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Autore: hanabi    21/02/2013    3 recensioni
Lontano, molto lontano, un mondo è pieno di leggende sulla propria origine e la propria storia. E in questo mondo tutto sembra duale: due soli, due continenti, due culture impermeabili, due etnie nemiche. Ma c'è un terzo incomodo, che esiste ed agisce nell'ombra...
Ed è quel terzo incomodo che unisce gli estremi di quel mondo, in una vicenda che sprofonda le radici nel remoto passato, tra intrighi e grandi imprese, sogni e vendette, misteri da svelare e sentimenti contrastanti, ferocia e sensualità. E alla luce di una luna che non è più solo un decoro del cielo, si dipana la storia dei protagonisti... come un gioco dei loro dèi. E di qualcun altro.
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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Deyan emerse a fatica da uno sterminato vuoto nero nella sua memoria. Aprì gli occhi per un istante, poi li richiuse, sentendo il proprio corpo ancora addormentato. Da quanto tempo stava dormendo? E dov'era?

Con uno sforzo aprì definitivamente gli occhi. Era in una stanza permeata da uno strano profumo dolciastro, con un soffitto basso in cui si apriva un lucernario. Una luce vivida scendeva da esso, mascherata da alcuni vetri colorati; le pareti erano spoglie e imbiancate a calce. Il pavimento era di assi lucide, e una porta massiccia chiudeva l'unica entrata. Unico arredamento, un basso tavolino con del vasellame, un paio di grossi cuscini, e la stuoia spessa che gli faceva da letto.

Si accorse di essere parzialmente fasciato di bende umide, e molte articolazioni erano bloccate da fasce rigide e impacchi. Gli occhi gli bruciavano come fuoco, e un sapore strano, amaro indugiava nella sua bocca. Si sentiva ancora debolissimo, ma tentò comunque di mettersi a sedere. Il movimento lo fece soffrire molto, facendolo desistere.

Forse lo stavano spiando, in quale modo non poteva saperlo; ma non appena si mosse la porta si aprì, e un alto e maturo sayanni entrò con un fruscio della sua veste lunga.

“Ben svegliato, albino.” 

Deyan restò stupefatto a quel saluto da parte di un tradizionale nemico. Vide la tonsura e i tatuaggi sulla sua fronte.

“Sei un t'yr!” mormorò, con voce ancora debole.

“Oh, meno male!” disse lui con evidente sollievo. “Sei lucido, e ci vedi abbastanza per riconoscere la mia casta. Temevo che saresti rimasto cieco.” Si accoccolò accanto al giaciglio. “Il mio nome è Pushpa. Storia e erboristeria i miei talenti. E tu, albino? Chi sei?”

Deyan tacque.

“Non temere,” disse il sayanni, “sei tra gente che non ha alcun interesse a farti del male.”

“Allora non sono in qualche luogo di Sayanna.”

Il t'yr rise. “È questo timore a sigillarti le labbra?”

Deyan distolse lo sguardo, sdegnosamente.

“Dimmi il tuo nome,” incalzò di nuovo il sayanni, “Dobbiamo sapere con chi abbiamo a che fare.”

“Perché? Sai già che sono un nobile kelith, non è abbastanza?”

“La tua prudenza è encomiabile, ma non vogliamo sapere chi sei per strapparti i segreti militari di Kelitha, o giustiziarti dopo aver contato i sayanni che sono stati uccisi davanti a te…”

“Dovrei crederti?”

“Sono un uomo leale, albino.”

“Leale con un kelith?”

“Leale con tutti.”

Deyan studiò a lungo gli occhi azzurri davanti a lui, il gioco delle rughe su quella pelle color del cielo. Quel sayanni sembrava sincero.

“E sia," si decise. "Mi chiamo Deyan-shir, e sono il terzogenito e erede di Unari, principe di Shana.”

Il t'yr ebbe un sussulto, i suoi occhi si dilatarono con un moto di stupore.

“Sì, sono proprio uno dei famigerati principi di Kelitha,” sorrise Deyan con sfida, interpretando l'espressione colpita di Pushpa. “E ho visto molti della tua gente morire davanti a me. Allora, sayanni, sei ancora intenzionato a essere leale con me?”

Pushpa sospirò. “Sì, se non altro perché hai condiviso il destino dei miei conterranei catturati da voi kelith.” Si sporse verso di lui e sussurrò: “Essere torturati in uno spettacolo pubblico!”

Deyan voltò la testa, inspirò profondamente per dominarsi. 

“Ran ci ha raccontato del modo in cui ti ha trovato,” soggiunse Pushpa. “Non credevamo quasi al suo racconto, benché tra i numerosi difetti del nostro amico non ci sia l'amore per il mendacio. Un nobile al supplizio! È cosa che non è mai accaduta, e se lo dico io... puoi esserne sicuro.” Una pausa. “Avevo pensato che tu fossi un nobile minore, e che si fossero permessi su di te ciò che mai si sarebbe potuto fare a un principe…”

E fissò Deyan con un certo dubbio.

“A cosa non credi, Pushpa?” chiese il kelith con voce tagliente, notando quello sguardo. “Alla mia parola? O a quella del tuo amico?”

“Non offenderti. Credo alla parola di tutti e due.” Pushpa fece un gesto pacato. “Però vorrei sapere cos'è accaduto per convincere i più alti nobili kelith ad infrangere il loro codice, e torturare uno dei loro.”

“Un principe ha fatto una cosa inaudita a un altro principe,” rispose Deyan, distogliendo lo sguardo dal sayanni.

“Perché?"

