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Autore: Aniel_    27/02/2013    10 recensioni
Chicago 1940.
A Dean Winchester, poliziotto di ventotto anni, viene tolto il caso della vita, a cui lavorava ormai da anni. Ma ha una nuova pista che lo condurrà nel luogo più blues di tutta la città.
Incontrare un certo sassofonista e trovarlo "vagamente interessante" non era di certo nei suoi piani.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Castiel, Dean Winchester, Sam Winchester, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna stagione
Capitoli:
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Fandom: Supernatural
Pairing/Personaggi: Dean/Castiel, Sam, John Winchester, Missouri, Joshua, vari.
Rating: NSFW
Chapter: 1/?
Beta: vampiredrug (mia luce e mio sostegno morale)
Genere: introspettivo, romantico, angst
Warning: slash, AU, vagamente OOC
Words: 4483
Disclaimer: nessuno mi appartiene ed è così triste, non è vero? 

CAPITOLO 1
Good Morning Blues

 
La vita a Chicago non era poi così facile come molti pensavano: quanti turisti Dean vedeva arrivare, le donne con lunghi abiti scintillanti, gli uomini con sorrisi che sembravano dire "ehi, guardatemi! Questa è una svolta nella mia vita". Ma non lo era. Non lo era mai, almeno non per chi avesse gli occhi per vedere e, a quanto sembrava Dean Winchester, in quel posto fatto di musica celestiale e false promesse, era uno dei pochi.
Quel venerdì mattina la stazione di polizia era quasi deserta. Il comizio del sindaco sarebbe iniziato di lì a poco e nessuno dei pochi presenti si stupì quando Dean entrò dalla porta, lasciando scivolare il cappotto lungo le spalle e lanciandolo senza troppe cortesie sulla propria scrivania.
«Ma oggi non è la tua giornata libera?» domandò Ash, senza guardarlo, mentre rimetteva al proprio posto un numero indefinito di scartoffie.
«Non avete bisogno di una mano?» domandò il ragazzo, liberandosi anche del cappello.
«Sì, ho bisogno di una mano, ma è il tuo giorno libero Winchester. Prenditi una pausa, fatti un giro, vai a donne, fai tutto quello che fanno i ragazzi della tua età.»
Dean rise sonoramente e rubò la tazza di caffè dalla scrivania dell'altro. Affrontavano quella discussione quasi tutte le mattine e non poteva fare a meno di chiedersi quando i suoi colleghi avrebbero mollato il colpo. Odiava dover dare spiegazioni, odiava giustificarsi.
In verità amava il suo lavoro e, avendo una motivazione concreta a disposizione, proprio non ce la faceva a staccare la spina, anche se per poche ore.
«Sto bene» rispose, richiamando la risposta che forniva puntualmente ogni mattina. «So che pensi che abbia bisogno di uno strizzacervelli, ma sto bene.»
Ash scosse il capo, esasperato. «So che stai bene, non fai che ripeterlo ogni fottuta mattina. Dico soltanto che se dormissi un po' di più o uscissi da questa fogna per divertirti di tanto in tanto non ti ucciderebbe.»
«Grazie per l'interessamento, tesoro. Vedrò che posso fare, tu non aspettarmi alzata comunque.» ghignò di risposta, beccandosi un pugno poco gentile sulla spalla.
«Sai cosa ti dico? Fottiti Winchester. Non sono tua madre. Fai un po' il cazzo che ti pare, quando ti troveremo morto in fosso potrò dire di aver fatto tutto il possibile.» sbottò, dirigendosi verso l'uscita. «Non ti dirò più nulla. Mai più nulla.»
Ma non era vero.
Dean trovava quelle conversazioni estremamente divertenti, forse perché si chiudevano costantemente con un Ash incazzato che lasciava la stazione per poi tornare dopo una decina di minuti con la colazione per tutti. Era un tipo particolare: quando arrestava qualcuno comprava ciambelle, quando archiviava i casi si sdraiava sulla scrivania, quando si incazzava andava a recuperare la colazione per tutto il distretto. Non era passato molto tempo prima che ogni essere umano della stazione lo obbligasse ad incazzarsi.
