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Autore: LindaBaggins    27/01/2013    3 recensioni
Nel passato di Thorin Scudodiquercia non ci sono solo un regno e un tesoro perduti. Nel passato di Thorin Scudodiquercia c'è anche una ragazza, che gli era stata promessa in sposa e da cui la caduta di Erebor l'ha separato. Molti anni dopo, però, il passato tornerà a trovarlo, portandosi dietro complicazioni e vecchi segreti che il tempo non è riuscito a cancellare.
STORIA MOMENTANEAMENTE SOSPESA
Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio, Thorin Scudodiquercia
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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3. SEGRETI

Elinor dovette fare appello a tutta la sua compostezza per non sbattersi di malagrazia la porta alle spalle quando, finalmente, riuscì a rifugiarsi nella sua stanza. In compenso, trascorse la mezz’ora seguente passeggiando nervosamente su e giù per la camera, cercando di calmarsi e dominando a stento l’impulso di spalancare di nuovo la porta e fuggire.
Come accidenti aveva fatto a cacciarsi in quella situazione? Un momento prima cavalcava felice tra gli alberi di BoscoVerde, allenandosi a tirare con l’arco insieme ai figli di Thranduil, e l’attimo dopo rischiava di venire alle mani con un perfetto sconosciuto che suo padre aveva avuto la brillante idea di designare come suo futuro marito! Forse, se avesse tenuto gli occhi chiusi per un po’ e poi li avesse riaperti, avrebbe scoperto che si era trattato soltanto di un brutto sogno…
Ma, quando tornò a guardarsi intorno, scoprì che la stanza era sempre lì, con il suo letto a baldacchino di legno intagliato, il fuoco che scoppiettava sommessamente nel camino, la pareti di pietra scura e quel piccolo comò con lo specchio rotondo sul quale qualcuno aveva diligentemente allineato una spazzola e un pettine d’argento annerito dal tempo.
Senza nemmeno rendersi conto di quello che stava facendo, si avvicinò alla finestra che dava sul corridoio all’esterno, l’unica presente nella stanza. Poi, come cambiando idea all’improvviso, tornò indietro; si fermò accanto al letto, passò nervosamente le dita sui fregi intagliati di una colonna del baldacchino; raggiunse la specchiera, afferrò uno dopo l’altro il pettine e la spazzola e se li rigirò tra le mani. Niente di quello che vedeva o toccava trovava spazio nella sua mente. Nella testa sentiva risuonare soltanto la parole di Thorin, velenose e piene di rabbia, e dovunque si voltasse il suo sguardo adirato era davanti ai suoi occhi, pronto a fulminarla di nuovo e a dimostrarle tutto il suo disprezzo.
Sbattè la spazzola sul comò più forte di quanto avrebbe voluto, e per diversi secondi rimase a fissare la sua immagine riflessa nello specchio, il viso contratto dalla rabbia e il petto che si alzava e si abbassava in un nervoso respiro. Arrogante, presuntuoso, supponente e pieno di sé! Ecco che cos’è era Thorin figlio di Thràin, ecco chi era la persona con cui sarebbe stata costretta a stare a stretto contatto per i giorni, forse addirittura i mesi a venire! Le aveva, neanche troppo velatamente, dato della stupida ragazzina viziata, e tutto soltanto perché aveva osato rinnegare quelle due stramaledette gocce di sangue nano che aveva nelle vene andando a vivere con gli Elfi invece che in quella sua preziosa caverna dove per vedere la luce del sole bisognava percorrere chilometri e chilometri di corridoi! La sua stanza non aveva nemmeno una vera finestra, nel nome di Eru! Come stupirsi, poi, se tutti quei nani erano sempre così seri e pronti a infiammarsi per qualsiasi sciocchezza?
«Non sai niente di me, Thorin figlio di Thràin» mormorò tra sé e sé, tremando di rabbia. «Assolutamente niente.»
Non si sarebbe meritato che lei sprecasse il suo tempo per fargli cambiare idea. Non si sarebbe meritato nemmeno un singolo pensiero da parte sua, nemmeno per ricordarsi di quanto profondamente detestasse le sua maniere altere e scortesi! E invece, a quanto pareva, avrebbe dovuto fare tutto il possibile per fargli cambiare opinione. Se fosse dipeso da lei, avrebbe detto addio ad Erebor e a tutti i suoi abitanti seduta stante, ma si dava il caso che nulla dipendesse da lei, in quella faccenda. C’era in gioco qualcosa di importante, di molto più importante di un semplice matrimonio, ed Elinor aveva imparato presto a capire che la sua volontà, in tutto ciò, contava davvero molto poco. Non aveva mentito, quando aveva detto a Thorin che anche lei si sarebbe consolata con il pensiero di aver fatto qualcosa per suo padre e per il suo regno. Solo che il principe dei nani non si immaginava nemmeno quanto il compito di Elinor fosse immensamente più complicato del suo…
Fu distolta dai suoi pensieri da un nervoso bussare alla porta.
