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Autore: LindaBaggins    03/03/2013    4 recensioni
Nel passato di Thorin Scudodiquercia non ci sono solo un regno e un tesoro perduti. Nel passato di Thorin Scudodiquercia c'è anche una ragazza, che gli era stata promessa in sposa e da cui la caduta di Erebor l'ha separato. Molti anni dopo, però, il passato tornerà a trovarlo, portandosi dietro complicazioni e vecchi segreti che il tempo non è riuscito a cancellare.
STORIA MOMENTANEAMENTE SOSPESA
Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio, Thorin Scudodiquercia
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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5.  SPIRAGLI DI LUCE

Elinor svoltò l’angolo e alzò gli occhi al cielo con un sospiro esasperato.
Era tornata esattamente nel punto in cui era già passata cinque minuti prima. E, a meno che non si sbagliasse di grosso, anche mezz’ora prima.  
Il suo proposito di trovare da sola i famosi Giardini Interni di Erebor – di cui persino gli Elfi, a BoscoVerde, non potevano fare a meno di lodare la bellezza – si stava rivelando un totale fallimento. Quel posto era un tale intrico di gallerie e corridoi, da somigliare più ad un labirinto che ad un palazzo reale. Per lei rimaneva ancora un mistero come i suoi abitanti riuscissero ad orientarsi in quel guazzabuglio di cunicoli, ai suoi occhi tutti identici l’uno all’altro, e l’unica conclusione a cui era giunta a forza di girare in tondo e ritrovarsi per svariate volte consecutive nello stesso posto, era che i Nani discendessero  - oltre che da Durin – da qualche misteriosa specie di talpa.
Il tuo prezioso senso dell’orientamento non ti sta aiutando granché, mi pare.
Elinor, anche se a malincuore, dovette ammettere che era vero. Era come se la capacità di ritrovare sempre la strada di casa, sviluppata tra gli Elfi Silvani in dieci anni di vita in mezzo ai boschi, fosse improvvisamente scomparsa, lasciando il posto solo ad un fastidioso e umiliante senso di confusione.
“E va bene, inutile continuare a negarlo: mi sono persa.”
Era decisamente ora di mettere da parte l’orgoglio e cercare qualcuno a cui chiedere quale fosse la strada giusta da prendere. Imboccò una svolta a caso e si incamminò per il corridoio, guardandosi intorno alla ricerca di qualche segno di presenza umana, ma gli unici Nani che ricambiarono il suo sguardo corrucciato furono quelli che campeggiavano, immobili, sugli arazzi e gli affreschi delle imponenti pareti di pietra.
“Possibile che siano spariti tutti quanti?”
Per quanto le stavano andando bene le cose in quegli ultimi giorni, era persino probabile che da un momento all’altro, con tutte le persone che avrebbe potuto incontrare, incappasse proprio in Thorin… Elinor cercò di immaginarsi il ghigno di soddisfazione che si sarebbe dipinto sul suo viso quando si fosse reso conto che era in difficoltà, e, quasi senza rendersene conto, piegò le labbra in una smorfia.
Quando, la sera prima, era tornata nella sala del banchetto, Thorin si era limitato ad ignorarla e a fissare ostentatamente da un’altra parte mentre lei, ritrovata una parvenza di buonumore, si lasciava guidare da Balin nelle danze. Dopo nemmeno un’ora, il principe aveva bisbigliato brevemente qualcosa nell’orecchio di Dwalin e poi aveva lasciato la sala senza volgere intorno lo sguardo. Da allora Elinor non l’aveva ancora rivisto, e in cuor suo sperava che ciò accadesse il più tardi possibile: non era del tutto sicura di riuscire a sopportare a così breve distanza di tempo altri sguardi carichi di disprezzo e altre invettive nei suoi confronti. Balin aveva ragione: dato che scuse e suppliche sembravano non avere altro effetto che aumentare ancora di più la sua rabbia, la soluzione migliore era probabilmente aspettare che le acque si fossero calmate. In ogni modo, per quanto si augurasse di dover di nuovo avere a che fare con Thorin il più tardi possibile, doveva farsi una ragione del fatto che presto o tardi sarebbe accaduto.  E non poteva essere altrimenti, dato che il suo soggiorno ad Erebor aveva tutta l’aria di doversi prolungare più del previsto.
«Ho concordato con Thràin che sarebbe opportuno che tu rimanessi qui ad Erebor per qualche giorno, in modo da riuscire ad… ambientarti meglio» le aveva riferito suo padre quella mattina, sottolineando la parola ambientarti con una lieve pausa e un’alzata di sopracciglia. Elinor aveva annuito stancamente, comprendendo senza difficoltà quale fosse l’intento di suo padre nel farla rimanere, e accettando la sua volontà senza obiettare. Era inutile pensare a quanto le sarebbe stato di sollievo tornarsene a Esgaroth almeno per qualche giorno, per riorganizzare le idee e prepararsi psicologicamente al prossimo incontro con Thorin: era stata gettata in mezzo a quella situazione come in una vasca di acqua fredda, e adesso non poteva fare altro che tenersi a galla e nuotare, sperando di fare del suo meglio e non annegare nel tentativo.
«Io e Uren torneremo di tanto in tanto per avere notizie» aveva aggiunto il governatore fissandola intensamente. «Non deludermi, Elinor, ti prego.»
E poi, dopo averla sfiorata con un rapido e sbrigativo bacio sulla fronte, era uscito dalla sua stanza. Elinor era rimasta seduta sul bordo del letto, ancora spettinata e in veste da camera, cercando di capire se il pensiero di ricevere periodiche visite dalle uniche persone che fossero a conoscenza del suo compito le procurasse più ansia o sollievo. Ancora annebbiata dal sonno, contemplò per diversi secondi, la sensazione di panico che le si andava allargando all’altezza della pancia, minacciando di coinvolgere in breve tempo ogni singola cellula del suo corpo e farle perdere il controllo di sé. Poi, come affiorando da una densa foschia, i piccoli occhi scuri di Uren, scintillanti di perfidia e desiderio, le balzarono davanti, ed Elinor scattò in piedi come punta da un’ape. Suo padre era un uomo volubile e, quando veniva contrariato su quelli che considerava argomenti e situazioni di vitale importanza, anche piuttosto dispotico. Quello che la ragazza temeva più di ogni altra cosa era che, se si fosse dimostrata troppo incerta, tentennante o timorosa, Eevar avrebbe potuto considerarla debole o inadatta a quel compito, ed esonerarla dal suo piano, facendo così cadere anche la sua promessa di lasciarle sposare chi voleva. Decisamente, non c’era più tempo per lasciarsi sopraffare dallo sconforto.
Era scesa ai piani inferiori spinta dal brontolio dello stomaco, pensando distrattamente a come riempire quella sua prima giornata ad Erebor ed alleviare il senso di oppressione che le stava mordendo le viscere, quando la sua mente, all’improvviso, era tornata ad uno stralcio di conversazione tra due Elfi catturato per caso a BoscoVerde, anni prima.
“Si possono dire molte cose, sui Nani, ma non che non sappiano apprezzare la bellezza: i Giardini Interni di Erebor sono tra le più meravigliose creazioni che la Terra di Mezzo abbia mai visto.”
Elinor era solo una ragazzina quando aveva udito queste parole, ma da allora la curiosità di vedere con i suoi occhi i Giardini Interni del regno dei Nani - quel bizzarro e misterioso popolo che, fin da piccola, le era sempre stato ripetuto essere anche il suo – non l’aveva mai abbandonata. Così, andare alla loro ricerca le era parsa una buona idea per distendere i suoi nervi tesi come la corda di un arco. Aveva con sé il libro sulla storia dei Nani che aveva trovato nella biblioteca della casa di suo padre, a Esgaroth, e la sua intenzione era trascorrere la mattinata a leggere seduta all’ombra di un maestoso albero, o distesa sul prato, o passeggiando lungo un viottolo. Un proposito che, adesso cominciava a rendersene conto, sembrava molto meno realizzabile di quanto avrebbe pensato.
Stava giusto rassegnandosi all’idea di tornare nelle sue stanze – realizzando, un secondo dopo, che non aveva idea di come tornare alle sue stanze – quando, in fondo ad un maestoso corridoio decorato con splendidi arazzi raffiguranti la presa delle Montagne Nebbiose e la fondazione di Khazad-dûm, comparve una tozza figura vestita di rosso cupo, che procedeva con passo dondolante con le mani giunte dietro la schiena. Il volto di Elinor si rischiarò di sollievo, quando si rese conto che si trattava di Balin.
«Oh, Elinor!» esclamò il Nano in tono cordiale, vedendola venirgli incontro. «Che piacere rivedervi così presto! Non mi aspettavo di trovarvi già in piedi.»
«Intendevo visitare i vostri Giardini Interni, in realtà» rispose Elinor quando l’ebbe raggiunto, arrossendo leggermente. «Ma temo proprio di non riuscire a trovare la strada per arrivarci.»
Balin sorrise bonariamente sotto il grosso naso. «Beh, a questo problema possiamo porre rimedio assai facilmente, perché sarò lieto di accompagnarvi di persona.»
«Vi ringrazio» rispose Elinor sospirando di sollievo. «Mi sento una tale stupida, pensavo di riuscire da sola a…»
«Orientarsi, qui ad Erebor, è molto difficile anche per chi ci vive ormai da molti anni» la interruppe gentilmente Balin, mentre le porgeva il braccio e si incamminavano insieme verso la direzione da cui Elinor era appena arrivata. «Persino io, a volte, mi ritrovo in zone del palazzo di cui ignoravo completamente l’esistenza.»
La ragazza scoppiò a ridere. «Spero soltanto di non darvi troppo disturbo. Non vorrei distogliervi da altri impegni…»
«In realtà dovrei soltanto passare dalle fucine per riferire una cosa a mio fratello Dwalin. Ma non preoccupatevi» si affrettò ad aggiungere Balin quando Elinor fece per tirarsi indietro, timorosa di essere di peso «mi farà piacere avere un po’ di compagnia lungo il tragitto.»
Fu, in effetti, una passeggiata molto gradevole. Balin si disse curioso di conoscere le sue impressioni riguardo alla sua (finora) breve permanenza ad Erebor, ed Elinor, evitando accuratamente di parlare di Thorin, rispose in modo del tutto sincero di esserne rimasta piacevolmente sorpresa.
«Non avrei mai creduto di potermi sentire subito così… a mio agio.»
Per un attimo era stata tentata di dire “a casa”, ma una sorta di cinica prudenza le fermò le parole sulle labbra, sostituendole con altre più fredde e composte.
Distacco. Doveva mantenersi distaccata, se voleva conservare il sangue freddo in quella faccenda. I Nani potevano anche essere la sua gente, tecnicamente, ma Erebor non era la sua casa. Per quanto il cibo fosse buono, la gente cordiale e l’atmosfera rilassata, tutte queste cose dovevano avere peso, per lei, nella misura in cui riusciva a sfruttarle per raggiungere il proprio scopo. Non poteva assolutamente permettersi di affezionarsi a nulla di tutto ciò. Esgaroth era la sua casa. Era per garantire la sua prosperità che si trovava lì, per garantire il suo futuro… oltre che il proprio.
«Questo mi rallegra moltissimo» stava dicendo Balin nel frattempo. «Spesso, tra gli altri popoli della Terra di Mezzo c’è la tendenza a considerare noi Nani come creature piuttosto… calcolatrici.»
La leggera esitazione e il suo breve sorriso tirato fecero intuire ad Elinor quanti e quali fossero, in realtà, i commenti che di solito si spendevano a proposito del popolo di Durin. E, del resto, non li conosceva benissimo anche lei, cresciuta per metà della sua vita tra gli Uomini e per l’altra metà tra gli Elfi? Non aveva colto più di una volta, a BoscoVerde, sussurri riguardanti il cinismo, il materialismo, il temperamento collerico e sospettoso dei Nani, subito messi a tacere quando ci si accorgeva che lei stava ascoltando, per non urtare la sua sensibilità e non mancare di rispetto al suo popolo? Non aveva assistito più di una volta, a Esgaroth, agli sfoghi irati di suo padre contro re Thròr, a suo dire così altezzoso nei suoi confronti soltanto in virtù di quella montagna d’oro e di gioielli che aveva avuto la fortuna di ritrovarsi tra le mani?
