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Autore: SakiJune    27/05/2007    2 recensioni
Una storia ambientata nel Giappone antico. Un uomo, una ragazza, uno spettro. "Non conoscevo il mio potere, solo il mio desiderio, e non capivo che essi erano una cosa sola".
Genere: Triste, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Bakechan era un fantasma che viveva in una vecchia casa sulla collina di Juugo.
La collina era dominata da un castello chiamato Shinshiro, e attorno ad esso si estendeva il villaggio di Kohiru. Gli abitanti erano per lo più contadini, ma i loro figli andavano a scuola in pianura e si preparavano ad una vita migliore.
Tutti avevano paura di Bakechan: i bambini evitavano di avvicinarsi alla casa, le donne gli attribuivano ogni disgrazia. Persino il signore del luogo stava pensando di far abbattere la casa, ma un giovane che non credeva ai fantasmi andò ad abitarvi.

Kare era nato nel villaggio, ed era stato messo in guardia, come tutti, dagli anziani sulla minaccia che quello spettro rappresentava. Ma era testardo, non aveva paura di nulla e non appena conclusi gli studi, invece di andare a vivere in città sposò la fidanzata Chairo e cominciò a ristrutturare la casa stregata.
Questa non era particolarmente isolata, solo una stradina la divideva dal villaggio. Era in brutte condizioni, ed esageratamente grande per due persone soltanto, ma Kare ricavò tre stanze al primo piano e lasciò il resto com’era. Chairo dapprima storse il naso all’idea di abitare in un posto del genere. Poi vide che le stanze dove avrebbero vissuto erano molto belle, e che il fantasma non si era fatto vivo.


In realtà io c’ero. Li osservavo mentre cenavano insieme, mentre Chairo si prendeva cura degli animali e Kare lavorava nei campi. Un altro fantasma si sarebbe infastiditola pensiero che degli uomini vivi occupassero la sua casa. Li avrebbe costretti ad andare via. Avrei potuto farli accorgere della mia presenza, ma non lo feci. Mi ero esercitato parecchio, per decenni e decenni, a spaventare gli abitanti di Kohiru. Dapprima riuscivo soltanto a muovere le foglie del grande albero di fianco alla casa, ma i rari passanti non se ne accorgevano, perché per la maggior parte dell’anno sulla collina soffiava un leggero vento. Mi feci più ardito e imparai a penetrare nei sogni delle persone. Li terrorizzavo come loro si aspettavano che facessi. Quand’ero vivo altri spettri popolavano gli incubi degli uomini, in questo come in altri villaggi, e io stesso li temevo, così non feci fatica ad imitarli. Non capisco come facciano alcuni a dire di aver visto spiriti vaganti al buio. Io di notte dormo, o guardo le stelle. Non posso muovermi dal tetto della casa. Posso provocare un incendio a mezzo miglio di distanza (è successo nel pollaio della famiglia Yasashige, ma non mi sono concentrato abbastanza e il fuoco si è spento subito) ma in realtà sono sempre quassù.

Solo i genitori ricordavano il vero nome di Kare, persino il maestro di scuola l’aveva accantonato dopo pochi mesi. Doveva chiamarsi Karu, o forse Karei. Qualcosa di facile da ricordare, comunque. Ma siccome se ne stava sempre da solo, prima a costruire maschere colorate, poi a leggere sugli alberi, gli altri bambini parlavano di lui in terza persona.
Chairo seppe che avrebbe dovuto sposarlo quando entrambi avevano tredici anni. Era poco più alto di lei, e forse non sarebbe cresciuto ancora molto, a la sua famiglia era benestante ed era sicura che, studioso com’era, avrebbe trovato un buon impiego nella capitale.