«Dean?» lo chiamò Garth dalla propria postazione.
Dean alzò gli occhi al cielo. «Gesù, Garth! Vuoi buttare quello schifo di calzino? Ma quanti anni hai?»
«Sono stato dalle mie nipotine prima di venire a lavoro, idiota.» rispose Garth, piccato. «E poi è divertente...»
«Cosa vuoi Garth?»
«Il capo sapeva che saresti venuto. Vuole parlarti... è nel suo ufficio. Fossi in te mi preparerei...»
Dean lo superò, sbuffando. «Non ti stanchi mai di parlare, eh?» ringhiò, aprendo la porta dell'ufficio del capo per poi chiudersela alle spalle.
L'ufficio del capo era piccolo e molto buio, raramente aveva visto le finestre aperte lì dentro. Non che a Dean importasse molto, non era sua abitudine consigliare agli altri come gestire le proprie cose o la propria vita. Stranamente però nessuno era della sua stessa opinione e il più delle volte si trovava circondato da moralisti del cazzo che volevano aiutarlo ad uscire dal tunnel delle sue ossessioni, magari trovare una brava donna da portare all'altare e con la quale sfornare un paio di marmocchi.
Nessuno aveva capito che Dean, nel tunnel, ci stava benissimo. Era come se fosse nato per quello, per indagare, percuotere e sbattere dentro più criminali possibili. Il motivo che lo aveva spinto ad iniziare era irrilevante, soprattutto per lui, eppure ogni fottuta persona della sua vita preferiva ricordargli giorno per giorno quell'input che lo aveva trasformato in quello che era, come se fosse necessario. E non lo era.
Dean voleva solo fare il suo lavoro come gli era stato insegnato e adesso che era così vicino a scoprire la verità, sicuramente non avrebbe fatto un passo indietro. E fanculo se gli altri pensano che sia pazzo, non mi interessa.
«Non ti hanno insegnato a bussare?» domandò il capo, piatto, sfogliando pigramente alcuni rapporti.
«No, direi di no.» rispose Dean, accomodandosi. «Avanti, sono pronto. Mi hai chiamato per questo, no? Facciamo in fretta, ho altro da fare.»
«Maledizione Dean! Credi che sia un gioco? Qualche mese fa hai rischiato di lasciarci la pelle per colpa di quel figlio di puttana e adesso fai come se niente fosse?»
«Ho delle prove, delle piste da seguire. Sto lavorando come mai in vita mia e sono così vicino, dannazione! Così vicino...»
L'altro sospirò, passandosi una mano tra i capelli. «Lo so, Dean. Lo so. Ma voglio che tu ti prenda del tempo lontano da lui. Ti assegno un altro caso.»
Il ragazzo scattò in piedi facendo cadere la sedia sul pavimento con un tonfo rumoroso. Piantò entrambe le mani sulla scrivania, trattenendo l'impulso di afferrare e lanciare qualcosa contro il muro.
«No, non puoi farmi questo» sussurrò. «Non adesso.»
«Da quanto non dormi per più di quattro ore, eh? Da quanto non esci a farti bella bevuta? Persino Sam riesce a staccarsi da questa merda nonostante quello che è successo a Jessica.»
«Oh, quindi tu credi che la prenderà bene?» domandò ironico. «Sam non lascerà mai il caso e nemmeno io. Troverò quel bastardo e pagherà per quello che ha fatto a tutte quelle donne, per quello che ha fatto a Jessica e, nel caso te lo fossi dimenticato, per quello che ha fatto alla mamma, signore.»
«Non osare parlarmi in questo modo, ti avverto.»
«O altrimenti cosa fai, papà? Possiamo finalmente prenderlo, possiamo mettere fine a tutto lo schifo che ha causato.»
John Winchester si alzò dalla propria poltrona e guardò il figlio con apprensione, come non faceva ormai da anni. «Voglio che tu abbandoni questo caso per un po', me ne occuperò io fino a quando non sarai nelle condizioni...»
«Condizioni?» lo interruppe Dean, alzando la voce. «Lo so che credi che sia pazzo, ossessionato e tutte queste cazzate ma sto bene, sono perfettamente in grado di gestirlo!»
