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Autore: DaughterOfDawn    14/12/2012    2 recensioni
I pensieri di Ciel dopo gli avvenimenti della saga della Campania. Il giovane lord si rende conto che forse non ha tutto sotto controllo come pensava e che le persone che lo circondano nascondo lati che lei neanche immaginava. Le relazioni che ha intrecciato e che pensava di comprendere fino in fondo si presentano ora con sfumature diverse, una in particolare...
[Lievissimo shonen-ai, Spoiler sulla saga della Campania]
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Ciel Phantomhive
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
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Salve a tutti!
Questa one shot è stata scritta in occasione del compleanno di Ciel, il 14 dicembre (cioè oggi). Ho pensato di provare a immaginare come Ciel avrebbe affrontato le conseguenza degli avvenimenti accaduti durante la crociera e quali sarebbero potute essere le sue considerazioni di fronte al nuovo lato che ha scoperto della cugina, alle rivelazioni su Undertaker e infine sull’onnipresente Sebastian che questa volta si è mostrato in difficoltà. Spero che possiate apprezzare il mio tentativo!
Grazie di cuore a chiunque mi farà avere la sua opinione! Ogni commento o critica sono ben accetti!
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Amen - E così sia -

Il silenzio regnava tra le grandi stanze del maniero, interrotto solo a tratti da lievi e brevi fruscii o dal suono lontano di passi che si spostavano sui ludici pavimenti di marmo. Ogni cosa era in perfetto ordine, non un solo granello di polvere ne deturpava la superficie: i dipinti appesi alle pareti, i mobili lignei, le fini decorazioni, i libri della biblioteca privata, tutto era come avvolto da un incantesimo tanto inumano quanto lo era chi lo aveva creato. Persino il giardino pareva partecipare a quella strana stasi: non un alito di vento che muovesse le foglie o un animale che facesse sentire il suo richiamo. Seduto all’imponente scrivania del suo studio, circondato da pile ordinate di documenti, accuratamente divisi per priorità, alcuni già compilati e altri ancora da supervisionare, Ciel giocherellava pigramente con la raffinata penna stilografica che teneva in mano. Aveva dato alla servitù un giorno di riposo, inviando i Meyrin, Bard e Finnian a spendere una giornata lontano dal maniero. Aveva bisogno di riflettere e quindi necessitava un po’ di silenzio, cosa che non si poteva ottenere con quei tre combinaguai nelle vicinanze. Ma ora che c’erano soltanto lui, Tanaka e, ovviamente, Sebastian, la villa sembrava quasi disabitata e la sua pace era turbata solo dai loro respiri.
Il giovane lord appoggiò la penna sul piano ligneo, mentre un sospiro sfuggiva alle sue labbra pallide. Era passata poco più di una settimana dal naufragio della Campania ma tra un impegno e l’altro non era ancora riuscito a trovare un momento per rielaborare ciò che era accaduto a bordo della crociera. Si era dovuto assicurare, come esigevano le apparenze,  che tutti i suoi conoscenti fossero tornati sani e salvi alle loro proprietà e poi aveva dovuto redigere un rapporto dettagliato per la Regina. Il tutto era stato complicato dalla costante presenza di Elizabeth che lo aveva assillato per giorni, senza quasi mai dargli un attimo di pausa. A poco era servito spiegarle che lui stava bene e che era molto, troppo occupato per badarle. La sua promessa aveva comunque insistito per restare al maniero fino a due giorni prima, affermando che era il suo dovere di futura sposa assicurarsi che lui fosse veramente in forma. Quando si era svegliata e non l’aveva trovato con sé sulla scialuppa, aveva temuto di averlo perso di nuovo nonostante tutti i suoi sforzi. Ciel poteva capire la sua preoccupazione e la sua ansia, ma continuava a reputarle un’esagerazione. E poi aveva il sospetto che la cugina volesse assicurarsi che nulla fosse cambiato tra loro dopo che lei aveva rivelato la sua abilità nella scherma, capacità che poco si intonava con il ruolo della fidanzata dolce e carina che si ostinava a recitare.