«Non nego che, quando sono arrivata ad Erebor, mi aspettavo qualcosa di un po’ diverso» disse Elinor con un sorriso altrettanto imbarazzato. «Ma direi che per adesso, a parte qualche piccola eccezione, le mie aspettative sono rimaste deluse… in positivo.»
Era un commento molto cortese, detto da una che, appena arrivata, per prima cosa aveva sperimentato sulla sua pelle la collera del principe dei Nani. Balin parve accorgersene, perché le dette degli affettuosi buffetti sulla mano stretta intorno al suo braccio, sorridendo. «Siete molto gentile, Elinor. Vorrei che Thorin potesse vedere questo lato di voi.»
Elinor distolse lo sguardo. Avrebbe preferito non parlare di nuovo di quell’argomento: la metteva a disagio, e le ricordava quanto ancora fosse lontana dal suo obiettivo.
«Ieri sera ho tentato di mostrarglielo, ma purtroppo non  me ne ha dato modo» mormorò riluttante. «Suppongo di meritarmelo, comunque. Ho detto delle cose davvero poco piacevoli riguardo ad Erebor…»
«Mettiamola così» concesse Balin. «Avreste potuto evitare di calcare troppo la mano, ma il vostro nervosismo era comprensibile, date le circostanze. Non vi angustiate troppo, mia cara» aggiunse in tono confidenziale. «Un passo falso può capitare a tutti, soprattutto nelle situazioni più difficili.»
Non a me. Io non posso permettermi di fare passi falsi.
La ragazza sorrise, nascondendo alla perfezione dietro uno sguardo pieno di gratitudine i burrascosi pensieri che le si agitavano in testa, senza sapere come rispondere alla gentile affermazione del Nano.
Per fortuna l’incombenza le fu risparmiata, perché erano appena arrivati alla grande scalinata di pietra che, come le spiegò Balin, portava direttamente all’entrata delle miniere e delle fucine.
«Potete aspettarmi qui, se non volete scendere anche voi giù alle forge» le disse il Nano. «Non ci metterò molto. La campana del pranzo è vicina, e tutti staranno per uscire.»
«Oh, no!» si affrettò a rispondere Elinor. «Mi piacerebbe molto accompagnarvi! Davvero,» aggiunse davanti all’espressione incerta di Balin «sono curiosa di vedere le celebri fucine di Erebor. Io… ecco… ho una certa passione per… spade… armi… e cose del genere.»
Aveva concluso al frase con voce sempre più flebile, fissando il pavimento e persino arrossendo leggermente. Suo padre, da quando era tornata a Esgaroth dal Reame Boscoso, non aveva fatto altro che rimproverarla per la sua inclinazione a combattere e cavalcare, piuttosto che a ricamare, pettinarsi e cantare con voce da usignolo. Si era messo in testa la bizzarra idea che nessuno l’avrebbe voluta prendere in moglie se non si decideva a dedicarsi ad attività un po’ più femminili. Così, ancora una volta per accontentarlo e non aggiungere ulteriori pensieri a quella mente già troppo annebbiata dal dolore di una perdita, Elinor si era impegnata a soffocare quell’inclinazione che, invece, gli Elfi avevano fatto di tutto per incoraggiare. Era arrivata davvero a credere che, fuori da BoscoVerde, imparare a combattere fosse un’occupazione disonorevole per una donna; e, del resto, non aveva mai avuto intorno a sé esempi che le dimostrassero il contrario. La sua mente andò, con nostalgia mista a senso di colpa, all’elegante arco di foggia elfica rimasto, per ferrea volontà di suo padre, nella sua stanza ad Esgaroth.
Fu, quindi, con estremo timore che rialzò lo sguardo su Balin, come se si aspettasse un rimprovero o uno sguardo di disapprovazione da parte sua. Ma fu con sua somma sorpresa che, invece, si accorse che le stava sorridendo.
«In questo caso, mia lady, credo che vi troviate nel posto giusto» disse il Nano con un piccolo inchino. «Se volete seguirmi…»
E porgendole di nuovo il braccio, che la ragazza accettò con frastornata sorpresa, la condusse giù per la larga scalinata. Elinor, reggendosi l’orlo della veste per non inciampare, sentì la pelle d’oca impossessarsi delle sue spalle nude, quando avvertì che, mano a meno che scendevano, anche la temperatura diminuiva sensibilmente.
«Non preoccupatevi» disse Balin in tono divertito, notando il brivido che le era corso lungo la schiena. «Non avrete freddo ancora per molto: tra un momento, questa scala vi sembrerà un vero paradiso, rispetto a quello che troverete lì dietro.»
Così dicendo, le indicò una delle due porte che si aprivano, una davanti all’altra, rispettivamente a destra e a sinistra dell’ultimo gradino della scalinata. Nella parete di fondo tra le due porte, incastonata in una nicchia di pietra concava, stava un’enorme campana di bronzo con un batacchio grosso quanto il ramo di un piccolo albero.
«Di solito è meglio non trovarsi qui davanti, quando vengono annunciati il pranzo e la fine della giornata di lavoro» spiegò Balin, accennando con una strizzata d’occhio al colosso ancora immobile. «Non si diventerà sordi, ma di sicuro si rimane rimbambiti per un bel po’.»
Elinor si stava giusto chiedendo se c’era qualcos’altro di cui doveva preoccuparsi, oltre a rischiare di morire asfissiata e di perdere l’udito, quando finalmente la scalinata terminò, e il Nano la condusse fino alla porta alla loro sinistra. Un’iscrizione in rune incisa sull’arcata di pietra sovrastante avvertiva (a meno che le scarse nozioni di nanico antico impartitele anni prima a BoscoVerde non la ingannassero) che si trovavano proprio di fronte all’entrata delle fucine di Erebor.
«Sarà meglio che vi copriate naso e bocca, per i primi istanti» la avvertì Balin poggiando al mano su uno degli enormi battenti. «Almeno finché non vi abituate …»
Elinor non fece in tempo a chiedere “Abituarmi a che cosa?”, che il Nano tirò verso di sé il pesante portone di quercia.
La prima cosa che la ragazza avvertì non appena le porte si schiusero, fu una repentina e tremenda vampa di calore che si sprigionò dall’interno e che la investì in pieno come un’ondata, facendola barcollare e costringendola a strizzare gli occhi, improvvisamente trasformatisi in due palle di fuoco. Il contrasto con l’aria gelida del corridoio di pietra all’esterno era impressionante, ed Elinor capì immediatamente a cosa si riferisse Balin riguardo all’abituarsi.
La seconda cosa che la colpì, fu l’assordante rumore di decine e decine di martelli che picchiavano incessantemente su altrettante incudini, rimbombando in un’eco sorda e rendendo impossibile udirsi persino a pochi centimetri di distanza l’uno dall’altro.
«Che cosa?» gridò infatti Elinor cercando di sovrastare il frastuono, vedendo che Balin muoveva le labbra e le faceva cenno con la testa.
«Venite dietro a me!» riuscì a rispondere il Nano dopo due o tre tentativi, avvicinandosi il più possibile all’orecchio di lei. La ragazza annuì e, dopo, aver richiuso il portone alle loro spalle, lo seguì obbediente per una stretta scala dai gradini irregolari e consumati, scavata proprio lungo la parete di pietra, che scendeva giù fino a raggiungere i Nani che lavoravano nella fucina. Rischiò un paio di volte di inciampare e cadere di sotto, troppo impegnata com’era ad ammirare, con il naso all’insù e la bocca spalancata per la meraviglia, lo stupefacente luogo in cui Balin l’aveva condotta.
Si trovavano nel cuore della Montagna Solitaria, all’interno di un’enorme locale scavato nella roccia che si estendeva a perdita d’occhio sia in larghezza che in altezza.
Al centro della sala troneggiava un gigantesco braciere di almeno quindici piedi di diametro, tra le cui fiamme guizzanti venivano di tanto in tanto immersi i pezzi di metallo per farli arroventare. Tutto intorno al fuoco centrale, i volti anneriti dal fumo e le barbe arricciate per il caldo e l’umidità, lavoravano i Nani. Elinor scorse, sulla destra, il settore dei gioiellieri, che, muniti di pinze, scalpelli e lime, sceglievano le pietre grezze da mucchi di migliaia di altre e davano loro forma, per poi incastonarle negli oggetti più svariati.
Sulla sinistra, invece, c’erano i fabbri. Con grembiuli di cuoio legati intorno al collo e ai fianchi, picchiavano colpi di maestosa potenza con i martelli, riuniti intorno alle incudini a gruppi di due, tre, persino quattro Nani, dando forma a spade, elmi, scudi e armature. Elinor non potè fare a meno di pensare a come suo padre avrebbe storto il naso di fronte a quelle armi, di foggia indiscutibilmente meno raffinata rispetto a quella elegante e armoniosa di fattura elfica. Ad Elinor, invece, non dispiacevano. Forse perché sapeva che la validità e la bellezza delle armi elfiche erano dovute, in buona parte, anche alla magia che veniva usata per lavorarle, mentre per una buona spada nanica bisognava ringraziare solo e soltanto la perizia del fabbro che l’aveva forgiata. O, forse, semplicemente, perché quella piccola goccia di sangue nano che le scorreva nelle vene stava iniziando a farle vedere con occhi diversi i frutti della stirpe di Durin…
Sorrise appena, a questo pensiero, sconcertata dall’ironia della cosa e chiedendosi cosa avrebbe detto Thorin se avesse potuto leggerle nel pensiero adesso. Ma il sorriso le morì sulle labbra, quando, a pochi metri di distanza, scorse proprio il principe dei Nani, che picchiava furiosamente il martello su una spada dall’impugnatura spessa quanto il suo braccio. Come accidenti aveva fatto a non pensare che, con buone probabilità, alle fucine avrebbe trovato anche lui? Eppure conosceva benissimo la sua fama di abile fabbro, oltre che di promettente guerriero … Era stata così sollevata, di non averlo ancora incontrato, quella mattina! Adesso, invece, come beffata da uno scherzo maligno della sorte, se lo ritrovava davanti, e a giudicare dal modo in cui stava picchiando su quella spada, doveva essere ancora molto arrabbiato per quello che era successo il giorno prima …
Vide i muscoli dei suoi poderosi bicipiti nudi contrarsi ritmicamente ad ogni colpo, e quelli del torace, ben visibili sotto al camicia leggera e il grembiule di cuoio, danzare al ritmo della musica del metallo contro il metallo. Distolse lo sguardo, come se fosse stata sorpresa a fare qualcosa di proibito. Una sorda e fastidiosa sensazione di imbarazzo divampava lentamente nel suo petto, andando ad imporporarle la faccia e le orecchie e rendendole a un tratto difficile respirare regolarmente. Doveva essere il caldo, si ripeté nervosamente, mentre insieme a Balin scendeva con cautela gli ultimi gradini. Forse, se si fosse voltata e avesse risalito le scale adesso, non si sarebbe mai accorto della sua presenza…
Finì di formulare questo pensiero troppo tardi: proprio in quel momento, Thorin aveva alzato casualmente lo sguardo dal suo lavoro, passandosi l’avambraccio sulla fronte madida di sudore, e li aveva visti. Fu come se sul suo viso, finora solo leggermente corrucciato per la concentrazione, passasse un’oscura nube temporalesca: i suoi occhi chiari, messi ancora più in risalto dalla fuliggine che gli anneriva la faccia, si strinsero in un’espressione di sfida, fulminando prima lei e poi Balin.
