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Autore: SakiJune    02/06/2007    0 recensioni
L'amore è semplicità. Sempre. "Non ho mai dato importanza ai tempi dell’amore" afferma la protagonista, Lola. L'ispirazione per questo racconto è nata in un parco, proprio tra le foglie secche in un giorno d'autunno... E' arrivato al 4^ posto al concorso letterario "Carla Boero" di Chivasso, seconda edizione.
Genere: Romantico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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FOGLIE
- I sognatori della Guinda -

D’autunno, a terra, le foglie non scricchiolano, crosciano. Sembrano pagine accartocciate su cui all’occorrenza potrei scrivere, chiamando occorrenza quella necessità violenta che tuttavia svanisce all’apparire della possibilità di soddisfarla. Perché mille e mille parole mi si affollano alla mente, ma non appena la prima fluisce sulla carta, si cristallizza sbarrando l’uscita delle successive – che finiscono per disperdersi senza venire espresse…
Quante volte, seduta ad un tavolo davanti ad un quaderno vuoto, non ho saputo ricordare né inventare alcunché? E quante altre, invece, nei luoghi meno opportuni, ho vagheggiato anche il più piccolo bruscolo di carta su cui – ne ero sicura – avrei riversato per intero la mia anima!
Per questo mi dicevo: “Forse un giorno riuscirai a diventare una scrittrice, ma non potrai mai fare la giornalista”. Questo perché la mia memoria e la mia creatività evaporano davanti all’imposizione… sono una fottuta ribelle.
Le circostanze, invece, non mi hanno lasciato altra scelta. Mio fratello Antonio, che ha nove anni più di me, mi trascinò per i capelli nella sua apparente follia di fondare un periodico locale. Non che ne mancassero, in città, di giornali. C’erano la Gazzetta e la Gabbianella, il Grido e la Lagna, c’era il foglio della parrocchia e il bollettino della bocciofila. Ma lui diceva di avere idee clamorose e mi lasciai coinvolgere. Dapprincipio mi occupai soltanto (e non era poco) dell’impaginazione, forte della mia laurea in informatica, ma Antonio insistette nel farmi collaborare attivamente ai contenuti! Per il motivo che ho già spiegato, fui esentata dal ruolo di cronista: sotto pressione, avrei impiegato una settimana a mettere insieme due colonne striminzite per descrivere il più semplice degli avvenimenti… Mi affidò la rubrica delle recensioni teatrali e cinematografiche.
Ecco che senza alcuna costrizione, senza perciò pensarci troppo, scrissi di testa mia alcuni articoli e li presentai in redazione. Antonio mi ringraziò, senza troppo entusiasmo proprio perché mi conosceva: chiedermene esplicitamente altri avrebbe significato farmi ripiombare nel mio blocco creativo. Credo avrete già indovinato come è andata a finire. Ogni settimana tengo la mia rubrica e in più mi occupo del 40% della cronaca. Ovviamente senz’alcun impegno.

La redazione, per cui Antonio paga un canone d’affitto non indifferente, consisteva all’inizio di uno stanzone di 80 metri quadri, che venne poi diviso nei vari uffici con mezzi ingegnosi. C’era anche un ripostiglio che già chiamavamo “archivio” e, per nostra somma comodità, una stanza da bagno nuova nuova.
La prima collaboratrice ad essere reclutata fu la sua ex-compagna di università Emilia G., che da tempo cercava un pretesto per lasciare il “Goces de la Ciudad” – un’orrenda pubblicazione mensile composta per lo più da inserzioni di attività commerciali cittadine. Pallida, magra, nervosa, non mi fece una grande impressione. Con il passare del tempo, poter finalmente scrivere quel che le piaceva la rilassò enormemente. Almeno, io pensai che fosse per questo motivo. Prese qualche chilo, le si colorirono le guance e si rivelò molto più simpatica di quanto immaginassi. Solo più tardi scoprii le vere ragioni di quel cambiamento, in cui la soddisfazione professionale c’entrava poco o niente.