«No! Non lo sei!» sbottò John, battendo un pugno sulla scrivania. «Posso affidarti un altro caso di cui ti occuperai con tuo fratello o siete fuori, entrambi, a tempo indeterminato. A te la scelta.» aggiunse, mentre gli porgeva il fascicolo del nuovo caso.
Dean guardò torvo quell'ammasso di carte che non l'avrebbe portato da nessuna parte e si passò una mano sulle labbra, nervoso come mai in vita sua. Stava bene, maledizione! Perché nessuno sembrava capirlo? Sì, forse quel figlio di puttana di Azazel lo aveva quasi fatto fuori più o meno sei mesi prima, ma adesso stava bene, non era provato né tantomeno traumatizzato dagli eventi come continuava a dire quello smidollato senza cervello dello psicanalista.
Cazzo, lui neanche ci voleva parlare con quell'idiota! E forse poteva averlo minacciato di rompergli un braccio se non si fosse tolto dai piedi, ma ehi! era incazzato nero con il mondo e la ragazza di suo fratello era appena stata assassinata.
I fratelli Winchester erano stati etichettati come "professionalmente ed emotivamente instabili; potenzialmente pericolosi" quando l'unica persona instabile e pericolosa era ancora là fuori a torturare ed arrostire le donne nelle proprie case.
«Papà, ti prego...» mormorò, ma l'altro spinse il fascicolo contro il suo petto, costringendolo ad afferrarlo.
«È un ordine» scandì John. «Sono stato chiaro?»
Dean strinse un pugno, sentendo le unghie conficcarsi nel palmo. «Sì, signore.» rispose, a denti stretti.
Discutere con John Winchester era come discutere con un muro di cemento: inutile e sfiancante.
Uscì dall'ufficio evitando con cura l'espressione tronfia sul viso di Garth: erano ancora le otto del mattino, non voleva iniziare la giornata prendendo a pugni quella faccia di bronzo. Riuscì a scorgere Sam nel giro di pochi secondi, comodamente seduto sul divano all'entrata, con i vestiti impeccabili e una cravatta nuova, fresco di barbiere e con una tazza di caffè fumante tra le mani.
«Ti sei dato una ripulita» osservò, avvicinandosi. «Nelle ultime due settimane avevi tutta l'aria di un cavernicolo nemico del sapone.»
Sam lo ignorò, mandando giù un sorso di caffè. «Ho lavorato tanto e non avendo nessuno attorno a lamentarsi del mio odore me la sono presa comoda.» rispose, piatto.
Dean ormai era abituato a quelle osservazioni ed era convinto che Sam non se ne rendesse più neanche conto. Dalla morte di Jessica, Sam si era lentamente e inesorabilmente spento e Dean non ricordava nemmeno l'ultima volta in cui l'aveva visto sorridere.
Lavorava, usciva con qualche amico il venerdì sera, una volta lo aveva visto con una ragazza in un locale ma non rideva, non davvero, non si divertiva, non andava avanti.
E Dean avrebbe tanto voluto dire che capiva, che sapeva come ci si sentiva ma in realtà non aveva mai perso nessuno di così importante eccetto sua madre. Ricordava il dolore che aveva provato, la sensazione di vuoto quando non la vedeva più in cucina a preparare la colazione, con il suo grembiule bianco e quel sorriso stampato sulle labbra che rendeva il mondo un posto meraviglioso, nonostante tutto. Ma era ancora un bambino Dean e a quattro anni il dolore è diverso.
Non meno intenso, solo... diverso.
E adesso Sam aveva perso la persona che amava e un dolore del genere è quello che ti svuota completamente, bastava guardare nei suoi occhi per capirlo.
«Ascolta Sammy» mormorò, accomodandosi al suo fianco, indeciso sulle parole da usare. Dio! ormai parlare con suo fratello si era trasformato in una passeggiata notturna in un campo minato. «Ho parlato con papà poco fa» aggiunse dopo aver preso un respiro profondo. «Ha pensato che per il momento sia meglio assegnarci un altro caso. Ci ha tolto Azazel.»
«Lo so.»
Prego?
