi una cagna rabbiosa "Non pensarci neppure!"
Avevi alzato un sopracciglio, irritato da tanta mancanza di rispetto.
Il vecchio Varok era riaffiorato dalla superficie immota che era diventato il tuo nuovo viso, berciando parole che solo pochi mesi prima non avresti mai pensato di pronunciare.
"Non osare parlarmi in quel modo, puttana. Il semplice fatto che mi sia infilato tra le tue gambe non ti autorizza a rendere questo...questo..."avevi gesticolato cercando la definizione giusta "abominio il capostipite di un esercito. "
Ti tremavano le mani mentre tentavi di riprenderti quella pallottola di carne e sangue, il tuo sangue, e renderla innocua, ma avevi incontrato prima lo schiaffo di Matharet.
Per un angelo del tuo rango, quello schiaffo non valeva neppure la pena di girare la testa, eppure bruciava come le spoglie di un passato che sembrava ormai lontano decine di lustri.
Avrebbe potuto divellere con facilità le tue viscere e farci una rudimentale collana, ma aveva scelto di piegarti all'umiliazione umana.
"E il semplice fatto che io te le abbia aperte non significa che tu possa ucciderlo."
Ed eccola lì tutta la sua forza, la sua incrollabile rabbia.
Lo teneva premuto sul seno nella raffigurazione di un incubo, eppure Artoth guardava te, proprio te, come un mostro, non la femmina di spigoli e ossa che gli aveva dato i natali.
In quelle gemme sanguinolente ardeva tutta la protervia uterina di una madre, l'implacabile volontà di una donna, la furia di un demonio.
Avevi stretto le labbra in una piega amara, avvicinandoti tanto da sfiorarle il naso con i capelli.
"Non posso permettere che viva. Che tutti loro..."avevi continuato indicando la valle circostante "vivano."
"Perchè?" ti aveva ringhiato sulla bocca, infrangendo il tuo stesso respiro "perché è troppo potente? Perché il tuo ego è talmente grande che tu e solo tu puoi essere adorato? Vuoi un esercito di schiavi o di soldati, Varok? La libertà, la NOSTRA libertà, è a un passo. Possiamo annientare Inferno e Paradiso con un semplice schiocco di dita. Non puoi ucciderli. Sono figli nostri. Lui..." aveva sibilato sbattendotelo sul mento "è figlio tuo."
Un sospiro esausto si era fatto strada tra i tuoi denti serrati.
Ti eri impadronito delle sue labbra con stizza, in un bacio vorace che puzzava di abbandono e perdita.
Ti aveva risposto mordendoti e incidendoti la grana sottile della nuca, nel tuo sangue lo stigma di una battaglia che avrebbe trovato vittime nel rovinoso egoismo di due creature nate per combattersi.
Ma che cos'era in fondo l'amore, se non una guerra d'intenti ed emozioni?

"Signore misericordia, perdonami."