Fu proprio mentre Elinor cercava di sostenere il suo sguardo e mantenere quanto più possibile la sua compostezza, che la campana del pranzo suonò, rimbombando nella sala e sovrastando qualsiasi altro rumore. Immediatamente, tutti i Nani deposero i loro strumenti e, dopo essersi sfilati i grembiuli da lavoro, cominciarono a dirigersi verso l’uscita chiacchierando a mezza voce tra di loro. Alcuni, passando accanto ad Elinor e riconoscendola, chinarono brevemente la testa in un saluto.
La ragazza attese pazientemente al fianco di Balin che Dwalin comparisse nel mare di teste e di barbe scure, mentre, di sottecchi, sbirciava Thorin avvicinarsi sempre di più. Non c’era modo di evitare l’incontro: la scala da cui erano appena scesi era l’unica via che conducesse fuori dalla forgia, e il Nano doveva passare per forza di lì.
«Salute, Thorin!» esclamò allegramente Balin quando il principe si fermò di fronte a loro, senza badare agli sguardi omicidi che questi rivolgeva ad Elinor e a quelli di cupa rassegnazione che la ragazza rivolgeva al pavimento. «Sono venuto a cercare Dwalin, sai per caso dove sia?»
«L’ho intravisto laggiù in fondo, poco fa» rispose Thorin in tono freddo, senza staccare gli occhi da Elinor. «Lei che cosa ci fa qui?»
Elinor si sentì scossa da un moto di fastidio. Quel modo di Thorin di trattarla come se non fosse in grado di rispondere da sola sapeva di deliberata offesa …
«Oh, Elinor si è gentilmente offerta di accompagnarmi!» rispose Balin prima che la ragazza potesse prendere fiato per una risposta tagliente. «E io, da parte mia, le ho promesso di condurla ai nostri Giardini Interni. Pare che desideri molto vederli!»
Thorin piegò un angolo della bocca in un sogghigno. «Sì, posso immaginare il suo interesse» mormorò in tono sarcastico. Poi, dopo una breve pausa, aggiunse tornando alla sua usuale freddezza: «Ho saputo che vostro padre è tornato ad Esgaroth questa mattina. A quanto pare, vi tratterrete da noi più del previsto…»
Elinor, facendosi forza, alzò finalmente lo sguardo da terra. «Così sembra» si limitò a rispondere, in tono secco.
«Immagino il vostro entusiasmo» replicò Thorin con uno sbuffo ironico. «Adesso, se volete scusarmi, desidero andare a mettere qualcosa sotto i denti, prima che la campana suoni di nuovo.»
E, rivolgendo solo un breve cenno di saluto a Balin, li oltrepassò sfiorando Elinor con una spallata carica di sfida. La ragazza rimase a guardarlo salire le scale due a due, sconcertata dalla sua palese scortesia. L’indignazione le ribolliva dentro a tal punto, che non si stupì di sentire la proprie mani iniziare a tremare.
Era rabbia per essere stata trattata in quel modo nonostante i suoi tentativi di scusarsi, certo. Ma era anche impotente frustrazione: ogni secondo che Thorin passava arrabbiato, lo allontanava sempre più da lei; e più Thorin si allontanava da lei, più le possibilità di raggiungere il suo scopo sfumavano all’orizzonte.
Non deludermi, Elinor, ti prego.
Le sembrava che ogni minuto fosse di vitale importanza. Se avesse dato retta al suo istinto, sarebbe corsa su per le scale, avrebbe raggiunto Throin e l’avrebbe pregato, l’avrebbe supplicato di ricucire quello strappo tra loro due. Si sarebbe gettata in ginocchio, se fosse stato necessario. Il suo orgoglio non si sarebbe più ripreso, ma almeno non sarebbe finita con lo sposare Uren…
Per fortuna, Elinor aveva da tempo imparato a tenere a bada l’istinto. Dominare l’impulsività ed esercitare la sublime arte della pazienza era stata la prima cosa che le avevano insegnato gli Elfi.
Così, vinse la ragione. Respirando profondamente per riacquistare il dominio di sé, Elinor si ripetè nella testa quello che Balin le aveva detto la sera prima: doveva solo avere pazienza, e aspettare… Con il tempo (e un po’ di fortuna), probabilmente Thorin si sarebbe ammorbidito…
«Sì, Thràin ha richiesto la nostra presenza a cena, questa sera…» sentì parlottare Balin, qualche metro più in là. Ancora frastornata, Elinor si voltò nella sua direzione, e si accorse che Dwalin li aveva finalmente raggiunti. Quando si accorse che lo stava osservando, il Nano le scoccò uno sguardo diffidente, per poi rimettersi ad ascoltare Balin, annuendo ed emettendo di tanto in tanto brevi grugniti di assenso.
“Meraviglioso!” penso Elinor, con un sospiro rassegnato. “A quanto pare, Thorin ha intenzione di aizzarmi contro anche il suo migliore amico!”
Era una fortuna che almeno Balin fosse dalla sua parte…
Quando Dwalin, una volta conclusa la conversazione con il fratello, le passò accanto per dirigersi verso l’uscita, Elinor si premurò di mantenere lo sguardo ben fisso a terra, e finse di ignorare lo sbuffo di disapprovazione, simile a quello di un cinghiale in procinto di attaccare, emesso dal Nano. Fu un sollievo quando la tozza e ruvida mano di Balin le si posò sul braccio.
«Elinor, possiamo andare, se volete.»
La ragazza piegò le labbra in quello che doveva essere un sorriso allegro, e si affrettò ad esprimere il suo assenso nel tono più vivace possibile. Lo sguardo mortificato che Balin le lanciò le fece capire di non essere nemmeno lontanamente riuscita a convincerlo, ma il Nano ebbe il tatto di non dirle nulla, e le porse di nuovo il braccio per risalire la scala.
Fu una silenziosa ascesa in superficie, durante la quale nessuno dei due disse una parola. Il Nano si limitava a lanciarle brevi occhiate dispiaciute, mentre Elinor non riusciva a smettere di rimuginare disperatamente sulla momentanea irrimediabilità della sua situazione. Avvertiva un impulso irrefrenabile a fare qualcosa per ricucire la frattura fra lei e Thorin, ma allo stesso tempo non aveva la minima idea di come comportarsi, se non portare pazienza come Balin le aveva consigliato. Non seppe come riuscì a rimanere apparentemente imperturbabile mentre, dentro di sé, sentiva un urgente bisogno di mettersi a urlare per alleviare la tremenda pressione che sentiva da ogni parte; fatto sta che, dopo quelli che le parvero solo pochi minuti (ma che, come scoprì in seguito, era stato in realtà un buon quarto d’ora), si ritrovò davanti ad un altissimo portone di legno scuro, senza avere la minima idea di come ci era arrivata. Ebbe appena il tempo di intravedere il sorriso fugace che Balin le rivolse, prima che il Nano afferrasse i due enormi battenti di ottone e li tirasse verso di sé.
«I Giardini Interni di Erebor, mia lady» annunciò Balin con voce scherzosamente cerimoniosa, spalancando le porte. «Spero che siano come li avevate immaginati.»
Per Elinor fu impossibile rispondere subito: la bellezza di quello che le era comparso davanti aveva momentaneamente annullato la sua capacità di pensare a qualsiasi altra cosa, per non parlare di pronunciare frasi di senso compiuto.
Nel palazzo reale di erebor non esistevano finestre: a parte qualche terrazza che si affacciava sul fianco della Montagna Solitaria, i Nani vivevano esclusivamente sottoterra, nella penombra, e l’unica fonte di luce erano le torce e i bracieri dissemintati in ogni sala e in ogni corridoio. Fu perciò una sorpresa, per Elinor, sentirsi colpire dalla luce del sole quando il portone venne spalancato. Quando finalmente riuscì ad abituare gli occhi, capì perché venivano chiamati Giardini Interni, e anche perché la loro bellezza fosse celebre in tutta la Terra di Mezzo.
Incuneati tra due picchi della Montagna e costruiti su una sporgenza rocciosa simile ad una chiglia di nave delimitata soltanto da una bassa balaustra di pietra, i Giardini guardavano a nord-ovest, verso le Montagne Grigie e la parte nord di BoscoVerde, offrendo un panorama che mozzò ad Elinor il respiro. Tutto intorno a lei, sinuosi viottoli lastricati con pietre rese lisce e tondeggianti dal tempo si intrecciavano come piccoli ruscelli tra ampie aiuole di erba verde, all’interno delle quali si innalzavano, confondendo tra loro i rami e le chiome, alberi secolari dal tronco talmente grosso che Elinor e Balin insieme non sarebbero riusciti ad abbracciarlo. E all’interno delle aiuole più grandi, c’erano altre aiuole più piccole di fiori dalle forme e dai colori più disparati, su cui ronzavano api vivaci e grossi bombi pigri.
Pace.
Fu questa la parola che sopravvenne alla mente di Elinor mentre si guardava intorno estasiata.
Pace e tranquillità.
Senza rendersene conto, si ritrovò a sorridere. Nemmeno i pensieri più spiacevoli, nemmeno l’umore peggiore potevano impedirle di godere di quella bellezza. Si sentiva come una bambina a cui, dopo giorni e giorni passati in castigo in camera sua, veniva finalmente permesso di uscire all’aperto. Si voltò verso Balin, gli occhi lucidi.
«Sono … meravigliosi. Dico davvero.»
Il Nano sorrise e le porse nuovamente il braccio. Insieme, si incamminarono per i viottoli acciottolati, passando accanto a Nane sedute sulle panchine e intente al ricamo, e a Nani giardinieri impegnati a curare le aiuole fiorite con zappa e rastrello.
«Mi dispiace per quello che è successo giù alla forgia» le disse Balin con un sospiro. «Speravo che la sua rabbia si fosse placata e riuscisse a sopportare la vostra presenta senza mettervi a disagio.»
«Non preoccupatevi» rispose Elinor, con un mesto sorriso e un’alzata di spalle. «E’ stata colpa mia. Avrei dovuto aspettarmi di trovarlo lì. Sarebbe stato molto meglio se avessi aspettato fuori.»
«Forse. Però, almeno, avete avuto l’occasione di visitare anche le nostre fucine» osservò Balin con un sorriso che Elinor non potè fare a meno di ricambiare.
«Questo è vero» concesse. «E sono felice di aver avuto questa fortuna. Qui è tutto così … sorprendente.»
Un luccichìo divertito balenò per un attimo negli occhi del Nano. «Sono felice che stiate cambiando opinione su Erebor, rispetto a ieri. Spero che, se non smetterà di essere una prigione, diventerà almeno uan prigione gradevole.»
Elinor arrossì violentemente, ripensando alla spiacevole conversazione con Thorin del pomeriggio precedente. Non si stupì che Balin ne fosse a conoscenza: Thorin doveva sicuramente avergliene parlato; per quanto ne sapeva, erano in rapporti molto stretti.
«Mi dispiace per quello che ho detto ieri» mormorò. E le dispiaceva sul serio. Per quanto fosse in parte vero che i Nani vivessero prevalentemente sottoterra e preferissero i bui cunicoli di una miniera alla luce del giorno, non si poteva certo dire che Erebor somigliasse davvero ad una prigione. Quei meravigliosi Giardini Interni erano lì a dimostrarlo, senza contare che, sporgendosi dalla balaustra di pietra e guardando in basso, era possibile scorgere, ai piedi della Montagna, un vasto campo di addestramento per guerrieri Nani.
«Tutto ciò che posso dire a mia discolpa, come ho già provato a far presente a Thorin, è che ieri pomeriggio ero molto nervosa» continuò. «Ho detto cose che in quel momento pensavo davvero, ma che avrei dovuto prima verificare con i miei occhi. Così sono riuscita a creare solo un sacco di trambusto, e … e mi dispiacerebbe se questo vanificasse gli sforzi diplomatici compiuti da Thràin e da mio padre.»
