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Autore: Graine    04/01/2013    4 recensioni
A volte basta poco per sentirsi in pace con se stessi. A volte, tutto ciò di cui si ha bisogno è una tiepida notte estiva, la melodia di una chitarra, la danza spensierata delle lucciole nel buio, e i timori e le ansie, semplicemente, non pesano più come prima.
Questa storia si è classificata seconda al contest "Quando l'ispirazione bussa alla porta..." indetto da Dominil B sul forum di EFP.
Questa storia partecipa al contest "Red carpet: fanfiction da Oscar [Multifandom & Original Contest]" indetto da clalla97 sul forum di EFP.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Autore: Graine (su EFP), Graine_EFP (sul forum).
Titolo storia: Guardando le lucciole danzare
Introduzione: A volte basta poco per sentirsi in pace con se stessi. A volte, tutto ciò di cui si ha bisogno è una tiepida notte estiva, la melodia di una chitarra, la danza spensierata delle lucciole nel buio, e i timori e le ansie, semplicemente, non pesano più come prima.
Genere: Introspettivo
Rating: Verde
Avvertimenti: Nessuno
Coppia: Nessuna
Canzone: "Somewere over the rainbow" di Israel Kamakawiwo'ole
Immagine: http://weheartit.com/entry/24786628/via/blackandwhiteroses 
Citazione: "Non era più una creta molle che riceveva una nuova impronta a ogni nuova esperienza. La creta si era indurita. Stasera per l'ultima volta era stata assistita come una bambina. Ormai era una donna e l'adolescenza era finita. [...] Ella porterebbe il suo fardello, poiché le sue spalle erano ora abbastanza forti per sorreggerlo; poteva sopportare tutto, avendo già sopportato il peggio.", dal capitolo XXIV del romanzo Via col vento di Margareth Mitchell.
Note: Rimando alla fine della shot. Intanto, qui il link al contest:

http://freeforumzone.leonardo.it/discussione.aspx?idd=10447990 

 
 
 
 
 
 
 
 

Guardando le lucciole danzare
 

 

