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Autore: Nocturnia    17/11/2012    0 recensioni
Ci sono storie che affondano le loro radici nelle viscere dell'umanità.
Ci sono alcune storie - quelle brutte, quelle dal sapore tragico della profezia - che dipingono il proprio svolgimento con i colori della guerra e del sangue.[...]L'ho vissuta e infine compresa, abbracciandola. E nel suo abbraccio ho trovato una risposta.
Una fine e un inizio.
Genere: Fantasy, Guerra, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Nel segno del sangue'
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Disclaimer: Questa storia è stata scritta per puro diletto personale, pertanto non ha alcun fine lucrativo. L’intreccio qui descritto e i personaggi rappresentati sono copyright dell’autrice (Nocturnia) e non ne è ammessa la citazione altrove, a meno che non sia autorizzata dalla stessa tramite permesso scritto.


Finis Ludi


Il sole era appena sorto quando Addakra mi svegliò, già completamente vestita per la battaglia.
"Hai fatto la guardia tutta la notte?" le chiesi intorpidita dal freddo.
"Sì." replicò parca "Non avevo sonno."
Raccolsi i miei abiti e arrotolai la coperta in silenzio, osservando, con la coda dell'occhio, la sua figura che, rigida, squadrava la piana e i fumi insani che provenivano dall'accampamento poco lontano.
"Sono pronta." annunciai agganciandomi la faretra sulla schiena "Quando vuoi."
Partì senza dire una parola, abbassandosi mano a mano che ci avvicinavamo all'avamposto.
Sentivo la paura battere e gridare da un angolo del mio spirito, ma la misi a tacere, regredendo al primo insegnamento che quella cacciatrice mi aveva inculcato mesi prima:
Se hai paura, muori ancora prima di essere colpito. Se hai paura, il dolore sarà cento volte più grande. Sei hai paura, allora dovevi lasciarti morire insieme ai tuoi genitori, perché questo mondo ti offende ogni giorno.
Mi arrestai bruscamente quando Addakra alzò la mano, indicandomi due saprofagi agli angoli della cattedrale.
La fissai negli occhi senza realmente vederli, oscurati com'erano dal cappuccio, ma sapevo già cosa fare anche senza un suo sguardo.
Incoccai due frecce e le lanciai contemporaneamente da ambo le balestre, trapassando le creature alla gola, senza alcun rumore.
Caddero al suolo insieme alla prima goccia di pioggia che andava a inaugurare una tregenda, un lago putrido in cui avrei perso ogni ideale, scivolando su di un fango di terra e merda.
Riportammo lo sguardo sul centro della vecchia piazza in rovina, osservando i quattro cultisti all'opera e i pochi saprofagi rimasti dalla scorsa sera.
"Sembra facile..." mormorai incerta
Addakra non mi rispose neppure, estraendo le pistole e togliendosi il mantello.
Fu allora che la vidi: la desolazione.
Le occhiaie della notte insonne, il rosso che circondava una pupilla maledetta e ungulata da rettile, cordoli di cicatrici che le sfregiavano la nuca nel marchio della bestia.
La sua bestia.
Le prime parole che mi rivolse dall'inizio della giornata furono anche le ultime.
"Prendi i saprofagi, sono deboli e infiacchiti dalla fame. Io lancerò una granata al centro dell'altare, uccidendo gli altri. A Zanor..." concluse alzando il mento verso una figura lontana, nascosta all'ombra del campanile "ci penso io."
Non mi dette il tempo di replicare: ma d'altronde, nemmeno c'era.
Si lasciò scivolare sul pendio, una palla di fuoco che stracciava i cultisti e le mie braccia che scattavano ancora prima delle gambe, il cervello spegnersi per far posto a quel vuoto in cui solo la violenza trovava una ragione d'essere.
Fissai la sua schiena snella nell'ultimo attacco.
Quello che avrebbe cambiato, ancora, il corso della mia vita.

Addakra era stata di una precisione letale, gli altri solo scarafaggi al confronto con la sua vera preda, il suo vero motivo.
L'aveva raggiunto piena di rabbia e di frustrazione, un acervus di momenti vissuti e momenti spezzati.
Lui si era voltato, regalandole uno sguardo spietato, in cui l'azzurro dei suoi occhi era talmente chiaro da risultare quasi bianco.
La lunga coda, retaggio del sangue demoniaco, sferzò l'aria, andando a schiantarsi contro il muro della cattedrale.
Estrasse le sciabole gemelle, mostrando un chiostra di denti bianchissimi e affilati.
"Zanor..." sussurrò lei
Tra i suoi capelli, un tempo corvini, si intravedevano i primi fili grigi, a memoria che lui era un morto, non un vivo.
Era un Ritornato.
Si erse in tutta la sua altezza, sorridendole malevolo.
"Addakra."
E furono quelle parole non dette a gridare, mentre si spezzavano il cuore.
Fu il cielo a piangere, mentre si divoravano l'anima a vicenda.
I grani del tempo avevano ricominciato a scorrere.
Per l'ultima volta.