Fissò il lucernario, esitò a lungo prima di rispondere. “Perché era destino…”

Pushpa attese pazientemente un'ulteriore spiegazione, che però non venne.

Allora si schiarì la voce e cambiò tono. “Ora è giusto che anche tu abbia delle risposte, Deyan-shir. Avrai compreso che il nostro amico Ran, il guerriero che ti ha portato via da Itka, è un predone di quelli che voi kelith chiamate dal Nulla.”

Deyan si voltò verso Pushpa. 

“...Voi, dunque!” mormorò.

“Sì. Sei stupito?” Un sorriso. “Ma chi altro avrebbe osato interrompere l'esecuzione di un principe?”

“Anche tu sei uno di costoro?”

“Sono un fuorilegge. Sono considerato un eretico in Sayanna, per via dei miei studi troppo... intraprendenti.” Scrollò le spalle. “Non so rubare o uccidere, però come vedi anch'io posso fare qualcosa di utile. Per esempio, sono stato io a curarti quando Ran ti ha portato qui. Ti ho medicato le ferite e le ustioni, e ti ho dato pozioni amare contro la febbre che ti ha assalito. Ti senti debole perché sei su questa stuoia da molto tempo…”

“E sono stato incosciente per tutto il tempo?”

“Sì, ma per causa mia. Ti ho drogato per farti dormire a lungo. Il sonno ha guarito la tua anima, ti ha reso immobile permettendo al tuo corpo di guarire più in fretta, e ti ha risparmiato inutili sofferenze.” Si chinò verso di lui. “Come stanno i tuoi occhi? Sono stati bendati fino a ieri.”

“Bruciano, ma ci vedo ancora.” Una pausa. “E probabilmente lo devo a te. Perché tante attenzioni per un nemico?”

“Perché sei un prezioso ostaggio, Deyan-shir, e ora che mi hai rivelato di essere un principe, il tuo valore aumenta a dismisura.” Sorrise. “In un certo senso, hai salvato il povero Ran. Ha avuto un gran colpo di fortuna giungendo nel posto giusto e all'ora giusta... in tempo per salvare te.”

“E ora dove sono?”

Pushpa sorrise. “Non ti aspetterai che risponda a questa domanda! Diciamo che sei... nel cuore del nostro covo. Ran non possedeva né i mezzi né la sapienza necessaria per curarti e ospitarti come si deve, per cui ti ha portato qui e affidato alle mie cure. Però è chiaro che sei legalmente suo prigioniero, e che il riscatto che prenderà per te sarà tutto suo. Dedotte le mie spese, naturalmente!”

Deyan fissò lungamente il sayanni. “A chi chiederete il riscatto?” chiese, con voce tesa. “Al principe a cui avete rubato la preda?”

“Pensavamo di agire così se tu fossi stato un nobile minore. Ma ora che sappiamo chi sei... forse tuo padre ci pagherebbe di più.”

“Mi metterete all'asta tra i due principi?”

“Probabilmente sì.”

“Se non mi restituirete a mio padre, mi condannerete nuovamente alla tortura e alla morte.”

“La cosa non ci riguarda, Deyan-shir,” rispose Pushpa, asciutto. “Dobbiamo pur vivere, e abbiamo bisogno di ricchezza per questo.”

Il t'yr si alzò pesantemente da terra, lisciò le pieghe della veste, fece un cenno di saluto. 

“Ora devo andare. Sopporta quelle bende ancora per un po' e non fare sforzi inutili: il dolore del tuo corpo ti insegnerà ciò che devi e non devi fare. Tra poco ti sarà recata una tazza di medicina, bevila anche se sarà di cattivo sapore: ti aiuterà a riprendere le forze. Poi avrai di che mangiare: un pasto leggero e nutriente. Per le tue necessità basta che chiami: uno schiavo è qua fuori e ti aiuterà a servirti dei nostri poveri mezzi.” Sorrise, intuendo i pensieri di Deyan. “E ricorda: sei un prigioniero. Anche quando ti sentirai meglio, non potrai comunque uscire da questa stanza. Non provare a infrangere il lucernario, al primo tentativo saresti fermato. E per ovvia conseguenza, ti dovremmo cambiare prigione. Ti consiglio di rimanere in questa.” 

 

 




*

 


 

  

“Bevo alla tua buona sorte, Ran, il racconto della quale sta già facendo il giro del nostro mondo aumentando la tua fama.”

Mastro Kurmaji alzò la sua tazzina con fare cerimonioso, lasciando cadere una goccia del caldo contenuto sulla superficie del vassoio. Poi la studiò, borbottando. 

“Che dice il tuo oracolo?” chiese Ran, mettendo in mostra la perfetta dentatura con un sorriso smagliante.

“Mmmmh…” fece Kurmaji, assorto. Poi terse la goccia con la mano. Bevve, posò la tazzina. “Sei un folle giocatore d'azzardo, Ran.”

“Lo so, Mastro Kurmaji.”

“Catturare nientemeno che un principe kelith, un erede al trono!... Un colpo del genere può valere ben più della salvezza. Se saprai ben negoziare, potresti metterti al sicuro per un'altra stagione.”

“Lo spero.” Il sorriso di Ran si offuscò un poco. “Mi avete aperto un nuovo credito grazie a quest'impresa, però non ho ancora visto un soldo. In compenso quel kelith mi costa moltissimo: Pushpa mi ha mandato un conto da far paura, come se già il ritorno imprevisto con un passeggero non avesse stroncato definitivamente le mie finanze…”

“È vero, il tuo scoperto attuale va ben oltre il tuo valore come schiavo. Ma vedi che anche noi stiamo rischiando del nostro. Abbiamo fiducia in quest'impresa. E non lamentarti se il kelith mangia con gusto: potrai sempre chiedere il suo peso in oro!”