Picchiettò l’unghia dell’indice sul vetro del barattolo che teneva fra le mani all’altezza del viso e sorrise mentre i suoi occhi seguivano le lente evoluzioni luminose della dozzina di lucciole che vi aveva catturato dentro.
Amava osservarle, contemplarle da vicino, mentre coi loro tenui bagliori schiarivano appena il buio ovattato della sua stanza. Lo faceva fin da bambina, durante le calde sere d’estate. Rimaneva ferma al centro della camera, col barattolo in mano, e le guardava come ipnotizzata, quasi esse dovessero svelarle un segreto inestimabile che lei era pronta a carpire; le guardava e sorrideva, e nell’oscurità spiccavano solo i suoi occhi ridenti, il contorno di qualche ricciolo e le fossette che quel sorriso le dipingeva sulle guance che ancora conservavano il ricordo di un profilo pieno dalle fattezze infantili, così tante volte pizzicate dagli adulti quando era piccola, con poco riguardo dei suoi sbuffi irritati e delle sue occhiate torve.
«Non ti stanchi mai di farlo?», le aveva domandato Bonnie solo qualche ora prima, mentre le rivolgeva sguardi assonnati dalla poltrona sotto il portico su cui era sprofondata dopo cena a prendere un po’ di fresco come d’abitudine, mentre lei dava la caccia alle lucciole del giardino.
Lei aveva sorriso, «Lo sapevi che le loro larve ci mettono circa due anni per maturare e che quando diventano adulte sopravvivono solo per un periodo che varia da pochi giorni a qualche settimana?», aveva detto. «Trascorrono questo tempo prevalentemente accoppiandosi».
«Mi sembra anche giusto. Se devono avere una vita breve, che sia almeno intensa», aveva scherzato sua sorella, facendola ridere.
«Già, loro sì che sanno come vivere, eh?», aveva replicato. «Non le trovi bellissime? Sono così piccole eppure ne bastano poche per creare un’atmosfera magica, non credi?», aveva aggiunto poi.
«Carinissime, purché non mi camminino addosso».
«Bonnie, la tua mancanza di poesia a volte è disarmante», aveva commentato ridendo.
«Tanto ne hai abbastanza tu per entrambe», aveva ribattuto quella, con uno sbadiglio pigro.
Una lucciola si posò sul vetro all’altezza del suo naso, e lei sorrise ancora inclinando appena il capo.
«D’accordo – disse – vi faccio uscire».
Svitò il tappo con una mano e quando lo sollevo, tutte le lucciole uscirono in fretta, una dopo l’altra, sparpagliandosi per la stanza e librandosi coi loro movimenti un po’ ondeggianti e dagli scatti improvvisi.
Lei posò il barattolo ormai vuoto sul comodino e si accomodò sul letto a fissarle, la schiena e la testa poggiate sulla testiera, il braccio sinistro sul ginocchio piegato e l’altra gamba stesa placidamente sul materasso mentre col piede carezzava pigramente il lenzuolo, come un gatto indolente che muove la coda.
Il tenue ronzare delle lucciole nella sua stanza e il verso dei grilli in giardino erano i suoni che accompagnavano sempre le sue serate estive, quando rimaneva a casa invece che uscire coi suoi amici. Poteva trascorrere ore intere stesa sul suo letto a non fare altro che quello: ascoltare i suoni della notte e guardare le lucciole danzare.
Le sue iridi scure ne seguivano le evoluzioni senza esitazione, non perdendosi nemmeno un bagliore nel buio, come gli atti di uno spettacolo che quelle mettevano in scena solo per lei. Amiche inconsapevoli della sua mente, capaci di riportare l’ordine nel caos dei suoi pensieri semplicemente rischiarando appena la notte.
Le note soffici e calde di una chitarra non troppo lontana e che conosceva bene le carezzavano il viso e l’udito nella brezza tiepida che, entrando dalla finestra, solleticava le tende leggere lasciate libere di danzare nell’aria estiva.
Ricordava tutte le volte che aveva ballato, sulle note di quella stessa chitarra; coi piedi a contatto con l’erba umida del prato del giardino annaffiato da poco sotto un sole indolente e rosso nel tardo pomeriggio, sopra il legno duro e scolorito dei tavoli del campeggio fra le risate dei suoi amici e con Bonnie lì su con lei a farle compagnia, con le piante annerite dal terriccio scuro mentre piroettava davanti o intorno ai falò nelle notti fresche delle escursioni al lago, o quando aveva camminato sul bordo della diga percorrendola da un capo all’altro al ritmo lento della musica, con un frizzante venticello autunnale a provocarle una piacevole pelle d’oca, le braccia tese e il cappello che si era tolta stretto nella mano destra, per mantenere l’equilibrio – che da lontano sembrava così precario quando per lei non avrebbe potuto essere più saldo –, mentre i suoi amici la chiamavano.
«Maggie, smettila e torna indietro! Ora! E' pericoloso, finirai per cadere!», le aveva gridato Allyson, terrorizzata all’idea di vederla inghiottita dai getti d’acqua sul lato a valle della diga, in un abbraccio bagnato che non le avrebbe lasciato scampo, trascinandola giù e via nella corrente sotto la superficie, sempre se fosse sopravvissuta alla caduta. Ma lei aveva continuato a camminare lungo il bordo, incurante delle loro voci, per tratti interi anche a occhi chiusi, lasciandosi guidare solo dalle note della chitarra che le suggerivano dove mettere i piedi e che sapeva l’avrebbero accompagnata fino alla fine senza farle correre rischi.
Quella chitarra sapeva delle sue emozioni; tutte quelle che aveva espresso e quelle che aveva tenuto per sé. Quelle che aveva condiviso e quelle che aveva celato a chiunque non fosse in grado di leggergliele semplicemente negli occhi.
Quella chitarra sapeva di bisbigli e risate smorzate dietro i palmi portati alle labbra e zittite da ammonimenti tutt’altro che seri, mentre con Bonnie sgattaiolava da casa di nascosto; sapeva delle parole dei suoi romanzi preferiti che leggeva e rileggeva per ore; dei dopocena trascorsi a studiare alle prese con ricerche di storia o compiti di chimica, stropicciandosi gli occhi quando finalmente metteva l’ultimo punto o risolveva l’ultimo esercizio; di porte sbattute dopo liti furiose per motivi incredibilmente stupidi; di baci strappati mentre stava nascosta fra i cespugli e gli alberi su al lago, quando ragazze e ragazzi si sfidavano a un nascondino improvvisato regredendo a un’età che i genitori non sempre erano certi avessero realmente superato. E sapeva, ovviamente, di tutte le canzoni che aveva intonato per lei, quelle che amava più di tutte e quelle che né le piacevano né le dispiacevano particolarmente mentre le ascoltava alla radio, ma che finiva per adorare non appena venivano suonate dalle corde pizzicate di quella chitarra.