La brama di conoscenza è qualcosa di umano e illusorio.
Quando avevo imparato a leggere, quasi l'unica per tutta Silverkin, mi ero sentita la più intelligente, la più colta.
Pensavo che tutto mi fosse permesso e che fosse bello, dolce, avere ragione.
Che decretasse una superiorità tutta mia, che nessuno poteva portarmi via.
Pensavo che il mondo fosse bianco o nero e che io, Dyen di Silverkin, fossi depositaria di una giustizia pietosa e benevola.
Ma quando vidi le armi di Addakra e Zanor cozzare, quando capii che la trama dell'universo è un pugno feroce di colori, di cui l'occhio umano ne percepisce solo l'infinitesima frazione, seppi di essermi sbagliata.
Che, compresi ingoiando un fiotto di bile acida, la giustizia non appartiene agli uomini: non ha forma o contorni.
La giustizia è solo una meschina forma di fatalismo.

Zanor aveva deviato i dardi con la lunga coda da demonio, screziata d'ebano.
Addakra aveva ricaricato, ma contro quel maglio implacabile era caduta sui polpacci, sboccando un fiotto di sangue densissimo.
"Non ti avevo addestrato poi così bene." disse sardonico, incombendole sopra.
Lei persisteva nel non rispondergli, stringendosi il braccio offeso.
"Cosa succede, ti hanno mangiato la lingua?" la sbeffeggiò lui
Addakra aveva estratto, rapida, un pugnale dallo stivale e gli aveva tranciato il legamento della caviglia, facendolo barcollare.
Felina, gli aveva assestato due montanti e l'aveva atterrato, scoprendo però il fianco, in cui si era incuneato il gladio di Zanor.
Aveva urlato dal dolore, afferrando il moncone di quella spada e spezzandola, colpendolo poi nella polpa morbida dell'addome.
Zanor si era dimenato sotto di lei, avvolgendole la coda intorno alla vita e stringendo convulsamente.
Le era sembrato si sentire gli organi interni esplodere, tanta era stata la pressione.
Si era inarcata, tentando di liberarsi da quella morsa ferrea, ma i pungoli di cui era armata le penetravano nella pelle, inumidendo col suo sangue il torace di Zanor.
La sollevò al cielo, rialzandosi e colpendola al viso con la mano aperta.
Crack.
Probabilmente le aveva fratturato uno zigomo, oppure l'orbita stessa, non avrebbe saputo dirlo con certezza.
Spruzzi di sangue gli raggiunsero il volto, in cui la pupilla era diventata così piccola da fondersi con il resto dell'iride.
Saggiò la vittoria nel plasma di Addakra, tergendosi le labbra e fissandola.
"Addakra... mia anima... mio cuore." sospirò Zanor prima di alzare, letale, il pugno.

Era morta tante volte, Addakra.
La prima, quando la sua famiglia, nobile, era stata sterminata dalle armate di Moloch.
La seconda, quando aveva dovuto fare i conti con una realtà che non le piaceva e non la voleva, la sua sola compagnia un taciturno cacciatore di almeno dieci inverni più di lei.
La terza, quando quel cacciatore le era morto tra le braccia, negli occhi ancora il rogo di Umenarn.

"Non si può uccidere l'amore..." le aveva detto Dyen un pomeriggio pigro e indolente, mentre lisciava l'impennaggio delle frecce.
"E chi te lo dice?" le aveva ribattuto Addakra sardonica, poggiando l'arma e fissandola.
"E' sempre stato così." la feroce morale delle fiabe, la nuda sicurezza di un universo infantile e dolce.
"Nelle tue favole, Dyen. Nelle tue favole." era stata la cinica risposta.

Muoveva un passo dietro l'altro, Addakra, distruggendo e odiando.
Tentava di sbranare quella crisalide vuota che era il suo amore, annegandola nella melma nera e putrida di un rimorso che non trovava pietà.
Grattava la superficie ruvida della sua memoria, tentando di cancellarvi l'impronta di un relitto di cui la storia aveva voluto farle dono.
Ma non funzionava.
Fintanto che avrebbe continuato a odiare, avrebbe anche continuato ad amare.
Era il dolore la sua lama.

Oltre il muro di fiamme che le sue granate avevano provocato, incrociò lo sguardo disperato di quella che avrebbe dovuto essere la sua allieva, ma che forse conosceva già tutto.
Era la seconda morte per Dyen, lo sapeva, ma nell'infinito del suo egoismo, non le importava.
Aveva tentato di abbattere con la crudeltà e l'inumana lingua della violenza le sue difese, la sua innocenza.
Aveva fallito, almeno in parte.
In quegli occhi, verde purissimo, Addakra vide la capacità di amare, odiare, soffrire; ancora.
E sorrise.