«Come sarebbe a dire lo sai? E quando avevi intenzione di dirmelo?»
Sam stirò le labbra e strizzò le palpebre. «Senti» rispose, abbassando la voce in modo che nessun altro riuscisse a sentirlo «ho una pista diversa sulla quale possiamo lavorare, senza dare nell'occhio, senza che papà e nessun altro lo sappia.»
«Sam...»
«No Dean, ascoltami. Quando abbiamo preso Brady, dopo la morte di Jessica, ha fatto un nome "Jack McDermott" e proprio ieri un certo Jack McDermott è stato trovato morto nella blues way.»
«Omicidio?»
«No. Suicidio. O almeno è quello che i testimoni hanno detto. Andiamo, riesci a crederci? Io lo trovo strano, quindi vorrei andare a dare un'occhiata. Sei con me?»
Dean sospirò e alzò gli occhi al cielo. Era difficile stare dietro a quella testa continuamente in macchinazione del suo fratellino.
«Ho forse un'altra scelta?»
 

*°*°*

 
Il Garden era uno di quei posti che sfuggivano alla vista durante il giorno, situato in uno di quei palazzi un po' malconci e poco illuminati. Quelli che sono sempre stati lì e, nella loro anonimità, vi si passava accanto senza rendersene conto: dati per scontati come la asfalto, i carretti dei gelati, gli alberi che avevano visto giorni migliori.
Ormai a Chicago si dava tutto per scontato. Era la sua nuova caoticità a creare i veri problemi perché la gente era diventata davvero troppa e troppo ricercata e troppo rumorosa e troppo invadente, così tanto da tarpare le ali a chi, in quella città, era nato, cresciuto e sì, intendeva anche morirci.
Quelli che lavoravano al Garden erano fantasmi, per certi versi; non li si vedeva quasi mai, perché vivevano di notte e "la notte è Blues" come dicevano loro. Certo, non che si facessero vedere in giro a notte fonda, più che altro li si sentiva. Dean sapeva che quella strada non si era sempre chiamata "blues way" ma nessun altro nome sarebbe stato azzeccato quanto quello.
Sam sospirò dinnanzi alla porta e bussò, in attesa. Si aprì dopo pochi istanti e l'odore di alcol misto a profumo femminile li accolse: era l'odore più buono del mondo e anche se Dean non lo sentiva da anni poco importava, era uno di quelli che non si sarebbero potuti dimenticare, nemmeno sforzandosi.
L'atmosfera era soffusa e intima, e Dean ebbe la bizzarra sensazione di essere di troppo, come se si fosse trovato all'improvviso nel sogno di qualcun altro. Raggiunsero il bancone e attesero, in compagnia del rumore di bicchieri che si posavano sui tavolini dei pochi presenti e la musica in sottofondo, delicata e fioca come la luce.
«Non posso crederci!» squittì una voce prima che Dean si sentì mancare il fiato nell'abbraccio stritolatore di una donna. «Dean e Sam Winchester. Guardatevi! Come siete cresciuti!»
Sam si liberò dalla presa con un po' di difficoltà. «Ciao Missouri» mormorò, massaggiandosi il petto.
«Dovrei prendervi a sberle, non vi vedo da quando mi arrivavate entrambi alle ginocchia.» si lamentò la donna, portandosi le mani sui fianchi. «Si può sapere che fine avete fatto? So che siete entrati in polizia, come vostro padre... oh, vostro padre... oh, mi sentirà. Eccome se mi sentirà. Sparire dalla circolazione in quel modo...»
«Lavori qui?» domandò Dean, perplesso guardando Missouri trafficare con alcuni bicchieri.
«Lavoro qui da trent'anni, mio caro. Se avessi avuto la decenza di passarmi a trovare lo avresti saputo, sciagurato che non sei altro! Cosa vi porta da queste parti?»
«Jack McDermott.» rispose Sam.
Missouri mandò giù un sorso generoso di bourbon. «Jack, sì. Brav'uomo. Ho saputo... è successo in fondo alla strada, vero?»
«Lo conoscevi?»
