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Autore: RakyKiki    22/11/2012    5 recensioni
[Sterek AU.]
Stiles è un deportato in un campo di concentramento e Derek è un sadico e crudele tenente tedesco in stanza in quel campo.
Il rating è provvisorio e potrebbe variare.
Ci potrebbero essere delle scene piuttosto forti.
Ma soprattutto ci sarà abbastanza ANGST.
Detto questo vi auguro una buona lettura!
Genere: Angst, Drammatico, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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Work, sorrow and shooting.

Capitolo 1.

Non so esattamente il motivo per cui lo feci, fatto sta che quando vidi quel bastardo colpire con il fucile quel povero bambino non resistetti e lo strappai dalle sue grinfie.

“E’ solo un bambino!” urlai facendo scudo con il mio corpo.

“Levati di mezzo.” Rispose il soldato e quando vide che non accennavo a muovermi sul suo viso comparve un ghigno malefico ed aggiunse.

“Allora verrai con lui.”

“Cos’ha fatto di male? E’ un bambino per la miseria!”

“E’ ebreo, questa è la sua colpa.” Mi disse e chiamò altri due soldati.

Tentai di scappare, dovevo salvare il bambino, ma sfortunatamente non ci riuscii e ci raggiunsero quando eravamo appena usciti dalla via principale per imboccare un vicolo secondario.

Ci puntarono contro i fucili ed io feci nuovamente scudo con il mio corpo al bambino.

Un rumore alle mie spalle mi fece voltare repentinamente ma non feci in tempo a realizzare cosa stesse succedendo che tutto improvvisamente divenne buio.

 

***

 

Mi risvegliai su un treno pieno di persone tutte attaccate l’una all’altra che mi sovrastavano.

Provai ad alzarmi ma qualcosa, o meglio qualcuno, mi teneva ancorato a terra: era il bambino che avevo tentato di salvare e mi fissava con gli occhi spalancati, spaventati e pieni di lacrime.

Non era giusto si trovasse in un posto simile, avrà avuto non più di otto anni!

L’unico lato positivo, se così si può definire, era il fatto che fossi li con lui, almeno non era solo.

Ripensai a quello che avevo visto poche ore prima ed al posto in cui mi trovavo ed un pensiero attraversò la mia mente: certo avevo sentito delle voci su ciò che attendeva le persone che salivano su quei treni, ma non pensavo che fossero vere, dopotutto ero solo un ragazzo, ancora così ingenuo ed inesperto del mondo.

Dopo un tempo che parve infinito il treno si fermò e ci fecero scendere.

Il piccolo non accennava a volersi staccare da me e continuava a stringermi la mano.

“Dove siamo?” mi chiese dopo aver tirato la manica della mia maglia per attirare la mia attenzione.

“Non lo so, ma non preoccuparti, sono sicuro andrà tutto bene. Tu stammi vicino.” Gli dissi dandogli una carezza sulla testa mentre attraversavamo un cancello che recava la scritta “Arbeit macht frei “ che voleva dire “Il lavoro rende liberi”.

Dei soldati dividevano gli uomini dalle donne e i bambini e tentai di convincere i soldati a far stare il piccolo con me che mi guardava terrorizzato.

“Sono l’unico parente che ha!” mentii al soldato il quale però non volle sentir ragioni e portò il bambino dalle donne.
“Stai buono, andrà tutto bene!” gli urlai mentre mi portavano al controllo sanitario.
Il piccolo continuava a fissarmi e quando mi girai per l’ennesima volta per guardarlo, vidi che aveva iniziato a correre verso di me.

Un soldato, quello che ci aveva divisi, se ne accorse e, presa la mira, sparò al bambino che cadde a terra in una pozza di sangue vermiglio.

“No!” Urlai e corsi verso il corpo esanime del bambino ma subito quel soldato puntò il fucile verso di me.

“Torna nella fila, se non vuoi fare la sua stessa fine.” Mi disse ma io non mi mossi.

Aveva sparato ad un bambino.

Un bambino che aveva ancora tutta la vita davanti.

Un bambino la cui unica colpa era quella di essere nato sotto la parola ‘ebreo’.

“Ho detto: torna nella fila!” Mi ordinò nuovamente ed io nuovamente non mi mossi, e non mi sarei mosso da quel punto se non fosse stato per un altro soldato che mi prese per il braccio.

“Non fare l’eroe, non servirebbe a nulla.” Mi disse prima di lasciarmi nella fila.

Venni dichiarato abile al lavoro e venni condotto in quelli che dovevano essere i bagni, dove ci fecero consegnare la biancheria, i nostri abiti civili e qualsiasi oggetto di valore avessimo con noi, per non dimenticare i documenti.

“Tanto non vi serviranno.” Questa fu la risposta che giustificò tale gesto.