Si puntellò sui gomiti di lui, soppesandolo e cercandogli l'iride immota.
A tentoni, frugò nella cinta l'arma che avrebbe dovuto liberarla, percependo le vertebre della schiena incrinarsi.
"Un ultimo pensiero, mia amata?" replicò Zanor
"Sì..." rantolò ormai prossima al collasso "uno solo."
"Allora dimmi..." le aveva sussurrato avvicinandosi al suo orecchio "convincimi, Addakra."
Ed erano parole che fiorivano dalle vestigia putrefatte di un'epoca scomposta.
Erano parole che sapevano di un incubo incessante, una follia che, per molte notti, li aveva tenuti svegli e vigili.
Erano l'ultima supplica di un evo prossimo alla tomba.
Si era inclinata verso di lui, la pioggia che, densa, lavava colpe e sangue, rimorsi e veleno.
"Addio, Zanor..."
Quando il pugno di lui era affondato, inesorabile, nelle sue viscere, passandola da parte a parte, il piccolo coltello d'osso gli si era conficcato tra le costole, all'altezza del cuore.
Uccidendolo.
Zanor aveva strabuzzato gli occhi, lasciandola andare di colpo e rovinando al suolo.
Disteso sulla schiena, Addakra era strisciata fino a lui, guardandolo morire per l'ennesima volta.
Una mano all'addome e l'altra in quella di Zanor, la ferae lo vide sussultare, gorgogliare in cerca d'aria, la coda che frustava l'aere spasmodica, alzando gocce di fango ed erba.
Con uno scatto secco, Zanor volse il suo profilo migliore alla storia, negli occhi la scintilla di quell'umanità che l'aveva reso preda e non solo predatore.
"Addakra..."
Erano state le ultime parole che aveva sentito.
Aveva accostato il viso al petto inerte di Zanor, franandoci sopra.
E c'era qualcosa di dolce nella situazione intera, sebbene dall'addome sentisse colare un filo appiccicoso e morbido.
Il mondo si era fermato, frantumandosi sul suo asse e scricchiolando, eco di un cosmo ormai estinto.
Le grida di Dyen, il rumore della pioggia, il vento che spirava tra i suoi vestiti.
Tutto.

"È finita?"
"Sì."
"Davvero?"
"Sì, Addakra."
"Sono contenta."
"Dovevi vivere. Scappare."
"No."
"Non sono morto due volte per vederti crepare al mio fianco. Sono troppo egoista per assecondare i tuoi sentimenti, Addakra."
"Non ti lascerò, questa volta."
"Perché?"
"Perché sono anche io una terribile egoista. Non ho nient'altro oltre te, Zanor. Nessuno vive ancora per versare una sola lacrima per me."
"Lei sta soffrendo."
"Te l'ho già detto. Sono egoista."

Addakra vide solo una macchia nera e sfocata che tentava di trarla in salvo, legandole un panno intorno alla ferita e berciando offese nella sua lingua natia.
Serrò più forte le dita intorno alla mano di Zanor, sentendo i propri respiri rincorrersi tra loro, il suo cuore rallentare, l'anatomia di una morte incisa nella retina, nello spirito.
Morì in un giorno di pioggia e rimembranze Addakra, al cielo un sorriso che aveva un che di malinconico e sciocco.
Morì esattamente come era vissuta, abbeverandosi nel vischioso di un sangue maledetto e di un desiderio mai scomparso.
Morì con la cenere nella mente e la carne nel cuore.
Di nuovo, finalmente, umana.

"Perdonami..."
"Non fa niente, Zanor. Non importa. Avevi promesso."
"Erano le parole di un demonio."
"No. Erano il tuo vero desiderio."

Ed era l'inferno, lo sapeva bene.
Era sangue incandescente e corpi deliranti, nodi di fumo e d'anime.
Erano gli occhi di Addakra, la sua pelle pallida, il sorriso con cui gli tendeva le mani.
Zanor sapeva bene dov'era e non gli importava.
Non poteva redimersi, poiché era convinto di non aver peccato mai.
E mentre cingeva i fianchi della ferae, nascondendo il volto tra i suoi capelli, capì anche d'essere sordo alla sentenza di dannazione di quel giudice implacabile che chiamano 'Vita'.
Che gridasse pure al mondo il suo sgomento quell'essenza sempre gravida.
Che contasse pure i figli che le aveva tolto.
Il sangue più importante era infine stato versato, fino all'ultima goccia.
E giaceva ora tra le sue braccia.

" Mi hai mangiato il cuore, Addakra."
"Lo so. E tu hai consumato il mio."
"Adesso siamo pari."
"Per sempre."

Un giuramento che officiava la triste allegoria delle favole: che il per sempre è un matrimonio d'intenti che solo la Morte può celebrare, un confine tracciato in punta di piedi da una falce ricurva e affilata.
E che loro, infine, avevano superato.
   
 
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