«Veniva qui spesso, sì. Era un tipo come si deve ma aveva qualche problema ultimamente... sapete, con la moglie. Si è scolato non so quante bottiglie nelle ultime sere... insomma, era chiaro che non fosse in sé.»
«Che tipo di problemi aveva con la moglie?» domandò Dean, accarezzando il proprio bicchiere con l'indice e maledicendo la regola "niente alcol quando si è in servizio".
«Non so. Si diceva che lo tradisse ma non so quanto le voci siano vere. In un posto come questo si raccontano e si scrivono storie e non sempre quello che ne esce fuori è la verità.» spiegò. «Ma da quanto vi preoccupate tanto per un suicidio? Non fraintendetemi, è tragico, ma negli ultimi trent'anni ho conosciuto tanti suicidi e non ho mai fatto una chiacchierata con la polizia subito dopo.»
Dean e Sam si scambiarono un'occhiata eloquente e il maggiore si affrettò a spiegare. «Diamo solo un'occhiata in giro, non preoccuparti.»
Missouri incrociò le braccia, sospettosa, ma non insistette. Guardò il palco e sorrise, stringendo tra le mani una bottiglia di liquore. «Bene. Siete fuori servizio adesso o sono costretta a scolarmi quel bourbon rimasto da sola?» domandò, indicando i bicchieri ancora pieni dei ragazzi.
Dean chiuse la mano attorno al proprio e lo sollevò, ammiccando.
«Bravi i miei ragazzi» si congratulò, indicando il palco. «Perché non restate un po'? C'è il numero stasera.»
Entrambi i fratelli aggrottarono la fronte e Missouri si lasciò andare ad una risata roca. «Good Morning Blues cantata da Joshua. Dovreste sentirlo è... meraviglioso.»
Dean rise e seguì lo sguardo di Missouri sul palco in cui un uomo elegantissimo scambiava qualche parola con il pubblico, sorridendo affabile.
«Ti sei presa una cotta per quello lì?» chiese, ricevendo uno schiaffo sulla nuca.
«Non dire cazzate, ragazzino. Joshua è... il padrone del locale. Sai, è il mio capo.»
«Quindi ti sei presa una cotta per il tuo capo.» osservò Sam.
Missouri lanciò ad entrambi un'occhiataccia truce e imbarazzata prima di riprendere a pulire febbrilmente il bancone, cercando di scacciare via con quanta forza possibile macchie invisibili.
«Quando canta fa tremare le ginocchia. Non è colpa mia, è la sua voce.» mormorò flebile e Dean capì una delle più grandi verità della vita: quando ti innamori sei fottuto. Non ci sono sconti, non ci sono vie d'uscita, non ci sono ripari. Ti innamori e sei fottuto.
E se l'amore aveva trasformato una donna come Missouri in un ammasso informe e balbettante dalle gambe molli, allora non c'era speranza per nessuno.
Dean aveva sempre visto l'amore come qualcosa da cui tenersi alla larga, come una malattia terminale o una pessima canzone, ma la realtà era che nessuno gli aveva mai fatto tremare le ginocchia e lui non era proprio in cerca di qualcosa di simile.
Certo, ogni tanto capitavano le avventure di una notte: un'infermiera incontrata quasi per sbaglio, una moglie annoiata in cerca di qualcosa che le facesse dimenticare il proprio matrimonio andato a puttane, ma mai l'amore, mai un sorriso che gli fosse rimasto impresso, o uno sguardo né tantomeno un nome; dopo la notte spariva tutto, come se non fosse mai accaduto, compresa la fugace sensazione di appagamento.
E intanto Joshua aveva iniziato a cantare quando Dean tornò in sé, confuso: aveva davvero iniziato a pensare all'amore sulle prime note di una canzone che non conosceva? Vide le labbra di Sam ammorbidirsi e un sorriso rilassato incurvarle, uno di quelli che non vedeva da mesi; Missouri aveva poggiato i gomiti sul bancone e guardava quell'uomo sognante, come se fosse l'unico presente in sala.