Con il tempo ci rendemmo conto che senza spazi pubblicitari saremmo falliti in un batter d’occhio. Il Goces era un limite, la nostra attuale ostinazione il limite opposto. Un compromesso doveva essere trovato senza tradire le nostre convinzioni. Fu così che Luís entrò nella nostra vita.
Suo padre da cinquant’anni gestiva un negozio di ferramenta dalle parti dei viali (un tempo questi ultimi potevano fregiarsi di tale nome: ma qualche anno fa, in un impeto di follia, il sindaco ha fatto tagliare le due file di rigogliosi platani che li abbellivano). Non potevo dire di esserne una cliente affezionata, ma vi ero stata varie volte perché era uno di quei posti dove entri sicura di trovare ciò che cerchi. A patto di essere preparata alla vista del signor Guillen. Più che una presenza, era un’apparizione. Entrando in negozio, ti accoglieva soltanto il tono di avviso della porta. Una volta che questa era chiusa alle tue spalle, egli appariva dietro il bancone, e il respiro ti si fermava. Pareva giunto da un altro pianeta. Il colorito giallognolo, tendente al verde, lo sguardo assente e insieme secolare, il camice nero di foggia antiquata (pare si trattasse di quello acquistato all’apertura della sua attività). Un sorriso, un saluto, neanche a parlarne. Tutto ciò non aiutava certo il cliente a mettersi a suo agio. Se, nonostante tutto questo, l’esercizio prosperava, era grazie alla sua professionalità fuori da ogni dubbio.
Antonio mi mandò dunque per il quartiere a vendere questi benedetti spazi pubblicitari per il giornale, con una piantina da lui redatta per semplificarmi il compito (secondo lui). Era in origine una mappa stradale - di quelle che si comprano in stazione per 7 euro - ritagliata e addobbata di scritte sovrapposte. Calle Díaz 7 - Abiti - passa oltre. Plaza del Ayuntamiento - Café Nuevo - si può tentare… e altre simili amenità.
Sul punto dove aveva calcolato si trovasse il negozio del signor Guillen, Antonio aveva disegnato una freccia rossa e vi lessi: colpo sicuro!
Quel giorno il signor Guillen non mi apparve né emerse dalle tenebre: era già dietro il bancone e parlava con qualcuno. Aspettai, immersa in quell’odore metallico che da bambina avevo sempre associato al sangue. Una persona che vive tutto il giorno in un tanfo simile, pensavo oziosamente, prima o poi sentirà il desiderio di uccidere.
Sbirciai il profilo dell’altro. Sembrava abbastanza giovane, di una fisionomia molto comune, con i capelli neri e una maglietta un po’ troppo leggera per un pomeriggio di settembre.
Quando mi feci avanti a parlare con il signor Guillen, questi mi ascoltò mantenendo il solito cipiglio impenetrabile. L’altro, invece, sorrise.
- La GuindaSemana? Mi chiedevo proprio come faceste ad andare avanti senza sponsor. Coraggio, papà, è ora di dare un taglio alla tua proverbiale tirchieria – e mi strizzò l’occhio.
- Quelli del Goces li caccio via a pedate. E con quella spazzatura patinata ci incarto le viti.
- Mio padre è un commerciante che odia il commercio. Tranne il suo, è chiaro.
Ero ancora sbalordita dall’avere scoperto la parentela fra i due, e passò almeno un minuto prima che riaprissi bocca.
- Comunque le lascio il numero del direttore, che poi è mio fratello. Ci pensi su. – balbettai. L’altro non mi aveva staccato gli occhi di dosso.
- Io la leggo sempre, la Guinda. È un vento nuovo. Non so se mi sono spiegato. Lei si occupa solo di pubbliche relazioni, o scrive?
- Io detesto le pubbliche relazioni. È che qualcuno dovrà pure accollarsi questo compito ingrato – e feci una smorfia. Il giovane Guillen rise.
- La compri mezza pagina alla signorina? – chiese al padre, con un tono che più che altro affermava.
- Non ne ho bisogno.