«Chi è?» chiese la ragazza in tono brusco. Tutto quello che desiderava era stare da sola per un paio d’ore…era forse chiedere troppo, in quel posto sempre brulicante di nani che spuntavano da ogni parte come funghi in autunno?
«Apri la porta, Elinor.»
La voce del governatore e il suo tono autoritario la misero ancora più di cattivo umore. Curioso, quanto, negli anni che aveva passato nel Reame Boscoso, fosse sempre impaziente di ritornare a Esgaroth per rivedere suo padre, e invece adesso faticasse a rimanere sola con lui nella stessa stanza per più di cinque minuti…
Elinor eseguì l’ordine senza replicare, ma nell’espressione con cui accolse Eevar nella stanza non c’era nulla di affettuoso o accomodante. Lasciò che il padre fosse entrato e poi, senza dire una parola, richiuse la porta e andò a sedersi sul letto.
«Allora» esordì il governatore in tono polemico, piazzandosi davanti a lei con le braccia incrociate sul petto «cos’è questa storia per cui avresti fatto infuriare Thorin davanti a tutti, si può sapere?»
«Io non ho fatto infuriare proprio nessuno» si difese Elinor con una smorfia. «Mi ha parlato in modo poco rispettoso, dovevo forse rimanere in silenzio?»
L’uomo abbandonò le braccia lungo i fianchi e alzò gli occhi al cielo, traendo un profondo sospiro esasperato. «Elinor, quante volte abbiamo affrontato questa conversazione?» domandò, passandosi stancamente una mano sul viso striato dalle prime rughe.
Elinor abbassò lo sguardo, tormentandosi nel frattempo l’orlo della veste. «Molte, padre» rispose riluttante, con voce sorda.
«E che cosa avevamo stabilito?»
La ragazza deglutì. «Che avrei dovuto fare il possibile per conquistare la sua fiducia. Per entrare nelle sue simpatie. Per…»
Il disgusto - non sapeva se più per suo padre o per se stessa - non le consentì di terminare la frase, ma il governatore pensò a farlo per lei.
«Per conquistarlo» completò Eevar, cercando insistentemente lo sguardo della figlia. «C’è bisogno cheti ricordi quanto è importante il tuo ruolo in questa faccenda?»
«No…»
«Non ci starai ripensando, vero? Perché se tu ci abbandoni adesso, Elinor, tutte le nostre speranze di una vita migliore ci sfuggiranno dalle mani.»
Elinor alzò gli occhi. «No, non ci sto ripensando» rispose in tono duro. «Ho detto che ti avrei aiutato, e ti aiuterò. Ma questo non significa che mi piaccia quello che devo fare, né il piano che il tuo prezioso Uren ha ideato! C’è bisogno che ti ricordi che, se qualcosa va storto, ci rimetteremo la vita tutti quanti?» concluse sarcastica, facendo il verso a suo padre.
Come aveva previsto, l’espressione di Eevar si irrigidì all’istante. Se c’era qualcosa che lo irritava, quello era il sentir criticare Uren. Elinor non si ricordava di una sola volta, da quando il nano era diventato il consigliere del governatore, dodici anni prima, in cui suo padre gli avesse rivolto una parola di biasimo, un’occhiata severa, persino un cattivo pensiero. La stessa cosa, purtroppo, non si poteva dire di Elinor. E, infatti, la loro divergenti opinioni sul conto di Uren erano tra le più comuni cause di litigio tra lei e suo padre.
«Uren è il più valido consigliere che io abbia avuto da moltissimi anni» replicò Eevar in tono severo. «Sa bene quello che fa.»
Elinor produsse quello che somigliava ad un curioso incrocio tra uno sbuffo e un sorriso. «Certo, non ho dubbi che lo sappia» rispose con una vena di sottilissimo sarcasmo che, tuttavia, suo padre non potè fare a meno di cogliere. «Ma tu lo sai?»
Per un attimo, Eevar sembrò tentato di infuriarsi per la sua risposta tagliente, ed Elinor si preparò ad un’altra interminabile discussione disseminata da iperbolici elogi sul conto di Uren e aspri rimproveri di crudeltà e ingratitudine indirizzati a lei. Ma, con sua grande sorpresa, l’espressione contrariata del padre fu subito oscurata da uno sguardo comprensivo, quasi affettuoso, e il governatore si mise in ginocchio davanti a lei per poterla guardare meglio negli occhi.
«Bambina mia» disse in tono rassicurante, come se Elinor fosse davvero una bambina piccola e un po’ stupida a cui si stava ripetendo la stessa cosa per l’ennesima volta «sono consapevole di quali siano i rischi ma pensa a quello che c’è in gioco!» La sua voce si ridusse improvvisamente ad un bisbiglio appena udibile: «L’Archepietra, Elinor! Una volta che l’avremo in nostro possesso, potremo essere tutto quello che vogliamo! Potremo fare tutto quello che vogliamo!»
