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Autore: Medea00    07/03/2013    28 recensioni
Era mai possibile svegliarsi di colpo tre anni nel futuro, con la sola eccezione di trovarsi nel presente?
Tratto dal capitolo 4:
Tre anni. Tre anni... equivalevano a millenovantacinque giorni.
Millenovantacinque giorni completamente cancellati dalla memoria. Vista da quella prospettiva, però, sembrava meno spaventoso: non erano dieci milioni, e nemmeno cento mila. Erano soltanto millenovantacinque. Un migliaio di giorni persi. Contando quanto il tempo passasse in fretta, e quanto i giorni si susseguissero senza nessun avvenimento rilevante, alla fine quanto potevo essermi perso? Duecento, trecento avvenimenti importanti?
Genere: Commedia, Generale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Blaine Anderson, Kurt Hummel | Coppie: Blaine/Kurt
Note: AU, Lime, Otherverse | Avvertimenti: Triangolo
Capitoli:
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 Il futuro è come il paradiso: tutti lo esaltano, ma nessuno ci vuole andare adesso.
J.M. Baldwin




Non ricordavo niente.
Ero sbronzo e non ricordavo assolutamente niente.
“Kurt!”
All'improvviso, Mercedes mi affiancò brandendo un Cosmopolitan ormai praticamente finito: il suo alito odorava fastidiosamente di alcool e quel sorriso non l’abbandonava da ore.
“Kurt, Kurt, non è bellissimo?”
Ero troppo ubriaco per intuire a cosa si stesse riferendo, così, come nei migliori film polizieschi da noleggiare in videocassetta quando non si ha niente da fare, cominciai a scartare tutte le varie opzioni per ricavarne una mia astuta deduzione. Dunque, il locale non era bellissimo. Era un misero disco pub in cui ci aveva trascinato Tina, solo perché lei voleva vedere quel ballerino figo che si esibiva sempre dalle due di notte in poi e noi non avevamo avuto il coraggio di abbandonarla. Le pareti, per quanta gente c’era, sembravano dotate di sudore proprio e la musica ormai era diventata un fischio assordante che si ripeteva monotono nelle mie orecchie; sapevo bene che quel ronzio sarebbe terminato soltanto un paio di giorni dopo, con tanta pazienza e aspirina.
Mi guardai intorno per cercare di capire se ci fosse qualche ragazzo definibile bellissimo, ma le luci psichedeliche e la mandria di persone intorno mi convinsero a lasciar perdere. Era praticamente impossibile che Mercedes avesse adocchiato qualcuno che fosse percepibile a più di mezzo centimetro di distanza: era ubriaca quanto - se non di più- di me.
La risposta al mio irrisolvibile teorema raggiunse la soluzione nel momento in cui la sentii aggiungere: “Finalmente potrò farmi valere per quello che sono!”
Ecco di cosa si trattava.
“Sì, è fantastico”, mormorai poco convinto, più per cortesia che per vero interesse, perché in realtà stavo morendo dall’invidia. Mercedes aveva ottenuto ben tre battute nel musical di fine anno della Nyada, e io nemmeno una. Sicuramente quello sarebbe stato il suo trampolino di lancio per diventare prima attrice nella compagnia dell’accademia; io avevo lavorato tanto per farmi valere e mettermi in mostra, ma avevo capito di aver sbagliato tutto solo quando Madame Tibidaux si era presentata a lezione con le sue maledette lettere in busta filigranata e ne aveva data una a Mercedes, ignorandomi disinvolta.
Non avevo fatto colpo sugli insegnanti. Non avevo ottenuto un ruolo degno di nota, in quella stupida recita finale, anzi: ero un elfo. Uno di quegli elfetti che saltellavano e ridevano come cretini che avevano appena ingerito un badile di elio. Zero battute, tante risate e comportamenti ridicoli; insomma, il mio personalissimo anticristo.
“Dai Kurt, non te la prendere”
Leggendo la sconfitta sul mio viso, la mia migliore amica cercò di consolarmi.
“Quest’anno è andata così, capitano a tutti dei compleanni no.”
Ah, già. In tutto questo, mi ero scordato di dire che era il giorno del mio compleanno. Tanti auguri a me. Bel modo di iniziare i venti anni, davvero.
“Sono sicura che arriverà il tuo momento.”