Entrambi risero.

“Come va la trattativa?”

Ran smise di ridere. “Ho mandato messaggeri esperti a Shana e Itka, che lasciassero lettere per i principi con le condizioni del riscatto. Anche costoro mi hanno mandato conti esosissimi, adducendo alla grande prudenza che devono avere per non farsi scoprire! E Pushpa, per la redazione delle lettere e la traduzione delle risposte, mi ha imposto un prezzo da ladro…”

Kurmaji sorrise. “Ran, ti prego! Questo è un mondo di ladri... te compreso.”

“A volte mi chiedo se dopo aver incassato il riscatto mi resterà qualcosa in tasca, con tutte queste spese!” Ran finì il suo infuso. “Tornando ai messaggi: la prima richiesta di riscatto è stata respinta da tutti e due i principi.”

Kurmaji  alzò le fini sopracciglia.

“Ho fatto una seconda richiesta, più moderata e minacciando di mutilare l'ostaggio, secondo la prassi. Itka ha risposto con sprezzo di procedere pure alla mutilazione, offrendosi di pagare i pezzi del mio kelith a peso d'oro.”

“Mmmmmh,” fece il Marjaban, pensieroso.

“Shana invece ha preso tempo, con una controfferta di poco più bassa della mia.” Ran posò la tazzina. “Che significa secondo te, Mastro Kurmaji?”

“Itka vuole il kelith vivo e vegeto, per metterlo a morte. Shana esita, ma non può permettere a Itka di spuntarla. Sarà Shana a pagare il riscatto.”

 

 

 

 



“Sono d'accordo,” disse Deyan, quando Ran lo andò a trovare come ormai faceva ogni sera, da quando l'aveva catturato. “È tutta una questione di prestigio: mio padre a quest'ora sa già ciò che è accaduto a Itka, ma non può lasciare che Estsen si vendichi apertamente. Sono pur sempre suo figlio e l’erede del principato di Shana. Per il buon nome della mia nazione, deve proteggermi a ogni costo.”

“Però non sembra così ansioso di riaverti indietro,” disse Ran.

Si stupiva sempre dello strano rapporto che si era creato tra di loro. Erano separati da distanze siderali in quanto a razza e censo, e si era aspettato un atteggiamento ostile e sprezzante da parte del suo prigioniero (a cui si era preparato con una serie di risposte brutali). Non era accaduto niente di tutto questo: il kelith aveva semplicemente preso atto della sua situazione, e sembrava accettarla dall’alto di una placida sicurezza interiore priva di pregiudizio. Non si faceva problemi a dialogare con un nemico di bassa casta, non più di quanti se ne facesse con chiunque. La sua fredda affabilità metteva in soggezione più di qualsiasi scoppio di aristocratica arroganza, e Ran ne era affascinato... anche perché dentro di sé si sentiva lusingato e nobilitato da quella vicinanza. Per quanto odiasse i kelith (e da Kelitha venisse ogni male, com’era il credo della sua razza) vedeva le qualità innegabili del suo prigioniero, e le invidiava. E i suoi sentimenti erano ambivalenti: da un lato, moriva dalla voglia di schiacciare quella strana creatura così diversa da lui; dall’altro, cercava di esserne amica...

“Mio padre starà probabilmente meditando su cosa fare quando ritornerò e come regolarsi all’interno dell'Augusto Consorzio, che da tempo evita le guerre nel mio continente per non ricadere nell’errore delle antiche dinastie.” Deyan sorrise. “Non perder tempo a seguire le nostre leggi nobiliari, Ran. L'essenziale è che prima o poi questa situazione finirà.”

“Non vedo l'ora che questo momento arrivi.” Lo guardò, quasi con scusa. “Non posso tenerti qui per sempre. Esiste una linea sottile che stabilisce la convenienza di un ostaggio. Se Shana accetterà il mio prezzo, sarà valsa la pena di tenerti qui, ma se calerà ulteriormente…”

“Mi ucciderete, è naturale.”

“O ti manderemo a Itka, il che conduce alla stessa soluzione, ma almeno avremo incassato qualcosa.”

“Chi lo deciderà? Il vostro capo?”

Ran aprì la bocca per parlare, poi la richiuse, guardò Deyan con rimprovero.

“Non fare queste domande. Meno sai di noi e meglio è. In quanto al tuo destino, non temere, è unicamente nelle mie mani.”

“Perché non dovrei temere?” Deyan lo fissò curiosamente. “Tu sei un predone, e sayanni per giunta. E io sono un principe kelith, un nemico. Non esiteresti un secondo a massacrarmi.”

“Forse non esiterei con un kelith, ma con un sacco d'oro sì,” rispose Ran, sentendosi a disagio. “Non vorrei danneggiare un ostaggio dal cui riscatto dipende la mia vita.”

“La tua vita? Perché?”

“Perché senza i soldi del tuo riscatto sarò messo in vendita come schiavo.”

“Da chi?”

“Deyan-shir!” esclamò Ran, con voce sferzante. 

Il kelith fece un remoto sorriso. Fissò la propria tazza di vino, aggiungendo quell'ulteriore piccolo dato al quadro che si era formato nella sua mente.

Per tutti quei giorni aveva accumulato pazientemente osservazioni, anche le più banali, secondo l'insegnamento che i maestri di strategia avevano impresso in lui. Il vino della sua tazza era un ottimo prodotto kelith, ma la tazza veniva da Sayanna. Lo schiavo che lo serviva era un kelith abbronzato, sordomuto e incapace di scrivere: era stato inutile interrogarlo. Ran dava più soddisfazione: credeva di tacere, ma in realtà dava molte informazioni, più di quante immaginasse.