Una lucciola le volò davanti al viso e si andò a posare all’interno di una candela parecchio consumata, testimone di tutte le volte che l’aveva accesa solo per guardarla sciogliersi un poco ogni volta e giocare poi con la sua cera, che versava su di un foglio tracciando figure indefinite, prima che si solidificasse di nuovo sulla carta, ed esprimendo a volte qualche desiderio che  affidava a quella cera, in un piccolo rito che era solo suo. Usava candele di colori differenti in base al desiderio: rossa per l’amore, blu per i bei sogni quando andava a dormire, verde per la fortuna, gialla per una bella giornata di sole e arancione quando aveva bisogno di un po’ di coraggio.
Quella dentro cui si era poggiata la lucciola era viola, come buon augurio per ciò che l’attendeva di lì a qualche mese, alla fine dell’estate, quando avrebbe lasciato casa per frequentare il college in una sconosciuta e grande città. L’aveva accesa la mattina, aspettando che la fiamma sciogliesse cera sufficiente da versare così da esprimere il suo desiderio, e quando quella si era indurita l’aveva staccata, attenta a non romperla, e sotterrata in giardino sotto il portico, come faceva sempre.
Ora, la cera viola della candela mandava tenui bagliori per via dell’insetto che si era riparato al suo interno, correndo per le sue pareti frastagliate con zampine veloci e saltando sullo stoppino per poi scendere di nuovo sulla superfice colorata.
Le piacevano le candele perché spesso si era ritrovata a pensare che, in fin dei conti, lei somigliava alla cera di cui esse erano composte.
Sentiva di potersi liquefare in qualunque momento per via dell’esposizione a un forte calore, per poi solidificarsi di nuovo assumendo forme più o meno diverse da quella che aveva prima; e se qualcuno l’avesse toccata mentre era ancora calda, la sua impronta sarebbe rimasta lì, nitida, a rammentarle del suo passaggio. E anche se fredda, la cera non era certo a prova di nulla; poteva essere scalfita facilmente se urtata accidentalmente, o se lasciata cadere per terra. Qualunque colpo improvviso avrebbe potuto ammaccarla, deformarla, e lei non sarebbe stata più la stessa.
"Non era più una creta molle che riceveva una nuova impronta a ogni nuova esperienza. La creta si era indurita", diceva una delle parti che più amava del suo romanzo preferito, Via col vento. "Stasera per l'ultima volta era stata assistita come una bambina. Ormai era una donna e l'adolescenza era finita. [...] Ella porterebbe il suo fardello, poiché le sue spalle erano ora abbastanza forti per sorreggerlo; poteva sopportare tutto, avendo già sopportato il peggio".
Chissà quando anche lei sarebbe diventata forte come Rossella; chissà quando anche la sua pelle avrebbe smesso di essere solo cera per diventare creta dura, temprata dalla vita per resistere a ogni cosa e in grado di superare qualunque avversità. Chissà quando anche le sue spalle sarebbero state forti abbastanza da sorreggere qualsiasi fardello senza cadere sotto quel peso.
Corrugò la fronte senza accorgersene, in un improvviso moto d’ansia che la colse di sorpresa. E se la sua fosse rimasta per sempre soltanto cera? E se non avesse mai imparato a sorreggere i propri fardelli, lasciandosene schiacciare inesorabilmente? E se…
Le note della musica della chitarra cambiarono in quel momento, distraendola dal vortice di angosce e paure da cui aveva rischiato di farsi trascinare, in un breve attimo in cui aveva abbassato la guardia.
Riconobbe immediatamente quale canzone stava eseguendo adesso e sorrise. Aveva ragione, pensò come in risposta, era inutile lasciarsi andare a quei pensieri e, soprattutto, non era da lei.
Come la sua eroina, aveva sempre preferito rimandare a data da destinarsi i pensieri spiacevoli e i timori, invece che crogiolarsi in essi. Sapeva che le paure hanno potere sull’individuo fintanto che le si lascia averne, per questo motivo lei preferiva ignorarle e fingere che non ci fossero; le avrebbe affrontate quando fosse giunto il momento, o ancora, lo avrebbe fatto a piccoli passi, giorno dopo giorno. Perché riteneva che questo fosse la vita: superare ogni giorno una paura diversa e, intanto, godere delle meraviglie di cui l’esistenza le faceva dono, con la consapevolezza che quelle stesse meraviglie valessero ogni sforzo, non importava quali e quanti fardelli avrebbe dovuto trasportare e per quali distanze.
La piccola lucciola si sollevò in volo abbandonando finalmente il suo rifugio all’interno della candela per riunirsi alle sue compagne che ancora svolazzavano per la stanza, a pochi metri dal pavimento, e lei allora si alzò dal letto. Si avvicinò alla finestra, ammirando ancora per qualche attimo lo spettacolo creato da quelle creature che si esibivano per lei nel tiepido buio estivo, poi scostò le tende lasciandola del tutto libera da ostacoli; pochi istanti dopo, i piccoli coleotteri si mossero in quella direzione e abbandonarono finalmente la camera in una processione di luci vive e delicate, abbracciando la notte e lasciandosi cullare dalla brezza mentre scendevano verso l’erba morbida del prato rasato di fresco e i cespugli profumati del giardino.
« Someday I'll wish upon a star, wake up where the clouds are far behind me, where trouble melts like lemon drops. High above the chimney tops, that's where you'll find me oh», cantò fra sé in un bisbiglio mentre dalla finestra osservava il giardino e i bagliori sul prato.
Ancora una volta sorrise: quella chitarra sapeva sempre di cosa aveva bisogno. Lo aveva saputo dal primo momento in cui aveva iniziato a suonare e lei ne aveva udito le melodie, bevendo da allora la sua musica senza che riuscisse mai a dissetarsene.
Poggiò la testa sul telaio della finestra e respirò lentamente per assaporare gli odori della notte.
«And I think to myself: what a wonderful world», disse ancora, seguendo di nuovo le note della canzone.
Sì, quella chitarra aveva ragione e la conosceva bene.
Non aveva motivo di preoccuparsi per ciò che l’attendeva; dopotutto, il loro era un mondo meraviglioso.
Avrebbe affrontato la vita con un sorriso, così come aveva sempre fatto, e avrebbe avuto la forza necessaria per superare ogni ostacolo, ma, soprattutto, quel futuro che a volte le pareva lontano e altre ancora troppo vicino, avrebbe visto la realizzazione dei sogni e dei progetti su cui fantasticava da tutta una vita.
Sorrise di nuovo, finalmente felice e serena, e si godette ancora per un po’ lo spettacolo di quella notte estiva, guardando le lucciole danzare.
«Grazie», bisbigliò rivolta alla chitarra e sapeva che, anche se non poteva averla sentita, chi la suonava stava sorridendo a sua volta.
 
