«Tu dici
che ami la pioggia, ma quando piove apri l’ombrello. Tu dici che ami il
sole,
ma quando splende cerchi l’ombra. Tu dici che ami il vento, ma quando
tira
chiudi la porta; per questo ho paura quando dici che mi ami.»
«William
Shakespeare» basso il tono di voce, per un momento sembra rimbombare
nella
stanza, interrompendo in maniera tanto brutale da sembrare un crimine
la
citazione di quella che è una donna, seduta su una poltrona in pelle di
uno
studio dai tratti vagamente retrò, di fronte ad una scrivania
«Patetico» sembra
uno sputo per come viene pronunciato, sprezzante –in maniera
oscenamente
ostentata- ed accompagnato da un sorriso quasi beffardo «Posso vedere
l’espressione
delusa sul vostro volto» una mano, coperta con rigorosa attenzione da
un guanto
in stoffa nera, si poggia sul vetro di fronte all’uomo, sfiorando i
lineamenti
del riflesso di quella voce femminile. Il filo del mento, perfetto; le
labbra
rosse e piene, quasi eccitate; gli occhi velati di una finta angoscia,
sicuri;
il tremito delle membra, traditore. Le goccioline della condensa sul
vetro
vengono portate via dalla mano che lo carezza con dolce attenzione,
sino a
sfregare quegli stessi polpastrelli contro il pollice «Voi mi state
chiedendo
di fare giustizia a vostro marito e non ricordate che io altro non sono
che un
cinico avvocato, che sa usare le parole, ma che tende alla perfezione,
miss
Edmond, e la perfezione non può sopportare l’arte, sapete perché?» si
volta, il
volto ha lineamenti fortemente androgini, il taglio degli occhi è
ampio,
allungato agli estremi, donando allo sguardo un velo di sarcasmo. I
capelli
sono lunghi, di un colore chiaro, al limite dell’albinismo, raccolti in
parte
sul capo e lasciati sciolti per il resto, seguono in linee morbide il
corpo
longilineo dell’avvocato, disegnandolo con autentica precisione. «No,
non lo
sapete. Perché per quanto un quadro possa essere perfetto, ei racchiude
in sé l’anima
di ciò che viene rappresentato e deve rammentare, sempre, che la
perfezione è
stantia, asettica, priva di personalità. L’arte, nel suo perfetto
antipodo, è
pura imperfezione. Dunque un giorno di pioggia non è una particolare
giornata,
ma solo un giorno in cui bisogna vestirsi adeguatamente per uscire.
Oppure un’occasione
per dedicarsi ad una bella lettura, ovviamente.» sorride, un sorriso
tanto
vuoto poche volte s’è visto al mondo, sterile di ogni emozione, per
realtà o
per finzione. Uno sguardo all’orologio appeso alla parete, accanto ad
un quadro
tremendamente kitsch, regalato da qualche parente dal dubbio senso
artistico
«Tra una parola e l’altra, credo che il tempo ci sia sfuggito di mano
ed a
breve ho una cena, dunque permetta a questo cinico senza tempo di
rivederla
domani, per definire meglio i limiti della denuncia e portare a casa
un..patteggiamento, con quanto successo credo che sia il massimo che
può
aspettarsi e si reputi fortunata, non tutti escono con una
quasi-vittoria da un
errore tanto plateale, ha sicuramente di che ringraziarmi per il mio
essere
poco ligio al dovere. Le cinque, le cinque possono andare bene?» quegli
occhi
verdi, una tonalità chiara di verde, si posano sul volto della donna,
quasi
saggiandolo, prima d’ottenere risposta.
«Le cinque
andranno sicuramente bene. Chiedo scusa per il disturbo e le auguro di
passare
una buona serata.» un sorriso gentile screzia quelle labbra tinte di
quella che
è finta eccitazione, un rosso acceso, ma falso. La stilografica traccia
un
tratto lucido ed allungato sul foglio ampio che scandisce le ore
dell’11
Dicembre 2012. Kathrina Edmond. I tacchi alti della donna ne annunciano
la
presenza e la dipartita, in questo caso, a mano a mano che il rumore si
fa più
accennato.
Il tono
alzato, la voce dell’uomo «E rammenti: la pioggia disseta la terra ed i
cuori
malinconici. Costei bagna la bocca dei poeti.» ironico il sorriso che
ne
allunga le labbra, perfettamente consapevole di essersi appena
contraddetto e
trovando nella cosa una nota di divertimento, di imperfetta arte,
perché altro
non è che un essere imperfetto, che, pur tendendo alla perfezione, è
conscio di
non poterla raggiungere e quella tensione verso l’irraggiungibile ne
logora l’anima,
da quando essa fu baciata dalla più misera delle morti.