Avevi tentato di spostare il peso da un piede all'altro, ma il dolore era stato talmente intenso da farti desistere.
La caviglia ti aveva ceduto, costringendoti a rovinare al suolo, gli uncini che ti straziavano le carni divaricare ulteriormente piaghe suppuranti e cicatrici mai veramente cancellate.
Se solo le avessi ancora avute, avresti chiuso le palpebre per non rifletterti nel nulla di uno specchio che ti rimandava l'imago residua di un relitto, una carcassa.
Le rovine di un evo annichilito in pochi istanti.
Quando avevi scacciato Matharet, confinandola nel nulla, una crepa insanabile si era spalancata su Matarisvan, conducendoti sulla via di un oblio programmato e ineluttabile.
Il tuo stesso figlio, tanto odiato e tanto temuto, ti aveva schiacciato nella polvere, distruggendo la tua egemonia.
Inferno e Cielo si erano rovesciati sulla tua terra, vomitati troppo in fretta per riuscire ad evitare il peggio.
Quando eri stato ceduto a Moloch dal Concilio di Angrovis, avevi compreso d'essere al capolinea.
Torturato infine volte e per infinite albe, del tuo corpo, maschio e perfetto, rimanevano solo brandelli di carne e rigonfiamenti osceni.
Appeso quasi un maiale sgozzato, non speravi neppure nella morte, perché era un lusso che avevi concesso ai phazani, ma di cui tu eri sprovvisto.
Ironico come una punizione si fosse fatta benedizione, mentre tu rimanevi a marcire sul fondo dell'Inferno.
Ironico davvero che cercassi ancora i suoi occhi nei volti dei tuoi aguzzini.
Quasi uno spietato déjà vu, neppure questa volta ti eri accorto della sua presenza.
L'avevi vista specchiarsi alle tue spalle, la coda rostrata che dondolava languidamente e il passo fluido del predatore.
Avresti voluto sputare una risposta sprezzante, oppure un commento sarcastico, ma Moloch pareva avertele strappate tutte: insieme alla tua dignità.
Quando l'avevi avuta davanti, eri rimasto semplicemente in silenzio, ascoltando i respiri spezzati con cui tentavi di lenire la sofferenza.
"Varok..." era stato un sussurro, intriso di una malinconia struggente e un'ira latente.
Avevi perseverato nel tuo cocciuto mutismo, trasalendo al contatto con le sue mani.
Quelle dita sottili avevano percorso il moncone di un paio d'ali estirpate a morsi, i fori delle zanne dei cani infernali nella polpa tenera dell'addome, l'empia tumefazione che Moloch aveva avuto il piacere di assestarti.
"Se con queste hai dato i natali all'esercito che mia figlia voleva ribaltarmi addosso, penso proprio che ne farò una graziosa coppia di giocattoli per i miei cuccioli. Tanto..." aveva mugghiato malevolo "non ti serviranno più."
Lo strappo che ne era seguito ti aveva lasciato in un lago di sangue e bile, residuo di un orgoglio che pungeva come mille aghi.
"No..." eri riuscito ad esalare flebile "Non lì... non toccarmi..."
Matharet aveva arrestato la propria mano a un passo dall'inguine, chiudendola poi a pugno e fissandoti con occhi che parevano un oceano ribollente di plasma e memorie, notti passate sul filo di lama e intrecci di sudore e pelle.
"Perchè?"
Non avevi risposto, poiché la replica sarebbe stata troppo infantile, persino troppo stanca per prendersi la briga di farla rotolare sulla lingua.
"Non doveva andare così."
Digrignava i denti e rumoreggiava come la spuma di quel mare che avevate creato e colorato assieme, ma pareva incisa nella lava e nelle fiamme di un inferno da cui non eravate riusciti a scappare.
"Perchè?"
Era una singola parola, un coagulo di lettere che non avrebbe dovuto intimorirti, eppure ti sembrava di sentire la tua epidermide creparsi e aprirsi in mille fessure, da cui sarebbero eruttate tutte le tue debolezze, i tuoi sentimenti, le tue illusioni.
"Lasciami in pace..." era stato il gemito strozzato con cui l'avevi apostrofata "ti prego."
Un ruga le aveva solcato la fronte, nella pura perplessità che le aveva procurato la tua richiesta.
"Varok non supplica, mai. Me l'hai detto la prima volta che ci siamo incontrati."
Un sorriso privo di allegria ti aveva adornato il viso, il ricordo un'immagine sfocata e lontana.
"Le persone cambiano; persino gli angeli."
Ti era stata ad un passo in un battito di ciglia, squadrando la tua orrida figura.
"Perchè?"
Avevi chinato il capo, sconfitto.
Eri caduto dal Cielo per essere dominatore e ti eri scoperto dominato.
Avevi combattuto per essere re ed invece erano state le catene delle schiavitù quelle che ti avevano imprigionato su Matarisvan.
Avevi voluto essere lupo, salvo poi essere percosso come una pecora.
"Ha importanza?"
Matharet aveva catturato le tue labbra, spaccate e ruvide, in un bacio ingordo e ansioso, quasi il tempo fosse diventata una dimensione stretta e limitata.
"L'ha sempre avuta, Varok."
E capisci di aver gettato via un futuro per un passato che era solo un nugolo di carne incancrenita e bruciata, di aver ripudiato un figlio che avrebbe portato il tuo nome e i tuoi occhi.
Capisci che gonfiare muscoli ed ego non fanno di te un uomo e nemmeno un dio: solo un misero perdente.
Ti sfiora il petto e vi depone un leggero bacio, là, dove lo spettro di una perfezione esangue brilla ancora.
Incapace di muovere le braccia, vorresti stringerla un'ultima volta o forse colpirla così forte da sporcarti le nocche di sangue.
Nel dubbio, fai l'unica cosa che ti è concessa fare in quel buco sporco e desolato: piangi.
Sono pallidi fantasmi di un evo morto quelli che ti strisciano lungo il volto.
Sono sbuffi di fumo e vetro quelli che raccolgono l'ultimo ansito della tua anima, sulla bocca di Matharet le lacrime con cui ti sei rifiutato di abbeverare persino tuo figlio.
"Matharet..."rantoli tra un singhiozzo e l'altro "Matharet..."
Sei patetico, ma non ti importa.
Perché il rimpianto è un futuro che non abbiamo voluto vedere, un passato che abbiamo rinunciato a comprendere.
Un presente da cui non riusciamo a liberarci.
E il tuo ti straziava ancora il cuore.
   
 
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