“E mi dispiacerebbe anche vanificare gli sforzi che ho fatto io per non essere costretta a diventare la moglie di Uren …”
«Oh, io non mi preoccuperei di questo» stava dicendo intanto Balin. «Per quanto possa essere arrabbiato, Thorin sa benissimo quali sono le sue responsabilità verso il suo regno. Sarà anche collerico, ma è un Nano di parola. Un vero erede di Durin.» Alzò lo sguardo su di lei e le sorrise con fare rassicurante. «Ha solo bisogno di calmarsi un po’, e di abituarsi a questa nuova situazione. Di abituarsi a voi.»
Elinor sospirò e alzò gli occhi al cielo, scettica. Riuscire ad immaginarsi Thorin che si abituava a lei, era più o meno come riuscire ad immaginarsi un Orco che prendeva un’arpa e iniziava a cantare …
«Non siate così pessimista» la redarguì gentilmente Balin. «Per adesso non ho visto nulla, in voi, che non fosse piacevole, cortese e degno della più sincera stima. Forse potrei sbagliarmi, ma sono pronto a scommettere la mia barba che anche Throin, presto o tardi, imparerà ad apprezzarvi.»
Elinor stiracchiò le labbra in un sorriso e balbettò dei confusi ringraziamenti, cercando di nascondere come poteva la morsa di vergogna che le stava artigliando lo stomaco, imporporandole le guance. Sentire Balin rivolgerle quelle parole piene di fiducia, gentilezza e ammirazione, e sapere che di lì a poco avrebbe dovuto tradirlo insieme al resto del suo popolo, le faceva provare a tal punto nausea di se stessa, che per un attimo le parve di vedere i Giardini Interni vorticarle intorno in sfocate e confuse chiazze verdi, azzurre, rosse e gialle.
«Elinor! Vi sentite bene, mia cara?» chiese Balin spaventato, sentendola barcollare e aggrapparsi al suo braccio con più forza. «Siete diventata pallida come un lenzuolo …»
«Sì» esalò Elinor, madida di sudore, cercando di riacquistare il controllo di sé. «Sì, sto bene. Devo aver mangiato troppo poco a colazione, e questo caldo …»
In effetti, sebbene la primavera fosse cominciata solo da qualche settimana, un sole accecante sfolgorava su Erebor, e l’altitudine a cui si trovavano faceva sì che i suoi raggi picchiassero sulle loro teste con maggior violenza. Questo contribuì a rendere la sua scusa un po’ più credibile, ma non ad attenuare il senso di colpa che la stava rimescolando nel profondo. Era consapevole di dover stringere amicizia con persone che sapeva di dover deludere e tradire, era consapevole di quanto questo fosse crudele per se stessa e per gli altri. Ma quello stesso egoismo che l’aveva spinta a prendere parte al piano di suo padre, adesso le faceva accettare la gentilezza e l’amicizia di Balin avidamente, come fossero boccate di aria fresca in mezzo a tutta la pressione che avvertiva da ogni parte.
«Per i Valar, ma allora avete bisogno di fermarvi un po’!» esclamò Balin, scrutandola preoccupato e conducendola verso una delle panchine di pietra disposte lungo il vialetto, all’ombra di una grossa quercia. «Venite, venite a sedervi qua!»
Elinor si lasciò cadere sulla panchina, gli occhi chiusi, cercando di riportare il respiro ad un ritmo regolare. Quasi non sentiva i rumori intorno a lei, a causa del frastuono dei pensieri che le affollavano la mente.
«Voi … voi siete così buono con me» mormorò Elinor, passandosi una mano sulla fronte. «Mi dispiace … »
Balin la guardò, sorpreso. «Vi dispiace?» rise. «Per che cosa?»
Fu come se qualcuno avesse messo a tacere il rumore dentro la sua testa. Gli uccelli erano tornati improvvisamente a cantare, le fronde degli alberi a stormire al vento leggero, i rastrelli dei giardinieri a raspare pigramente sulla terra smossa. Elinor, recuperati la freddezza e l’autocontrollo, realizzò di aver parlato senza rendersene conto, seguendo il corso dei suoi pensieri e delle sue sensazioni, e che quel “mi dispiace” era riferito a molte cose, tutte decisamente troppo complicate per poterle spiegare senza che ci fossero spiacevoli conseguenze. Decise, perciò, di scegliere quella più semplice e meno compromettente, per poter rispondere a Balin raccontando almeno una parte di verità. Non si meritava una bugia, in fondo …
«Mi dispiace … mi dispiace se adesso il vostro rapporto con Thorin sarà compromesso a causa mia» rispose fissandosi le mani, intrecciate sul libro che si era poggiata in grembo. «Non vorrei che si fosse arrabbiato anche con voi perché mi aiutate e mi dimostrate amicizia.»
Il Nano rimase qualche istante in silenzio, poi sorrise e le prese la mano. «Non dovete preoccuparvi di questo, Elinor. Come vi dicevo ieri sera, conosco Thorin da quando è nato. Ho visto sia lui che i suoi fratelli venire fuori dal grembo della loro madre, e mi sono occupato della loro educazione finchè sono stati abbastanza grandi da abbandonare i libri. Sotto certi aspetti, li conosco meglio del loro vero padre. Non è mia intenzione vantarmi, ma penso di poter dire che la forza e la natura del nostro rapporto siano tali da rendere impossibile annullarlo del tutto. Persino per un attacco di rabbia come quello di cui Thorin è vittima in questo momento.»
Le mani di Balin, strette intorno alla sua, erano dure e callose, ma delicate. Elinor avrebbe voluto rimanere tutta la vita così, con quella stretta di ruvido affetto a scaldarle il cuore, ma sapeva che era impossibile. Il cuore doveva essere accantonato, chiuso a chiave in un luogo sicuro per lasciare il posto alla ragione e al buon senso.
Non deludermi, Elinor, ti prego.
Quello che la sua pelle sentì ripensando a queste parole fu il delicato tocco di suo padre sulla sua guancia; l’effetto, invece, fu quello che avrebbe provato se qualcuno l’avesse presa per le spalle e scossa con violenza, strappandola bruscamente al sonno. D’un tratto, il suo cervello aveva ripreso a lavorare a pieno regime. Una nebbiosa cortina fatta di rimorsi, tristezza, paura, bisogno di affetto, era stata sollevata, ed Elinor fu colpita da un pensiero che, fino a quel momento, non l’aveva nemmeno sfiorata.
Il piano prevedeva che lei facesse di tutto per sedurre Thorin, conquistare la sua fiducia e scoprire da lui dove fosse nascosta l’Archepietra. Ma visto che, per il momento, Thorin non sembrava essere intenzionato a concedergli la sua attenzione (per non parlare della sua fiducia e della sua confidenza), nulla le vietava di raggiungere il suo obiettivo passando per altre vie…
«Quindi… quindi se ho ben capito… voi siete molto vicino alla famiglia di Thorin, vero?» chiese, cercando di porla come una domanda casuale e del tutto disinteressata.
Balin sorrise, abbassando lo sguardo. Era chiaro che quel pensiero lo riempiva di orgoglio: i suoi occhi lucidi traboccavano di affetto e di devozione inesprimibili a parole.
«Io e mio fratello abbiamo questo privilegio, mia lady» rispose con umiltà. «Thràin mi fa l’onore di considerarmi un consigliere leale e affidabile, e anche il re condivide questa opinione. Certo, negli ultimi tempi è assai arduo sapere cosa Thròr pensi veramente, ma…»
La sua espressione si era ad un tratto adombrata, stemperando il suo sorriso finché sulle sue labbra non ne rimase che un’eco sbiadita. Per un attimo, sembrò che il Nano avesse intenzione di lasciar cadere il discorso, ma Elinor, intuendo le potenzialità che quella conversazione poteva nascondere continuando su quella strada, si affrettò a ritornare sull’argomento.
«Sì, ho sentito delle voci a proposito dello… strano comportamento del re negli ultimi mesi» disse, cercando di mostrarsi meno invadente possibile per non mettere Balin sulla difensiva. «Una circostanza davvero molto spiacevole, anche se spero non così grave come viene dipinta al di fuori di Erebor.»
Balin scosse la testa, le labbra ridotte a una linea sottile e addolorata. «Vorrei poterlo credere anch’io, mia cara, ma temo proprio che Thròr non sia più lo stesso Nano di un tempo… » Trasse un lungo sospiro, per poi proseguire con voce più grave: «Ormai è diventato sempre più difficile incontrarlo al di fuori della Camera del Tesoro. Risale in superficie soltanto per i pasti e per le occasioni ufficiali, e subito dopo torna a rifugiarsi tra le sue montagne d’oro. Non sono nemmeno sicuro che dorma, di notte … Naturalmente Thràin è più che in grado di occuparsi delle questioni del regno in sua vece, ma in ogni modo …»
Ma Elinor non lo ascoltava più. Immobile, rigida per la tensione, lasciò che il suo cervello assorbisse le informazioni che Balin le aveva inconsapevolmente fornito.
Così, le voci erano vere. Ad Erebor esisteva davvero una camera del tesoro dove Thròr, accecato dall’avidità e dall’amore per l’oro, passava la sue giornate rimirando e contando le sue ricchezze. Era lì che si recava ogni volta che, di sera, si alzava dal tavolo della cena, ed era proprio lì che, probabilmente…
Il cuore prese a batterle talmente forte che si stupì di come Balin non riuscisse a sentirne il sordo rimbombo. Dovette fare appello a tutto il suo autocontrollo per non spalancare gli occhi e la bocca, reagendo d’istinto al fulmine che le aveva appena attraversato la mente.
Fingere di continuare a parlare del più e del meno, come se niente fosse, fu molto più difficile del previsto: l’eccitazione mista a paura, provocata dal progetto che stava prendendo forma nella sua testa, era tale che riusciva a malapena a respirare in modo normale. Le parole di Balin le arrivavano confuse, ovattate, come provenienti dal fondo di un lago.
Non deludermi, Elinor, ti prego.
“Non lo farò, padre. Ti garantisco che questa volta non lo farò.”
Fu un sollievo quando Balin, interrompendo un lungo istante di silenzio e battendosi una mano sulla larga fronte semicalva, si alzò all’improvviso dalla panchina, esclamando che aveva dimenticato di dover fare delle commissioni importanti per conto di Thràin.
«Perdonatemi, Elinor, ma sono costretto ad abbandonare la vostra piacevole compagnia!» disse, mortificato. «Spero che non vi offendiate, ma ci sono dei carichi di metallo provenienti dai Colli Ferrosi che attendono la mia supervisione, prima di entrare ad Erebor!»
«Al contrario, stavo giusto per chiedervi se sareste stato così gentile da riaccompagnarmi nelle mie stanze» rispose Elinor precipitosamente, alzandosi a sua volta. «Vorrei stendermi un po’ e cambiarmi d’abito, prima di scendere a pranzo.»
«Naturalmente, naturalmente!»
La ragazza accettò il braccio che il Nano le porgeva e lo seguì fuori dai Giardini Interni, immergendosi di buon grado nella penombra delle viscere della Montagna Solitaria. Aveva come la sensazione che, se fossero rimasti ancora per molto alla luce del sole, Balin avrebbe potuto leggerle negli occhi quello che la sua mente stava progettando. Non avrebbe mai immaginato di poterlo pensare, ma, per la prima volta da quando era arrivata, quel buio la faceva sentire al sicuro.
Ripercorsero insieme la strada fino alle stanze di Elinor, e dopo che Balin si fu congedato con un sorriso e un profondo inchino (“Sempre al vostro servizio, mia lady!”), scomparendo poi in fondo al corridoio illuminato solo da torce e bracieri tremolanti, la ragazza si rifugiò all’interno e appoggiò la schiena alla porta, cercando di riordinare le idee.
Se tutto fosse andato come sperava, prima del sorgere del nuovo giorno avrebbe fatto notevoli passi avanti nella ricerca del nascondiglio dell’Archepietra. Certo, era rischioso… se qualcuno l’avesse scoperta sarebbe andata incontro a guai molto seri… ma doveva almeno tentare. Non poteva rimanere a crogiolarsi per sempre nei suoi dubbi e nelle sue paure: ogni momento che passava senza fare nulla, era un passo in più che la avvicinava al matrimonio con Uren.