- Non hai capito, papà, sono loro che ne hanno bisogno.
Il lugubre individuo si strinse nelle spalle e gli rispose:
- Se è così, vai a vedere.
Fuori dal negozio, la luce mi sembrò accecante. Restammo qualche istante sulla soglia, un poco frastornati.
- L’ho vista quest’estate allo sciopero generale. - esordì il giovane Guillen. - Stavo con il sindacato… - e pronunciò una sigla che un tempo faceva tremare i datori di lavoro di tutto il Paese. – Oh, che testa ho! Io sono Luís.
Mi diede la mano. La sua stretta era morbida, esitante, quasi volesse trattenere le mie dita tra le sue per leggervi un messaggio in braille.
- Lola. Mi chiamo Lola. - Di solito non mi presento così. Per molti è un nomignolo un po’ equivoco.
Non avevo ancora capito perché lui mi avesse seguito fuori. Immaginai volesse visitare la redazione per sincerarsi della mia buona fede, e ci incamminammo in quel senso.
- Sono cresciuto in questa strada. Su e giù per il viale… c’erano gli alberi che ti ricordavano che stavi crescendo… quando le foglie ricoprivano l’asfalto mi toccava tornare a scuola, e quando le ritrovavo sui rami ero di nuovo libero di giocare tutto il giorno…
In un’altra occasione, se fosse stata un’altra persona, avrei classificato in blocco le sue parole come banalità senza rimedio. Ma la banalità è solo una verità che l’orecchio si è assuefatto a sentire, ma che riproposta in una diversa veste, da una voce inaspettata, ritroveremo colma di significati nuovi. Così fu quel pomeriggio tra me e Luís.
- Adesso, anche d’autunno la strada è pulita e sgombra come sempre. I lampioni non cambiano con le stagioni. Il pensiero di diventare grande, e poi vecchio, una volta, mi inorgogliva o mi atterriva, dipende… ma in questi ultimi anni… non mi sono più reso conto del tempo che passava.
Ma perché mi sta raccontando tutto questo, mi chiesi mentre salivamo in ufficio.
- Già qui? Scommetto che non hai cavato un ragno dal buco – mi salutò Antonio, stravaccato sulla sedia girevole in una posizione imbarazzante. - L’hai seguito, l’itinerario? Seee… Oh, salve. – Si ricompose, accorgendosi di Luís.
- Troppo facile. Non hai faticato molto. – continuò. - Lei è il giovane Guillen, non è vero?
- Non faccia questo torto a sua sorella, la prego. Mio padre è un osso duro, alle volte.
Cominciarono a discutere e io mi sedetti a lavorare. Mi sentivo bene. Mi sapevo protetta dalla luce dello schermo e dalle loro voci, non mi mancava niente. Ero curiosa di capire cosa Antonio sapesse dei Guillen e perché fosse stato così sicuro che ci avrebbero acquistato uno spazio.
Quella sera, a cena, lo tempestai di domande.
- Che ti posso dire? È un po’ vecchietto per te.
Pensai che parlasse del vecchio Guillen e gli risposi a tono.
- No no, voglio dire l’erede. Andava al liceo quando io avevo dieci anni, sarà sulla quarantina. Non scherzo.
Non gli erano mai piaciuti i ragazzi che avevo frequentato. E, alla fine, aveva avuto sempre ragione. Ma questa volta il suo cinismo mi avrebbe dato davvero fastidio: se avesse detto un’altra parola negativa su Luís, me ne sarei andata in camera mia.
- Se non altro, ha le idee chiare. Avrebbe potuto comportarsi come il classico figlio del commerciante: far finta di studiare, trastullarsi, viaggiare e aspettare che suo padre tirasse le cuoia, e poi arraffarsi il negozio. Invece, finita la scuola, è andato dritto a lavorare in fabbrica. È un bel tipo davvero, ma per te è troppo vecchio, basta.