Per l’ennesima volta il conte non poté, suo malgrado, non soffermarsi a pensare a quanta impressione gli aveva fatto vederla combattere senza esitazione gli zombie. Mai l’avrebbe creduta capace di una cosa simile. Aveva sempre visto Elizabeth come una ragazzina frivola e molto emotiva e scoprire quel suo lato combattivo aveva fatto vacillare l’immagine che aveva della sua promessa, anche se non avrebbe saputo dire se era un bene o un male. Infatti da un lato si era sentito quasi orgoglioso di lei perché la cugina gli aveva dimostrato di saper badare a sé stessa e di non essere solo una ragazzina infantile e capricciosa come spesso si mostrava. Ma dall’altro sapeva che Lizzy si era impegnata tanto non per sua soddisfazione personale o per sua volontà, ma per compiacere la sua famiglia e per dimostrare di essere la moglie perfetta per il conte Phantomhive. Insomma, ancora una volta non aveva scelto con la sua testa e aveva pensato solo a diventare quello che gli altri volevano che lei fosse. E quella era una delle cose che più lo infastidivano in Elizabeth. Tenere le apparenze in pubblico era un conto, un obbligo fastidioso ma inevitabile a cui nemmeno lui poteva sottrarsi, tutt’altra cosa era l’annullare sé stessi per seguire le convenzioni, perdere il proprio pensiero critico e  sacrificare ad esse la propria indipendenza. Era qualcosa di inaccettabile dal suo punto di vista. Se da una parte poteva dirsi forse colpito da quella rivelazione, dall’altro essa non aveva fatto altro che confermare quello che lui aveva capito ormai da tempo sulla personalità della sua fidanzata.
Ciel si alzò, abbandonando noncurante i fogli che ancora richiedevano la sua attenzione, e andò a mettersi di fronte al vetro della grande finestra, osservando distrattamente il giardino silenzioso. Elizabeth era la minore delle sorprese che aveva avuto durante il viaggio a bordo della nave. Ancora una volta si era trovato di fronte agli abissi a cui potevano condurre la follia e la debolezza umane, che gli avevano offerto un raccapricciante spettacolo di morte e sangue, tutto sapientemente manovrato da quello che aveva creduto una sua vecchia conoscenza ma che si era rivelato ben altro. Undertaker era uno shinigami, un disertore da quanto aveva sentito dire al rosso e all’altro dio della morte che era con lui. Quando il becchino aveva respinto Grell e si era scostato i capelli dalla fronte, il giovane conte aveva capito di essersi lasciato completamente ingannare dalle apparenze, di non aver saputo andare oltre le profondità dell’insana e inquietante superficie che Undertaker gli aveva mostrato in tutti quegli anni. Si era dimostrato ancora più perverso e malato di quanto lui avesse pensato possibile, pronto a sottomettere tutto senza l’ombra di un rimorso o di uno scrupolo di coscienza, a sacrificare vite innocenti ai suoi scopi, o peggio ancora alla sua personale curiosità. Avvertì un picco di nausea torcergli lo stomaco al ricordo dell’allegria e della leggerezza che avevano riempito la voce del suo ex-informatore quando aveva parlato delle sue “bambole bizzarre” come la cosa più bella mai creata. Descrivere con una tale espressione dei mostri senza altro scopo se non la brama di uccidere, alla ricerca incessante dell’anima che mancava loro e che mai avrebbero potuto riguadagnare, creature figlie dell’essenza più nera della disperazione. Da quale mente degenerata poteva nascere una simile idea?