A noi uomini fu concesso di tenere soltanto la cintura ed un fazzoletto di stoffa.

Ci consegnarono ai barbieri che ci rasarono.

Dopodichè andammo alle docce e dopo ci consegnarono gli abiti da campo: una casacca, un paio di pantaloni ed un paio di zoccoli.

Rivestiti dell'abbigliamento da campo, ci registrarono: compilammo una scheda con i dati personali e con l’indirizzo dei familiari più prossimi.

Ricevemmo poi un numero.

Il mio era E 174518, il che significava che ero da “educare”.

Ci condussero in un’altra stanza in cui ci tatuarono il numero sul braccio sinistro, facendo uno strappo alla regola per me poiché il tatuatore aveva ricevuto l’ordine dal soldato che aveva sparato a quel povero bambino.

Faceva malissimo, ma mai avrei dato la soddisfazione a quei bastardi di avermi fatto gridare.

Il numero di matricola, impresso su un pezzo di tela, era anche cucito sul lato sinistro della casacca di ognuno, all'altezza del torace, e sulla cucitura esterna della gamba destra dei pantaloni. Al numero era associato un contrassegno colorato, che identificava le diverse categorie di detenuto: il mio era un triangolo verde, mi avevano ‘catalogato’ come criminale, sebbene non avessi commesso alcun crimine.

Dato che ormai la notte era scesa su quel luogo così lugubre, ci portarono in quella che doveva essere la mensa e ci diedero un minestrone senza nemmeno un cucchiaio.

Del pane non v’era nemmeno l’ombra.

Dopo la cena ci portarono in dei capannoni, chiamati Block in cui avremmo dormito: vi erano letti a castello di tre piani con delle cuccette.

Mi diressi alla mia e mi ci accoccolai meglio che potei, la vista del corpicino del bambino ancora impressa nella mia mente.

 

***

La vita nel campo di concentramento non era per niente facile ed anzi, non era nemmeno degna di essere definita vita quella.

Le condizioni igieniche erano scarsissime, il cibo bastava a malapena per sopravvivere, i turni di lavoro fitti e faticosi e se ti facevi male rischiavi di essere mandato direttamente alle camere a gas.

Dopo il mio primo mese nel campo di concentramento iniziai a perdere il conto dei giorni, finchè non seppi nemmeno più il mese.

Vedevo morire moltissime persone e più di una volta per via del freddo inverno rischiai di morire anche io, ma riuscii a superare i mesi ghiacciati grazie alla mia capacità nell’ottenere lavori in luoghi abbastanza riparati.

Con l’avvento della primavera però venni mandato a lavorare in miniera, con turni di lavoro ancora  più estenuanti.

I soldati di guardia alla miniera erano, se possibile, ancora più disumani degli altri.

Per questo motivo, e perché non sono in grado di tenere a freno la lingua, finivo spesso nei guai infrangendo una delle regole più importanti del campo:
‘Non fare domande’.

Non mi mandarono alle camere a gas soltanto perché vedevano che ero uno che svolgeva moltissimo lavoro, e quindi mi consideravano in un qualche modo utile.

***

Un giorno giunse al campo un nuovo tenente, si chiamava Hale.

“Non è totalmente ariano, il padre era americano ma ha sempre vissuto in Germania. Stai attento con quello li ragazzo, è un tipo particolarmente sadico e cattivo, nel vero senso della parola.” Mi spiegò il mio attuale compagno di lavoro Joshua.

***

Quel giorno ero nuovamente in miniera.

Non vedevo Joshua da giorni ormai, e presto le mie più remote paure divennero realtà.

“Il tenente Hale lo ha mandato alle Camere.” Mi disse un altro prigioniero.

Mi fermai un momento per riprendere fiato e appena alzai la testa trovai, dall’altro lato della cava, un paio di occhi verdi che mi fissavano con espressione truce.

Sostenni lo sguardo con fare provocatorio: non mi sarei mai sottomesso a quel tenente.

Non mi sarei fatto uccidere dalle crudeltà e dalle mostruosità di quei bastardi.

Lo dovevo a quel povero bambino.

Lo dovevo a Joshua.

E lo dovevo a tutte le altre persone innocenti, deportate perché nati con la ‘colpa’ di essere ebrei.

 

NdA:

Salve!

Questo tipo di storia per me è totalmente nuova, quindi siate clementi!
L’idea è nata dopo che ho letto la one shot di lunatica365 "Just give me a reaon" (ovviamente non mi mette il link -.-)  e, con il suo permesso, ho pensato di svilupparla.

Non ho idea da quanti capitoli sarà formata, ma so per certo che non sarà una long.

Detto questo vi ringrazio se siete arrivati a leggere fino a qui xD
Un saluto, Kiki.


 

   
 
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