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Autore: LawrenceTwosomeTime    19/01/2013    3 recensioni
Dopo "Nick è morto" e "Scherzo di notte", l'ideale conclusione della mia trilogia sulla morte.
Un ragazzo viene coinvolto in una misteriosa catena di decessi, che lo portano a interrogarsi sul valore della vita e della morte. L'illuminazione sarà inaspettata e sconvolgente.
Genere: Mistero, Sovrannaturale, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sono rimasto solo io.
Sono rimasto da solo.

Se penso che nel corso della mia vita ho sognato e risognato questo momento, l’ho desiderato con ardore perfino, ora dico a me stesso che sono un cretino. Un vecchio detto recita: “Attento a ciò che desideri, perché potresti ottenerlo

Pensate che convivere con gli altri sia difficile? Convivere con sé stessi è di gran lunga peggio. E poi, tra parentesi, come potete anche solo pensare, voialtri? Siete delle voci nella mia testa. Mi sono convinto di stare parlando con qualcuno per evitare di impazzire, credo. Ma parlare con qualcuno che non c’è è già di per sé sinonimo di pazzia. E allora, a che pro io parlo con voi?
Immagino si tratti della stessa legge che stabilisce la futilità delle nostre vite: morire oggi o tra cent’anni è la stessa cosa. Si muore, sempre e comunque. L’inevitabilità di un simile destino va ben oltre la morte, però. L’inevitabile e incontrovertibile è che un destino ci sarà, sempre e comunque. Il mondo potrà scomparire, il sole spegnersi, ma un futuro esisterà a prescindere.
Anche se non ci sarà rimasto più nessuno a pronunciare la parola futuro.

Ma forse dovrei cominciare dall’inizio.
In un giorno come tanti, né triste né felice, appresi senza particolare emozione che era morta la mia sorellastra. La mia sorellastra era vecchia e spregevole, tanto che addirittura i familiari non avevano voluto saperne di andare al funerale.
Siccome non sono tipo da godere della morte di qualcuno, archiviai la notizia e passai oltre. Avevo questioni più importanti a cui badare; questioni vitali, per così dire.
Quella sera stessa, mandai un messaggino a una cara amica che avrei avuto piacere a rivedere presto, e con cui ci si era ripetutamente accordati nei giorni precedenti, rinviando e posticipando, finché non mi era sorto il dubbio che lei non avesse nessuna voglia di incontrarmi.
Dopo un’ora non mi aveva ancora risposto. Dopo un’ora e un minuto, la risposta arrivò.
Era sua madre. Mi comunicava che la figlia era morta.

Il mio cervello si rifiutava di crederci. Morta come, poi? Com’era possibile che due morti si concatenassero a distanza di così poco tempo? Non era quello che si definirebbe il mio giorno fortunato, pensai. Ma non era questione di sfortuna. Era qualcos’altro, qualcosa di molto più semplice.
Morta come, dunque? Ritornai con la mente alla mia sorellastra, senza tuttavia riuscire a ricordare di cosa era morta.
Decisi di scrivere al mio migliore amico, su Facebook. Con mio grande sollievo lui era vivo, e fissammo un incontro per il giorno seguente.
E così, il giorno seguente, suonai il suo campanello. Non mi rispose nessuno. Suonai e risuonai. Niente.
Lo chiamai sul telefono di casa. La linea era muta.
Per quello che potevo saperne, magari erano andati al cinema. O forse no.

Nella mia mente cominciò a formarsi l’idea che una strana epidemia, una malattia sconosciuta che serpeggiasse sottoterra come un vento spettrale, stesse decimando le persone intorno a me. Ma perché proprio loro? Ero nell’occhio del ciclone e non ne avevo sentore?

Mia madre non sembrava essersi accorta di nulla.
Quella sera chiamai la nonna materna, l’unica che mi fosse rimasta, e quella che mi era più cara. Presagivo che in qualche modo, per un motivo misterioso che non comprendevo, l’atto di cercare una qualche forma di comunicazione provocava infausti eventi; ma la tentazione di sollevare la cornetta era troppo forte.

Mi rispose il fratello. Mia nonna era con gli angeli.

La conseguenza che questa notizia ebbe su mia madre fu una specie di saltuaria catatonia. Stava accadendo tutto troppo in fretta, non avevo neanche il tempo di registrarlo a livello emotivo.
Rimisi mano a Facebook per tentare un esperimento. Scrissi a una ragazza che avevo conosciuto nella mia vacanza a Roma di due estati fa. Ci eravamo scambiati solo un bacio e i rispettivi nomi, e tanto era bastato. Le scrissi anche in chat. Il suo silenzio era più doloroso di una comunicazione di decesso.

Poi, un giorno, mia madre sparì. Come sparì? Non mi è dato saperlo.
Mi sentivo curiosamente distratto da tutte quelle morti, le strade si svuotavano poco a poco e io ero come intossicato, immerso in un torrente di congetture e spaventato dall’ondata di indifferenza che cominciava a impadronirsi di me.

E poi, di colpo ero solo.