Elinor, che nel sentire nominare il nome della gemma si era istintivamente guardata intorno, come se qualcuno potesse veramente aver udito il sussurro di suo padre, fece per diversi secondi fatica a respirare. L’enormità di quello in cui si era fatta coinvolgere, l’importanza delle conseguenze che tutto ciò poteva avere, nel bene o nel male, la facevano sentire piccola e impotente. C’era come un grosso masso, sul suo petto, che non voleva saperne di andarsene, e che la pesava immensamente, soffocandola. L’ultima volta che si era sentita così era stato dodici anni prima, quando sua madre era morta… Ma questa volta non c’era un padre forte e amorevole, ad aspettare che lei si gettasse tra le sue braccia e nascondesse il viso sul suo petto. Colui che una volta era stato quel padre, adesso se ne stava lì davanti a lei, fissandola con gli occhi febbrili di un bambino implorante e chiedendole di rischiare tutto in un piano che, a seconda del punto di vista da cui lo si guardava, poteva essere considerato folle o geniale.
“E io ho detto di sì. Ho detto di sì…”
Una fugace visione di ciò che avrebbe potuto succedere se il piano fosse stato scoperto le balenò per un attimo davanti agli occhi. Stranamente, ad efficace concretizzazione dell’ira che i nani avrebbero scatenato su di loro, arrivò l’immagine della faccia infuriata di Thorin.
Elinor si portò una mano alla fronte. Stava per sentirsi male davvero, adesso. Un’ondata di panico, subdolamente annidata in fondo alla sua pancia, minacciava di esplodere, rendendola assurdamente preda di impulsi contrastanti, come alzarsi e scappare dalla stanza o mettersi a ridere istericamente. A mantenerla seduta sul letto e con la mente lucida c’era solo una cosa: la promessa fattale dal padre prima che fosse dato il via al piano, la promessa che, più di ogni altra ragione, l’aveva spinta ad accettare di prendervi parte. Elinor si ripeteva da giorni quelle parole nella testa come un mantra. Erano l’unica cosa a cui riusciva ad aggrapparsi nei momenti di panico e sconforto come quello, l’unica cosa che le permetteva di non perdere la ragione e il sangue freddo…
Respirò profondamente, riacquistando poco a poco il dominio di sé e della sue emozioni. Non poteva tirarsi indietro. Non se ci teneva alla sua libertà…
«Non sono ancora del tutto convinta che possa funzionare» disse, esitante. « I Nani chiamano l’Archepietra il Gioiello del Re, e Thròr la considera la dimostrazione che il suo diritto a regnare è di origine divina. Come fate a sapere che, invece di trattare con noi, non ci manderà contro tutto il suo esercito?»
«Perché» rispose il padre lentamente «se anche solo minacciasse di farlo, noi distruggeremo la sua preziosa gemma. E lui non vorrà che questo accada, sei d’accordo?»
Elinor abbassò lo sguardo. Suo padre – o forse, sarebbe stato meglio dire Uren – aveva studiato tutto nei minimi dettagli, a quanto pareva…
«Sì…» dovette ammettere con riluttanza. «Sì, direi che potrebbe avere senso.»
«Allora capisci quanto è importante che scopriamo dove nascondono l’Archepietra quando non viene esposta sul trono del re?» incalzò Eevar in un bisbiglio concitato, gli occhi che si allargavano di eccitazione. Elinor, tuttavia, non condivideva il suo entusiasmo. Per quanto sapeva che fosse necessario andare avanti con il piano, c’erano ancora troppe cose, troppi dettagli che non la convincevano.
«Thorin non cederà così facilmente» obiettò, scuotendo la testa. Non conosceva ancora a fondo il principe dei nani, ma le era bastato trascorrerci un’ora scarsa per capire che tipo fosse. «E’ altero, superbo e orgoglioso. Morirebbe, piuttosto che rivelare dove suo nonno nasconde il loro tesoro più prezioso.»
Con suo sommo stupore, invece di rimanere turbato dalla notizia appena ricevuta, suo padre non battè ciglio. Si limitò a fissarla con le sopracciglia sollevate e uno sguardo eloquente, come se volesse spingerla a trarre da sola le conclusioni.
«Non se tu cambierai atteggiamento e ti mostrerai…bendisposta nei suoi confronti» disse infatti il governatore in tono soave, ripetendole quello che già sapeva e che avrebbe preferito non sentire di nuovo. «Usa il tuo fascino, nessun uomo è del tutto insensibile al fascino di una donna. E questi nani, gretti e materialisti come sono, dovrebbero esserlo più di qualsiasi altra creatura» concluse Eevar, con una smorfia vagamente disgustata. Elinor, a dispetto del nervosismo del momento, sorrise ironicamente senza farsi vedere. Curioso, come suo padre fosse pronto a rinnegare con superbia le sue origini naniche quando nessuno poteva sentirlo, rivendicandole invece quando gli faceva più comodo. Se non avesse saputo che probabilmente suo padre ci avrebbe rimesso il collo, avrebbe desiderato che Thorin fosse lì ad ascoltarlo. Forse, dopo, non sarebbe stato più tanto arrogante da insinuare che fosse lei a disonorare il sangue di Durin!