E in effetti lo era vero. Non c'era nessun altro oltre Joshua e la sua voce e la musica, e Dean fu quasi sul punto di chiudere gli occhi quando il suono di un sax sferzò l'aria per poi trasformarsi in un brivido caldo che rotolò giù per la sua schiena. Ne cercò la fonte pur non vedendo granché e mentre tutti erano troppo concentrati sulla voce roca del cantante, Dean lo vide: accovacciato sulle scalette appena sotto il palco, con un completo nero e un cappello a celargli gran parte del viso, un uomo suonava il sax. Rilassato, padrone di sé, come se fosse nato per fare quello, per creare musica che poi musica non era, non del tutto. Quell'uomo suonava di corpi intrecciati nel buio, di schiene inarcate, di gemiti talvolta strozzati, talvolta acuti. Quell'uomo suonava promesse.
Se il sesso avesse avuto musica, sicuramente sarebbe stata suonata da lui.
Dean assottigliò le palpebre e cercò di studiarne i lineamenti, i dettagli, la statura, eppure tutto quello che riuscì a cogliere furono solo le labbra piene arricciate attorno al bocchino dello strumento, gli angoli della bocca impercettibilmente piegati in un sorriso. E non aveva bisogno di vederlo perché davvero sembrava non importargli di essere visto o meno, e Dean poteva capirlo: cosa te ne fai di un'immagine quando riesci a suonare roba del genere? Una musica lenta, profonda, suadente e lui quasi riusciva a vederla quella musica, la vedeva infrangersi sulle donne sedute poco lontane, con i bicchieri tenuti su a malapena tra le dita - Dean poteva già sentirli infrangersi sul pavimento e quelle donne sussultare, troppo scosse per riuscire a prevederlo- e con l'espressione di chi avesse sempre cercato in un uomo quelle sensazioni. Musica che scivolava sulle loro schiene come le mani esperte di un amante.
Joshua terminò con un sorriso appena accennato e il pubblico esplose in un boato: improvvisamente Dean notò che il locale si era riempito ma lui era stato troppo occupato a concentrarsi sul sassofonista per rendersene conto.
«Oddio, mi farà sempre questo effetto?» domandò retorica Missouri, sbattendo velocemente le palpebre nel tentativo di ricacciare indietro le lacrime incastrate tra le ciglia.
«È davvero grandioso» commentò Sam, colpito. «Non ha mai pensato di iniziare una carriera come cantante?»
«Dio solo sa quante volte gli è stato chiesto ma Joshua non intende muoversi da qui. Dice che sa solo gestire questo locale e non c'è nessuno capace di fargli cambiare idea.» spiegò la donna, scuotendo il capo.
Dean colse solo in parte la risposta di Missouri, troppo impegnato a cercare con lo sguardo il sassofonista: stranamente sentiva il bisogno di vederlo in faccia, solo per provare a se stesso di non averlo immaginato. Era sparito subito dopo l'esibizione di Joshua ma c'era, Dean sapeva che c'era. Era lì, da qualche parte, anche se non riusciva a vederlo.
«Quello che suonava il sax? Chi è?» domandò Dean, cercando di conferire alla propria voce il tono più naturale e controllato possibile.
E, in realtà, il cuore rischiava di uscirgli fuori dal petto senza che lui ne comprendesse la ragione.
«Quello è Castiel, il figlio di Joshua.»
Dean aprì le labbra e le richiuse in pochi istanti, aggrottando la fronte. «Ma è...»
«... comprendo la tua perplessità, tesoro. Per tutti noi è il figlio di Joshua, il figlio del Garden, ma no, non è il figlio di Joshua.» replicò la donna, sorridendo dolcemente.
«Non ti seguo.»
La donna stirò le labbra e si accomodò accanto ai ragazzi, riempiendosi l'ennesimo bicchiere della serata. «Joshua non ha mai avuto una donna per quel che ne so. Non sembra averne bisogno, insomma guardatelo! Ha intorno a sé quest'alone quasi divino, come se non avesse bisogno di nulla. Quindi, niente donna, niente figli.» iniziò a raccontare, sottovoce. «E poi un giorno è venuto qui con un fagottino tra le mani. Ha detto di averlo trovato nel parco, in una cesta. Un bambino. Un fottutissimo meraviglioso bambino rosa e completamente zuppo. Ha detto che era un dono di Dio e siccome il giorno in cui lo ha trovato era giovedì allora lo ha chiamato Castiel.» aggiunse, notando poi un'espressione perplessa dipingere il viso di Dean.