La sua mano tremante si infilò nella tasca dei suoi pantaloni a sfiorare i medaglioni funerari che il becchino gli aveva lasciato prima di sparire nella confusione della nave che iniziava ad affondare. Undertaker aveva assunto un’espressione quasi sconvolta quando si era reso conto di averli persi, ma, non appena i loro occhi si erano incrociati e il suo ex-informatore si era accorto che li aveva presi al volo proprio lui, il suo volto si era rilassato e aveva perfino sorriso in quel suo modo perturbante. Per un attimo Ciel aveva avuto l’impressione di vedere un guizzo di soddisfazione negli occhi dello shinigami, quasi fosse stato contento di quell’evento inaspettato. Poi gli aveva annunciato che si sarebbero rivisti e che quindi lui doveva conservare con cura i pendenti che aveva definito come il suo “tesoro”. Strinse le dita intorno al metallo freddo. Sentiva che il giorno del loro prossimo incontro non era lontano e fremeva di impazienza, sebbene non potesse nascondere a sé stesso di provare anche ansia al pensiero. Quel pazzo aveva molte cose da spiegargli, soprattutto riguardo al suo accenno alla “massa di eccentrici” per i quali il becchino aveva sperimentato il potere delle sue “bambole”. Ma lui voleva anche saperne di più sul passato di Undertaker, sul perché aveva fosse diventato un disertore, nonostante si fosse già fatto alcune idee sulla base alle affermazioni che lo shinigami aveva fatto e su quel poco che pensava di aver capito di lui, almeno per quanto riguardava le motivazioni personali del suo ex-informatore. E inoltre voleva capire cosa esattamente Undertaker volesse da lui. “Sembra che, nonostante tutto, tu sia riuscito solo rendere il conte miserabile. Quindi forse è meglio che io ti faccia scomparire”. La voce del becchino gli rimbombò chiara nella testa. Cosa gli importava dove il suo contratto con Sebastian lo stava conducendo? Che cosa aveva voluto dire veramente con quelle parole? Per il momento anche quelle domande sarebbero rimaste senza risposta.
Ciel emise un altro sospiro. In fondo quelle riflessioni a cui aveva tanto disperatamente cercato di dare spazio non lo stavano conducendo ad alcun risultato. Non aveva nulla in mano, solo congetture e dubbi. Aveva sbagliato a credere di avere un minimo controllo sulle persone che lo circondavano. Si stava rendendo conto che sapeva davvero poco di chi erano veramente e di che cosa pensavano di lui. I suoi occhi vagarono sul paesaggio che aveva di fronte, mentre la sua mente si prendeva una pausa da quei pensieri tormentati. Come potessero il prato e la vegetazione essere ancora così belli e rigogliosi dopo aver sopportato tutti i danni che Finnian regolarmente combinava era un mistero. Un sorrisetto ironico gli si aprì sul volto. Per chiunque tranne che per lui, naturalmente. Perché lui conosceva benissimo il nome di quel mistero, l’aveva battezzato lui stesso all’inizio e tale sarebbe rimasto per tutto il tempo che gli era concesso. Sebastian, il suo perfetto maggiordomo, la sua spada infallibile, la sua pedina più preziosa. Ma anche il suo demone, l’onnipresente incarnazione della sua debolezza, l’ombra che gli ricordava costantemente dell’abisso in cui era destinato a cadere una volta ottenuta la sua vendetta. Eppure la creatura restava l’unico per quanto evanescente punto fisso che aveva. Ci sarebbe stato fino alla fine, sempre e comunque, in ogni situazione, senza mai esitare, senza mai mentire.
Il giovane conte fece una smorfia, ritraendosi dalla finestra. Sapeva bene dove quei pensieri lo avrebbero condotto, a quali scomode e spinose conclusioni. Quella era la parte di riflessioni che avrebbe preferito evitare, ma continuare a far finta di nulla e ignorare ciò che ormai ai suoi occhi era evidente sarebbe stato da stolti. E lui non lo era. Da quando i suoi genitori erano stati assassinati e lui era stato rapito, aveva dovuto imparare a fronteggiare la realtà, per quanto terribile o scomoda potesse essere. Mentire a sé stesso non lo avrebbe portato da nessuna parte. Se voleva sopravvivere e perseguire il suo obiettivo non doveva nascondersi niente, doveva affrontare tutto ciò che gli si presentava a testa alta, guardandola dritto negli occhi. Il rapporto che legava lui e Sebastian non era più lo stesso che avevano creato al momento della stesura del contratto, in quella notte maledetta che puzzava di sangue. O, almeno, era cambiato per quanto riguardava lui. Gli costava ammetterlo, ma non poteva più negarlo. Era già da qualche settimana che la sua mente indugiava su quel pensiero, ma solo con gli eventi della Campania ne aveva avuto una prova tangibile. Mai come durante lo scontro contro Undertaker aveva avuto paura per qualcuno, e mai avrebbe creduto possibile di poter provare tanta ansia e pena per quello che avrebbe dovuto essere solo un semplice strumento nelle sue mani. E invece quando aveva visto Sebastian sotto di sé, con gli occhi chiusi, il petto squarciato dalla falce del becchino e il sangue che si espandeva in tutte le direzioni, aveva sentito un gelido terrore invadere ogni angolo del suo animo. Per un attimo che era durato un’angosciante eternità aveva temuto di averlo perso, di essere stato nuovamente abbandonato a sé stesso, di essere rimasto ancora una volta solo di fronte al mondo. Non aveva potuto evitarsi di urlare il suo nome, disperato, mandando a quel paese ogni apparenza e contegno.