Ci pensarono le parole di suo padre a farle scomparire il sorriso. Il governatore, ignaro di tutto ciò che era appena passato per la testa di sua figlia, continuava imperterrito ad istruirla su come doveva comportarsi: «Simpatia, lusinghe, promesse…usa quello che vuoi, ma cerca di scoprire dove è nascosta l’Archepietra
Concluse calcando particolarmente la voce sulle ultime parole, e obbligando Elinor ad alzare la testa per fissarlo negli occhi. Il suo sguardo era talmente granitico e determinato, che la ragazza non potè fare altro che sospirare profondamente e mettere da parte tutte le sue esitazioni.
«Farò del mio meglio» bisbigliò, sperando di suonare convincente.
Per alcuni secondi, con grande sollievo di Elinor, cadde un piacevole silenzio. Sarebbe stato bello che durasse ancora per molto, moltissimo tempo, e che magari portasse via con sé tutte le parole che erano state dette fino ad allora, facendo credere che non fossero mai state pronunciate. Ma il silenzio, invece di alleggerire l’atmosfera, iniziò a renderla più pesante di quanto già non fosse. Ed Elinor, dopo quelli che le parvero soltanto pochi istanti, non potè fare a meno di rialzare lo sguardo verso suo padre. Questi la stava guardando con un affetto e una commozione tale da renderlo quasi irriconoscibile, e dopo qualche secondo, in un impeto di genuina gratitudine, le prese le mani fra le sue.
« Oh, piccola mia!» esclamò, guardandola teneramente. «So che ti sto chiedendo molto. Ma ti prometto che, una volta raggiunto il nostro obiettivo, il tuo compito sarà concluso.» Le carezzò dolcemente una guancia. «Non penserai che tuo padre ti lasci davvero sposare un nano e ti abbandoni ad avvizzire per sempre in questa montagna fredda e buia, vero?»
Elinor chiuse gli occhi. Cercò di sforzarsi di credere di essere tornata bambina, e che suo padre fosse venuto accanto al suo letto per rassicurarla dopo che aveva fatto un brutto sogno. In quei momenti lei si abbandonava fiduciosamente a lui, senza riserve, senza farsi domande. Una sensazione di infinito languore dilagò nel suo stomaco, facendo cadere anche le sue ultime resistenze. Scosse debolmente la testa, mettendo la mano su quella di Eevar e desiderando che, da quando era morta sua madre, ci fossero stati molti altri di quei momenti di intima tenerezza fra loro due. Forse, suo padre non sarebbe diventato quello che era…
Eevar, soddisfatto, sorrise e le dette un bacio sulla fronte. «Sono così orgoglioso di te, Elinor!» disse. «E lo sarebbe anche tua madre, se fosse ancora viva. Lei ha sempre desiderato il meglio per noi.» La sua voce si affievolì mano a meno che andava avanti, il sorriso si spense lentamente, nei suoi occhi la gratitudine lasciò il posto alla tristezza e alla malinconia. «Ha sempre creduto in me» mormorò fissando un punto nel vuoto poco oltre la spalla di Elinor e parlando più a se stesso che alla figlia. «Ha sempre saputo che avrei potuto diventare molto, molto di più, se solo avessi voluto…»
Elinor era ormai abituata al dolore che provava vedendo suo padre in quello stato, ridotto ad aggrapparsi esclusivamente al senso di colpa e al rimpianto. Tuttavia, non potè fare a meno che i suoi occhi si inumidissero, mentre, divisa tra la rabbia e la compassione, allungava le mani verso il viso di suo padre.
«La mamma non ha mai desiderato che tu fossi più ricco o più potente» sussurrò tristemente. «Ti amava per quello che eri.»
“E anche se avesse voluto di più, non l’avrebbe voluto in questo modo.”
Eevar si abbandonò per un attimo alla carezza della figlia, perso in una dimensione a cui Elinor era consapevole di non avere accesso. Poi si riscosse, e, come se Elinor non avesse parlato, nei suoi occhi tornò la determinazione di sempre, accompagnata però da una durezza inconsueta. Si rimise in piedi, quasi vergognandosi di aver ceduto alla debolezza, e si diresse a grandi passi verso la porta.
«Ci vediamo più tardi al banchetto» disse in tono brusco, puntandole l’indice contro. «Ricordati quello che ti ho detto, Elinor.»
E, senza aspettare la sua risposta, uscì chiudendosi la porta alle spalle.
Elinor, come era ormai abituata a fare da molti anni a quella parte, ricacciò stoicamente indietro le lacrime e si alzò dal letto. Abbracciandosi il petto, la testa incassata nelle spalle, cominciò a passeggiare tristemente per la stanza, cercando di riordinare le idee per la parte che doveva recitare di lì a poco al banchetto. Ma il suo pensiero tornava, inevitabilmente, a suo padre, e a quelle contrastanti sensazioni di amore e di odio che provava nei suoi confronti.
