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Autore: Lilith in Capricorn    02/03/2013    3 recensioni
Sai, un giorno una vecchia professoressa di letteratura inglese m’insegnò che “autunno” si può dire non solo “autumn”, ma anche “fall” che tradotto letteralmente significa “caduta”.
Come il lento, vertiginoso cadere delle foglie sradicate dal vento e dall’età.
Come il tuo rapido tuffo a capofitto dal ponte della nave.
Come l’inesorabile precipitare nel tuo Fallimento.
5° classificata al contest "Le sfumature del dolore" indetto da phoenix_esmeralda con il prompt Fallimento, punteggio 49.3\50.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Storia classificata 5° al contest "Le sfumature del dolore" di phoenix_esmeralda ( http://freeforumzone.leonardo.it/discussione.aspx?c=4642&f=4642&idd=10509204 ), promt "Fallimento", con punteggio:
 
-Grammatica: 4.9\5
-Stile e lessico: 5\5
-Originalità: 9.9\10
-Credibilità della trama: 5\5
-Introspezione: 10\10
-Attinenza al prompt e svisceramento: 5\5
-Gradimento personale: 9.5\10
Tot. 49.3\50


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1 agosto 1939

 
«Avanti, Jeanne! Che fai lì immobile? Su, sbrigati che la nave sta per salpare, mancano solo pochi minuti!»risuona cristallina la voce di lana di Marcel.
Probabilmente, devono aver attirato la sua attenzione tutte le lamentele della fila indignata alle mie spalle, rimasta bloccata da me, che sono qui, sospesa tra mare e cielo, tra Francia e Brasile, tra testa e cuore, tra desiderio e paura.
 
“Devi lasciarlo, Jeanne! Non ti permetterò di sacrificare la tua vita per quest’uomo, per un ebreo!” rimbombano ancora nella mia testa le parole ringhianti di mio padre, seguite dalla mia risposta, così semplice, così trasparente, così umana, così logica: “Ma lui mi ama”.
 
Papà non è antisemita, non lo è mai stato. È solo un padre. E come tale ha paura, è preoccupato. Perché ama sua figlia e, com’è naturale che sia, farebbe di tutto, pur di proteggerla.
Ci sarà una guerra, presto, dicono. È già cominciata, sostiene qualcuno, addirittura, e le prime vittime sono proprio gli ebrei dei ghetti.
Ma qui in Francia non ce ne sono di ghetti.
Non ancora. Non ancora…
 
La guerra vera e propria ci sarà presto, questo lo so. Papà dice che la grande Germania di Hitler è una bomba ad orologeria pronta a detonare da un momento all’altro.
Anche Marcel lo pensa.
Non avrebbe deciso di fuggire, altrimenti.
 
“Andare via? E dove? Perché?”
“Il perché non c’è bisogno che te lo spieghi, ma belle.
Sai molto bene in quale situazione ci troviamo e scommetto che puoi immaginare benissimo cosa accadrà presto.
Ormai l’Europa non è più un posto sicuro, per quelli come me.
Forse sono un vigliacco ad andarmene, a scappare. Ma anche se restassi, non cambierebbe nulla, non c’è niente che io possa fare qui.
Ci sono paesi, in questa Europa, che fanno paura. Paesi in cui io non ho nemmeno il diritto di esistere.
Mi dispiace, cherie, non c’è altro che io possa fare.”
 
“E dove andrai?”
“In Brasile: lì noi francesi siamo accolti con ammirazione e rispetto, qualunque sia il nostro credo religioso. Penso che sia il posto ideale, per me, adesso. Partirò tra una settimana.”
“E io? Che se sarà di me, Marcel?”
“Vieni via con me.”
“Cosa?”
“Vieni via con me, Jeanne. Saremo felici, insieme. Saremo felici, per sempre.”
“Marcel… non posso. Mio padre…!”
“Al diavolo quello che pensa tuo padre! Jeanne, mi ami?”
“Marcel, ma che domande…”
“Mi ami? Non è una domanda difficile. Devi solo dire si o no.”
“Lo sai…”
“Dimmelo.”
“Ascolta: mio padre ha detto che se dovessi decidere di fuggire con te, mi disconoscerà come figlia, hai idea di cosa questo comporti?”
“Quindi non mi ami, è così? Non abbastanza.”
“Non ho detto questo! Perché non vuoi capire?”
“Perché tu non vuoi capire? Cosa ti importa? Quando salperemo saremo così lontani che questo non avrà più importanza. Nulla avrà più importanza, eccetto quello che proviamo.”
“Marcel, non lo so.”
“D’accordo. Ho acquistato due biglietti per la nave che partirà tra una settimana alle 11.30. Hai tutto il tempo per pensarci e prendere la tua decisione. Ma ti prego di ascoltare il tuo cuore e di fare ciò che pensi sia giusto per te. Per noi. Ti amo.”
 