Si staccò dalla porta e andò a buttarsi sul letto, fissando il tetto del baldacchino con un leggero sorriso stampato in faccia e una vaga sensazione di euforia che le si faceva largo nel petto. Per la prima volta da quando aveva accettato di assumersi quella responsabilità, sapeva esattamente cosa fare.
Finalmente, finalmente aveva un piano.
 
«Spero vorrete scusarmi, ma credo sia ora che io mi ritiri.»
A queste parole di re Thròr, Elinor alzò la testa dal suo piatto talmente in fretta che si stupì di non essersi slogata il collo. Si guardò cautamente intorno con la coda dell’occhio, sperando che la sua reazione fosse passata inosservata.
A quanto pare, però, nessuno faceva caso a lei. Tutti i presenti, infatti, interrotte bruscamente le chiacchiere di un attimo prima, avevano abbassato lo sguardo sui loro piatti, fissandoli in silenzio e scambiandosi solo qualche sguardo pieno di disagio. Il silenzio era talmente denso che avrebbe potuto essere tagliato con il coltello, e le facce talmente cupe da far sembrare che qualcuno avesse appena introdotto un cadavere nella stanza per iniziare una veglia funebre.
Ma, per quanto l’atmosfera si fosse fatta pesante, Elinor non potè fare a meno di esultare dentro di sé. Quell’improvviso imbarazzo poteva significare solo una cosa: e cioè che i presupposti su cui aveva basato la riuscita del suo piano, e per i quali doveva ringraziare la conversazione avuta con Balin quella mattina, erano giusti.
Aveva trascorso l’intera giornata chiusa nella sua stanza, camminando nervosamente su e giù e ripassando mentalmente i dettagli di quello che avrebbe dovuto fare. Questo aveva prodotto due conseguenze positive. La prima, era che non era stata costretta ad incrociare Thorin per il palazzo nemmeno per sbaglio, rischiando di mandare all’aria la fermezza e il sangue freddo che si stava alacremente impegnando per accumulare. La seconda, era che aveva tratto la ragionevole conclusione di attendere la cena per mettere in atto il suo proposito: in questo modo avrebbe avuto la possibilità non solo di prepararsi psicologicamente, ma anche di osservare il comportamento del re una volta terminato il pranzo, e avere la conferma che quello che Balin le aveva detto quella mattina a proposito del suo ossessivo ritirarsi nella Camera del Tesoro era vero. E infatti quel pomeriggio, non appena ingoiato l’ultimo boccone di dolce al miele, Thròr si era alzato da tavola e, dopo essersi scusato brevemente, era sparito fuori dalla sala; non prima, però, di aver prelevato dalle braccia di una delle guardi che stava immobile dietro la sua sedia uno scrigno sul cui contenuto Elinor non aveva avuto il minimo dubbio. Era stato in quel momento che la ragazza si era convinta che il suo piano avrebbe potuto avere successo, e che, prima di perdere il coraggio e cedere a sensi di colpa e ripensamenti, avrebbe dovuto agire quella sera stessa.
Adesso che il momento era arrivato, però, non si sentiva più tanto sicura di potercela fare. Le sue gambe avevano assunto la consistenza della gelatina di more che gli era stata messa nel piatto come dolce, e che a causa del nervosismo aveva a malapena toccato. Quando, però, il re spinse indietro la sedia e si alzò, finendo di pulirsi la bocca con il tovagliolo, le sue gambe si mossero di loro iniziativa, ed Elinor si ritrovò in piedi senza quasi rendersene conto.
«Vostra Maestà!» esordì, la voce più acuta del dovuto a causa della tensione. Cinque paia di occhi si voltarono istantaneamente nella sua direzione, esibendo espressioni che andavano dalla curiosità allo stupore più plateale. Thorin, da parte sua, dopo averle rivolto il consueto sguardo di fulminante disprezzo, riabbassò lo sguardo sul piatto e tornò a dedicarsi al suo dolce, ostentando indifferenza totale nei suoi confronti.
«Anche… anche io sento il bisogno di ritirarmi» continuò Elinor con un sorriso, cercando di ignorare gli occhi di Balin, Dwalin e Thràin fissi su di lei. «Permettete che vi accompagni per un tratto di strada, prima di salire nelle mie stanze.»
Thròr la fissò in silenzio per qualche istante, come confuso da quella proposta. Furono i secondi più lunghi della vita di Elinor: per un folle attimo credette che le sue parole fossero risultate troppo assurde per non destare sospetti, e si maledì per avere architettato un piano tanto stupido arrivando persino a credere che potesse funzionare. Poi, dopo quelle che le parvero ore, il cipiglio di Thròr si distese, e il sovrano le rivolse un ruvido ma cortese cenno di assenso. Con il cuore che sembrava volerle scoppiare nel petto e le gambe tremanti, Elinor salutò i presenti, scusandosi per non riuscire a trattenersi oltre, e si affiancò al re. Accettò con un sorriso il braccio che Thròr le porgeva, e lo seguì fuori dalla sala.
Sobbalzò, quando il portone si richiuse con un tonfo dietro di loro. Era talmente tesa, che se qualcuno le fosse arrivato alle spalle e l’avesse anche solo sfiorata, sarebbe probabilmente schizzata per aria dallo spavento. E tutto quel silenzio che regnava nei corridoi non aiutava affatto a renderla più tranquilla. Sperò con tutto il cuore che Thròr dicesse qualcosa, qualunque cosa per distoglierla da quell’ansia che l’attanagliava, ma si rese conto ben presto che il re dei Nani non era neanche lontanamente loquace quanto Balin. Pareva che la sua presenza lo mettesse a disagio, perché, benché non sembrasse infastidito, fissava dritto davanti a sé, chiuso in un rigido mutismo in cui Elinor non faticò a riconoscere il modo di fare di Thorin quando, il giorno prima, l’aveva accompagnata in quel breve giro per i corridoi di Erebor.
“Si somigliano molto più di quanto pensassi” rifletté, intuendo quanto sarebbe stato difficile conquistare la fiducia del giovane principe.
Si accorse a malapena del percorso che seguirono nei minuti seguenti. Fatto sta che, tutt’a un tratto, il brusco arrestarsi del re la distolse dai suoi febbrili ragionamenti, ed Elinor si rese conto che erano arrivati in un piccolo spiazzo illuminato da torce dal quale si dipartivano vari corridoi.
«Credo che qui dovremo separarci, mia lady» disse Thròr in tono burbero. «Confido che conosciate la strada per arrivare alle vostre stanze…»
«Ma certo!» si affrettò a rispondere Elinor con il più smagliante dei sorrisi. «Vi ringrazio per avermi concesso l’onore della vostra compagnia. Spero che ci incontreremo domani a corte…»
Thròr borbottò qualcosa che somigliava molto a un “Vedremo”, e, dopo averle concesso un inchino in perfetto stile nanico, imboccò il corridoio di destra e si allontanò lungo il cunicolo, lo scrigno con l’Archepietra ben stretto sotto il braccio.
Elinor si voltò e si incamminò nella direzione che avrebbe dovuto prendere per tornare nelle sue stanze, assicurandosi che i suoi passi risuonassero lungo il corridoio e lanciandosi di tanto in tanto occhiate dietro le spalle. Quando Thròr fu svoltato a destra, scomparendo dietro ad un angolo, la ragazza fece bruscamente dietro front, e in punta di piedi, si affrettò a seguirlo a debita distanza.
Era una fortuna che, a quell’ora della sera, Erebor fosse poco frequentata e semideserta; così come era una fortuna che il palazzo reale fosse una tale ragnatela di cunicoli, budelli e corridoi, perché offriva una miriade di angoli nascosti e zone poco illuminate assolutamente perfetti per il suo scopo.
Ben presto si ritrovò quasi a correre per riuscire a stare dietro alle possenti falcate di Thròr. E poiché, oltre a questo, doveva allo stesso tempo cercare di ricordarsi il percorso per poterlo rifare in senso inverso e camminare più silenziosamente possibile, Elinor non ci mise molto a rendersi conto che l’impresa si stava rivelando più complicata di quanto avesse immaginato. Più di una volta si girò di scatto, convinta di aver sentito dei passi dietro di sé, per poi scoprire che era soltanto il cuore che le rimbombava nelle orecchie. Più di una volta dovette precipitosamente nascondersi in bui corridoi laterali perché Thròr si era fermato per guardarsi intorno con aria sospettosa.
In compenso, Elinor scoprì con piacere che gli anni passati a BoscoVerde avevano dato notevoli frutti per quanto riguardava il sapersi muovere con discrezione. Quando andavi a caccia nella foresta, del resto, era fondamentale sapersi spostare senza produrre il minimo rumore, o la preda sarebbe scappata via al più piccolo scricchiolio di una foglia secca.
Quasi svenne per la paura quando, ad un certo punto, un gruppo di soldati Nani – sicuramente diretti verso i loro alloggi dopo l’addestramento serale – le tagliò la strada, costringendola a rifugiarsi immediatamente dietro l’angolo buio di un corridoio. Muovendo le labbra in una silenziosa preghiera, tremando da capo a piedi, attese a occhi chiusi che qualcuno, accortosi della sua presenza, la stanasse dal suo nascondiglio, mandando a monte il suo piano e costringendola a imbarazzanti spiegazioni di fronte al re, a Thorin e a Thràin.
Ma, con suo grande sollievo, quel momento non venne. Poco a poco, il burbero chiacchiericcio dei soldati si perse lungo il corridoio opposto, ed Elinor, dopo aver atteso qualche secondo per essere scura che si fossero allontanati a sufficienza, uscì allo scoperto per continuare l’inseguimento di Thròr. Per un attimo temette di aver atteso troppo e di averlo perso, ma guardandosi intorno lo avvistò fortunatamente in fondo ad lungo cunicolo intervallato, lungo le pareti, da grandi statue di Nani arcigni e dallo sguardo battagliero.
“Nel nome di Durin, quanto è lontano questo posto?” si chiese Elinor scoraggiata, mentre compiva un complicato percorso a zig-zag per avanzare nascondendosi allo stesso tempo dietro i colossi di pietra.
Non aveva ancora finito di formulare questo pensiero che, alzando lo sguardo per controllare la posizione di Thròr, scorse poco oltre l’ultima statua il profilo di una grossa porta di legno sorvegliata, da entrambi i lati, da due guardie con le alabarde incrociate.
«Vostra Maestà» salutarono i soldati all’unisono, quando il re si avvicinò loro. Thròr li ricambiò con un rigido cenno del capo e fece loro un impaziente gesto con la mano per fargli capire di lasciarlo passare. I due Nani, obbedienti, sollevarono le armi e spalancarono ognuno un battente dell’imponente portone. Elinor, nascosta dietro la statua di un Nano con la barba lunga fino a terra e un elmo a calotta che lasciava appena scoperti gli occhi, ebbe appena il tempo di scorgere una larga scalinata che scendeva verso il basso e un riverbero di luce dorata. Poi Thròr avanzò, e le due guardi richiusero il portone alle sue spalle.
“Accidenti!” imprecò fra sé e sé la ragazza, picchiando un rabbioso pugno sulla mastodontica coscia del Nano di pietra. Se quella era la sola entrata che portava alla Camera del Tesoro, allora non c’era speranza di riuscire a introdursi all’interno! A meno di non farsi avanti e fare gli occhi dolci alle guardie sperando di convincerle ad aprire la porta, ma qualcosa le diceva che era una soluzione impraticabile.
Stava proprio per rassegnarsi a tornare indietro, sperando, in un futuro prossimo, di riuscire ad escogitare un piano più efficace, quando, alzando casualmente lo sguardo verso l’alto, si accorse di riuscire a vedere il riflesso del’oro illuminato dalle torce tremolare sull’altissimo soffitto della Camera del Tesoro.
