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Autore: Nocturnia    22/11/2012    0 recensioni
Ci sono storie che affondano le loro radici nelle viscere dell'umanità.
Ci sono alcune storie - quelle brutte, quelle dal sapore tragico della profezia - che dipingono il proprio svolgimento con i colori della guerra e del sangue.[...]L'ho vissuta e infine compresa, abbracciandola. E nel suo abbraccio ho trovato una risposta.
Una fine e un inizio.
Genere: Fantasy, Guerra, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Nel segno del sangue'
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Disclaimer: Questa storia è stata scritta per puro diletto personale, pertanto non ha alcun fine lucrativo. L’intreccio qui descritto e i personaggi rappresentati sono copyright dell’autrice (Nocturnia) e non ne è ammessa la citazione altrove, a meno che non sia autorizzata dalla stessa tramite permesso scritto.

Sanguinem Fundo



Sono passati tre mesi da quando ho seppellito Addakra e Zanor.
Ho trascinato i loro corpi nel fango e nella pioggia, piangendo e inciampando a ogni passo.
Ho scavato due buche vicine con le mani, fino a quando non mi si sono staccate le unghie e la pelle non ha cominciato a ulcerarsi.
Non respiravo neppure.
L'apnea della sofferenza mi impediva di farlo, l'incomprensione di quel risvolto della storia un pulsare continuo e sordo al centro del petto.

"Io uccido demoni. Uccido ciò che significano e ciò che portano. Li guardo negli occhi e spengo il loro riflesso nel ghiaccio della mia lama. Ed è proprio quello che farò, domani."

Aveva detto il vero, Addakra.
Lei abbatteva demoni. Ciò che significavano e ciò che portavano.
Di alba in alba, si era uccisa un poco ogni giorno, affilando i propri sentimenti quasi fossero una lama, soffocando e maciullando la propria anima e il proprio essere in quella chiostra di denti famelici.
Aveva ucciso il suo demone.
Aveva ucciso se stessa.
E mentre li ricoprivo con la terra umida, mi ero soffermata su quel mostro d'ebano che mi aveva portato via tutto, ancora una volta.
Faceva comodo pensare che le scelte fossero sempre e solo due, bianco o nero, giusto o sbagliato.
Faceva comodo pensare di aver ancora la possibilità di essere bambina, di essere accolta da braccia affettuose, che ti avrebbero medicato e curato.
Ma Zanor non mi aveva lasciato nessuna di queste illusioni.
Zanor Ves'eny era un nome che si ammantava di leggenda e oscurità, sussurrato dai codardi e gridato dai demoni, e me le aveva strappate tutte le mie certezze.
Prostrata al suolo avevo dovuto ammettere che sì, il Male era un maschio inciso nella tenebra e bellissimo.
Avevo dovuto comprendere, quasi un pugno assassino, che non avevo mai veramente capito Addakra: i suoi silenzi, la sua ferocia.
Tutte forme contorte di lesionismo, pire funerarie anticipate.
Il terzo idioma della sconfitta si annidava tra i miei ricordi, nella voce di mia madre e nella ragione che si celava in essa: alcune cose non sono fatte per stare insieme, non in vita almeno.
Ora, freddo e spento nella morte, mi fissava con i suoi occhi opachi, le mani ridicolmente grandi al confronto di quelle piccole di Addakra.
Mi fissava e mi permetteva di comprendere.
Tasasi di Albir mi aveva dato i natali, Addakra Oronar me li aveva tolti.
Su quella bilancia che era la mia vita, sconfitte e vittorie si erano ormai scambiate in ugual modo, sussultando e trovando, infine, il perfetto equilibrio tra perdita ed acquisizione.
Iniziava sempre con in principio furono Varok e Matharet, ma nessuno arriva mai alla conclusione.
Nessuno osava strappare il velo, scoprire che, con orrore, Varok non era così puro e Matharet non così puttana.
La vita, d'altronde, per molti è solo un insieme di comode certezze, dogmi e postulati incisi nella genetica dei Phazani.
Nessuno osava raccontarci a noi, bambini gettati in un mondo cieco, che le favole hanno una morale, sì, ma non quella che crediamo.


"In principio furono Varok e Matharet, piumini di luce e coaguli di tenebra. Sciolsero i vincoli con la loro patria per creare questo mondo. Combatterono per questo mondo, condannandolo a essere assediato, in eterno, dai sicari del luogotenente del Cielo, Angrovis, e dall'avanguardia dell'Inferno, Moloch. Non può esserci pace su Matarisvan, poiché noi siamo ciò che Hoenir temeva di più. Siamo il dubbio mascherato da certezza. Siamo la comprensione oltre le pastoie dell'ignoranza. Siamo il simbolo di un'unione possibile e rara. Siamo i Phazani. Siamo uomini. Siamo ciò che lui non sarebbe mai stato."
"E poi?"
"E poi niente, bambina mia. Si combatte per difendere la propria casa, la propria vita. La sai già questa storia, quante volte la vuoi ancora sentire?"