Sorrisi alla sua ostinazione. Da quando la mamma si era risposata, quella primavera, Antonio ed io vivevamo soli nella casa della nostra infanzia. Fino a quel momento era stato lui il punto fermo della mia vita. Sin da quando avevo imparato a leggere, mi aveva imposto i “suoi” autori, e la sera mi interrogava. Un giorno, in quarta elementare, la maestra mi sequestrò sotto il banco le poesie di Rimbaud, e avvertì i miei genitori. Mio padre, al colloquio, esplose in una bella risata – forse l’ultima della sua vita.
- Perché si preoccupa, signorina? Mia figlia è solo un po’ avanti con il programma. - Nel viso sofferente gli occhi brillavano di orgoglio.
Dopo la morte di papà, la domenica Antonio mi portava spesso in campagna con lo scooter. Era una fuga disperata. Il mangiadischi a pile con l’album dei Sex Pistols suonato a tutto volume, un prato, e ci lanciavamo in danze selvagge, facevamo la lotta, urlavamo fino a perdere la voce. Una sera finì la benzina e dovemmo tornare a piedi. Era autunno, e sulle stradine le foglie di noce formavano uno strato che si sfaldava sotto le nostre scarpe. Ricordo quel crepitio e la mano calda di mio fratello nella mia, ricordo il desiderio di continuare a camminare insieme senza fermarci, e non tornare più a casa a ritrovare lo sguardo triste di mia madre, sentire i suoi rimproveri…
- Non preoccuparti – dissi ad Antonio prima di andare a dormire – Resterai l’unico uomo della mia vita ancora per molto tempo.

Naturalmente non andò così. Il vecchio Guillen comprò una pagina intera della Guinda e Luís mi invitò ad uscire. Finimmo in una trattoria, dove tre ore dopo il proprietario dovette spegnere le luci per farci capire che stava per chiudere.
- Mi piacerebbe sapere come sei riuscito a convincere tuo padre.
- Ecco, Lola… in primo luogo, lui non è mio padre. Mi ha adottato. Non me lo nascose mai e io non ho mai pensato che il suo affetto mi fosse dovuto. Per questo ho cominciato a lavorare il prima possibile, e anche il negozio… non lo voglio, capisci? Ciò che possiedo, devo essermelo guadagnato, altrimenti non mi apparterrà mai veramente. Però lui vorrebbe regalarmi il mondo intero, lo so. Ne potrei approfittare in un modo peggiore, ma questa mi sembrava una buona causa.
- C’è anche un secondo luogo? – chiesi commossa.
- Uh… non vorrei rovinare tutto. Vuoi proprio che te lo dica? L’ho scongiurato di farlo perché volevo qualcosa che mi legasse a te.
- Non riuscirai a farmi credere di esserti preso un colpo di fulmine per me.
- E così, ci credi? – Mi baciò. – L-o-l-a, ti fidi di me?
Capii che non mi avrebbe mai fatto soffrire. Non di proposito, almeno. Ricordate la canzone di Polly Peachum?

“Oh, per tutta la notte fu in cielo la luna
e la barca restò ormeggiata a riva
e non si poteva fare altro!”

Non ho mai dato importanza ai tempi dell’amore. La morale scontata non mi appartiene, o meglio, io non appartengo ad essa. Ma finché non avevo trovato ciò che cercavo, mi ero adeguata. Voglio dire, non ero mai andata a letto con un ragazzo al primo appuntamento – ma solo perché non mi era venuto naturale.
Non si poté fare altro per tutta la notte, nel suo appartamento al quinto piano.

La mattina dopo girellai un poco per la casa, cercando tracce del suo occupante che fossero più reali del suo corpo addormentato. Oltre che cruda realtà, in effetti, non si poteva trovare. Bollette scadute, manuali di istruzioni di vecchi elettrodomestici, l'invito alle nozze di una cugina usato come sottobicchiere e macchiato di aranciata. La cucina in disordine. La biblioteca ridotta al minimo - Ken Follett, Mao Tse-Tung, e con mio grande divertimento, vari volumi di ricette veloci.