In quell’anno una ragazza fuggita di casa tempo prima era tornata dai genitori con un figlio. Con sorpresa di tutti, essi l’avevano riaccolta senza un rimprovero. Il bambino era una femmina, aveva tre anni e non somigliava per nulla alla madre. I suoi occhi avevano una forma inusuale, e i capelli non erano lisci. I vicini giunsero alla conclusione che il padre doveva essere uno straniero. La bambina non andò a scuola, ma imparò a leggere dal nonno. La madre di Kare scherzava spesso con le amiche: potevo aspettare a scegliere una fidanzata per mio figlio, la nipote dei signori Asagawa sarebbe perfetta. Tutti e due stanno a bocca aperta sui libri.

La madre di Chairo era rimasta molto contrariata ed era stata sul punto di annullare il fidanzamento venendo a sapere che Kare non studiava niente di utile. Letteratura! Che idea! Canto e recitazione! La ripugnava l’idea che la figlia sposasse un intellettuale. Un misantropo andava bene, uno scansafatiche no. Chairo aveva alzato le spalle e aveva risposto: l’ho visto lavorare, non è affatto pigro. Forse non vivremo in città. Ma non mi farà morire di fame. La madre, indispettita, non aveva più detto niente, non protestò nemmeno quando la figlia la informò che avrebbero abitato nella casa stregata. Te la sei cercata, segui il tuo grande uomo, aveva riso.

Ed era davvero un grande uomo, a dispetto della suocera. Non vivevano soltanto della terra. Sapeva costruire calessini, sostituiva il vecchio maestro quando era malato, riparava i tetti. La domenica alla casa stregata non mancava mai il sukiyaki, e Chairo aveva lo yukata più bello del villaggio. I mariti delle sue sorelle erano certo più ricchi, ma anche più avari. E non sapevano cantare, non suonavano lo shamisen recitando romantici haiku alla propria donna. Sì, Chairo era fortunata.

La nipote degli Asagawa era cresciuta, troppo diversa per essere considerata bella, troppo eccentrica perché la famiglia potesse sperare di trovarle un marito. La nonna l’aveva marchiata con il nome Eiko, figlia dell’inglese, ma per fortuna nessuno ne aveva colto il significato non avendolo mai visto scritto. Per tutti era Kanojo.

Bakechan si innamorò di Kanojo in un mattino parecchio ventoso. Appollaiato come sempre sul tetto della casa, la vide risalire la stradina, avvicinarsi senza il minimo timore. Sentì che era uguale a Kare e Chairo.

Kare fissava i capelli della ragazzina che si inchinava porgendogli un involto di stoffa leggera. Notò le sfumature castane, la radice chiara.

- Sono obanyaki, Hachimura sensei.
- Vedo.
Un castano che scoloriva nel biondo, che si illuminava come oro, e il vento soffiava attraverso una distesa soffice.
- Mia nonna è felice di donarveli, sensei.
- Tu sei Asagawa Kanojo, vero?
Non era gentile da parte sua chiamarla come usavano fare gli ignoranti del paese, ma Kare conosceva il significato dell’ideogramma Ei. Ei di Eikoku. Una terra lontana che ricordava a quella ragazza la colpa di sua madre. Meglio essere invisibili piuttosto che spiccare nel mucchio come un azuki bianco.
Kanojo lo guardò. Guardò Chairo, con uno sguardo appena smorzato dal rispetto.
- Asagawa Eiko, sensei.
Il pensiero di Kare si rovesciò. Un azuki bianco. Benvenuta, piccolo azuki bianco. E’ vero che ti piace leggere? Ti piace Basho?
Kanojo aveva imparato a leggere sulle poesie di Basho, ma spesso non capiva alcune parole. Poteva Hachimura sensei aiutarla a studiare? Sicuro, ne sarebbe stato onorato.
Ascoltando la piega che la conversazione del marito con quella ragazzina stava prendendo, la vaga gelosia che Chairo aveva provato scomparve. Rientrò in casa e preparò il tè.