«Senta signorina, mancano solo dieci minuti alla partenza e lei sta bloccando il regolare flusso dei passeggeri.
Devo pregarla di proseguire e salire a bordo o di scendere a terra, qualunque cosa decida non può starsene qui.»
La voce arida e scocciata di un ufficiale di bordo dai pittoreschi baffoni da fare invidia a Friedrich Nietzsche mi riporta bruscamente alla realtà, lasciandomi rimbombare in testa un solo pensiero: cos’è successo dopo quel “ti amo”?
Quale processo decisionale mi ha portata su questa scaletta?
Perché sto rischiando tutto per quest’uomo, un uomo che non è neanche mio marito?
 
“Ma non siete neanche uniti in matrimonio, per l’amor del cielo, Jeanne! Quali garanzie di stabilità può darti lui? Nessuna! Né economiche, né sociali!”
“Ma noi ci sposeremo, papà!”
“Non mi pare che il giovanotto sia venuto da me a chiedere la tua mano.”
“Non ancora, ma presto lo farà, vedrai.”
“Ha mai manifestato il desiderio o l’intenzione di unirsi a te in matrimonio?”
“Beh, no, mai. Ma lui mi ama, so che è così.”
“Di questi tempi, l’amore non basta, figlia mia.”
 
L’amore non basta, ha detto.
Quella sera, ho chiesto a Marcel cosa ne pensasse del matrimonio.
Ha detto solo che secondo lui era troppo presto, che sarebbe stato meglio aspettare un po’.
Allora gli ho chiesto se mi amasse. “Si” ha risposto senza esitare, guardandomi dritta negli occhi, senza veli, né reticenze, come se si stesse offrendo per essere sviscerato ed esaminato a fondo, per dimostrarmi che per quanto in profondità avessi scavato, non avrei trovato altro che sincerità, purezza e amore.
 
“Jeanne, ma non lo capisci che sto dicendo tutto questo per te, perché sei mia figlia ed è mio dovere proteggerti!”
“Lo so, ma io… non voglio…”
“Devi lasciarlo, Jeanne! Non ti permetterò di sacrificare la tua vita per quest’uomo, per un ebreo!”
“Ma lui mi ama…”
“Ascoltami bene: non voglio che ti vedi più con questo ragazzo.
E se dovesse venirti in mente di fuggire via con lui, sappi che non ti considererò più mia figlia e tutto ciò che farai dopo non sarà più di mio interesse.
Pensaci bene, prima di prendere una decisione di cui poi potresti pentirti amaramente”.
 
«Va bene, ho capito.»Spazientito dalla mia immobilità, alla fine l’ufficiale di bordo mi solleva di peso e mi porta a bordo assieme alla mia valigia.
«Ma che ti è preso, Jeanne? Stai male?»mi domanda Marcel tra lo spazientito e il preoccupato.
«Si»replica la mia voce tanto debole e fioca da suonare irreale e sospesa persino alle mie orecchie.
In un istante penso che devo proprio avercelo scritto in faccia come mi sento, la guerra che ruggisce e lacera tutto dentro di me, la paura che mi sporca il fiato, la paralisi che mi inchioda il cuore alle costole.
 