Dopo la morte di sua madre, Miriel, Eevar non si era mai ripreso del tutto. L’aveva amata totalmente e profondamente, e dal momento in cui il viso della moglie – così simile a quello di Elinor – era sparito nel sepolcro dove l’avevano tumulata, qualcosa, dentro di lui, si era irrimediabilmente spezzato. Elinor, a volte, sospettava che l’avesse mandata via da Dale proprio perché somigliava troppo a sua madre, e averla vicino tutti i giorni sarebbe stato un dolore troppo grande da sopportare. Ma la cosa peggiore era stata quando quel dolore aveva cominciato a trasformarsi in rimpianto, in biasimo per se stesso. Il pensiero ossessivo di aver deluso Miriel, di non essere riuscito ad essere abbastanza, per lei, di non essere riuscito a darle abbastanza, dilaniava suo padre da anni, in modo talmente evidente che persino Elinor, che tornava a Esgaroth da BoscoVerde solo occasionalmente, non aveva potuto non accorgersene. Ed era impossibile non capire che proprio questa sua ossessione, alimentata da svariati altri fattori, fosse stata una delle cause che aveva spinto suo padre ad approvare la proposta del suo consigliere.
Certi giorni, Elinor provava un odio feroce e incontenibile per Eevar, per quello che era diventato, per quel suo piano folle, per averla coinvolta in quell’impresa infame.  Poi, però, lo ricordava com’era quando sua madre era ancora viva. Ricordava la sua forza, la sua integrità, il suo coraggio, e la parte irrazionale dentro di lei, che di solito riusciva a nascondere così bene, prendeva il sopravvento. Era allora che tutto l’amore filiale che ogni giorno cercava di soffocare riemergeva prepotente, costringendola a guardare suo padre con gli occhi della bambina che a dieci anni era stata separata da lui per andare a vivere con gli Elfi, e che per altri dieci anni era vissuta nella convinzione di averlo deluso in qualcosa. Era allora che sentiva quella voce nella sua testa, quella voce che le sussurrava suadente che, se il piano fosse andato a buon fine e suo padre avesse ottenuto quello che voleva, forse avrebbe trovato pace, e sarebbe tornato ad essere l’uomo che ancora viveva nei suoi ricordi.
Questo pensiero, e la promessa che suo padre le aveva fatto. Queste erano le giustificazioni che si dava per riuscire a prendere sonno la notte…
Un nuovo bussare alla porta la fece sobbalzare, presa alla sprovvista. Sbattè le palpebre, perplessa. Sicuramente, suo padre si era dimenticato di dirle qualcosa ed era tornato indietro…
«Avanti» disse Elinor, aspettandosi di vedere sbucare dalla porta la testa castana e striata di grigio di Eevar e preparandosi a qualche altra raccomandazione su quello che avrebbe dovuto dire e fare di lì a poco, a cena. Quello che comparve sulla soglia, però, non fu il governatore, bensì Uren.
«Spero di non disturbarvi, Elinor» disse il nano con un sorriso mellifluo. «Posso entrare?»
Elinor, che al vederlo apparire aveva avvertito l’impulso di slanciarsi in avanti e chiudergli di malagrazia la porta in faccia, gli rivolse un’occhiata palesemente infastidita. «Se proprio dovete…»
Gli voltò le spalle, mentre Uren entrava nella stanza e chiudeva la porta. Non voleva dargli la soddisfazione di accorgersi del momento di sconforto che l’aveva appena sopraffatta… Forse era una sua impressione, ma le sembrava che Uren fosse sempre in grado di individuare le sue debolezze, le crepe nella dura corazza che si era costruita addosso nel corso degli anni. Elinor non aveva idea di come ci riuscisse, ma il nano aveva un modo tutto suo di penetrare in quelle crepe con commenti apparentemente innocenti, vaghe allusioni e sguardi eloquenti, e allargarle a suo piacimento finchè la debolezza di Elinor non diventata palpabile.
«Sono venuto a vedere come stavate» esordì Uren muovendo qualche passo verso di lei. «Oggi è stata una giornata pesante, per voi, e ho sentito dire che il primo impatto con il principe Thorin non è stato dei migliori…»
Elinor, continuando a dargli le spalle, piegò le labbra in un sorriso amaro. A quanto pare, le notizie, a Erebor, viaggiavano fin troppo veloci…
«Vedo che siete già informato di tutto quello che c’è da sapere, allora» ribattè seccamente. «Potevate risparmiarvi il disturbo di venire.»
Non si preoccupò minimamente di risultare offensiva. Sapeva benissimo qual’era il suo scopo, e aveva imparato per esperienza che la gentilezza non era affatto efficace per toglierselo di torno. I nani erano troppo caparbi per farsi scoraggiare da due o tre paroline cortesi…
A quanto pare, però, anche Uren aveva imparato a conoscere la sua strategia, perché quando parlò fu come se non avesse nemmeno udito il pungente sarcasmo della voce di Elinor.
«Al contrario, per me è un piacere preoccuparmi del vostro stato d’animo» disse in tono amabile.
Se era una gara per scoprire chi avrebbe ceduto prima, lei parlando in modo scortese e lui facendo finta di nulla, Elinor era pronta a fare del suo meglio.
«Non credo che ci sia molto da dire al riguardo, tranne che sono molto stanca» rispose, sperando che Uren cogliesse l’allusione (nemmeno troppo sottile) al fatto che desiderava essere lasciata in pace e rimanere da sola. Ancora una volta, però, il suo tentativo cadde nel vuoto.