Deyan sapeva di essere rinchiuso in un grande edificio a più piani, in una stanza al piano più alto. L'edificio si trovava in una zona dal clima desertico, la cui aria era rarefatta come in alta montagna. Però i cibi che gli erano stati serviti venivano da terre umide ed erano misteriosamente freschi. Ran lavorava evidentemente in un gruppo dalla ferrea organizzazione, e probabilmente era abituato a convivere con dei kelith, o non avrebbe mai tollerato così facilmente la sua vicinanza.

 I vetri colorati del lucernario dovevano avere uno scopo ben preciso. Nascondere che cosa? Il trascorrere del tempo? L'altezza dei soli, da cui Deyan era in grado di calcolare la latitudine del luogo?... Una simile precauzione poteva significare che c'era qualcosa di importante in quel riquadro di cielo.

Per tutto quel tempo non gli avevano mai concesso, neppure una volta, di uscire da quella stanza. Lo sorvegliavano a vista, con gelida cortesia. Solo Ran e Pushpa andavano a visitarlo, quest'ultimo per interrogarlo avidamente sulla storia kelith. Deyan gli raccontava vicende accadute nel profondo passato, cose che credeva note a tutti, ma Pushpa lo ascoltava rapito.

“Non è vero che tutti conoscono queste nozioni, Deyan-shir. La tua erudizione è immensa!”

“Che te ne fai della storia kelith, Pushpa? Tu sei un sayanni.”

“Qualcosa in me mi spinge a voler sapere tutto. È per questo motivo che le Divine Persone mi hanno condannato a essere sepolto vivo.”

“Credi veramente che Kamoh e Lilia siano le personificazioni dei nostri due soli?” 

“Certamente! Forse la mia concezione teologica è più complicata di quanto non sia quella degli ignoranti, ma la divinità dei due re è indiscutibile.”

“Se credi a questo, come hai potuto trasgredire alle loro leggi?”

“Semplicemente come hai fatto tu, Deyan-shir...trasgredendo alle tue.”

Già, la trasgressione... 

Deyan sapeva che suo padre l'avrebbe difeso in pubblico, ma l'avrebbe poi punito in privato. Molto probabilmente gli avrebbe tolto la nomina a erede. Ma non ne avrebbe sofferto troppo: si era già accorto che il principato non era poi il vertice delle sue ambizioni. 

Lo disse a Ran, che gli chiedeva se aveva paura di tornare a Shana.

“Mio padre non è mai stato troppo severo con i suoi eredi,” soggiunse. “Se proprio vorrà esserlo, mi manderà in esilio nell'Eremo Bianco, un antico castello nel mezzo del deserto. Sarebbe una punizione dura, ma certamente più mite di ciò che mi aspetterebbe a Itka.” 

“Quindi te la caverai bene, nonostante tutto... voi kelith siete pronti a friggere nell'olio bollente i predoni come noi, però a un principe si perdona tutto.”

Deyan alzò le sue bianche sopracciglia. “Se essere messi a morte, salvati da un predone sayanni e poi degradati ed esiliati ti sembra un perdono…”

Ran si chinò verso di lui.

“Per quel che so dei kelith, ti sei meritato tutto questo. I messaggeri mandati a Itka mi hanno raccontato quel che hai combinato laggiù…”

Dunque non siamo a Itka e siamo in qualche luogo "lassù", pensò Deyan incasellando quel nuovo dato nella sua capace memoria. 

“Giuro che avrei pagato una borsa d'oro per vedere la faccia del principe quando ti ha scoperto,” continuò Ran, ridacchiando. 

“Ti diletti di questi argomenti, strano per un sayanni vergine.”

Ran smise di ridacchiare, avvampò lievemente. “Questa non è Sayanna e non ci si scandalizza per queste sciocchezze.”

Povero Ran, pensò Deyan, divertito. E provò una punta di vergogna per il modo in cui lo stava giocando. 

Ma tutto sommato lo meritava: il sayanni, come molti del resto, pensava che quell'elegante, compassato kelith dai capelli bianchi fosse una debole creatura fuori dal suo guscio protettivo.

Che continuasse a crederlo. Ormai Deyan era guarito e perfettamente in forma, e aveva studiato un piano per uscire di lì e scoprire dov'era quel covo di predoni. Aveva chiesto al padre il permesso di viaggiare e Unari gliel'aveva dato in cambio di quel compito.

E dentro di sé si accorse che non avrebbe tentato quella fuga per Unari o per Shana. L'avrebbe tentata solo per riprovare il brivido vitale che l'aveva affascinato a Itka. 

 

 




 *

  


 


Era scesa la notte, e come sempre il prezioso ostaggio si era apprestato a dormire: aveva spento la lampada e si era disteso sul giaciglio con le mani intrecciate dietro alla nuca, lo sguardo fisso al lucernario. L'ultimo bagliore di luce colorata svanì, lasciando la stanza nel buio più completo.

Deyan aveva compreso di essere spiato. Lo aveva sentito quasi istintivamente. Invano aveva cercato aperture nelle pareti: chissà quale macchinario di lenti e prismi utilizzavano i suoi carcerieri. E probabilmente udivano anche tutto quel che avveniva in quella stanza.

Il buio e il silenzio erano dunque i suoi alleati.

Chiuse gli occhi, gesto apparentemente inutile nell'oscurità. Ma nella sua memoria, vivida e perfetta, brillava l'immagine del lucernario, con la sua intelaiatura pesantemente lavorata.