Sbatté le palpebre un paio di volte, certa che i suoi occhi le stessero giocando un brutto scherzo. Come era possibile che riuscisse a vedere il soffitto all’interno della stanza, quando ad impedirgliene la vista avrebbe dovuto esserci unaparete? Quasi nello stesso istante, il suo sguardo cadde su due rampe di scale identiche che, dai due lati del corridoio, salivano verso l’alto. La sua bocca si dischiuse leggermente, mentre il suo cervello iniziava a comprendere e a rimettere insieme i pezzi.
Silenziosa come un’ombra, scivolò fuori dal suo nascondiglio e imboccò la rampa di sinistra. Dovette salire almeno un centinaio di gradini, prima di arrivare in cima, e quando finalmente ebbe raggiunto la vetta della scala per poco non rischiò di avere un mancamento rendendosi conto che le sue supposizioni erano giuste.
Era affacciata direttamente sulla camera del tesoro, le cui pareti esterne, per quanto alte, non raggiungevano affatto il soffitto, ma formavano una specie di largo camminamento sopraelevato delimitato da una balaustra merlata, dalla quale, guardando in basso, si abbracciava con un’occhiata la vastissima sala in cui i Nani avevano raccolto tutte le loro ricchezze nel corso dei secoli. Era come osservare uno sconfinato paesaggio collinare, con l’unica differenza che i rilievi erano costituiti da stupefacenti montagne d’oro, ed erano punteggiati, invece che da alberi, da gemme preziose, armi pregiate, coppe e calici finemente lavorati e gioielli scintillanti.
Ad Elinor mancava il fiato. Mai, mai in vita sua aveva visto una cosa del genere. Aveva sentito fin da piccola, certo, le storie riguardanti le immense ricchezze conservate nelle profondità delle caverne dei Nani, ma mai si sarebbe aspettata di trovarsi davanti una distesa d’oro così immensa.
Ci volle qualche secondo, prima che si ricordasse perché era lì. Cercò febbrilmente con lo sguardo la figura di Thròr in mezzo a tutto quel luccicare, e finalmente lo avvistò vicino a un mucchio di enormi scrigni traboccanti di gemme, che si dirigeva verso una piccola porta di pietra nascosta dietro alcune montagne di monete d’oro. Elinor, il cuore in gola, avanzò lungo il camminamento merlato, cercando di avvicinarsi il più possibile a quella porta.
Non aveva battenti né serratura, notò quando finalmente riuscì a raggiungere un punto da cui averne una visuale migliore. Nulla lasciava capire che si trattasse davvero di una porta, se non fosse stato per la sua forma, che non dava àdito a dubbi riguardo alla sua natura. Elinor, sporgendosi il più possibile dai merli, osservò attentamente il re raggiungere il varco di pietra e soffermarsi per qualche secondo davanti ad esso. Sembrava che stesse semplicemente  immobile a fissarlo, ma la ragazza, tendendo spasmodicamente l’orecchio, riuscì a percepire un vago bisbiglìo di cui, purtroppo, non fu in grado di comprendere il significato. Subito dopo, facendola sobbalzare dalla sorpresa, la porta di aprì spontaneamente con un raschiante rumore di pietra che sfregava contro il pavimento. Thròr scomparve all’interno di quello che sembrava un basso cunicolo buio, per riemergerne qualche secondo dopo senza lo scrigno e con aria soddisfatta, richiudendo di nuovo la porta con un altro basso, misterioso mormorìo.
Elinor, esterrefatta, si lasciò cadere per terra, la schiena contro la balaustra e gli occhi spalancati. Deglutì più volte, ma scoprì di non avere più saliva.
Ho appena scoperto dove viene nascosta l’Archepietra.
Le gambe le tremavano a tal punto che fu un mistero come riuscì a rimettersi in piedi e, camminando piegata in due perché Thròr non la vedesse, tornare verso la scalinata che conduceva al corridoio delle statue. Si impose di stare calma, perlomeno fino a che non fosse arrivata nella sua stanza, o non sarebbe mai riuscita a passare inosservata davanti alle guardie come aveva fatto poco prima. Non poteva rovinare tutto quello che era riuscita a ottenere per colpa della sua maledetta emotività! Non adesso che le cose sembravano iniziare a girare per il verso giusto…
Trattenendo il respiro fino a sentire la testa girare per la mancanza d’aria, percorse la strada in senso inverso, strisciando silenziosamente dietro le statue per rimanere nella zona non illuminata dalle torce. Riprese fiato soltanto quando, dopo quelle che le parvero ore, riuscì finalmente a raggiungere la fine del corridoio e ad uscire dal campo visivo delle due guardie.
“Calmati, Elinor … calmati, adesso …”
Si prese qualche secondo per recuperare il controllo di sé, respirando profondamente con la schiena appoggiata al muro e gli occhi chiusi. Un’ondata di eccitazione le esplose nel petto, facendola scoppiare in una risata improvvisa che si affrettò subito a soffocare dietro una mano. Non era il momento di lasciarsi andare all’euforia, non prima di essere arrivata alla conclusione del suo piano. E il suo piano non poteva dirsi concluso, finchè non si fosse chiusa dietro le spalle la porta della sua stanza.
La penombra dei corridoi di Erebor non le era mai sembrata così meravigliosa come durante quel percorso di ritorno. Come se persino lui fosse partecipe della sua gioia e volesse contribuirvi a modo suo, il suo cervello le fece ricordare esattamente quali svolte, quali corridoi e quali rampe di scale doveva prendere, finchè gli ambienti cominciarono ad apparirle sempre più familiari, ed Elinor capì di stare avvicinandosi alla zona del palazzo reale che conosceva meglio.
«Elinor!»
Una voce brusca e altera alle sue spalle la fece sobbalzare, polverizzando in un istante l’allegria che la scoperta del nascondiglio dell’Archepietra le aveva procurato.
“Ti prego, no … no … non adesso!”
Sapeva che trovarla a zonzo in quella parte del palazzo non voleva dire nulla. Non era come se l’avessero trovata a gironzolare nei pressi della Camera del Tesoro, o colta in flagrante mentre pedinava Thròr. Avrebbe potuto essere lì per qualsiasi motivo. Quello che la preoccupava era il senso di colpa che, lo sapeva bene, le si sarebbe letto sul volto come su un libro. Cercando di mantenere un atteggiamento il più possibile naturale, si voltò in direzione della voce, e per poco le gambe non cedettero sotto il suo peso: Thorin veniva verso di lei dal fondo del corridoio che aveva appena imboccato, la mani giunte dietro la schiena e lo sguardo sospettoso che saettava nella sua direzione.
«Pensavo che foste ritornata nelle vostre stanze» osservò in tono freddo, quando finalmente la raggiunse. «Che cosa ci fate qui?»
Elinor deglutì. Di nuovo, la sua bocca era arida e asciutta.
«Mi stavo ritirando, infatti» rispose, sforzandosi di sostenere lo sguardo dei suoi gelidi occhi azzurri. «Ma temo di aver smarrito di nuovo la strada. Dovete perdonarmi.»
Cercare di controllare il respiro mentre Thorin la scrutava dall’alto in basso come se volesse frugare nei suoi pensieri fu così difficile, che Elinor temette di cedere al nervosismo e tradirsi da un momento all’altro. Accolse quasi con gioia lo sbuffo sprezzante che il Nano emise scuotendo la testa: significava che le aveva creduto, che stava deridendo la sua goffa sventatezza e la stava aggiungendo alla lista dei motivi per cui continuare a disprezzarla in eterno. Ed Elinor, in quel momento, preferiva di gran lunga che pensasse questo di lei, piuttosto che avesse anche il più piccolo sospetto su che cosa aveva appena fatto.
«Non stento a crederlo» disse, sarcastico. «Mi sono giunte diverse voci sulle vostre … difficoltà di orientamento.»
Balin, penso subito Elinor, senza ombra di esitazione. Il consigliere doveva certamente aver parlato con Thorin di come l’aveva trovata a vagare con aria sperduta per i corridoi, quella mattina, e non poteva che essergli immensamente grata per essersi lasciato andare a queste confidenze: davano una ragione in più a Thorin per credere alla sua bugia.
«Magari vorreste essere così gentile da accompagnarmi» propose Elinor con gelida cortesia. «Questi corridoi diventano notevolmente freddi, a quest’ora della sera.»
Assaporò per un meraviglioso momento l’avvicendarsi delle espressioni sul volto di Thorin, che dalla rabbia pura passavano all’indignazione, per concludere con uno sguardo di tagliente sfida.
«Benissimo» ringhiò alla fine. «Seguitemi, allora.»
Per un attimo Elinor pensò di aver capito male, ma quando Thorin, fatto qualche passo ed accorgendosi che lei non lo seguiva, si voltò a guardarla con aria interrogativa, si affrettò a raggiungerlo.
Ovviamente, nessuno dei due disse una parola per tutto il resto del tragitto. Thorin, che non aveva abbandonato la sua postura con le mani giunte dietro la schiena, fissava ostinatamente davanti a sé, la mascella contratta e le sopracciglia talmente ravvicinate da sembrare una sola. Elinor, da parte sua, camminava a testa bassa, lanciando al principe solo qualche cauta e fugace occhiata di tanto in tanto. Era entusiasmante come camminare in compagnia di re Thròr. Con la piccola variante che il nipote, a differenza del nonno, era tecnicamente il suo fidanzato
Senza che l’avesse minimamente chiamata, l’immagine di Thorin che picchiava il martello sull’incudine, con la camicia aperta che lasciava in bella vista i guizzanti muscoli dell’ampio petto, le rimbalzò nella mente. Elinor la scacciò con violenza, non potendo evitare, purtroppo, di arrossire fino alla punta dei capelli. Adesso sì, che stava diventando tutto troppo imbarazzante … Senza contare che, se Thorin avesse potuto leggere davvero nei suoi pensieri e scoprire il vero motivo per cui si trovava ancora in giro per Erebor … Elinor preferì non pensare a cosa avrebbe potuto dire o fare. Era probabile che il disprezzo con cui l’aveva trattata finora le sarebbe sembrato un trattamento gentile, in confronto.
Come Eru volle, finalmente giunsero nei pressi delle sue stanze, ed Elinor iniziò già dal fondo del corridoio a pregustare la fine dell’agonia.
«Credo che siate arrivata» osservò Thorin rigidamente, fermandosi accanto alla sua porta. «E credo che il mio compito sia giunto al termine.»
«Vi ringrazio» rispose Elinor, poggiando una mano sulla maniglia. «E perdonatemi se vi ho recato tutto questo disturbo …» Compiendo un notevole sforzo su se stessa, cercò di ammorbidire la sua espressione. «Tenterò di ambientarmi il più possibile, qui ad Erebor. Farò del mio meglio.»
Se questa promessa, fatta con l’evidente intento di gettare la basi di una riappacificazione, smosse anche solo un po’ la fermezza di Thorin, Elinor non lo seppe mai. Il principe dei Nani si limitò a fissarla per qualche secondo con espressione indecifrabile; poi, dopo un brevissimo istante in cui la ragazza credette di scorgere nei suoi occhi un accenno di cedimento, il suo sguardo ritrovò la sua consueta durezza.
«Buonanotte» disse bruscamente Thorin, prima di voltarle le spalle e allontanarsi a grandi passi. Elinor, che aveva sentito l’impulso di richiamarlo indietro – per dirgli cosa, non lo sapeva nemmeno lei – riabbassò il braccio e lo lasciò ciondolare per qualche secondo lungo il fianco con aria rassegnata.
Pazienza. Devi solo portare pazienza.
Con un profondo sospiro entrò nella sua stanza, ma non fece in tempo a richiudersi dietro la porta, che l’euforia per aver scoperto il nascondiglio dell’Archepietra la invase di nuovo. Si gettò a pancia in su sul letto, sorridendo al soffitto. Certo, tecnicamente ancora non aveva portato a termine nulla: senza la parola magica che apriva quella porta, la sua scoperta del nascondiglio era completamente inutile. Ma l’essere riuscita a scoprire dov’era fisicamente l’Archepietra mentre non era esposta sul trono di Thròr, saperla lì, concreta e meravigliosamente luccicante, contribuiva già molto a farla sentire soddisfatta di sé.