«Certo, lo immagino» disse infatti il nano, lasciando deliberatamente trasparire una sfumatura di premurosa apprensione dalla sua voce sgraziata. «Questo gravoso compito che vi è stato affidato… dovete risentire terribilmente della tensione, ne sono sicuro. Concedetemi però di osservare che la fatica non sembra aver avuto alcun effetto sulla vostra bellezza.»
Bene, era arrivato al punto, finalmente. Elinor si stava giusto chiedendo quanto tempo ci avrebbe messo per scoprire le carte. Purtroppo per lui, però, la ragazza aveva preso parte a fin troppe conversazioni simili a quella, nei mesi appena trascorsi, per non sapere come si sarebbe sviluppata quella di adesso e dove sarebbe andata a parare.
«Uren, sareste così gentile da dirmi quello per cui siete venuto nella mia stanza?» chiese un tono aspro, preferendo dare un taglio netto alla cosa. Se dovevano mettere in scena di nuovo quella recita, era meglio che si svolgesse tutto in modo rapido e indolore… «Si sta facendo tardi, e devo prepararmi per il banchetto.»
«Naturalmente, naturalmente» concordò Uren, con la voce servile e persuasiva che Elinor lo udiva sempre usare nei riguardi di suo padre. «A questo proposito, vorrei offrirvi un piccolo omaggio che spero mi farete l’onore di indossare questa sera…»
Elinor lo sentì avvicinarsi a lei e aprire una falda della cappa di pelliccia che indossava per tirarne fuori qualcosa. Un attimo dopo, nel suo campo visivo entrava la tozza mano di Uren, sul cui palmo giaceva una piccola e raffinata spilla d’oro e smeraldi dalla forma di un ramo fiorito.
«Trovo che si intoni perfettamente con i vostri occhi» osservò il nano a mezza voce, parlandole talmente da vicino che Elinor avvertì chiaramente il suo respiro sul collo. Anche senza guardarlo in faccia, potè vedere l’espressione di vivo desiderio che si era accesa nei suoi piccoli e irrequieti occhi color onice. Quel contatto ravvicinato la disgustò a tal punto che non potè trattenersi dall’allontanarsi bruscamente da lui di qualche passo, incrociando nervosamente le braccia sul petto.
«Sapete bene che non posso accettare regali da parte vostra» disse in tono freddo.
«Non potete…o non volete?»
«Nel mio caso le due cose coincidono, mastro Uren.»
Seguirono lunghi secondi di silenzio, che furono rotti soltanto da un teatrale, profondo sospiro da parte del nano.
«Elinor, perché continuate a rifiutare le mie offerte di amicizia?» domandò con il tono stanco e sofferente di uno che ha tentato con tutte le sue forze e si è solo scontrato contro un muro di cieca testardaggine. «Ho un’altissima stima di voi, lo sapete bene.»
Elinor si trattenne a stento dallo scoppiare a ridere e dal dirgli che, sicuramente, la cosa non era reciproca. «Conoscete fin troppo bene il perchè» si limitò a rispondere, mantenendo il suo tono distaccato.
Trovava un insulto alla propria intelligenza il fatto che Uren pretendesse di farle credere che la spilla fosse frutto di un pensiero totalmente disinteressato, quando riempirla di regali era stato il metodo principale con cui, per diverso tempo, aveva provato a ingraziarsela e aveva introdotto le sue innumerevoli proposte di matrimonio. Elinor odiava generalizzare, ma sperava vivamente che quell’atteggiamento così gretto e materialista, per cui Uren era sempre stato convinto di poterla comprare come fosse un oggetto, non fosse una prerogativa di tutti i nani, come ogni Elfo con il quale era venuta a contatto nei passati dieci anni sembrava credere. In ogni modo, di una cosa era sicura: Uren era l’unico nano di sua conoscenza che avesse un comportamento così servile, affettato e mellifluo. Si potevano dire molte cose, sui nani, ma non che non fosse gente orgogliosa e fiera, che si rifiutava piegarsi davanti a chicchessia. Le tornò in mente il portamento maestoso di Thorin, il suo sguardo fiero e la sua franchezza che solo per un soffio non sconfinava nella scortesia. Qualcosa di totalmente diverso dal sorriso untuoso di Uren, dalla sua voce sempre talmente soave da risultare inquietante, da quella sua indecifrabile ambiguità…
«So che pensate che io voglia di nuovo accattivarmi le vostre attenzioni» continuò Uren, esibendo un ben studiato tono di voce a metà tra l’ironia e l’amarezza. «Ma vi assicuro che non è così. Sono stato rifiutato troppe volte perché possa ancora nutrire qualche speranza di piacervi.»