C'era voluto tutto il suo addestramento all'osservazione per notare, alcuni giorni prima, alcuni fili pressoché invisibili davanti al lucernario. Quei fili erano collegati a piccole gocce rossastre che parevano far parte della decorazione, ma Deyan conosceva il colore di quella sostanza: era un composto instabile, ben noto ai militari kelith, capace di esplodere sonoramente al minimo tocco. E aveva sorriso: un ingegnoso sistema d'allarme...

Si era dunque procurato alcune spezie particolari per uso personale, lamentandosi con Ran per la loro mancanza, fino all'orlo della petulanza.

"Ecco le tue polveri di cui non riesci a fare a meno! E io che mi stupivo perché finora non avevi fatto tante lagne..."

Quelle spezie contenevano sostanze in grado di neutralizzare le gocce esplosive. E la notte prima Deyan, richiamando alla memoria ogni particolare dell'intelaiatura e agendo nell'oscurità, era riuscito a soffiarle nei punti giusti, mettendo fuori uso il sistema d'allarme.

Nessuno si era accorto di niente. Il giorno dopo aveva di nuovo rivolto rimostranze a Ran, dicendo che desiderava un mantello.

"A che ti serve? Non devi certo uscire a spasso!"

"Ho freddo alla sera. E spesso sto alzato a meditare. Quando prego devo avere la testa coperta e non è degno del mio rango che usi un comune lenzuolo! Voglio qualcosa di scuro e dignitoso."

"Kelith!" aveva sospirato Ran. "Meditazione, preghiere... ma perché non preghi i tuoi dei di farti caldo?" Aveva visto l'espressione severa del suo ostaggio. "Va bene, va bene, ma te lo metterò in conto."

Così, finalmente, quella notte tutto era pronto.

Quando fu completamente buio Deyan sgusciò dal giaciglio, vi pose sopra il tavolino, salì su questo e, senza il minimo rumore, andando a memoria, cominciò a smontare la serratura del lucernario.

Come immaginava, i carcerieri avevano una fiducia eccessiva nel loro allarme: il lucernario non era protetto in alcun modo. Il lavoro non fu troppo difficile, anche se mise a dura prova la sua pazienza e le sue dita sensibili. Alla fine la vetrata si aprì, lasciando entrare il fresco della notte.

Restò un istante a riprendere fiato. Poi si avvolse nel mantello, coprì la sua appariscente testa bianca col cappuccio, e con agilità saltò afferrandosi all'intelaiatura. Un colpo di reni, ed era già uscito dall'apertura del soffitto.

Si trovò su un tetto piatto, assai più grande di quanto si fosse aspettato. La fioca luminescenza del cielo gli permise di allontanarsi dal lucernario alla ricerca di un punto da cui scendere. Camminò con passo felpato verso un muretto, lo scavalcò. Si trovò su una grande terrazza di pietra, contornata da un parapetto basso. Un lieve bagliore aranciato saliva oltre di esso, assieme ad un mormorio di voci, qualche nota di musica kelith.

Attraversò la terrazza, si appoggiò al parapetto. Guardò in giù: almeno dieci stature più in basso c'era una specie di piazza, illuminata da luci chimiche schermate, tra le quali ombre di persone si muovevano qua e là. Dalla piazza si dipartivano strette viuzze, che si perdevano in una congerie di strani tumuli tondeggianti: case interrate, arguì Deyan. La loro forma sfuggiva ad ogni classificazione: c'erano elementi kelith e sayanni mescolati insieme, assieme a qualcos'altro... qualcosa di nuovo e insieme di antico, che non faceva parte di nessuna delle due culture.

Quella vera e propria città non era certo ciò che si era aspettato di vedere. Ora più che mai doveva sapere dov'era. Immaginava di essere in qualche zona interna di Kelitha, anche se non riusciva a capire come potesse essere giunto fino a lì, e come potesse esistere una città sconosciuta e abitata anche da sayanni in una terra peraltro molto ben esplorata come la sua.

Alzò la testa, cercando le costellazioni per determinare almeno la latitudine. Si tolse lentamente il cappuccio dalla testa, inquieto: non aveva mai visto il cielo così scuro. Le stelle più luminose risaltavano come diamanti. Le minori erano offuscate dalla luce di una grande luna bianca e azzurra...

Non era Luna di Fuoco. 

"Dea Pietosa!" mormorò, fissando quella luna sconosciuta.

Un continente allungato si intravvedeva tra le nubi candide. La sua forma rievocò in lui le molte mappe che aveva studiato. Lo riconobbe all'improvviso, e restò senza fiato...

"Ma quella è... Kelitha!" sussurrò, affascinato.

Non aveva mai neppure immaginato che un giorno l'avrebbe vista in quel modo, da quel punto di vista così incredibile. E quel punto di vista non poteva essere che uno, e uno soltanto...

"Io... mi trovo su Luna di Fuoco!"

"Infatti," disse la voce tagliente, trafelata di Ran alle sue spalle. 

Deyan non si voltò verso di lui. Continuò a fissare la bellezza inconcepibile del suo mondo, ancora stupito e ammaliato da quella visione.

"Quale magia mi ha portato qui?" mormorò, scuotendo la testa con incredulità. "Come ho potuto valicare il baratro del Nulla tra il mio mondo... e questo?"

"La risposta ha un prezzo mortale, Deyan-shir." E poi, con rabbia: "Shana pagherà il riscatto, sei sempre stato trattato bene! Perché allora hai tentato di fuggire?!"

"Perché dovevo sapere dov'ero."