«E dovrebbe essere esplicativo?» domandò, ironico.
Missouri alzò gli occhi al cielo. «Castiel è l'angelo del giovedì.» puntualizzò.
«Scusami, non sono mai stato un bravo chierichetto.»
«Troppo occupato a guardare sotto le gonne delle ragazzine?»
Il ragazzo fece spallucce, puntando nuovamente gli occhi sul palco: la gente era diventata davvero troppa anche per poter solo sperare di individuare quel Castiel. Dean sentì qualcosa simile a... fastidio? Sì, fastidio all'idea di non vederlo. Immotivato fastidio.
Ritenne più opportuno non chiedersi il perché.
«Comunque Castiel è cresciuto qui; tutti quelli che lavorano al Garden lo hanno tirato su per certi versi, da quando era più o meno alto così» continuò, portando la mano all'altezza del tavolino. «Era un cazzo di bambinetto petulante, non la smetteva mai di parlare, mai! Per farlo stare zitto Joshua è stato costretto ad insegnargli a suonare il sassofono, così almeno qualcosa gli avrebbe tappato la bocca.» rise, portandosi entrambe le mani sul viso. «Poi qualche anno fa è successo...»
Fece una piccola pausa, deglutendo. Dean pendeva dalle sue labbra, avido di saperne di più.
«Aveva più o meno quindici anni e frequentava la scuola pubblica, quella a pochi isolati da qui. Non era e non è affatto un bel posto, succedono cose strane lì.» rivelò amaramente. «Io non volevo mandarlo in quella merda e Joshua era quasi sul punto di darmi retta, ma quella testa di cazzo di Castiel? Oh no, lui era troppo orgoglioso e troppo fiducioso nella bontà dell'uomo, lui che ha visto solo brava gente perché è sempre stato qui dentro. Ma è ovvio che il mondo è un posto schifoso eppure lui ci teneva tanto alla sua istruzione che ha deciso di andarci lo stesso. I primi mesi sono stati sereni e pensavo di essermi sbagliata, per un momento ho pensato che non era poi un male che uscisse di qui, con i suoi coetanei. Però un giorno-» la sua voce si spezzò all'improvviso e Dean avvertì la spiacevole sensazione di oppressione al petto. Sam al suo fianco trattenne il fiato.
«Non lo so, ragazzi miei, non lo so. È tornato e... piangeva, sembrava- sembrava quasi disperato. Qualcuno gli ha sparato, fortunatamente in una spalla, e da allora non è più uscito da qui. Al massimo va al parco, ma non si allontana più di così.»
«Che cosa gli è successo?»
«Ci credi che non l'ho mai saputo? È come... crollato, capite? Non so cosa gli sia successo ma deve essere stato qualcosa di davvero brutto. Non mi ha più parlato. In realtà da quel giorno non ha più parlato praticamente con nessuno. Credo che l'unico a cui rivolge ancora la parola sia Joshua e lui non mi ha mai detto cosa diavolo sia successo.»
«Mi dispiace. Sembra orribile.» mormorò Sam.
Missouri annuì mestamente. «Pensavo che si sarebbe sbloccato, sapete? Ma niente. Quei pochi individui con cui lo vedevo parlare sparivano dopo qualche settimana: chi partiva, chi si trasferiva. Sembrava che si scegliesse gli amici temporanei! E poi è arrivato McDermott e sapete come è andata a finire.»
Dean sgranò gli occhi. «Castiel conosceva McDermott?»
Era una cazzo di svolta, non poteva informarli prima di questo "irrilevante" particolare?
«Oh no, no tesoro, no. Non pensarci nemmeno, lascialo in pace o giuro su Gesù che ti rimando da tuo padre in lacrime.» sbottò la donna. Dava l'impressione di una leonessa che tentava di proteggere il suo cucciolo.
Ma non era un cucciolo, Castiel era una fonte di informazioni, era una pista, problemi di comunicazione o meno!
«Voglio solo parlargli.» la tranquillizzò ma la donna fu irremovibile.