A Elinor mancò quasi il fiato di fronte all’ipocrisia di tale affermazione e alla vaga sfumatura di trionfo che vi scorse all’interno. La stava sbeffeggiando, riuscendo a camuffare abilmente la perfidia con la rassegnazione. Quanto doveva aver esultato, quando, dopo tutti gli innumerevoli rifiuti ricevuti, la superbia di Elinor era stata bruscamente ridimensionata da quella decisione del governatore! Quanto doveva aver gioito, quando suo padre le aveva chiaramente fatto capire che, se entro poco tempo non avesse trovato un altro pretendente che la accontentasse, non avrebbe avuto altra scelta che farle sposare il suo fedele e leale consigliere, che era sicuramente molto affezionato a lei e sarebbe stato in grado di amarla e rispettarla come nessun altro!
Elinor aveva passato alcuni giorni in preda alla disperazione più nera. Avrebbe sposato chiunque, pur di non diventare la moglie di Uren, ma non c’era nessun altro che si fosse presentato al palazzo del governatore per chiedere la sua mano. E suo padre, irrimediabilmente cieco di fronte allo strisciante servilismo di Uren e al disgusto che lei provava per esso, non sembrava aver intenzione di recedere dalla sua decisione. Poi, come un miracolo, poco tempo dopo era arrivata la proposta di suo padre di aiutarli nel piano che avevano ideato ai danni di re Thròr. E la sua promessa, se avesse svolto il compito che intendevano affidarle, che dopo avrebbe potuto sposare chiunque volesse, senza alcuna imposizione da parte sua.
Elinor preferiva non ripensare alla rapidità con cui aveva messo a tacere la sua coscienza e aveva preso la sua decisione. Ricordava soltanto che nella sua testa, allora come per tutti i giorni che seguirono, martellava un solo pensiero: “Non voglio cadere nella mani di Uren.” Era una prospettiva che, da sola, bastava a farla sentire male e farle desiderare, piuttosto, una morte veloce e sicura. Così, parlando più rapidamente possibile per non essere costretta ad ascoltare quanto meschino e deplorevole fosse quello che stava accettando di fare, aveva detto di sì.
La sua decisione, comunque, non sembrava aver spento l’ardore di Uren nei suoi confronti. Il nano anzi, come dimostrava il fatto che fosse di nuovo lì davanti a lei a lusingarla, era diventato, se possibile, ancora più insistente. Non le chiedeva più di sposarla, ma il desiderio e la cupidigia con cui la guardava erano addirittura aumentati, ed erano resi ancora più insopportabili da quella persistente aria di segreto trionfo che il consigliere non sembrava mai abbandonare.   
«Mia lady» stava dicendo nel frattempo il nano, con compita cortesia. «Sono sicuro che vostro padre vorrebbe che noi appianassimo le nostre divergenze, in modo da poter lavorare uniti e in armonia in questo progetto. Ha sempre visto con favore una possibile…amicizia tra noi due.»
La sottile - e sicuramente ben studiata - esitazione prima della parola “amicizia” fece sì che l’irritazione di Elinor esplodesse.
«Oh, voi sembrate sapere sempre così bene cosa pensa mio padre, non è vero?» sbottò piccata, voltandosi finalmente a guardarlo, il sarcasmo che trasudava da ogni sua singola parola. Il nano non sembrò offeso da questa sua palese frecciata. Si limitò a sollevare le sopracciglia in un’espressione di vaga sorpresa.
«Oso dire che io e il governatore siamo molto in…sintonia» rispose lentamente. «Per questo vostro padre mi fa l’onore di chiedere così spesso i miei consigli.»
«Consigli che non contribuiscono certo a fargli trovare la pace che tanto meriterebbe!» replicò Elinor velenosa, ripensando allo sguardo febbrile e allucinato di suo padre mentre si perdeva nel ricordo di sua madre. La faceva impazzire il fatto che Eevar fosse sempre così pronto a dare retta a Uren, soltanto perché gli diceva quello che lui avrebbe voluto sentirsi dire. La faceva impazzire il fatto che suo padre la trattasse ancora come una bambina di dieci anni. La faceva impazzire il fatto che dimostrasse di più il suo affetto e la sua gratitudine a quel disgustoso individuo, che a lei, sua figlia.
«Mi duole che pensiate questo di me, Elinor» disse il nano, ostentando un’espressione profondamente ferita. «Vi garantisco che ogni mio pensiero, quando ho proposto al governatore il mio progetto, era rivolto a procurargli il maggior numero possibile di benefici.»
«Benefici che, certamente, non riguarderanno soltanto lui» ribattè Elinor, senza riuscire a trattenersi. Un secondo dopo, si rese conto che avrebbe fatto meglio a tacere. A Uren era certamente stata promessa una buona parte delle ricchezze che avrebbero ottenuto ricattando Thròr, su questo non c’erano dubbi. Ma suo padre e il consigliere non erano i soli che avrebbero avuto vantaggi da quel piano. Anche lei aveva accettato di prendervi parte per trarne un beneficio: la sua libertà. E per averla si stava sporcando, né più né meno come stavano facendo loro. Con quale diritto andava a biasimare qualcun altro?
Uren sembrò leggere questi pensieri nei suoi occhi, perché sollevò un sopracciglio e sogghignò leggermente, come divertito dalla sua incoerenza. Elinor abbassò lo sguardo, arrossendo di vergogna e di rabbia. Gli aveva appena dato modo di individuare una delle famose crepe nella sua corazza, una delle sue debolezze, e non aveva dubbi che il nano avrebbe sfruttato questo vantaggio fino in fondo.