"Ed ora lo sai!... Sai dov'è il nostro covo, e io devo ucciderti, perché hai scoperto il nostro segreto."

"Se lo rivelassi, mi prenderebbero per pazzo..."

Ran esitò. "È vero, ma tu non sei un semplice kelith. Sei un principe. Hai del potere sulla tua terra. Sei un membro dell'Augusto Consorzio. Forse a te crederebbero."

"E anche se fosse?" replicò Deyan, con sarcasmo. "Cosa credi che potrebbero fare? Costruire una macchina volante e arrivare fino a qui?"

"Tu sei arrivato fino a qui."

"Ma in che modo?"

"Sei troppo curioso, Deyan-shir. Forse questa è l'unica risposta che ti manca. Sai già troppe cose... anche per colpa mia, come qualcuno mi ha fatto notare. Sei furbo, e io ho paura di te. Non so in che modo potresti nuocere a Luna di Fuoco, ma non posso correre il rischio. Guarda pure questo cielo, e portati questo ricordo nella tomba." 

Deyan si voltò verso Ran, vedendo la sua figura incombente contro il blu del cielo.

"Dunque hai deciso, vuoi la mia vita."

"Devo prenderla. Perdonami."

"Ti avverto, Ran: uccidermi non ti sarà facile."

"Non mi sarà facile comunque," disse il sayanni, con voce roca. "Accidenti, mi piacevi, Deyan-shir, perché sei probabilmente il principe più pazzo di Kelitha, ma forse anche il più umano. E ammazzandoti perderò il tuo riscatto e sarò sul lastrico. Ma non posso avere tutta Luna di Fuoco sulla coscienza..."

"E io non desidero fare del male a chi mi ha salvato la vita, anche se l'ha fatto per denaro." 

"Tu, fare del male a me?..." Il sayanni fece una lugubre risata. "Bravo, Deyan-shir, almeno mi fai il favore di non morire frignando di paura, come di solito fanno i kelith."

"L'hai detto tu che io non sono un kelith qualsiasi." Deyan si mise in guardia. "Ricorda le tue stesse parole, prima di attaccarmi."

"Sono più forte di te!"

"Chi è più forte, il vento o il seme che lo cavalca?"

"Che vuoi dire?!"

Un sorriso triste sfiorò le labbra di Deyan. E Ran si accorse all'improvviso di essere intimorito da quella snella figura davanti a lui...

Per un lungo istante nessuno dei due si mosse, e solo il vento agitò la polvere intorno a loro.

"Questo duello tra di noi non ha senso," borbottò infine il sayanni. "Poniamo il caso che tu vinca. Cos'avrai ottenuto?"

"Un istante di vita in più."

"Sarai ucciso comunque."

"Forse."

Ran sorrise. "Che magnifico predone saresti! Il talento non ti manca, e nemmeno lo spirito."

Deyan rispose a quel sorriso, la tensione si allentò.                                                

"Ascoltami, Deyan-shir. Cerchiamo di venire ad un accordo onesto."

"Se vuoi."

"Non desidero ucciderti. E nemmeno provarci," si affrettò ad aggiungere, alzando una mano. "Pensa a tutti i soldi che perderei, se ci riuscissi... Dimmi, avresti qualche buon motivo per fare del male a noi ladri di Luna di Fuoco?"

Deyan sospirò. "Mio padre mi aveva affidato il compito di scoprire da dove venivate."

"E tu devi obbedire a tuo padre, vero? È una questione d'onore."

Il kelith annuì.

"Però hai un debito d'onore anche con me."

"È vero. Ma questo debito ti sarà pagato con l'oro del riscatto. Non ti devo niente, Ran."

"Non è vero, Deyan-shir. Non ti ho rapito per la strada: ti ho portato via dal luogo di un supplizio. Ti ho salvato la vita. E te l'ho salvata ancora trattando malvolentieri con Itka... forse, se avessi insistito, avrei guadagnato qualcosa in più. Tuo padre non è stato generoso come forse credi. Io penso che in questo caso tu debba più a me che a lui."

Ci fu un lungo silenzio.

"Ti ho trattato con onore. Se rifletti bene, tutto sommato mi bastava tenerti in vita per avere il riscatto. Avrei potuto rendere questi giorni un inferno per te. Non l'ho fatto. Davvero dunque pensi di non dovermi niente, neppure un poco di gratitudine?"

Le mani di Deyan tornarono ai suoi fianchi.

"Hai ragione, Ran. A volte credo che tutto mi sia dovuto in virtù della mia nascita, ma mi sbaglio."

Il sayanni sorrise. "E forse sei l'unico nobile kelith che abbia il coraggio di ammettere questa verità. Non essere mio nemico, ti prego."

"Non ho niente contro di te, anche se sei un sayanni."

"Ma se agirai contro Luna di Fuoco mi farai sentire un traditore e renderai la mia vita un deserto. Non potrò vivere con questa vergogna."

"Allora non agirò contro Luna di Fuoco. Hai la mia parola."

"Nonostante gli ordini di tuo padre?"

"Quello che so resterà chiuso nel mio cuore. Nessuno saprà che io conosco il vostro segreto, quindi nessuno mi costringerà a combattervi."

Ran chinò la testa. "Perdonami, non voglio offenderti. Ma ho paura a fidarmi di te. Tu non sei uno di noi. Sto mettendo a rischio ben più della mia incolumità, lo capisci?..."

"Lo capisco benissimo," mormorò Deyan, "Ma non hai alternative. Devi fidarti di me... oppure tentare di uccidermi."

"Placa la mia coscienza, Deyan-shir. C'è qualcosa di sacro su cui mi puoi giurare di non rivelare a nessuno i nostri segreti, di non fare nulla per mettere a repentaglio la nostra Comunità?"