«Non hai ascoltato nulla, non è così? Lui non parla con nessuno!»
«Oh ma andiamo» sorrise Dean, con la migliore espressione da figlio di puttana che riuscisse ad ostentare. «Credi che qualcuno in questa città possa provare l'impulso di non parlarmi?»
«È l'impulso che proverò io se gli darai fastidio Winchester, ti avverto.»
Dean sostenne lo sguardo duro e deciso della donna prima di arrendersi, chinando il capo.
«Va bene, hai vinto. Lo lascerò in pace.»
Missouri lo guardò torva per altri brevi istanti prima di sospirare sollevata e dirigersi verso i nuovi clienti. Dean attese che fosse abbastanza lontana prima di alzarsi in piedi. «Tienila d'occhio» sussurrò all'orecchio del fratello. «Vado a parlare con il nostro uomo.»
Dopo un ricerca minuziosa in ogni fottuto angolo del locale, Dean trovò Castiel fuori dalla porta di servizio: aveva la schiena poggiata al muro e una sigaretta tra le labbra. Senza il cappello, il poliziotto riuscì a scorgerne finalmente i lineamenti: aveva la pelle chiarissima, resa ancora più pallida dalla luce della luna piena alta nel cielo, tratti spigolosi ma al tempo stesso delicati e gli occhi, Dio! quegli occhi...
«Ehi» lo chiamò, attirando la sua attenzione.
Castiel voltò il capo, non muovendo il corpo di un solo millimetro, mentre allontanava il filtro della sigaretta dalle labbra, espirando una piccola nuvola di fumo.
Non rispose, si limitò solo a fissarlo, così intensamente che Dean si chiese se avesse qualcosa sul viso, una macchia o chissà cos'altro.
«Bel numero quello di prima» insistette, guardando altrove. «Sei stato davvero fenomenale, amico.»
Castiel strizzò le palpebre e annuì, educatamente, prima di guardare il cielo.
«Suoni da molto tempo?» domandò ancora e sì, quella discussione a senso unico cominciava a dargli sui nervi.
All'ennesima risposta non data, sospirò stancamente. «Non sei un tipo che parla molto, non è così?»
Castiel sorrise lievemente e chinò lo sguardo.
Ovviamente no.
«Penso che tornerò domani sera, mi piacerebbe risentirti. Io sono Dean, comunque» disse, non tendendogli la mano, certo che l'altro non l'avrebbe comunque afferrata e voleva evitarsi un'altra pessima figura oltre a quella di parlare da solo contro un muro.
«Benissimo, non voglio disturbarti oltre» mormorò dopo alcuni minuti di silenzio opprimente. Sentì lo sguardo curioso dell'altro posarsi su di sé ma evitò con cura di ricambiare. «È stato un piacere.»
Dean rientrò e si chiuse la porta alle spalle, sbuffando infastidito. Se il piano della settimana era quello di far parlare quel tizio, sarebbe stata di certo una settimana molto, troppo, lunga.
 
Castiel lasciò cadere la sigaretta sull'asfalto nello stesso istante in cui quel Dean rientrò nel locale. «Piacere mio.» sussurrò al nulla, mentre l'ultima boccata di fumo si disperdeva nell'aria fresca della notte.

Continua...
 


Note dell'autrice: buonasera meravigliose creature. Giungo a voi con una nuova long e spero che questo primo capitolo vi sia piaciuto. Il titolo dell'intera storia è quello dell'omonima canzone Sweet Home Chicago e, allo stesso modo, anche i capitoli richiameranno alcune famose canzoni blues. L'idea è nata da Dean che, in Time After Time, torna indietro nel tempo, precisamente nella Chicago del 1944. E diciamo che Dean vestito in quel modo mi ha creato qualche problema. Poi ho immaginato Cas vestito nello stesso modo... e lì mi è proprio partito un embolo.
Aggiornerò una volta ogni due settimane e mi scuso in anticipo per eventuali ritardi, ma è una storia impegnativa e il tempo che ho a disposizione è minimo dati gli impegni universitari. Spero che continuate comunque a farmi compagnia.
Alla prossima,
E.

 
   
 
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