«So cosa pensate, Elinor» disse Uren dopo averla fissata per qualche secondo. «Siete contrariata perché vostro padre non chiede il vostro parere sulle questioni più importanti spesso quanto voi vorreste. Credete che i miei consigli lo stiano allontanando da voi…»
Elinor si voltò a guardarlo, forse un po’ più velocemente di quanto avrebbe dovuto, e immediatamente Uren capì di aver colto per la seconda volta nel segno.  
«Ma non preoccupatevi,» aggiunse il nano in un tono che avrebbe dovuto essere scherzoso, ma che risultò solo perfidamente insinuante «non intendo portarvelo via.»
“L’hai già fatto.”
Elinor sostenne il suo sguardo, fermamente decisa a non dargliela vinta, incurante del fatto che i suoi occhi si stessero di nuovo inumidendo. Anche se dentro di sé stava andando in pezzi, non avrebbe dato a Uren la soddisfazione di mostrarsi sconfitta…
Il nano la osservò in silenzio per qualche secondo, godendosi fino in fondo la sua espressione piena di rabbia impotente, poi, come ricordandosi di qualcosa, tornò a posare lo sguardo sulla spilla che ancora aveva sul palmo della mano.
«Dunque non volete proprio accettare il mio regalo?» chiese, in un tono ferito che risultò quasi convincente.
Elinor gli riservò uno sguardo talmente pieno di disgusto e disprezzo che si stupì di come il nano non fosse rimasto incenerito seduta stante. «No.»
«No, certo» sorrise Uren, rimettendosi la spilla in tasca. «Sono stato uno stupido ad avere avuto un pensiero del genere. La mia lady è una persona troppo pulita per ingannare un uomo che non ama accettando regali da parte sua.»
Tacque per qualche secondo, ed Elinor fu certa che si fosse preso qualche istante per verificare che effetto avesse avuto su di lei quella sottile allusione riguardo al reale stato della sua coscienza. Ancora una volta, l’aveva colpita nel profondo. E ancora una volta, la ragazza incassò la stoccata con una dignità e una fermezza per le quali, era sicura, doveva ringraziare soltanto quella piccola parte di sangue nano che le scorreva nelle vene.
«Credo che sia ora che ve ne andiate, mastro Uren» proferì lentamente, senza minimamente cercare di nascondere la sfumatura minacciosa nella sua voce. «Si è fatto decisamente tardi.»
«Sì, avete ragione» rispose il nano in tono tranquillo, come se non avesse nemmeno notato la sua ostilità. «E’ meglio che vada. Devo prepararmi anch’io per il banchetto. E poi, non vorrei che il principe Thorin mi trovasse in compagnia della sua futura sposa. I nani sono molto gelosi delle loro donne…»
E con un ultimo, appena accennato sorriso di trionfo, chinò il capo in un rispettoso cenno di saluto e uscì dalla stanza.
Elinor richiuse bruscamente la porta alle sue spalle e vi rimase appoggiata con la schiena, ascoltando per accertarsi che i suoi passi si stessero davvero allontanando lungo il corridoio, il petto che si alzava e si abbassava in profondi respiri.
Doveva calmarsi. Doveva recuperare il controllo di sé. Tra meno di un’ora avrebbe dovuto scendere nella sala del banchetto e fare del suo meglio per sorridere ed essere irresistibile. Gli servivano tutte le sue forze e tutta la sua concentrazione. Qualunque cosa Uren avesse detto, in qualunque modo fosse quasi riuscito a condurla sull’orlo del crollo nervoso, adesso non aveva più alcuna importanza. Semmai, avrebbero dovuto servire a ricordarle perché era lì.
La tua libertà…La tua libertà…
Cercando di controllare il tremito che le stava afferrando le gambe, si staccò dalla porta e si avvicinò alla specchiera. Si appoggiò con entrambe le mani al ripiano del mobile e fissò per qualche secondo il suo viso riflesso nello specchio, chiedendosi per quanto ancora la sua coscienza le avrebbe permesso di farlo.
 
ANGOLO AUTRICE: Ce l’ho fatta! Questo capitolo è stato veramente un parto, soprattutto la seconda parte, quando Elinor parla con Uren…Dovevo dare un sacco di informazioni per “inquadrare” la situazione, e non riuscivo a inserirle nel modo giusto nei dialoghi… Beh, spero che il risultato sia convincenteJ Chiedo perdono se in questo capitolo non s’è visto Thorin, ma mi serviva un momento solo di Elinor in cui rivelare finalmente perché è stata promessa in sposa a Thorin e che cosa hanno in mente suo padre e il suo strisciante consigliere nano. Mi farò perdonare nei prossimi capitoli, promessoJ
Adesso vi lascio alla lettura, ma non prima di aver ringraziato tutte coloro che hanno recensito finora, e che spero continueranno a seguirmi!

Enjoy yourself!

Linda
   
 
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