Deyan sorrise, gli si avvicinò e disse a voce bassa: "Sì, Ran. Io non credo ai tuoi Kamoh e Lilia, ma ho una dea nel cuore." Alzò le mani al cielo. "Nel nome della Misteriosa, rispetterò la tua volontà e non ti tradirò... nemmeno davanti alla morte."

Ran fissò i suoi occhi trasparenti alla luce del mondo verdazzurro.

"È la prima volta in vita mia che mi fido di un kelith," borbottò. E poi si scosse e esclamò: "Beviamo sul nostro accordo! Così si usa su Luna di Fuoco."

"Rispettiamo le usanze, allora," annuì lui, con un sorriso. 

   




 *




 

"È stata la prima volta, in tutta la nostra storia, che un ostaggio è riuscito a sfuggire alla nostra sorveglianza. La tua abilità e il tuo coraggio sono mirabili, nobile Deyan-shir, e ben al di sopra delle capacità della tua razza."

Mastro Kurmaji si rivolgeva all'ostaggio di Shana che lo fissava, diviso evidentemente tra la propria naturale compostezza e il sentimento di stupore che provava. Con lui c'era Ran, e tutti assieme sedevano nella sfarzosa stanza del Marjaban. Tre tazzine fumavano sul solito vassoio.

"Abbiamo visto quel che è successo sulla terrazza. E siamo d'accordo con il nostro amico Ran. Se un sayanni si fida di un esecrato nemico, perché non dovremmo farlo anche noi? Più saprai e più ti sentirai vincolato dal tuo patto sacro." Sospirò. "Sarebbe la prima volta che un estraneo conosce la verità su Luna di Fuoco e resta vivo, ma tu sei un uomo particolare, Deyan-shir. I presagi ci avevano avvertito." Sogghignò. "Naturalmente la reciproca conoscenza potrebbe portare altri frutti. Per esempio un'alleanza segreta. Noi potremmo risparmiare Shana da ogni attacco, e in cambio tu potresti aiutarci, in modi da definire..."

"Non credo che sarò il prossimo principe di Shana, Mastro Kurmaji."

"Anche se non lo sarai, rimarrai comunque in una posizione importante nella corte."

"Lo spero, per voi e anche per Shana. Abbiamo sofferto molto per i vostri attacchi. Avete spesso intralciato i nostri traffici di merci, sottratto carichi di spezie, reso insicure le nostre strade." Un sorriso appena accennato. "Itka meriterebbe queste attenzioni più della mia terra..."

Kurmaji rispose al sorriso.

"Con le dovute cautele," disse. "Ma è presto per trattare, nobile Deyan-shir... la tua curiosità reclama, e avremo altre occasioni per parlare di questa straordinaria collaborazione." Si inchinò ad offrirgli una delle tazzine. "Non abbiamo assaggiatori di veleni sulla nostra terra. Siamo una comunità di ladri, assassini e predoni, ma tra di noi rispettiamo le regole più sacre della convivenza."

"Un patto di fiducia è un patto reciproco," rispose Deyan con formalità. Accettò l'infuso, lo assaggiò. "Non è nulla che io conosca," mormorò, guardandolo. E poi, alzando lo sguardo su Kurmaji: "E nemmeno voi. Non credevo che esistessero uomini dalla pelle nera."

Il Marjaban sorrise, chinò lo sguardo e recitò:

"...due sono le razze di uomini, e una La Perduta...”

Gli occhi di Deyan si spalancarono. "La Leggenda!"

"Che proprio voi kelith tramandate da secoli," annuì Kurmaji. "La conosci?"

"Mi è stata narrata quando ero bambino, come una favola. Diceva che tanto tempo fa esisteva un terzo continente tra Kelitha e Sayanna, abitato da una razza di maghi, che scomparve annientato da un immane cataclisma."

"Il continente si chiamava Marja," disse Kurmaji. "Nacque dalla lava eruttata da un monte sottomarino, e fu distrutto dalla stessa forza che lo eresse, migliaia e migliaia di cicli or sono."

"Allora non è una leggenda," mormorò Deyan, stupito.

"È una storia vera, in ogni particolare. Compreso l'accenno alla razza di maghi."

"Voi Marjaban, dunque."

Kurmaji sospirò.

"Non tutti i Marjaban erano maghi. In realtà, essi erano solo una sparuta minoranza. Milioni di uomini perirono nel cataclisma che distrusse la nostra terra. Ma i maghi avevano scoperto il potere del Vortice... un canale di teletrasporto che unisce i mondi gemelli; e voi kelith sapete bene che Luna di Fuoco possiede un'atmosfera e dell'acqua."

Deyan annuì. "I nostri astronomi l'hanno sempre studiata, convinti del fatto che abbia un ambiente vitale. Ho sentito molte discussioni a proposito delle aree che cambiavano colore, delle luci che apparivano e scomparivano sulla superficie, delle strane formazioni rocciose. In verità il sogno di molti astronomi sarebbe costruire una macchina portentosa per giungere qui, ma questa sembra un'impresa impossibile." Un lieve sorriso. "Se sapessero che questo problema è già stato risolto..."

"Ma non lo sapranno, finché non avranno costruito la loro macchina portentosa." Kurmaji sorseggiò il suo infuso. "I kelith non capiranno mai la magia, è contraria alla loro visione del mondo. I sayanni da questo punto di vista sono avvantaggiati."

"Adorano l'ignoto invece di scoprirlo," disse Deyan, con lieve ironia.