Ma contro le mie previsioni, Marcel non sembra vedere nulla di tutto ciò.
«Cosa c’è? Hai la febbre, Jeanne?»mi chiede e io non so perché, ma non riesco a decifrare l’inclinazione della sua voce, le sfumature delle sue vocali, la consistenza delle consonanti che rintoccano tra le sue labbra.
Alzo il viso a cercare i suoi occhi e resto zitta. Gli do tutto il tempo di studiarmi, di cercarmi. Ma lui non trova nulla.
«No, la tua fronte non scotta»bisbiglia più a sé stesso che a me, ritirando la mano dalla mia testa. «Forse sei solo stanca»aggiunge sempre con lo stesso tono.
No, sono perfettamente sana e in forze, Marcel cheri.
Anche se dentro mi sento come un corpo flaccido impossibilitato a muoversi, perché il suo scheletro è scappato via, lasciandolo ad afflosciarsi su sé stesso.
 
Vieni, ma petite, vieni. Voglio farti vedere una cosa”  mi chiama mia nonna, facendomi cenno di avvicinarmi a lei.
È notte fonda ormai, ma come al solito io e lei siamo rimaste sveglie a lungo, a farci compagnia a vicenda, raccontandoci storie a luce soffusa e delicata.
“Jeanne, tu sai perché quando ci si sposa la fede va indossata proprio sul quarto dito, quello detto anulare?”
“No nonna. Tu si?”
“No, ma cherie, nessuno lo sa con certezza, credo. Ma un giorno una donna venuta da un oriente molto lontano mi parlò di una teoria nata da una leggenda cinese.”
“Sembra interessante, raccontamela!”
“Ma certo, vedi: secondo una leggenda talmente antica che le sue origini sono ormai a noi sconosciute, ogni dito rappresenta delle persone speciali che fanno parte della nostra vita.
Il pollice rappresenta i genitori.
L’indice rappresenta i fratelli, sorelle e amici.
Il dito medio rappresenta te stesso.
L’anulare rappresenta il tuo consorte.
Il mignolo rappresenta i tuoi figli.
Ma ecco cosa bisogna fare per capire questa teoria secondo cui la fede deve essere messa al quarto dito, l’anulare.
Unisci le tue mani, jolie, palmo contro palmo, poi unisci un dito medio all’altro, ripiegandoli verso l’interno, facendo in modo che essi puntino verso di te, così, vedi?”
“Si, ecco.”
“Bon, ora tenta di separare in maniera parallela i pollici; noterai che si separano, perché i tuoi genitori non sono destinati a vivere con te sino alla tua morte.
“Si, è naturale.”
“Ora, unisci le dita nuovamente e fai lo stesso con gli indici: anche questi si separano, perché i fratelli, gli amici e i parenti se ne vanno ognuno alla ricerca del proprio destino.”
“Oh, capisco.”
“Unisci nuovamente le dita, Jeanne. Ora tenta separare i mignoli, ovvero i figli: anch’essi si separano, perché i figli crescono e quando possono cavarsela da soli con le faccende della vita, se ne vanno.”
“E gli anulari?”
“Unisci un’ultima volta le dita e prova a separare gli anulari e ti sorprenderai quando non riuscirai assolutamente separali.”
“Si, è vero! Non si staccano, se ci provo fa anche un po’ male!”
 “Una coppia è destinata a stare assieme sino a l’ultimo giorno della vita ed è per questo che la fede va indossata solo nel quarto dito. “
“Capisco. È una leggenda bellissima, nonna.”
“Quello che voglio che tu capisca, jolie, è che dovrai scegliere con cura l’uomo che vorrai portare al dito. Perché nel momento in cui quegli anelli sposeranno le vostre mani, le vostre vite saranno indissolubilmente legate, nel bene, ma anche e soprattutto nel male…”
 