E mi pareva di udirla davvero quella voce, melliflua e rassicurante.
La voce di mia madre.

"Ma come finisce?"
"Tesoro, lo sai già."

No, non lo sapevo.
All'epoca, non ne capivo l'entità, ma dopo quel giorno, ne avevo appreso appieno il fiele.

"Matharet partorì figli bellissimi e fortissimi, i Phazani, e Varok ne fu così orgoglioso.
Ma poi, qualcosa cambiò in lui.
L'amore venne conosciuto per altro nome e l'invidia prese a roderlo dall'interno, schiantando passato e presente.
Voleva ucciderli. Tutti."
"L'ha fatto?"
"No, bambina mia, non c'è riuscito."
" Come mai?"
"Perchè Matharet li proteggé, piangendo e soffrendo. Percosse la terra con le sue mani, separandola per nasconderli a Varok. Le sue grida furono tali che persino il Cielo si accorse di loro e la Grande Guerra, quella che ancora oggi ci attanaglia, ebbe il suo inizio."
" E Varok?"
" Lui... lui, impazzì. Ma vi è un felice finale, Dyen. Alla fine Varok si ricongiunse a Matharet."
"Come?"
"Come tornò da lei?"
"No. Come si può essere felici se si è pazzi?"
"Perché, piccola mia, l'amore è solo un'altra forma di pazzia."

Ed era vero.
Varok si era ricongiunto a Matharet, certo: all'Inferno, nella tortura e nella follia, condannati da ambo i fronti.
Varok e Matharet, nella metafora crudele che erano Zanor e Addakra, mi avevano insegnato che l'amore non era una furiosa forma di condivisione, ma un'empia donazione.
Non dividi il tuo cuore e nemmeno lo completi, nella stucchevole convizione che è propria dell'adolescenza.
Lo concedi, lo offri, ne fai il dono più prezioso.
E, per farlo, devi estirpartelo dal petto.

"Mangiami il cuore. Distruggimi, così che io sia niente e poi sia ancora."

La vita mi aveva ridotto a un piccolo ammasso di ossa rotte e piaghe sanguinanti, la morte pareva quasi più pietosa.
D'altronde, pensavo, se aveva conferito la pace ai demoni e agli angeli, ad Addakra e a Zanor, perchè non poteva valere anche per me?
Eppure, quando ebbi finito, il cielo era un ammasso convulso di nubi e stelle, i polmoni tesi nello sforzo di inspirare, le ciglia asciutte.
Il vento sapeva di fumo e ferro, sangue e rassegnazione.
Sapeva di un'ora oscura e tetra, di un amore perduto e infine ritrovato.
Sapeva di una possibilità da cogliere e da difendere.

****

Guardai la modesta cittadina di Shunal, situata a sud di Rathos, poco lontana dalle montagne di Krasis.
Tormentai, distratta, la fibbia della sacca, scostandomi i capelli dalla fronte.
Erano passati tre mesi.
Tre mesi in cui avevo ucciso e vendicato, senza sosta.
Tre mesi in cui avevo raccolto appieno l'eredità di una donna scorpione, guidata da un vero istinto uterino.
Tre mesi in cui avevo vissuto la vita di Addakra come se fosse stata la mia, sprofondando e nutrendomi di quel crudo veleno, di quell'oscurità, di tutto quel rancore.
Sospirai, lo stomaco languire al profumo del pane appena sfornato e dei mosti ricavati dall'uva fresca.
Increspando le labbra in un sorriso genuino, vidi la locanda in cui c'eravamo fermate mesi prima io ed Addakra, i Tre Picchi.

"Sembra un buon posto dove rimanere per un po'." il pigolio triste e querulo di un uccellino dalle chiome biondissime e l'animo intatto.
L'annuire rigido e fumoso di una fiera dalle pupille ungulate e il cuore di una bestia.
"Già."

Vidi Joric e i suoi crini fulvi, gli occhi castani rifrangere i raggi del sole, come foglie prossime all'autunno.
Sospirai, incamminandomi verso la piazza, ampliando il mio sorriso quando notai il giovane cuoco venirmi incontro.
"Dyen!" esclamò allargando le braccia e stringendomi tra di esse "Sei tornata!" mi baciò, sollevandomi da terra e toccandomi gli zigomi, il naso, i capelli, come per assicurarsi che fossi reale.
"Te l'avevo promesso."mormorai affondando nel suo petto "L'avevo promesso, Joric..."
I suoi occhi mi scrutarono languidi e giurai di aver visto una scintilla ilare nel fondo di essi.
"E la tua amica? Quella silenziosa, la ferae..." tacque, incerto.
"Ha preso un'altra strada..." mormorai a capo chino "molto diversa dalla mia."
Tacemmo entrambi per qualche minuto, consapevoli che, in quel silenzio, dimoravano la mia infanzia, la mia innocenza.
Dimoravano una bambina spaventata e una donna che era solo una massa d'odio e ferocia.
Dimoravano le mani lorde di sangue di un assassino che, però, aveva saputo amare.
"Va bene..." replicò poi "C'è sempre posto per te, Dyen. Sempre." concluse ridendo "Ti mostro la tua camera, vieni!"