Per la prima volta da moltissimo tempo, non vedeva l’ora di rivedere il viso di suo padre… l’affetto, la gratitudine nei suoi occhi… non c’era rimorso o senso di colpa che avrebbe potuto rovinare questo.
Fu anche la prima volta dopo mesi in cui si addormentò con il sorriso sulle labbra. La paura di cosa avrebbe portato il nuovo giorno era improvvisamente sparita: al suo posto c’era solo una fremente impazienza di sapere quali altre sfide le avrebbe riservato, di dimostrare che sarebbe stata in grado di affrontarle e uscirne vincitrice. Come quella sera…
Scivolò serenamente nel sonno con la mano infilata sotto il cuscino, fiduciosa come un neonato, rendendosi conto solo un attimo prima di chiudere gli occhi di quanto fosse terribilmente stanca.
 
«Accidenti!» imprecò Elinor a mezza voce, lanciando uno sguardo contrariato alle frecce conficcate nel bersaglio.
Delle tre che aveva scoccato, soltanto una era arrivata nelle vicinanze del centro. Le altre si erano entrambe piantate ad un paio di centimetri di distanza dal piccolo cerchio rosso. Il che, in generale, non era affatto un cattivo risultato, ma nel suo caso abbassava notevolmente il livello a cui era abituata.
“Sono fuori allenamento” pensò sconsolata, estraendo un’altra freccia dalla faretra che portava a tracolla. Quella era la prima volta che riprendeva in mano un arco, da quando era tornata da BoscoVerde. Suo padre le permetteva raramente di allenarsi, ad Esgaroth. In effetti, era già molto che le avesse permesso di tenere l’arco che Thranduil e i suoi figli le avevano dato come dono di addio poco prima che partisse. Di portarlo con lei a Erebor, in ogni modo, Eevar non aveva nemmeno voluto sentirne parlare.
Elinor incoccò la quarta freccia e tese l’arco per prendere la mira, facendo del suo meglio per ignorare i soldati che, passando a poca distanza da lei, si fermavano a guardarla e si scambiavano occhiate scettiche e borbottii. Sapeva che l’arco non era molto ben visto, tra i Nani: lo consideravano un’arma da vigliacchi e da rammolliti, perché, al contrario dell’ascia e della spada, evitava la battaglia corpo a corpo, stile di combattimento di gran lunga preferito dai Nani. Inoltre era un’arma tipicamente elfica, il che non contribuiva di certo ad aumentare la sua attrattiva presso il popolo di Durin. Era stata una sorpresa, in effetti, trovare quel piccolo arco rozzamente intagliato nell’armeria del campo di addestramento di Erebor, mescolato a spade, asce, coltelli e sciabole. 
Elinor, in realtà, vi si era recata con la sola intenzione di curiosare un po’ e distrarsi dal nervosismo che era tornato ad attanagliarla. Erano passati due giorni da quando aveva pedinato Thròr fino alla Camera del Tesoro, e ancora non aveva trovato il modo di scoprire quale fosse la parola o la frase che permetteva di aprire la porta del nascondiglio dell’Archepietra. L’unica persona con cui aveva abbastanza confidenza da potersi azzardare a fare domande in proposito era Balin, ma Elinor nutriva seri dubbi che il consigliere, per quanto vicino alla famiglia reale, conoscesse la parola magica per accedere al più grande tesoro di Erebor: Thròr le era parso troppo ossessionato dalla gemma, per confidare un segreto del genere a qualcuno che non gli fosse legato in modo intimo e viscerale. Diverso era il discorso per suo figlio e suo nipote: Thràin e Thorin, in quanto eredi al trono, dovevano sicuramente conoscere la parola magica. Ma con Thràin aveva scambiato, finora, sì e no cinque parole in tutto, e per quanto riguardava Thorin …
Elinor scoccò la freccia, e quella si conficcò talmente lontano dal centro, che la ragazza fu sul punto di scagliare arco e faretra per terra per sfogare la sua rabbia.
Dopo averla riaccompagnata fino alle sue stanze la sera del pedinamento, Thorin l’aveva accuratamente evitata per gli interi due giorni successivi. Elinor aveva atteso con rassegnazione, come Balin le aveva suggerito, ma la rabbia del principe non aveva dato segno di scemare, tanto che la ragazza stava cominciando a sospettare che questa tecnica della pazienza fosse efficace quanto sputare su un fuoco per spegnerlo. Probabilmente era con se stessa che avrebbe dovuto prendersela, pensò incoccando l’ennesima freccia. Era stata lei a mandare a monte il piano più sicuro che avevano, fin dal primo giorno. L’unica cosa che la consolava era la consapevolezza che, almeno, non sarebbe arrivata del tutto a mani vuote al prossimo incontro con suo padre e con Uren …
Un sibilo, un breve tonfo sordo, ed Elinor trovò la quinta freccia conficcata nel centro esatto del bersaglio. Si concesse un debole sorriso, osservandola vibrare allegramente e poi rimanere immobile.
«Bel tiro, Elinor!» gridò una voce femminile alle sue spalle.
La ragazza si voltò e vide Dìs venire verso di lei con un largo sorriso stampato sulla faccia rotonda, conducendo per le redini un pony color miele. Stava per ricambiare il sorriso, quando notò che ad accompagnare la Nana era proprio Thorin, anche lui con un pony al seguito. Persino da quella distanza Elinor riuscì a distinguere l’espressione cupa che il principe aveva assunto nello scorgerla.
Decisa a non dargli soddisfazione, esibì il più smagliante dei suoi sorrisi e agitò una mano in direzione di Dìs a mo’ di saluto. «Ti ringrazio!» gridò nella sua direzione.
«Non sapevo che sapessi tirare con l’arco!» disse la Nana con profonda ammirazione, quando – a dispetto del’evidente contrarietà di Thorin – l’ebbero raggiunta. «Sei davvero molto brava!»
«Oh, io … me la cavo» rispose Elinor con modestia, arrossendo leggermente. Poi, volgendosi verso Thorin, lo salutò chinando rigidamente la testa. «Principe…» disse in tono secco. Thorin ricambiò con un mezzo inchino altrettanto freddo, senza emettere un suono.
«Stavamo andando a fare una passeggiata» riprese Dìs con entusiasmo. «Perché non ti unisci a noi? Possiamo procurarci un pony anche per te!»
Elinor, presa alla sprovvista, fece scorrere uno sguardo incerto da lei a Thorin, che stava fissando la sorella come se volesse strangolarla da un momento all’altro.
«Io … veramente … non so se è il caso …» fu tutto quello che riuscì a rispondere, balbettando.
«Saremmo molto felici se tu volessi permetterci di mostrarti le terre a nord della Montagna! Non è vero, Thorin?» insisté Dìs, assestando al fratello una potente gomitata di avvertimento.
Elinor potè quasi sentire il rumore dei denti che stridevano, mentre Thorin contraeva la mascella e lanciava ad entrambe un’occhiata assassina.
«Naturalmente» ringhiò dopo diversi secondi, sputando fuori la parola come fosse un boccone di cibo amaro. «Ne saremmo entusiasti…»
Dìs lo fulminò con un’occhiata non meno omicida della sua, e poi tornò a sorridere ad Elinor come se niente fosse. «Meraviglioso, allora!» esclamò al settimo cielo, battendo le mani. «Vado subito a prenderti Fiona!»
Fiona, come Elinor scoprì qualche minuto più tardi, era una mansueta femmina di pony dal mantello color cioccolata e con grandi e dolci occhi scuri, la cui massima gioia nella vita sembrava essere quella di brucare pigramente l’erba del prato. Elinor, dopo aver recuperato le sue frecce ed essersi sistemata l’arco a tracolla, salì in sella con espressione incerta. Quella passeggiata fuori programma insieme a Thorin era decisamente l’ultima cosa che le serviva per recuperare il buonumore, ma non intendeva dargli la soddisfazione di accorgersi che la sua presenza la metteva a disagio. Avrebbe fatto buon viso a cattivo gioco. Del resto, era diventato il suo hobby preferito, negli ultimi tempi…
Si incamminarono verso nord accompagnati dall’allegro chiacchiericcio di Dìs, di cui Elinor, per quanto si sforzasse, riusciva ad ascoltare veramente solo una parola su tre. Per il resto del tempo, la sua attenzione era totalmente concentrata sull’evitare il più possibile lo sguardo di Thorin e fingere indifferenza di fronte al suo glaciale e ostinato mutismo. A tratti, mentre faceva del suo meglio per prendere parte ai discorsi di Dìs, avvertiva chiaramente i freddi occhi del principe dei Nani puntati sulla schiena, e doveva compiere uno sforzo notevole perché la sua voce non tremasse.
Nonostante questo, comunque, era impossibile non rimanere senza fiato di fronte al paesaggio che stavano attraversando. Abituata fin da piccola all’ambiente ben diverso della foresta, Elinor era letteralmente affascinata dalla selvaggia maestosità di quelle terre. Dopo che ebbero superato le pendici più basse della Montagna Solitaria, facendo su e giù da scoscesi pendii chiazzati di vegetazione e prestando attenzione perché i pony non inciampassero sulle grosse pietre che sporgevano dall’erba, il terreno aveva cominciato a perdere pendenza. Si trovavano, adesso, nel mezzo di uno sconfinato paesaggio ondulato, coperto perlopiù di erba verde e bassa vegetazione di erica e arbusti. Qua e là, come piccole navi nel mezzo dell’oceano, crescevano piccoli raggruppamenti di alberi e cespugli, e dappertutto erano disseminate grosse formazioni isolate di roccia che emergevano dal terreno. All’orizzonte si stagliavano, acuminate e minacciose, le sagome delle Montagne Grigie, mentre voltandosi verso est era possibile scorgere le chiome degli alberi di BoscoVerde che oscillavano pigramente al vento leggero.
«Così, Elinor… è dagli Elfi che hai imparato a tirare con l’arco?» chiese ad un certo punto Dìs, interessata. Lo sguardo di Thorin sulla nuca di Elinor si fece più penetrante che mai. Sua sorella non avrebbe potuto scegliere un argomento peggiore, per cercare di fare un po’ di conversazione, ma se non altro Elinor apprezzava i tentativi che almeno lei stava facendo per metterla a suo agio.
«In effetti, sì» rispose Elinor cautamente. «Thranduil era convinto di vedere un certo talento, in me, e mi ha incoraggiato a fare pratica…» Il suo sorriso si adombrò per un attimo. «Poi, una volta, tornata a casa, non ho potuto continuare, ma questa è un’altra faccenda… Comunque, prima che partissi, il re mi ha fatto dono di uno splendido arco intagliato.»
La risata sprezzante di Thorin la disorientò notevolmente, costringendola a voltarsi nella sua direzione.
«Un regalo perfetto per una fanciulla!» esclamò il Nano in tono sarcastico. «D’altronde, è nota l’inclinazione degli Elfi dei Boschi per le armi… poco virili.»
Elinor si irrigidì all’istante. Sentì una vampata di rabbia incendiarle la faccia, ma si impose di mantenere la calma. L’ultima cosa che le serviva adesso era lasciarsi coinvolgere da Thorin in un altro litigio, vanificando così tutti i suoi sforzi per riparare al suo primo, grosso errore.
«Veramente, nel Reame Boscoso ho visto diverse volte Elfi impugnare spade e sciabole» ribattè Elinor, facendo appello a tutto il suo autocontrollo per mantenere un tono tranquillo. «E devo dire che lo facevano con grande maestria.»
Thorin le rivolse uno sbuffo a metà tra lo sprezzante e il compassionevole, come se Elinor non sapesse minimamente quello di cui stava parlando, ma Dìs, chiaramente desiderosa di evitare una lite, si affrettò ad anticiparlo prima che aggiungesse qualcosa.
« E, se la memoria non mi inganna,» disse la Nana precipitosamente. «ho sentito dire che le spade elfiche sono oltretutto oggetti di squisita fattura! Non è vero, Elinor?»