Quell’autunno il vecchio maestro morì. Kare era diventato un vero insegnante. La suocera non smise ugualmente di lamentarsi: poteva diventare lo shogun16, ma non avrebbe mai mandato via Bakechan dalla sua casa. Chairo era in pericolo, e lui era un irresponsabile.
Venne la neve e sotto le pressioni della suocera di Kare un sacerdote fu chiamato per cacciarmi, ma non potè far nulla: in fondo, non sono un demone. Un tempo ero un uomo anch’io. Non so perché sono qui, ma da quando questa casa è abitata non mi sento più solo e non ho bisogno di far del male a nessuno.

Kanojo tornò. Questa volta aveva con sé dei nikuman e un grosso libro. Non avevo mai visto Kare con un’espressione così raggiante e insieme rilassata. I versi cominciarono a riempire l’aria, armonici e pungenti, vivi almeno quanto lo ero io.
Chairo si alzò istintivamente dal kotatsu e si sedette in un angolo della stanza a cucire. Era la signora Hachimura, la padrona di casa, apparteneva ad una delle famiglie più importanti del villaggio: eppure quando Kanojo era entrata da quel fusuma si era sentita un’estranea. Il marito e la ragazzina parlavano una lingua sconosciuta, non soltanto in giapponese antico… non osava penetrare quella foresta di parole più di quanto da bambina si sarebbe intromessa in una conversazione tra i suoi genitori. Capì perché non riusciva a provare gelosia: vedeva la ragazza trasformarsi, diventare una creatura al di fuori dal tempo. E Kare… la sua forza mentale colmava la stanza, era palpabile, l’incantava e la intimoriva. Questo è l’uomo che ho sposato, ecco madre, questa è la sua energia, questa è la sua presenza, e tu sostieni che non può proteggermi da un fantasma?

Io pregavo, pregavo che Kanojo venisse ancora. E lo fece. Quanto era buffa, infagottata in un dotera più grande di lei, mentre correva tenendo stretto il furoshiki con i libri, le guance rosse dal freddo. Mentre giocava sulla neve con il cagnolino di Chairo. Quanto era bella! E quante volte la signora Yasashige dovette riparare il fusuma principale, che ogni notte buttavo giù concentrando tutto il mio rancore e la mia disperazione! Ah, quella pettegola, far credere che gli Hachimura avessero preso in casa una serva; e poi la calunnia peggiore di tutte… che Kanojo fosse l’amante di Kare… non lo sopportavo più, e pensavo con tutto me stesso – con ciò che ne restava – vieni da me, Kanojo; pensavo, e senza accorgermi lo urlai in una di quelle sere di pace invernale:

VIENI DA ME, KANOJO, LASCIATI AMARE!

Non ero mai stato consapevole di ciò che potevo fare agli umani. Non avrei mai gridato quella frase, lo giuro, se avessi avuto il minimo sospetto che potesse raggiungerla. Strapparla al disprezzo, alla condizione che nessuno sulla terra avrebbe cambiato, era un mio sogno egoista che non volevo si avverasse. Non così!

- Tu sei triste, Bakechan.

Kanojo mi aveva sentito… aveva lasciato cadere la penna, sotto lo sguardo sbalordito di Kare, ed era uscita nella foschia tranquilla facendo cricchiare la brina sotto i suoi passi, ora si arrampicava

- No... che fai? (ma ora non mi sentiva: forse perché non ero sincero, questa volta? Perché in realtà ero felice che venisse a me?)

sul tetto, e d'un tratto mi era davanti, si scioglieva i capelli piegando la testa di lato come fanno i bimbi mentre osservano un gattino, e mi parlava.

- Io non ho paura di te. Chi eri? Qual era il tuo nome?

Mi vedeva? Forse sì: come qualche volta si crede di vedere il vento, quando è molto forte. Non conoscevo il mio potere solo il mio desiderio, e non capivo che essi erano una cosa sola. Kare era scalzo sull'engawa ricoperta di brina, e lui sì, mi vide, mi odiò... ora credeva.

- Bakechan, maledetto! Che vuoi farle?

L'abbracciavo, ora. Avevo due braccia, dunque? Non so, ma le ero intorno. Le toccavo il viso, e lei lo sentiva, sorrideva.