[10
Dicembre 2012 – Due ore posteriori ai fatti narrati]
C’è chi,
nella propria vita, non è nato per deludere le aspettative altrui, ma
per
rendere tutti, indistintamente, fieri, un giro logorroico di “Ma che
bravo
bambino, amore della zia!” che a tratti potrebbe essere considerata
violenza
psicologica su un minore. Ma dietro quel sorriso e quella frase
smielata, si
cela un “Piccolo bastardo di strada e tu dovresti prenderti i meriti di
mio
fratello?”. Perché dovete sapere, che io non appartengo alla bella
vita, all’aristocrazia,
come la chiamano, ma sono nato per strada, da una puttana –no, non lo
trovo un
termine offensivo, quanto più oggettivo e chi pensa sia oggetto di
scherno e
disprezzo da parte mia non ha di che prendere uno specchio e
pronunciare queste
poche parole: io, essere ambiguo e schifoso, do della lurida baldracca
alla
madre altrui. Ecco, questo potrebbe essere offensivo- ed un suo
cliente. Ma
sapete che succede ai marmocchi che non possono essere cresciuti per
mancanza
di soldi o anche solo vergogna? Se sono particolarmente sfortunati
riescono a
finire nell’unico orfanotrofio dall’indirizzo cattolico di tutta la
città, ed è
dovuto sottolineare che Praga è una città ampia. No, non ho mai subito
crimini,
ma non è una violenza doversi sorbire due anni di catechismo per
mettersi in
bocca un pezzo d’ostia? Sono cresciuto, durante i primi anni, in una
scuola dove
dicevi “cacca” ed erano esplosioni di risate. Che scuola infelice. Fui
adottato
all’età di otto anni, da quelli che si definivano aristocratici e che
altro non
erano se non fantocci dalla dubbia capacità cognitiva. La moglie del
grand’uomo
era sterile, nessuna possibilità di avere figli, ergo, nessun erede di
quell’immensa
fortuna che possedevano. Probabilmente fui notato per l’intelletto, vi
erano bambini
più belli, più piccoli e più allegri di me, ma lo sguardo di quei due
cadde
comunque sulla mia piccola persona. Il mio patrigno, un famoso
avvocato. La mia
matrigna, primario del reparto ospedaliero che comprendeva la chirurgia
e
direttore sanitario. Avevo una sola opzione: ereditare lo studio ed il
buon
nome di quello che da qualche anno a quella parte era divenuto il mio
nuovo padre.
Cos’ero? Una pedina, nonostante tutto. Studiai, mi laureai, mio padre
mi lasciò
il posto pochi anni dopo. Mi sposai, ebbi una figlia, Geshe; mia
moglie, l’unica
cosa bella in mezzo a quel covo di serpi, morì il giorno del parto, per
“complicazioni”.
Il medico che doveva far nascere mia figlia e mantenere in vita mia
moglie ora
non ha più nemmeno una casa sua, gli tolsi tutto, come lui lo aveva
fatto con
me. Sono passati due anni, due anni precisi dalla morte di Helena, è il
secondo
compleanno di mia figlia ed io non sono a casa.
Guido lungo le
strade a un soffio
dal piangere, vergognandomi di essere così sentimentale e del possibile
amore.
Un vecchio confuso che guida nella pioggia chiedendosi dove sia finita
la buona
sorte.
«Charles
Bukowsky» una risata placida, che nella sua tranquillità pare avere una
nota
malata, arsa in qualche modo e corrosa dallo scorrere inevitabile del
tempo.
Gli occhi fissano la strada, i lineamenti del volto si contraggono e le
mani,
coperte, si stringono ulteriormente sul volante. Solo pochi minuti dopo
la
macchina, una tipica Hummer dal colore nero e cupo, si ferma in
prossimità di
una cappella. Piove. Venefica quella pioggia ammanta l’intera città,
vestendola
e lasciandola stringere nei suoi stessi peccati. Lo sportello della
macchina si
richiude in maniera energica. Non c’è ombrello a coprire quella figura
slanciata, non un fazzoletto ad impedire che quelle gocce pesanti
facciano
quasi appassire i petali di quella rosa rossa che stringe tra le dita.
Lo
sguardo nero, scuro quanto la pece, fissa quel nome, segue le linee
morbide
della scrittura elegante e la voce riempie e satura l’aria:
«Tu sei per la
mia mente, come cibo
per la vita. Come le piogge di primavera, sono per la terra. E per
goderti in
pace, combatto la stessa guerra che conduce un avaro, per accumular
ricchezza.
Prima, orgoglioso di possedere e, subito dopo, roso dal dubbio, che il
tempo
gli scippi il tesoro. Prima, voglioso di restare solo con te, poi,
orgoglioso
che il mondo veda il mio piacere. Talvolta, sazio di banchettare del
tuo
sguardo, subito dopo, affamato di una tua occhiata. Non possiedo, né
perseguo
alcun piacere, se non ciò che ho da te, o da te io posso avere. Così
ogni
giorno, soffro di fame e sazietà, di tutto ghiotto, e d’ogni cosa
privo.»
Ci vogliono
schiavi, sì, ma noi berremo le loro anime, come ricompensa..ovviamente,
che non
si dica che noi Demoni della società prima di ogni altro non siamo
ottimi
ospitanti, ma che non si confonda anche la benevolenza di un Vogel per
una sua
debolezza. Non sono così semplice, non sono solo cinismo e fredda
razionalità,
che uomo sarei? Tanto vuoto quanto morto. No, se porto all’anulare
ancora una
fede e se ancora recito imperfezione è perché di me si possono
conoscere più
lati, ma sono tenuti tanto sottochiave da rischiare di puzzare di
chiuso, prima
o poi. Nel mio essere cinico svolgo un compito infimo: il mercenario
dei
criminali e per loro divengo creditore, chi meglio di un aguzzino può
comprendere la mia posizione?
«Aria, sì,
forse dovrei cambiar aria» solleva il volto verso l’alto, poche sono
oramai le
gocce sottili che cadono ed infangano «S’è vero che questo cielo è una
bieca
imitazione di quello londinese, qualcosa di potrà dire di quello
d’altri
paesi.»