Non ho la prova certa di essere davvero solo. Magari, a duecento chilometri di distanza, un cane randagio pensa la stessa cosa.
La mia è più che altro una certezza. Come la certezza di essere innamorati, o di essere pazzi. Era avvenuto tutto in modo così sistematico e progressivo da portarmi ad escludere l’eventualità di cercare qualcuno. Non potevo… non posso combatterlo, qualunque cosa sia.

Ho avuto tanto tempo per pensare, perciò ho formulato varie ipotesi, una più oziosa dell’altra. E infine, un’illuminazione. Le stagioni non passavano, e io avevo perso l’abitudine di fare la spesa.
Non dormivo nemmeno più, e il mio corpo non sembrava soffrire della mancanza di sonno.

E così, ho pensato che magari non erano gli altri a essere morti. Ero io.

So che è difficile da capire, ma vi prego di fare uno sforzo. Io stesso non lo capisco.
Ho sempre creduto che la morte fosse qualcosa di sofferto e drammatico. Una limpida agonia, un netto passaggio. Mi figuravo spesso disteso su una spiaggia, lo sguardo rivolto al cielo grigio; immaginavo di dover essere giustiziato da un plotone l’indomani. Ma io non mi sarei presentato a loro l’indomani. Mi sarei addormentato lì, sotto il cielo grigio. E il giorno successivo loro sarebbero venuti da me, e mi avrebbero tolto la vita mentre dormivo. Così, non mi sarei accorto di morire.
Questo per me era la morte.

Bella stronzata.
In realtà la morte è una transizione progressiva. Morire significa essere dimenticati, perdere d’importanza agli occhi degli altri.
Un po’ alla volta, loro si dimenticano di te. Chi si dimentica di te, a sua volta scompare dal mondo che tu conosci. E poi sono sempre di più. Non esisti più per loro. Loro non esistono più per te.

Assumendo che questo ragionamento sia sensato, la vita stessa potrebbe essere l’illusione di esistere nell’istante che sta tra il prima e il dopo. Vedete, in realtà voi non siete degli individui: siete dei singulti passeggeri che sbocciano nella continuità della morte. Proprio così.
Mettiamo, per assurdo, che un giovane uomo sia assolutamente certo di essere quello che è: un giovane uomo. Chi ci dice che non sia nato un istante fa, nei panni di giovane uomo? Che il suo cervello non abbia prodotto istantaneamente i falsi ricordi di un’infanzia mai vissuta? E dopo? Quando va a dormire? Può darsi che muoia, che sparisca per sempre. Chi può stabilire chi siamo e chi saremo, una volta che chiudiamo le palpebre?

Sono gli altri”, dite voi, “Gli altri ci danno la nozione di cosa sia l’esistenza”.
Il fatto è che, agli occhi degli altri, noi stessi siamo altro. Solo un altro. L’universo stesso ha più valore di quello che avrebbe in realtà, perché ci siamo noi a testimoniare della sua esistenza. Spariti noi, sparito l’universo? Certo che no, ma quando non ci sono occhi per vedere, o bocche per parlare, non c’è nemmeno la consapevolezza di un qualcosa diverso da qualcos’altro, o di un nome con cui chiamarlo.

Ritornando a me, sono morto. O almeno così credo.
Il fatto è che mi rifiuto di credere che la morte sia solo questo. Dev’esserci per forza dell’altro.
Forse il luogo in cui mi trovo io è solo un’anticamera. Forse, da qualche parte c’è una porta che attende di essere aperta.
Ma se c’è una porta, come mai io non mi ci sono ancora imbattuto?

È inutile che continui a mentire a me stesso. Io la porta l’ho vista, l’ho vista eccome. Ho anche provato ad attraversarla, ma quella è rimasta chiusa. Ho bussato e non mi è giunta risposta.
La verità è che io non voglio che si apra. Credevo di aver superato la parte peggiore, ma la mia prospettiva era menomata dalla mia personale convinzione che ci fosse un inizio e una fine, un prima e un dopo.

Buffo, ora mi ritorna in mente un episodio della mia giovinezza. Avevo ventitré anni e volevo farmi tatuare un simbolo sulla schiena. Ero emozionato, ma avevo anche paura. Ogni volta che mi recavo allo studio per prendere un appuntamento, davo una fugace occhiata alla porta e passavo oltre.
L’episodio si ripeté identico per diversi giorni, finché ad un tratto, non intenzionalmente, mi ritrovai a giungere alla porta dalla direzione opposta. Dopo tutto quel tempo passato a percorrere sempre lo stesso sentiero, il cambio di prospettiva mi donò una visione nuova di quello che era il mio punto di vista. E così, passai per la porta.

Non è questione di credere. Credere è un modo come un altro per diventare ottusi. C’è chi crede ciecamente all’esistenza di Dio. Altri credono ciecamente alla sua non esistenza. Altri sono convinti che non troveranno mai la risposta a questo quesito, oppure che il loro modo di credere è diverso da quello di chiunque altro. Beata ingenuità. In realtà è così per tutti. Esistono tanti mondi quante sono le persone su questo pianeta. E altrettante morti.

Ora, finalmente, posso dire di aver trovato la mia.
  
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