Stese le labbra sottili in una piega comprensiva, quieta e fresca, quasi fosse fatto d'acqua.
In esse, vidi l'accettazione totale del mio essere, delle mie cicatrici, del mio ruolo.
Vidi un amore che forse non sarebbe stato un rogo annichilente, ma sarebbe bastato a scaldarmi.
Vidi tutto quello che Addakra aveva visto in Zanor: un compagno, un amico, un amante.
E capii d'essere tornata a casa.

"Come fai?"
"A fare cosa?"
"A vivere... così..." aveva esclamato Dyen ruotando le dita in aria "senza una fissa dimora, senza una casa, come una raminga."
"Siamo cacciatori. Il nostro corpo e le nostre lame non conoscono sonno o requie. Non conoscono luogo fisso, poiché inseguire demoni è il nostro fine ultimo."
Uno sbuffo irritato a sfiorarle il fianco, la voce di Dyen che, acuta, tornava a interromperle i pensieri.
"Queste sono frasi da accademico, non da persona vera. Devi pur aver avuto una casa, qualcosa che ti ricordasse d'essere anche donna oltre che assassina."
Addakra la squadrò in silenzio, sul volto un sorriso lugubre, tra le mani l'anello con il blasone degli Oronar.
Avrebbe voluto dirle di Zanor.
Avrebbe voluto raccontarle di come si fosse riscoperta umana tra le sue braccia, di come la facesse sentire in pace con se stessa e con i suoi errori.
Avrebbe voluto confidarle di tutte quelle speranze infrante, tutti quei sogni imputriditi, quei sapori che non avrebbe mai più sentito, nell'animo come nel palato.
Ma non lo fece.
Distolse invece lo sguardo, scrollando le spalle e ignorandola.
Perché era proprio quando la luce si faceva più intensa che le ombre del passato si addensavano intorno al suo cuore, facendola sentire debole, inerte.
Fragile.
E il riverbero della fiducia di Dyen era il più crudele dei roghi.

Lo seguii, fermandomi solo qualche istante per guardare i barbagli rosseggianti di un sole prossimo al crepuscolo.
"Perché lo fai?" mi parve di sentire nell'aere "Perché scegli... questo."
Il suo odore, uno strano miscuglio di cuoio e lilium, si fece più intenso, più vicino.
"Perché, per la prima volta, non mi pento d'essere viva. Perché è questo che sono, Addakra: viva. Ed è questo che scelgo. Non di essere preda, nè cacciatrice, ma libera."
Un sospiro, il rumore dei ciottoli di strada che vengono spostati, il fruscio di un mantello.
"È una ragione... strana. Fiacca."
Stornai lo sguardo, quella voce che rimaneva zitta, in attesa.
"Per me no. Il mio cuore non giace tra le braccia di un morto, ma qui. Ed è una ragione abbastanza forte per continuare a respirare ancora."
Mi sembrò di vederla sorridere.
"Capisco."
"Tu hai fatto lo stesso, Addakra. Solo che hai abbracciato il figlio di un utero sterile. Hai scelto una vita che trova spazio solo nella morte. E sei più coraggiosa di me, per questo. Ma ci vuole coraggio anche per vivere, Addakra."
Ma non era rimasto che il nulla ad ascoltarmi o forse non c'era mai stato altro.

"Dyen! Vieni, dai! La camera è pronta!" mi urlò Joric, sventolando la mano destra e tenendo un pezzo di focaccia nell'altra.
Sorrisi un'ultima volta alle tenebre incombenti, sapendo che non importa chi il destino mette sul nostro percorso, ma come egli ci cambia la vita.
E Addakra mi aveva insegnato tanto.
Lei e il suo amore disperato.
Lei a la sua completa accettazione della bestia, a cui aveva tolto e dato tutto.
Lei e il suo odio, il suo nero talmente cupo da farmi, finalmente, vedere il bianco della storia.
Mi voltai, incamminandomi, sapendo che i morti non ritornano, se non nascosti nelle pieghe del nostro essere, ma la loro eredità ci segue sempre, oltre le loro tombe e i loro fiori putrefatti.
Mi voltai, verso un futuro da scoprire.
Mi voltai, abbandonando la rossa direttrice di una storia ormai estinta, per una tutta da scrivere.
Io, che ero figlia di un genocidio, mi voltai e non tornai più indietro.

E furono gli spettri del passato a fare da silenti testimoni al mutamento di un evo.



Nota dell'autrice.
Lilium: Il giglio (Lilium L. 1753) è un genere di piante della famiglia delle Liliaceae.
   
 
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