"Noi Marjaban invece adoperiamo l'ignoto, senza curarci di conoscerlo a tutti i costi," ribattè Kurmaji. "Sarebbe una lunga discussione stabilire chi tra noi tre ha torto, non è vero, Deyan-shir?"

Il kelith arrossì lievemente. "Forse tutti e nessuno, Mastro Kurmaji."

"Sei saggio," sorrise il Marjaban.

"Meno materialista di quel che credi."

Kurmaji smise di sorridere, tornando ai suoi ricordi.

"Dunque il bel continente di Marja morì, e i maghi cercarono di salvare dal disastro il maggior numero possibile di persone... sempre troppo poche, comunque. Avrebbero forse potuto tentare di restare sul mondo, dopo, ma sapevano che non c'era posto per loro: Kelitha e Sayanna avevano già sviluppato le loro rispettive razze, i Marjaban dalla pelle nera non sarebbero mai stati accettati. Avrebbero dovuto guerreggiare, sarebbero stati isolati; e erano pochi, troppo pochi per evitare l'estinzione. Luna di Fuoco era la loro unica, possibile destinazione."

Kurmaji si alzò, andò alla finestra, scostò i pesanti tendaggi e guardò il cielo.

"Solo i maghi e pochi altri dunque sopravvissero, e continuarono la Stirpe Nera. Furono tempi durissimi. Erano soli, in questo ambiente selvaggio e aspro. Erano maghi, non pionieri. E la loro magia aveva da sempre ruotato sul Vortice e solo su quello. Le loro deboli braccia non sapevano arare la terra, costruire case, procurare i beni necessari ad una vita decorosa. Sapevano cantare centinaia di inni sacri, ma ignoravano come procurarsi il pane... erano solo un frammento di saggezza perduto nel cosmo."

Si voltò di nuovo verso Deyan.

“Non avevano che un bene. Il Vortice. Lo adoperarono, e rubarono al mondo ciò di cui avevano bisogno. Questo si può considerare un delitto secondo molte morali, e anche qui per esempio rubare è vietato. Ma quando si parla di nazioni si parla di forze della natura: e la natura conosce e adopera il furto. I nostri due soli non si strappano vicendevolmente la loro materia? Le pulci non succhiano il sangue dei cani?... I Marjaban avrebbero fatto lo stesso per sopravvivere!”

Ci fu una pausa di silenzio. Deyan disse: “Ma eravate maghi, non ladri. Allora trovaste coloro che avrebbero rubato per voi, e li portaste quassù a servirvi.”

“Sì, all'inizio fu così. Ma poi capimmo che la mutua soddisfazione è necessaria alla coesione di una comunità, specie se isolata come questa. Stabilimmo di comune accordo delle leggi e delle regole, e ci ritirammo nuovamente nei nostri studi. Da millenni nessun Marjaban calca il suolo del mondo. Ecco perché la nostra razza è diventata una leggenda…”

“Voi non rubate più in prima persona, però vedo che siete considerati i capi.”

Kurmaji sorrise. “Non nel senso che dài tu alla parola, Deyan-shir. Luna di Fuoco è come un gigantesco corpo, con le sue membra; noi Marjaban costituiamo la testa. Non procuriamo ricchezza, ma l'amministriamo. Non sappiamo rubare, ma abbiamo in pugno l'unico mezzo per uscire di qui: il Vortice. Oltre a ciò, registriamo ogni membro della Comunità e teniamo il conto delle sue imprese, del suo bottino e delle eventuali trasgressioni alle regole. Quando queste minacciano l'ordine della Comunità non consentiamo al colpevole di lasciare Luna di Fuoco. Al resto in genere pensa la Comunità stessa. Siamo consultati spesso come arbitri, ma solo perché siamo imparziali, non appartenendo né ai kelith né ai sayanni. Non esercitiamo una tirannia: ci accontentiamo di vivere bene. Siamo semplicemente pagati per il nostro lavoro, proprio come tutti.”

Deyan si volse verso Ran.

“È vero, Deyan-shir,” confermò quest'ultimo. “I Marjaban non hanno mai proibito arbitrariamente a qualcuno di usare il Vortice: hanno sempre seguito la legge. La loro sapienza ci tiene tutti sotto controllo, ma dobbiamo esserlo se non vogliamo che questa magnifica Comunità si dissolva e ognuno tagli la gola all'altro. I servigi dei Marjaban hanno un prezzo salato, ma onesto: potrebbero imporci ben altri balzelli, tenerci tutti in ostaggio qui... e noi che faremmo? Non potremmo minacciarli, di cosa poi? Di ucciderli? Ci condanneremmo all'esilio a vita…”

Deyan si volse nuovamente verso Kurmaji. “È chiaro che non insegnate la vostra magia a chi non fa parte della vostra razza.”

“Certo che no,” sorrise quest'ultimo. “È una conoscenza che teniamo gelosamente per noi.”

“I vostri predoni non hanno mai tentato di catturare uno di voi, torturarlo od invogliarlo comunque a rivelare il vostro segreto?…”

“Credi che basti una formula magica per evocare il Vortice?” disse Kurmaji, divertito. “Il nostro segreto si impara giorno per giorno, nascendo tra di noi, vivendo tra di noi... essendo uno di noi. E il Vortice non è la nostra unica conoscenza. Abbiamo la nostra memoria collettiva, che ci permette di amministrare la Comunità. Abbiamo le nostre tecniche di calcolo e le nostre capacità arcane. Abbiamo questi poteri tramandati dai nostri avi, e in più millenni di esperienza alle spalle, trascorsi facendo solo questo. Nessuno ci può sostituire. E nessuno ci può offendere.” 

  
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