 
 

FINE
 

 


Angolo autrice:
Ho cercato di attenermi ai requisiti del contest, ma non appena ho trovato l'immagine giusta la mia immaginazione è volata praticamente da sola – e a conti fatti, era questo che richiedeva, no? xD
Il racconto si è scritto praticamente da sé nel giro di due notti, cosa che non credevo possibile, in realtà, ma le dita correvano sulla tastiera senza che riuscissi a fermarle.
Andiamo al testo: sul ciclo vitale delle lucciole ho cercato su internet, dato che ero (sono) ignorante in materia, quindi spero di non aver scritto castronerie; in caso contrario, prendetela per una piccola licenza poetica...
Sull'uso che ho fatto della citazione, della canzone e dell'immagine non ho molto da dire: si spiega tutto leggendo.
Le riflessioni inerenti il modo di affrontare l'esistenza rispecchiano un po' la mia filosofia di vita, inoltre sì, per quanto sia totalmente imperfetta, ottusa, perfino gretta e assolutamente da prendere a padellate per via della sua incomprensibile fissa per Ashley, Rossella è comunque una delle mie eroine letterarie. E come potrebbe essere altrimenti, lei che è forse il personaggio più volitivo della letteratura occidentale, capace di rialzarsi dopo ogni caduta con le sue sole forze e abilità?
In fine, due parole sulla chitarra, o meglio, su chi la suona. Be', non ho voluto specificare di chi si tratta di proposito – ma va'! xD – e questo perché, a mio avviso, non è poi granché rilevante. Potrebbe trattarsi di un'amica come di un amico, di un parente, di un amore, oppure di semplice un conoscente... potrebbe pure essere il figlio del cugino di secondo grado della nonna della zia del cognato della nipote della vicina di casa, questo per dire che ciò che conta non è la sua identità, ma il ruolo, il valore che questa persona e la sua musica hanno assunto per Maggie, la protagonista; la sua capacità di leggerle dentro, di farla sentire compresa, il suo essere presente quasi in ogni momento della sua vita, grande o piccolo. Bastano le note di quella chitarra a Maggie per tornare in sé, per così dire. Così come le basta osservare la danza notturna delle lucciole per trovare la serenità.
 
Graine

 
 
 
  

   
 
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