- Non devi essere triste, non sei più solo adesso – La sua espressione cambiò, si fece preoccupata. - Devo scendere... tornerò, sai. Hachimura sensei...

Non volevo che se ne andasse, non ancora; l'afferrai, gridai

NO!

e questa volta ero sincero. La volevo per sempre, e il desiderio era potere, adesso lo sapevo: ma gli occhi che prima mi intuivano con tenerezza si riempirono di terrore, e in quel terrore mi specchiai. Ero stato sospeso tra i due mondi così a lungo, che avevo dimenticato la mia destinazione. Oh, sì, anch'io ne avevo una, perché nulla si ferma. Gli anni possono sembrare lunghi, ma non sono infiniti. Anche i millenni hanno un termine, le stelle lo sanno. Gli uomini muoiono, l'acqua evapora, le montagne si sgretolano. Le anime vanno in paradiso, all'inferno, o aspettano... io avevo finito di aspettare, e stavo a mia insaputa pagando l'ingresso dell'inferno.

- Eiko-san, Eiko-san!

Non c'era più segno di paura negli occhi di Kanojo. Erano ancora davanti a me, immobili. No, non davanti... sotto di me. Ero io ad essere sospeso sul pozzo del cortile, coperto da una lastra di pietra, dove lei era caduta. Ero libero. Ero libero perché avevo ucciso Kanojo.

Ora Kare la prendeva tra le braccia, la portava in casa, maledicendomi: Chairo piangeva rabbrividendo sulla soglia. Fu allora che udii l'urlo, quel suono straziante che non era uscito dalle labbra di Kanojo mentre piombava sul pozzo (non aveva avuto il tempo di capire? o l'orrore l'aveva strappata alla vita prima ancora di toccare terra?), ed era intorno a me, una sola nota assordante che scandiva in sé tutte le mie colpe tessendo parole monocrome.

Era lei che cominciava la sua attesa.



Come vorrei avere la certezza che, annientandomi, pagasse il suo biglietto per il paradiso! Ma ormai Kanojo non ha più rabbia, non ha rancori. Un desiderio piccolo, triste, le fa sfogliare qualche pagina del libro che Kare tiene sulle ginocchia nelle mattine d'estate, seduto sul pozzo coperto, e lui si guarda intorno e sorride appena. La vede? Forse sì: come qualche volta si crede di vedere il vento...

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LESSICO

Bakechan: Letteralmente, fantasmino
Juugo: lett.: quindici (leggi: Quinzeina, colle del Canavese)
Shinshiro, Kohiru: leggi... Colleretto Castelnuovo (TO)
Kare: Lui, quello lì
Chairo: lett. colore del tè (leggi: Fulvia)
Sukiyaki: stufato. n.b.: in Giappone la carne di vitello è un lusso
Yukata: Kimono leggero
Shamisen: È uno strumento a corde
Haiku: Poesia giapponese composta di tre brevi versi
Kanojo: Lei, quella lì
Obanyaki: Focacce dolci farcite di marmellata di azuki (vedi) e cotte sulla piastra
Sensei: Appellativo traducibile con “maestro”
Eikoku: Inghilterra
Azuki: Fagiolo rosso. Ovviamente “un azuki bianco” suona da noi come “una mosca bianca".
Basho: Praticamente, il Dante giapponese
Shogun: L'equivalente di Presidente del Consiglio
Nikuman: Panini cinesi ripieni
Kotatsu: Tavolino basso con un braciere sotto, per secoli il sistema di riscaldamento delle abitazioni giapponesi. Di solito ci si infilano le gambe quando si ha freddo
Fusuma: Porta scorrevole
Dotera: Kimono invernale
Furoshiki: Fazzolettone che serve per avvolgere gli oggetti. Esiste tutta un'arte per annodarlo...
Engawa: Veranda aperta
San: Suffisso di rispetto. Equivale a signore/signora/ina, ma spesso si usa anche quando noi daremmo del tu
   
 
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