Ciel si passò una mano sul volto, appoggiando l’altra allo schienale del suo scranno. Era stato imbarazzante, si era volontariamente umiliato davanti ai suoi nemici. Il conte Phantomhive, il cane da guardia della Regina, non avrebbe mai dovuto mostrare simili debolezze, soprattutto mai per un semplice maggiordomo. E il fatto di essere ancora praticamente un bambino non era un’attenuante. Anzi, proprio perché era ancora così giovane non avrebbe dovuto mostrare in nessun modo segni di cedimento. Poteva solo ringraziare che nella confusione e nella foga dello scontro, nessuno aveva prestato troppa attenzione al suo comportamento inadeguato. Le sue dita arrivarono a sfiorare la benda che gli copriva l’occhio con il contratto. Ma più dell’atteggiamento che aveva avuto ciò che lo disturbava erano le emozioni e i motivi che stavano dietro di esso. Perdere Sebastian avrebbe voluto dire perdere l’ultima certezza che guidava i suoi passi, il suo ultimo appiglio sulla realtà, la mano che lo tratteneva dal cadere nell’abisso della follia e dell’impotenza. All’inizio aveva creduto che sarebbe bastato il pensiero della vendetta a farlo andare avanti, ma troppo presto si era reso conto che non era così, che si era solo illuso che fosse sufficiente. Aveva sentito la necessità di qualcos’altro a cui ancorare le sue reti di menzogne, di un posto sicuro dove nascondere le sue strategie di gioco, di qualcuno che spianasse per lui la strada sulla scacchiera e lo sostenesse durante la partita. E ovviamente non aveva potuto far altro che rivolgersi all’unica persona che non poteva tradirlo, neanche volendo, dandole sempre più importanza fino a farne il centro del suo mondo in rovina. Ora non riusciva neanche a concepire la sua vita senza quell’ombra corvina che lo avvolgeva. Tre anni prima aveva voltato le spalle alla prospettiva di una vita felice per poter compiere la sua vendetta. Ora, anche se avesse desiderato ritrattare quella scelta, non avrebbe potuto perché non c’era più posto per la luce in un’esistenza che ruotava intorno alle tenebre.
