Work, sorrow and shooting.
Capitolo 1.
Non
so esattamente il motivo per cui lo feci, fatto sta che quando vidi
quel bastardo colpire con il fucile quel povero bambino non resistetti
e lo
strappai dalle sue grinfie.
“E’
solo un bambino!” urlai facendo scudo con il mio corpo.
“Levati
di mezzo.” Rispose il soldato e quando vide che non accennavo
a
muovermi sul suo viso comparve un ghigno malefico ed aggiunse.
“Allora
verrai con lui.”
“Cos’ha
fatto di male? E’ un bambino per la miseria!”
“E’
ebreo, questa è la sua colpa.” Mi disse e
chiamò altri due soldati.
Tentai
di scappare, dovevo salvare il bambino, ma sfortunatamente non
ci riuscii e ci raggiunsero quando eravamo appena usciti dalla via
principale
per imboccare un vicolo secondario.
Ci
puntarono contro i fucili ed io feci nuovamente scudo con il mio
corpo al bambino.
Un
rumore alle mie spalle mi fece voltare repentinamente ma non feci in
tempo a realizzare cosa stesse succedendo che tutto improvvisamente
divenne
buio.
***
Mi
risvegliai su un treno pieno di persone tutte attaccate l’una
all’altra
che mi sovrastavano.
Provai
ad alzarmi ma qualcosa, o meglio qualcuno, mi teneva ancorato a
terra: era il bambino che avevo tentato di salvare e mi fissava con gli
occhi
spalancati, spaventati e pieni di lacrime.
Non
era giusto si trovasse in un posto simile, avrà avuto non
più di
otto anni!
L’unico
lato positivo, se così si può definire, era il
fatto che fossi
li con lui, almeno non era solo.
Ripensai
a quello che avevo visto poche ore prima ed al posto in cui mi
trovavo ed un pensiero attraversò la mia mente: certo avevo
sentito delle voci
su ciò che attendeva le persone che salivano su quei treni,
ma non pensavo che
fossero vere, dopotutto ero solo un ragazzo, ancora così
ingenuo ed inesperto
del mondo.
Dopo
un tempo che parve infinito il treno si fermò e ci fecero
scendere.
Il
piccolo non accennava a volersi staccare da me e continuava a
stringermi la mano.
“Dove
siamo?” mi chiese dopo aver tirato la manica della mia maglia
per
attirare la mia attenzione.
“Non
lo so, ma non preoccuparti, sono sicuro andrà tutto bene. Tu
stammi vicino.” Gli dissi dandogli una carezza sulla testa
mentre
attraversavamo un cancello che recava la scritta “Arbeit
macht frei “
che voleva dire “Il
lavoro rende liberi”.
Dei
soldati
dividevano gli uomini dalle donne e i bambini e tentai di convincere i
soldati
a far stare il piccolo con me che mi guardava terrorizzato.
“Sono
l’unico
parente che ha!” mentii al soldato il quale però
non volle sentir ragioni e
portò il bambino dalle donne.
“Stai buono, andrà tutto bene!” gli
urlai mentre mi portavano al controllo
sanitario.
Il piccolo continuava a fissarmi e quando mi girai per
l’ennesima volta per
guardarlo, vidi che aveva iniziato a correre verso di me.
Un
soldato, quello
che ci aveva divisi, se ne accorse e, presa la mira, sparò
al bambino che cadde
a terra in una pozza di sangue vermiglio.
“No!”
Urlai e
corsi verso il corpo esanime del bambino ma subito quel soldato
puntò il fucile
verso di me.
“Torna
nella fila,
se non vuoi fare la sua stessa fine.” Mi disse ma io non mi
mossi.
Aveva
sparato ad
un bambino.
Un
bambino che
aveva ancora tutta la vita davanti.
Un
bambino la cui
unica colpa era quella di essere nato sotto la parola
‘ebreo’.
“Ho
detto: torna
nella fila!” Mi ordinò nuovamente ed io nuovamente
non mi mossi, e non mi sarei
mosso da quel punto se non fosse stato per un altro soldato che mi
prese per il
braccio.
“Non
fare l’eroe,
non servirebbe a nulla.” Mi disse prima di lasciarmi nella
fila.
Venni
dichiarato
abile al lavoro e venni condotto in quelli che dovevano essere i bagni,
dove ci
fecero consegnare la biancheria, i nostri abiti civili e qualsiasi
oggetto di
valore avessimo con noi, per non dimenticare i documenti.
“Tanto
non vi
serviranno.” Questa fu la risposta che giustificò
tale gesto.
A
noi uomini fu
concesso di tenere soltanto la cintura ed un fazzoletto di stoffa.
Ci
consegnarono ai
barbieri che ci rasarono.
Dopodichè
andammo
alle docce e dopo ci consegnarono gli abiti da campo: una casacca, un
paio di pantaloni
ed un paio di zoccoli.