«Hai male, ma cherie? Hai le vertigini? Cosa c’è? Hai lo sguardo così spento… ti gira la testa, forse?»
«Mi ami?»
«Cosa? Jeanne, ma che domande…»
«Mi ami? Non è una domanda difficile. Devi solo dire si o no.»
«Lo sai…»
«Dimmelo.»
«Ascolta: io non capisco che problema hai. Eri felice di venire via con me, no? E fino a poco fa stavi benissimo, giusto? Cosa è cambiato in questi cinque minuti? Io sono sempre io. Sono sempre Marcel.»
«Quindi non mi ami, è così? Non abbastanza.»
«Non ho detto questo! Perché non vuoi capire?»
«Perché tu non vuoi capire? Cosa ti importa? Quando salperemo saremo così lontani che questo non avrà più importanza. Nulla avrà più importanza, eccetto il fatto che tu sarai finalmente salvo e non avrai più bisogno di me.»
«Jeanne, ma che stai dicendo? Io ti amo, lo sai. Ti amo! Ti ho mai dimostrato il contrario? Ti ho mai fatto del male?»
«No, ma potresti farmene… io potrei fartene.»
«E questo cosa vorrebbe significare? Dove vuoi arrivare, Jeanne?»
«Che io non ti amo… non ti amo...»
«Cosa? Jeanne… ma sei impazzita forse? Poco fa…»
«Poco fa è già passato. E poco fa non avevo ancora capito…»
«Capito cosa? Ma che stai dicendo?»
«L’anello…»
«L’anello? Quale anello? Di che cosa parli?»
«L’anello, l’anulare, l’anello… Marcel: non può esserci nessun anello tra noi.»
«Che vuoi dire? Stai delirando!»
«Non posso venire via con te, mi dispiace Marcel.»
«Cosa? Ma ormai sei a bordo, non puoi…»
«Adieu
 
E ormai succube di un delirio vertiginoso ho a malapena la lucidità per rendermi conto che la scaletta è stata allontanata dalla porta d’imbarco, che l’ancora sta per essere ritirata e che per fortuna i motori non sono ancora in funzione.
È solo questione di un fragile istante e il delirio è finalmente il mio solo ed unico Signore.
Con un salto fulmineo balzo sul parapetto e prima che una corsa di mani mi avvolga le gambe per tirarmi giù, io sono già giù.
Ma non dal loro lato.
 
Ed è un cadere rapido, quasi istantaneo.
Eppure nel mio delirio è così dilatato da sembrare senza fine, come se io in realtà fossi solo il soggetto di una fotografia, sorpreso sul baratro nell’istante esatto della caduta.
La mia caduta. La mia fluidamente brusca caduta.
E quando il mio corpo bacerà la superficie salmastra non fermerà ancora la sua discesa, ma continuerà a precipitare in un vuoto soffocante di acqua e sale.
Finché la forza della caduta stessa non lo respingerà di nuovo alla superficie.
 
Il mio Fallimento. Il mio brutalmente improvviso Fallimento, i cui semi già da tempo prosperavano nella mia anima.
E quando la mia coscienza impatterà sul fondo dell’Abisso, continuerà a scendere ancora un po’, fino a raggiungere le terre misteriose e oscure del sonno.
Poi sarà il Fallimento stesso a riportarmi alla luce della consapevolezza di ciò che ho scelto…
 


 

Paris, 9 Novembre 1989

 
 
Cara Me Stessa,
 
ti scrivo questa lettera per augurarti buon compleanno.
Ormai sei vecchia e sei entrata pienamente nella stagione fredda della tua vita e la neve già cade abbondante ad imbiancarti i capelli.
Le foglie secche dell’autunno ancora ti macchiano la pelle con tonalità di marrone, a volte più chiare e sfumate, a volte così scure e nette da sembrare disegnate con un pennarello.
Nuvole di pioggia hanno invaso da tempo i tuoi occhi, ma ora stillano solo grandine e neve.
E un vento secco ti ha inaridito l’anima e il ventre, come l’autunno inaridisce la terra e la rende brulla.
 
Guardare questo malinconico paesaggio di novembre ti riporta ogni anno con la mente a quel giorno lontano.
Quello in cui iniziò ufficialmente l’estate del tuo corpo e contemporaneamente l’autunno della tua anima.
Il giorno del tuo più grande Fallimento.
 
In questi 50 anni, ci hai rimuginato su spesso e hai trovato tutte le scuse possibili e immaginabili per giustificare la tua scelta: la paura, la guerra, l’amore per la tua famiglia, il rispetto per tuo padre, Marcel che non ti amava abbastanza, la povertà, l’ignoto, la mentalità retrograda e piena di codici e pregiudizi dell’epoca, le parole di tua nonna, il senso dell’obbedienza, il fatto che non lo amassi poi così tanto quell’uomo e chi più ne ha più ne metta.
 