«Oh, non ho dubbi al riguardo!» rispose acidamente Thorin, prima che la ragazza potesse prendere fiato per rispondere. «E’ risaputo come gli Elfi abbiano sottratto alla nostra razza i segreti della forgiatura delle armi, salvo poi corromperli e svilirli con i loro maledetti incantesimi
A questa accusa così piena di astio e di livore persino Dìs non trovò la forza di ribattere, limitandosi a fulminare il fratello con l’ennesima occhiata di fuoco. Elinor, da parte sua, riusciva a malapena a respirare regolarmente, tanta era la rabbia che quell’insinuazione aveva suscitato in lei. Leggende infamanti, calunnie… Davvero l’odio nei Nani nei confronti degli Elfi era così profondo da indurre Thorin a credere a certe cose orribili?
«Non è quello che ho sentito io» replicò, tagliente, trovando finalmente il coraggio di fissare Thorin negli occhi con aria di sfida. Il Nano rispose con un sogghigno di derisione.
«No, certo che no» rispose in tono soave. «Posso immaginare quello che vi avranno raccontato. Ma, comunque stiano veramente le cose, è innegabile che noi Nani prestiamo più attenzione alla sostanza, piuttosto che alla forma: per noi una bella spada non vale nulla, se non c’è un valido braccio a maneggiarla.»
Elinor piegò un angolo della bocca in un sorriso amareggiato. «Sembra che stiate dimenticando gli sforzi di mio padre e del vostro per portare amicizia tra i Nani e gli Elfi…» osservò freddamente.
Lo sguardo che Thorin le restituì fu un misto di rabbia e di indignazione. Le sue narici si dilatarono, le sue labbra si strinsero, e per un attimo Elinor temette che la sua ira stesse per esplodere. Invece, per lunghi istanti, i soli rumori udibili attorno a loro furono quello degli zoccoli dei pony contro le pietre sporgenti dal terreno e il lieve fruscio del vento.
«Il fatto che debba stringere un’alleanza con gli Elfi non significa che debba anche farmeli piacere» rispose infine Thorin in un sibilo, scandendo le parole una per una come se volesse assicurarsi che Elinor se le imprimesse bene nella mente.
La ragazza deglutì e abbassò lo sguardo, sconsolata. Non aveva più nemmeno la forza per ribattere: sapeva bene che nulla di quello che avrebbe potuto dire, per quanto pieno di buone intenzioni, avrebbe convinto Thorin ad abbandonare quella sua rabbia e quei suoi pregiudizi, e quella sua ostinazione a contraddirla in tutte le maniere possibili. Gli avrebbe concesso volentieri l’ultima parola, se questo l’avesse fatto sentire soddisfatto…
Stava ancora rimuginando, piena di amarezza, su quanto ancora avrebbe dovuto aspettare prima che il principe dei Nani le concedesse un po’ di tregua dal suo instancabile disprezzo, quando un nitrito terrorizzato la fece sobbalzare.
Il pony di Thorin, che camminava placido alla destra di Fiona, si era improvvisamente imbizzarrito, e adesso agitava per aria gli zoccoli anteriori, i profondi occhi neri sbarrati dalla paura. Quando tornò a poggiare le zampe a terra, queste cedettero sotto il suo peso e l’animale rovinò al suolo, rovesciandosi su un fianco e trascinandosi dietro anche Thorin. Mentre cadeva, un grido di sorpresa fuoriuscì dalla bocca del Nano, che solo grazie ad una stupefacente prontezza di riflessi riuscì ad evitare di rimanere intrappolato sotto il peso del corpo del pony. Anche Dìs urlò, presa alla sprovvista. Elinor, invece, ammutolita per lo shock, non riusciva a staccare lo sguardo dal fianco dell’animale, in cui erano conficcate due corte frecce scure dalla forma rozza e irregolare. Prima che avessero il tempo di rendersi conto di quello che stava succedendo, da dietro l’enorme ammasso di rocce alla loro destra, distante non più di dieci metri, saltò fuori un gruppo di Orchi urlanti, armati dilance, picche e spade dall’aspetto rozzo ma letale.
L’immediata reazione di Elinor prima che la sua mente riuscisse a formulare un pensiero coerente, fu istantaneo e potente ribrezzo. Aveva partecipato più volte, a BoscoVerde, a spedizioni contro Orchi delle Montagne Grigie che si erano spinti troppo a sud e si erano incautamente avvicinati troppo ai confini del Reame Boscoso. Ma mai, mai si sarebbe abituata al disgusto che il loro odore di marcio, i loro piccoli occhietti nervosi, il loro spezzato linguaggio gutturale e i loro movimenti scattosi e convulsi le procuravano.
Approfittando del fatto che li avevano colti di sorpresa, gli Orchi furono rapidi a coprire la distanza che li separava, e subito si avventarono loro addosso. Due o tre delle immonde creature ghermirono Elinor e la trascinarono a forza giù dal suo pony, senza che la ragazza avesse il tempo di imbracciare l’arco per respingerli. Cadendo a terra, si accorse che un altro piccolo gruppo di loro stava facendo la stessa cosa con Dìs. Il fiato pestilenziale di uno degli Orchi che l’aveva afferrata la colpì in pieno viso, rendendola per qualche secondo incapace di reagire. Poi, obbedendo più all’istinto di sopravvivenza che alla ragione, le sue braccia si mossero da sole, assestando un violento pugno in avanti e una disperata gomitata all’indietro. Entrambi i colpi andarono a segno, ottenendo lo scopo, se non di mettere fuori combattimento gli Orchi, perlomeno di darle il tempo di rialzarsi e impugnare l’arco. Thorin, a pochi metri di distanza da lei, combatteva già con altri due Orchi, menando poderosi fendenti con la sua spada a lama larga.
«Dìs!» gridò il Nano con quanto fiato aveva in gola, dopo averne abbattuto uno con un colpo alla testa. «Torna subito a Erebor, vai a chiamare aiuto
La sorella, che, pur essendo disarmata e tutt’altro che in abbigliamento adatto al combattimento, si era fino a quel momento difesa discretamente a suon di calci, pugni e testate, balzò di nuovo in sella al suo pony e galoppò via nella direzione da cui erano venuti, dando furiosamente di talloni nei fianchi dell’animale. 
Elinor perse completamente la cognizione del tempo. Non seppe per quanto continuò a tirare frecce e ad assestare colpi con l’estremità dell’arco: potevano essere passati minuti, come ore. Seppe solo che, dopo un po’, cominciò a sentire il fiato mancarle e la testa girare, mentre, tutto intorno a sé, udiva soltanto i rivoltanti stridii degli Orchi quando venivano infilzati e il cozzare delle loro armi contro la lama di Thorin. Non aveva mai preso parte a una battaglia corpo a corpo: le rare volte in cui si era trovata faccia a faccia con quelle immonde creature, a BoscoVerde, era sempre stato dall’alto di un cavallo, mai a piedi e colta alla sprovvista.
Che cosa sta succedendo, nel nome di Eru?
Con un tiro rapido e preciso, a dispetto delle gambe tremanti e il cuore che sembrava volerle sfondare il petto, abbattè un Orco armato di scimitarra che correva verso di lei digrignando gli aguzzi denti giallastri. Ma mentre estraeva la freccia dal suo corpo immobile per poterla usare di nuovo, la sua attenzione fu attratta dallo scontro che stava avendo luogo a pochi metri da lei.
Thorin stava incrociando la spada con quello che sembrava il leader del gruppo, un Orco tozzo dalla pelle verde-nerastra che lo superava in altezza di una buona spanna, e armato di una lunga ascia dalla lama seghettata. L’essere incalzava Thorin con fendenti sempre più energici, facendolo indietreggiare e parando, apparentemente senza difficoltà, i colpi con cui il Nano tentava di difendersi. Thorin cercava di non darlo a vedere, ma era evidente che stava cominciando ad accusare la stanchezza: poteva essere un combattente eccezionale, ma quindici Orchi da affrontare quasi da solo erano una prova notevole perfino per lui. In men che non si dica si ritrovò con la schiena contro una roccia; un nuovo, potente affondo dell’Orco gli fece volare via di mano la spada, che cadde a terra poco lontano con clangore metallico. Elinor, paralizzata nel punto in cui si trovava, ebbe appena il tempo di scorgere il fugace  scambio di sguardi tra i famelici occhi dell’Orco, ansiosi di avventarsi sulla carne di Nano che gli era stata inaspettatamente servita su un piatto d’argento, e quelli glaciali di Thorin, traboccanti di sfida e dignitosa regalità.
Poi le sue braccia si mossero da sole, e accadde tutto in una manciata di secondi.  
Quasi con un solo movimento, incoccò la freccia appena estratta dal cadavere ai suoi piedi, tese l’arco e la mandò a conficcarsi dritta nella testa dell’Orco, che, sollevata l’ascia, si preparava ad affondarla nel cranio di Thorin. La creatura lanciò un acuto stridìo di dolore, barcollò per qualche secondo e poi rovinò pesantemente a terra, dove, dopo qualche breve spasimo di agonia, rimase immobile, piegato in una grottesca posizione di morte.
Elinor rimase a fissarlo per qualche istante come instupidita, le braccia abbandonate lungo i fianchi e la bocca semiaperta dalla quale fuoriusciva un affannoso respiro. Il suo sguardo incontrò quello di Thorin, ancora semidisteso a terra con la schiena contro la roccia, e si stupì di non leggervi all’interno il disprezzo e la freddezza che era solito riservarle. Il Nano la fissava come se la vedesse per la prima volta, come se si fosse completamente dimenticato della sua presenza, le labbra dischiuse e le sopracciglia aggrottate in un’espressione di confusa sorpresa. Si fissarono in silenzio, senza riuscire a emettere un suono.
Poi un agghiacciante muggito alla sinistra di Elinor interruppe quell’attimo di tacito stupore, e la ragazza, voltandosi, fece appena in tempo a scorgere un ultimo Orco avventarsi su di lei prima che l’essere calasse l’alabarda sulla sua testa. Con un grido di una ferocia selvaggia dovuto alla tensione e alla paura accumulate in quei lunghissimi minuti, Elinor lo trafisse alla gola con l’ultima freccia rimastale e lo guardò rotolare a terra gorgogliando per il sangue che gli usciva a fiotti dalla bocca.
Fu solo quando l’Orco ebbe smesso di dimenarsi e fu rimasto immobile, che la ragazza, insieme all’improvviso silenzio, sentì calarle addosso una spossatezza indicibile. Indietreggiò barcollando finchè non raggiunse una roccia, e si abbandonò a terra con la schiena poggiata contro di essa, ansimando esausta. Voltando appena la testa, vide Thorin fissarla ancora con gli occhi azzurri spalancati, boccheggiando come se cercasse le parole per dire qualcosa e non riuscisse a trovarle. Il suo sguardo era quello di uno che avesse assistito all’improvviso crollo tutte le sue certezze e stesse tentando di venire a patti con questa inesorabile evidenza.
«Voi mi avete… salvato la vita» esalò con voce roca, quasi non credendo alle sue stesse parole.
Elinor non rispose. Non ci riuscì. Si limitò a fissarlo con aria altrettanto smarrita, il petto che si alzava e si abbassava in modo irregolare e l’arco ancora stretto spasmodicamente nella mano sinistra.



ANGOLO AUTRICE: Le fatiche di Ercole sono state una passeggiata in confronto a questo capitolo, ma per fortuna rieccomi qui! Come avete visto, succedono diverse cose interessanti, sia ai fini dell’evoluzione del rapporto tra Elinor e Thorin, sia ai fini della riuscita del piano per rubare l’Archepietra…ma come al solito mi piacerebbe avere il vostro parere in proposito! Purtroppo Thorin si è rivelato di nuovo essere simpatico come un dito in un occhio, ma, come avrete capito, dal prossimo capitolo le cose miglioreranno sensibilmente;)
A questo punto non mi resta che augurarvi buona lettura!
Saluti
Linda



   
 
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