Rivestiti
dell'abbigliamento da campo, ci registrarono: compilammo una scheda con
i dati
personali e con l’indirizzo dei familiari più
prossimi.
Ricevemmo
poi un
numero.
Il
mio era E
174518, il che significava che ero da “educare”.
Ci
condussero in
un’altra stanza in cui ci tatuarono il numero sul braccio
sinistro, facendo uno
strappo alla regola per me poiché il tatuatore aveva
ricevuto l’ordine dal
soldato che aveva sparato a quel povero bambino.
Faceva
malissimo,
ma mai avrei dato la soddisfazione a quei bastardi di avermi fatto
gridare.
Il
numero di
matricola, impresso su un pezzo di tela, era anche cucito sul lato
sinistro
della casacca di ognuno, all'altezza del torace, e sulla cucitura
esterna della
gamba destra dei pantaloni. Al numero era associato un contrassegno
colorato,
che identificava le diverse categorie di detenuto: il mio era un
triangolo
verde, mi avevano ‘catalogato’ come criminale,
sebbene non avessi commesso
alcun crimine.
Dato
che ormai la
notte era scesa su quel luogo così lugubre, ci portarono in
quella che doveva
essere la mensa e ci diedero un minestrone senza nemmeno un cucchiaio.
Del
pane non v’era
nemmeno l’ombra.
Dopo
la cena ci
portarono in dei capannoni, chiamati Block in cui
avremmo dormito: vi
erano letti a castello di tre piani con delle cuccette.
Mi
diressi alla
mia e mi ci accoccolai meglio che potei, la vista del corpicino del
bambino
ancora impressa nella mia mente.
***
La
vita nel campo
di concentramento non era per niente facile ed anzi, non era nemmeno
degna di
essere definita vita quella.
Le
condizioni
igieniche erano scarsissime, il cibo bastava a malapena per
sopravvivere, i
turni di lavoro fitti e faticosi e se ti facevi male rischiavi di
essere
mandato direttamente alle camere a gas.
Dopo
il mio primo
mese nel campo di concentramento iniziai a perdere il conto dei giorni,
finchè
non seppi nemmeno più il mese.
Vedevo
morire
moltissime persone e più di una volta per via del freddo
inverno rischiai di
morire anche io, ma riuscii a superare i mesi ghiacciati grazie alla
mia
capacità nell’ottenere lavori in luoghi abbastanza
riparati.
Con
l’avvento
della primavera però venni mandato a lavorare in miniera,
con turni di lavoro
ancora più
estenuanti.
I
soldati di
guardia alla miniera erano, se possibile, ancora più
disumani degli altri.
Per
questo motivo,
e perché non sono in grado di tenere a freno la lingua,
finivo spesso nei guai
infrangendo una delle regole più importanti del campo:
‘Non fare domande’.
Non
mi mandarono
alle camere a gas soltanto perché vedevano che ero uno che
svolgeva moltissimo
lavoro, e quindi mi consideravano in un qualche modo utile.
***
Un
giorno giunse
al campo un nuovo tenente, si chiamava Hale.
“Non
è totalmente
ariano, il padre era americano ma ha sempre vissuto in Germania. Stai
attento
con quello li ragazzo, è un tipo particolarmente sadico e
cattivo, nel vero
senso della parola.” Mi spiegò il mio attuale
compagno di lavoro Joshua.
***
Quel
giorno ero
nuovamente in miniera.
Non
vedevo Joshua
da giorni ormai, e presto le mie più remote paure divennero
realtà.
“Il
tenente Hale
lo ha mandato alle Camere.” Mi disse un altro prigioniero.
Mi
fermai un
momento per riprendere fiato e appena alzai la testa trovai,
dall’altro lato
della cava, un paio di occhi verdi che mi fissavano con espressione
truce.
Sostenni
lo
sguardo con fare provocatorio: non mi sarei mai sottomesso a quel
tenente.
Non
mi sarei fatto
uccidere dalle crudeltà e dalle mostruosità di
quei bastardi.
Lo
dovevo a quel
povero bambino.
Lo
dovevo a
Joshua.
E
lo dovevo a
tutte le altre persone innocenti, deportate perché nati con
la ‘colpa’ di
essere ebrei.
NdA:
Salve!
Questo
tipo di
storia per me è totalmente nuova, quindi siate clementi!
L’idea è nata dopo che ho letto la one shot di
lunatica365 "Just give me a reaon" (ovviamente non mi mette il link
-.-) e, con il suo permesso, ho pensato
di svilupparla.
Non
ho idea da
quanti capitoli sarà formata, ma so per certo che non
sarà una long.
Detto
questo vi
ringrazio se siete arrivati a leggere fino a qui xD
Un saluto, Kiki.