Per anni hai continuato a cercare e a trovare tutte le spiegazioni e le giustificazioni del caso, fino ad arrivare ad ammettere di aver sbagliato, probabilmente, ma difendendoti dicendo che l’uomo ha il sacrosanto diritto di sbagliare, in quanto essere imperfetto e continuamente vittima di errori propri o altrui.
Beh, ad un’analisi poco accurata e superficiale quest’ultima sembra l’affermazione più autentica e ragionevole, ma, cara Me Stessa, io e te sappiamo perfettamente che è falsa.
 
Perché tu non hai commesso nessun errore, per il semplice fatto che non hai fatto nulla.
Ti sei semplicemente tirata indietro.
Quando ti sei trovata su quella nave, sospesa tra cielo e mare, ti si chiedeva di tentare, di metterti in gioco, di dimostrare qualcosa (a chi non lo so, forse proprio a te stessa).
Ma tu non hai dimostrato nulla.
In un lucido delirio di paura e debolezza hai rinunciato, sei scappata.
Non hai commesso nessun errore.
Ma non si può neanche dire il contrario, perché in effetti non hai fatto proprio niente.
 
Tranne segnare il passaggio all’autunno, lasciando cadere la prima foglia secca della stagione, senza fare nulla per trattenerla.
Sai, un giorno una vecchia professoressa di letteratura inglese m’insegnò che “autunno” si può dire non solo “autumn”, ma anche “fall” che tradotto letteralmente significa “caduta”.
Come il lento, vertiginoso cadere delle foglie sradicate dal vento e dall’età.
Come il tuo rapido tuffo a capofitto dal ponte della nave.
Come l’inesorabile precipitare nel tuo Fallimento.
 
Perché questo è stato: un Fallimento.
Del tipo più disonorevole e doloroso che ci sia: quello che non si ha avuto il coraggio di fare.
Proprio così: il tuo fallimento più grande è stato il non aver fallito, o meglio il non aver rischiato di fallire, assaporando per una volta il gusto dolceamaro di un bel sogno infranto.
 
Qualcuno ti dirà, invece, che hai fatto la scelta giusta, che se avessi scommesso e poi perso avresti sofferto moltissimo, sperimentando un dolore triste e amaro, uno di quelli che ti scavano un vuoto nel petto e ti tolgono i colori dal mondo.
Ma tu lo sai, cara Me Stessa, sai benissimo che non avresti potuto fare scelta peggiore.
 
Perché il rimpianto, in realtà, è un dolore più cupo del rimorso.
Perché il secondo ti lascia almeno la consapevolezza di aver osato, pur avendo fallito.
Ma con il primo si fallisce a priori e tutto ciò che rimane non è altro che un vuoto di vita nel ciclo della nostra esistenza e il dubbio che se avessimo avuto il coraggio di fare un tentativo, forse avremmo ottenuto qualcosa, se non quello che desideravamo, quantomeno un brivido di vita.
 
Con un certo senso di masochismo psicologico, hai fantasticato spesso su come sarebbe stato se invece avessi osato, quella volta.
Sembra una cosa banale e anche stupida, ma credo che sia normale avere questi pensieri, quando si è animati da un forte rimpianto.
E tuttavia è solo dolore in più che non porta assolutamente a nulla, perché non si può tornare indietro.
È una realtà talmente vera, da risultare scontata e molto banale da dire.
 
Eppure, per stupidità, ostinazione, falsa speranza, disperazione, nostalgia o chissà cos’altro, la gente continua a tentare di riavvolgere il tempo su sé stesso, nel proprio cuore, come se questo potesse annullare ogni errore e creare una realtà perfetta.
Ma è una realtà che non esiste.
E l’unica cosa che ci resta da fare è accettare di aver fallito nel peggiore dei modi e portarci appresso questa consapevolezza, materializzata come un vuoto interiore, per tutto il resto della nostra vita.
 
Ora gli impegni mi chiamano.
In attesa di una tua nuova lettera.
Con tutto l’affetto del mondo,
 
 

Jeanne

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