“Certo, Mercedes.” Mormorai inespressivo, con i miei occhi che osservavano placidamente il bicchiere di vetro scheggiato: “Magari quando mi sarò diplomato alla Nyada arriverà il momento di sloggiare. Vorrei soltanto avere un briciolo di considerazione.”
Stetti bene attento a non farmi sentire dalle stelline dell’accademia, quali Rachel Berry e il suo bel fustone di Brody insieme alla loro allegra compagnia del fantabosco. Mi sembravano soltanto un gruppo di fighetti di legno con una bella voce e tanta fortuna dalla loro parte.
“L’avrai, ne sono sicura.”
Nemmeno Mercedes sopportava più di tanto quelle persone; era un po’ come essere al liceo, con la sezione dei popolari sempre amati dai professori e, dall’altra... noi.
Gli “ammessi per puro caso”. Le comparse.
Beh, almeno Mercedes aveva spiccato con il suo ultimo assolo di Aretha Franklyn che le aveva garantito tre battute. Io invece avrei passato i restanti cinque mesi dell’anno scolastico a ripetere la mia importantissima, nonché difficilissima, battuta: “Questo è a dir poco inconsueto, ah ah ah.”
Inconsueto. Perché non mi davano direttamente una corda così mi appendevo per il collo da solo?
Forse preferivano prendersi lentamente gioco di me, in un perverso meccanismo di tortura e umiliazione cocente.
“Con Finn come va?”
Giusto, altro argomento particolarmente simpatico. Il ragazzo per cui avevo una cotta a dir poco stellare era diventato un mio quasi-fratello non di sangue. Stellare, nel vero senso della parola: quando lo guardavo vedevo le stelle. Sarà perché dovevo sempre alzare la testa fino al cielo per guardarlo, tanto era alto. Ma comunque. Finn era il figlio di Carol, la nuova fidanzata di papà. Non ero ancora sicuro se mi piacesse o no questa cosa: li avevo presentati al liceo, un po’ per gioco, perché erano entrambi vedovi e amanti del denim scolorito. Come potevo immaginare che si sarebbero presi sul serio? In salute e in malattia, per giunta. E adesso mi ritrovavo a dover affrontare una cotta gigantesca per il mio fratellastro che, ovviamente, era etero. Mentre io ero un ventenne gay, single da una vita, matricola e con una importantissima battuta sull’inconsueto. Di inconsueto ci sarebbe stato solo il pugno che avrei dato in piena faccia a quella saputella di Rachel Berry.
Quanto la odiavo.
“Come sempre”, risposi cortesemente dopo qualche secondo, perché era tornato a Lima da mio padre e Carole, e io, con un briciolo di fortuna, non l’avrei rivisto mai più.
Proprio per quel motivo, ora mi ritrovavo nel bel mezzo di un pulcioso disco pub di periferia, del tutto intenzionato a bermi perfino il cervello: dicevano sempre che l’alcool aiuta a dimenticare, e io avevo proprio bisogno di dimenticare quell’assurdo periodo della mia vita.
Ma erano le tre e mezza, ormai, la mattina dopo ci sarebbero state le prove per lo spettacolo, e un personaggio fondamentale come me non poteva certo far tardi. Sarebbero stati in grado di togliermi anche quella misera battuta che avevo.
“Andiamo ‘Cedes”, l’afferrai per un braccio, trascinandola a stento fuori dalla calca. “Adesso chiamiamo un taxi.”
Ma, ovviamente, quella serata non poteva certo concludersi nel migliore dei modi. Le strade di Manhattan erano piene di persone affollate sui marciapiedi in cerca di un passaggio, mentre cercavano di ripararsi dalla pioggia e imprecavano contro questi temporali che non piacevano mai a nessuno.
“Dov’è Tina?!” Sbottai in un momento di lucidità quasi totale, ma bastò voltarsi un attimo per trovarla al riparo sotto l’insegna di un locale chiuso, intenta a sbaciucchiarsi profondamente il suo adorato Mike Chang.
Benissimo. Una persona in meno per cui cercare un passaggio.
“Mercedes, tu aspettami qui. Io cerco un taxi.”
“Ma Kurt, sei ubriaco!”