Il giovane lord scosse il capo con un sorriso amaro, le dita che iniziavano a scostare la benda. Non era finita lì. Aveva messo in conto che prima o poi il padrone avrebbe potuto affezionarsi al suo cane, era forse quasi inevitabile, ma lui stava rischiando di andare ben oltre. Sebastian si era imposto con un sostituto di tutte le figure che erano venute a mancare nella sua vita. Aveva preso il posto dei suoi genitori, assumendo il ruolo di suo protettore, e Ciel non poteva fare a meno di considerarlo come una sorta di “famiglia” per lui, soprattutto da quanto era morta Madame Red, anche se non lo avrebbe mai ammesso, nemmeno sotto tortura. In più, in quanto suo maggiordomo, era la persona che lo conosceva più di chiunque altro ed era diventato, seppure contro la volontà di Ciel, una sorta di confidente, disposto ad accogliere ogni segreto, fino al più sporco e intimo, senza mai criticarlo. Lo giudicava e si divertiva a vederlo in quei momenti di debolezza, il conte riusciva a leggerlo in quelle iridi scarlatte, ma non aveva mai tentato di imporgli il suo parere. Stava in silenzio, a meno che non gli fosse chiesto di parlare, e in quei momenti il conte, sforzandosi di ignorare quello sguardo famelico e provocatorio al tempo stesso, sentiva che avrebbe potuto liberarsi di ogni peso senza conseguenze, se solo lo avesse voluto. Non esisteva più un’altra persona a cui lo avrebbe potuto concedere la fiducia illimitata che dava al demone. Sebastian aveva anche sostituito Elizabeth, in un certo senso. Quando era piccolo, prima che il suo mondo andasse in pezzi, la cugina era l’unica persona che lui riuscisse ad immaginare al suo fianco nel futuro, non solo come moglie, ma anche come amica e compagna di vita. Adesso che sapeva che non ci sarebbe stato nessun futuro, la sua mente concepiva solo i pochi anni che aveva a disposizione dominati dalla presenza del suo maggiordomo infernale e di nessun altro. E così, al di là del disprezzo, della rabbia e del desiderio di rivalsa che provava per il demone era fiorito qualcos’altro, qualcosa che lui non avrebbe saputo, e che soprattutto non voleva, definire. Una sensazione di crudo calore tra il gelo della sua vita, una calma instabile ma che gli dava sicurezza.
Lanciò uno sguardo al suo riflesso nel vetro, il contratto che brillava impresso indelebilmente nella sua iride, mentre la benda nera giaceva a terra, dimenticata. Finché ci sarebbe stato Sebastian il buio in cui viveva sarebbe stato una notte eterna ma protetta dai pericoli esterni, a cui lui doveva solo abbandonarsi. Di questo non poteva dubitare, la conferma era sempre a sua disposizione, gli bastava prendere uno specchio e aprire entrambi gli occhi.
Un leggero bussare lo strappò di colpo alle sue riflessioni, riportandolo bruscamente al presente. Ciel si affrettò a chinarsi per raccogliere benda, mentre borbottava un impacciato: “Avanti”. Non aveva bisogno di chiedere chi era, avrebbe riconosciuto quel tocco fra mille. Quel pensiero lo turbò e le sue dita tremarono per un attimo impedendogli di allacciare dietro la testa i lembi di stoffa, che quasi gli sfuggirono di mano.
Sebastian sollevò lievemente un sopracciglio con fare indagatore, fissando i suoi occhi cremisi sui movimenti goffi e maldestri con cui il suo signorino tentava di ricoprire l’occhio con il contratto, senza ottenere dei buoni risultati. Con un sospiro paziente lasciò la presa sul carrello su cui era appoggiata la merenda che aveva appena finito di preparare e si portò dietro il conte, sfilandogli i lacci dalle mani e provvedendo a sistemare la benda con pochi gesti precisi. Ciel si sentì avvampare, anche se non avrebbe saputo dire se era imbarazzato per la figuraccia o per le sue riflessioni di poco prima.
“Perché vi siete tolto la benda, se posso chiedere, signorino?” domandò il demone, scostandosi per iniziare a servire il tè. “Ho scelto forse un momento poco opportuno per venire da voi?”.
Al conte non sfuggì il lampo divertito che attraversò gli occhi del maggiordomo nonostante le parole rispettose. Sapeva bene che era solo una farsa. “Non l’ho slacciata io. Il nodo si è sciolto da solo” mentì, con un tono sprezzante. “Probabilmente non sei stato abbastanza attento quando l’hai legato stamattina”.
“Davvero? Oh, cielo. Eppure ero certo di averlo fissato alla perfezione” rispose l’altro assumendo un’espressione fintamente sorpresa. I bordi delle sue labbra si piegarono leggermente all’insù. “Spero che possiate perdonarmi questa svista, signorino”.