Il guardaroba era poi l’esatto specchio della sua personalità: polo di tutti i colori, pantaloni scoloriti, più che dall'uso, dai lavaggi a 90°, magliette bianche, calzini blu e grigi. Nulla a che vedere con i vestiti alla moda dei miei coetanei, ma diverso anche dai pantaloni di velluto e dalle camicie a scacchi di Antonio.
La tenerezza s'impadroniva di me ad ogni piccolo particolare che notavo, ad ogni banale oggetto su cui posavo gli occhi. La semplicità in cui Luís si muoveva era la stessa con cui firmava i suoi gesti, le sue parole, di cui era intrisa la sua figura.
Temevo il suo risveglio, ora; ogni donna innamorata chiede “mi amerai domani?” come nella canzone, e io, nonostante tutto, sono una donna. Ma la prima cosa che mi disse, appena aperti gli occhi (e ancora prima di “buongiorno”) fu:
- Su metà della pagina, ci sarà la pubblicità del negozio. Per il resto, vorrei tenere una corrispondenza. – Si accese una sigaretta, cercando il mio sguardo per catturare la mia reazione.
- Mi sembra grandioso. – saltai su. – Di cosa ti piacerebbe scrivere?
- La crisi industriale di questa città vista da un operaio. I rappresentanti sindacali degni di questo nome e quelli che cercano di compiacere i padroni. I ricatti e il crumiraggio sotto false spoglie. Sono in linea?
Quando ne parlai ad Antonio, ne fu entusiasta… ed è dire poco. La sua gelosia di fratello maggiore si era dileguata in modo sospetto. Non si era nemmeno accorto che non fossi tornata a casa quella notte, perché lui ed Emilia avevano avuto più o meno la stessa idea.
La nostra personale verità mi si apriva davanti. Per qualche attimo riuscii a gettare un’occhiata dall’alto sul confuso labirinto dei rapporti umani. Capii che Emilia da un lato e Luís dall’altro avevano sbloccato una situazione che molti avrebbero definito morbosa.
Anche se ora mi sembra di avere già tanto, la vita di noi sognatori della Guinda non è mai facile. Luís è stato in cassa integrazione per diversi mesi l’anno scorso, e da quando insegno informatica nelle aziende sto spesso tutta la settimana fuori città o dove mi mandano, spesso senza un preavviso ragionevole. Ultimamente passo il fine settimana a lavorare in redazione, perché Antonio è sempre a casa con Emilia e la loro bambina. Non so come spiegarlo, ma per assurdo mi sembra di… respirare meglio. É perché entrambi abbiamo costruito una famiglia con la persona che amiamo, e per quanto il nostro rapporto sia importante, non c’è più nulla di ossessivo.
Tranne che nella mente del nostro sindaco. Continua a far tagliare alberi, questa volta al parco. Tre alla settimana. L’altro giorno sono andata a chiedere in Comune il perché: sostengono che fossero pieni di parassiti. Uno spunto per Luís che ha scritto un articolo sui ricchi parassiti della società.
Verrà un giorno in cui dovrò di nuovo fuggire tra i campi per sentire sotto i piedi il rumore delle foglie secche e goderne il turbinio nel vento. Ed è nell’aria il momento in cui in questo Paese giornali come il Guinda risulteranno fuorilegge.
Eppure non è solo questa la mia preoccupazione. Penso spesso a quando il signor Guillen non ci sarà più e Luís sarà costretto, a meno di passare per stupido, ad accettare l’eredità. Provo a fantasticare quante cose potremo permetterci, e che potrò finalmente gettar via la pillola. Allora non ci importerà più di trasmettere le nostre idee agli altri, perché le avremo lasciate da parte – ci saremo chiusi in un piccolo mondo tiepido e luccicante.
Questi timori concreti e contrastanti mi uniscono alla vita. Quando scrivo per il giornale, come quando creo un racconto o una poesia, non ho più paura di usare le parole sbagliate, di essere fraintesa… non lascerò che le nostre parole restino inespresse - finché ci saranno fogli o foglie su cui scrivere, ed energia in noi.
   
 
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