Ciel sventolò una mano, sedendosi alla scrivania e scostando i fogli per far spazio alla tazza fumante che gli veniva offerta. “Non importa” borbottò, ignorando il ghigno che si era dipinto sulle labbra di Sebastian. Maledetto. Si divertiva un mondo a prenderlo in giro. “Fa’ quello che devi e poi lasciami solo. Ho del lavoro da finire”.
“Come desiderate” fu la risposta seguita da un breve inchino.
Il conte osservò attentamente il demone mentre si affaccendava a tagliare una fetta di torta al cioccolato e a decorarla, cercando di concentrarsi solo su quello che stava guardando per impedire alla sua mente di approdare di nuovo ai pensieri che era stata costretta a lasciare. Non poteva rischiare che Sebastian cogliesse anche solo una traccia di quelle sue riflessioni. Sapeva che la creatura lo stava studiando anche se poteva non sembrare, che aveva capito che qualcosa lo turbava. Non gli sfuggiva mai nulla del suo stato d’animo.
Il maggiordomo demoniaco finì di preparare il piatto e lo appoggiò di fronte a Ciel, prima di inchinarsi nuovamente e avviarsi verso la porta con il carrello.
“Aspetta!”. La voce di Ciel invase la stanza, improvvisa, sorprendendo entrambi.
Il demone tornò a voltarsi, in attesa di ordini, con lo stesso sguardo inquisitore che aveva assunto quando era entrato, mentre il giovane lord si sentiva arrossire di nuovo. Che diamine gli era preso? Perché lo aveva richiamato? Le sue labbra si erano mosse contro la sua volontà. Il centro del suo mondo erano quelle iridi insanguinate. Abbassò gli occhi. Non era proprio la sua giornata. E adesso? Perché non gli diceva che non era nulla e lo congedava? Non gli era rimasto nessun altro al mondo, nessun altro per cui valesse la pena di fare lo sforzo di fidarsi. Era la cosa giusta da fare. Eppure non riusciva ad aprire bocca. Quell’essere era tutto per lui.
“Signorino?” domandò Sebastian, quasi interdetto, senza sapere bene come interpretare quel silenzio da parte del suo padrone. Lo studiò attentamente, soffermandosi sul suo occhio inquieto  e sulle guance ancora lievemente arrossate. L’umano era decisamente strano quel giorno. Aveva congedato tutti i servitori e si era chiuso nel suo studio fin dalla mattina, uscendo solo per il pranzo. E ora quel comportamento inspiegabile.
Alla fine Ciel parve prendere coraggio, anche se non alzò lo sguardo che aveva affondato nel suo tè. “Ho cambiato idea” proferì piano, dandosi al tempo stesso dell’idiota per quello che stava per dire. Undertaker aveva ragione, quello che avrebbe dovuto essere il suo cane lo aveva reso proprio un miserabile. “Resta finché non ho finito con questi documenti”. Indicò un punto vicino a lui, poco dietro lo scranno.
Il demone rimase in silenzio per un attimo, preso alla sprovvista da quella richiesta, ma immediatamente sulle sue labbra si formò un sorrisetto divertito. “Yes, my Lord” mormorò, portandosi una mano al petto prima di andare a posizionarsi dove gli era stato indicato. Quel ragazzino non finiva mai di stupirlo. Ma in fondo quello era proprio uno dei motivi per cui aveva imparato ad apprezzare la vita che faceva al suo fianco.
Ciel per l’ennesima volta ignorò la sua reazione e riprese a leggere i documenti, sorseggiando la bevanda calda. Percepiva chiaramente la presenza del maggiordomo al suo fianco, immobile e silenzioso, e sapeva che lo stava guardando anche senza bisogno di voltarsi. Fu tentato di ordinargli di non fissarlo, ma alla fine non lo fece. In fondo avvertire su di sé quello sguardo intenso era un’inquietante rassicurazione condita di dubbi e incertezze, di domande senza risposta e sentimenti scomodi. Così erano destinati ad essere. Vicini tanto da potersi sempre sfiorare ad ogni respiro, ma al tempo stesso troppo diversi e troppo distanti per congiungersi veramente. E così dovevano restare fino al sopraggiungere della fine.
  
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