Sicuramente sono più lucido di te, pensai, ma le volevo troppo bene per risponderle male, e di certo non potevo riversarle addosso la mia stupida invidia senza un vero motivo: io e Mercedes eravamo amici sin dai tempi del liceo, ci eravamo sempre supportati a vicenda, uniti anche nelle difficoltà. E sì, forse, almeno un pochino, mi sentii un po’ uno stronzo per aver pensato soltanto male cose di lei, ma che diavolo, non avevo certo abbandonato la mia famiglia e i miei pochi amici del Glee Club per andare alla Nyada e interpretare uno stupido elfo dalla risatina isterica.
Mentre attraversavo a grandi passi il viale, una macchina dalle dimensioni di un piccolo camion mi passò proprio a mezzo metro, schizzandomi completamente da capo a piedi di acqua grigiastra. Perchè, giustamente, non era ancora successo, e non sia mai che Kurt Hummel non si becchi tutte le sfighe del mondo in una volta sola.
“Taxi, taxi!”
Un’auto gialla mi sfrecciò proprio accanto, ignorandomi del tutto per far accomodare due graziose signorine in tacchi a spillo e minigonna, arrivate da meno di mezzo minuto. Certo, era comodo vincere così. Peccato che io, anche se avessi voluto spogliarmi –e, per quanto ero sbronzo, avrei benissimo potuto farlo-, non avrei certo vantato un corpo tale da far fermare un taxi in corsa. Purtroppo i miei allenamenti alla Nyada erano soltanto all’inizio, e al Glee Club avevo fatto ben poco. Avevo le maniglie dell’amore, le guance paffutelle, i capelli da chierichetto e, in quel momento, anche dei vestiti completamente zuppi. E no, nessun effetto camicia bagnata, semmai, era più un effetto pulcino zuppo da testa a piedi.
Digrignai i denti, imprecando contro nemmeno io sapevo cosa e fermandomi proprio sul ciglio del lungo viale.
Odiavo tutti.
Odiavo il mega furgone, odiavo la Nyada, odiavo Finn e odiavo tutta la mia vita.
Perché diavolo l’alcool non mi aveva fatto star meglio?! Mi sentivo uno straccio. Volevo soltanto andare a casa, mettermi dei panni asciutti e guardarmi Orgoglio e Pregiudizio piangendo per un signor Darcy che non avrei mai incontrato. E poco importava se non avessi trovato il taxi per Mercedes, se la sarebbe cavata da sola. Esattamente come facevo io da circa venti anni.
“Basta”, urlai contro me stesso. Se il taxi non si fosse fermato, lo avrei fermato io con la forza.
Fu per quel motivo che decisi di attraversare.
Fu per quel motivo che, proprio nel bel mezzo della strada, mi fermai.
Mi immaginavo che una macchina inchiodasse all’ultimo momento come erano solite fare nella maggior parte dei film americani.
Ma la macchina non inchiodò. Il drink che avevo in mano mi scivolò dalle dita.
Infine, il buio.
Come quello di un cambio di scena, tra un sipario e l’altro.
 
 
 
“Kurt, Kurt sei sveglio? Si sta risvegliando, grazie al cielo!”
Che ore sono.
“Le dodici e mezza, Kurt.”
Dove siamo.
“Sei... sei in ospedale, ma ti prego, non dare di matto.”
Che ore sono.
Quando riaprii gli occhi, davanti a me si presentò uno scenario piuttosto... inconsueto.
Le mie mani erano adagiate su delle lenzuola bianche e fresche, accanto a una flebo penzolante, riempita di un liquido trasparente e strano, e intorno a me le immagini impiegarono parecchi minuti prima di assumere la giusta luminosità, passando da un bianco pallido, a un nero bruciato, e poi, finalmente, dei colori che mi sembrarono molto più normali.
Mi trovavo in un lettino d’ospedale.
“Kurt, come ti senti?”
Mi girava la testa. Ma quel ronzio da post-discoteca era misteriosamente assente.
“Che ore sono?”
“... Le dodici e mezza. L’hai già chiesto tre volte.”
“E’ colpa dell’anestesia”, spiegò Carole. Oh, Carole. Mi voltai verso la compagna di mio padre e per poco non persi di nuovo conoscenza: sembrava invecchiata. No, era invecchiata. Non la vedevo da un paio di mesi, eppure, le sue rughe di espressione erano più accentuate, i capelli brizzolati, le mani rugose attorcigliate a quelle di mio padre che, invece, sembrava soltanto più stanco del normale.
E papà aveva un nuovo cappellino con scritto “Nyada” sopra.
“Papà? Carole? Che ci fate qui?”
Si lanciarono un’occhiata eloquente, che però non riuscii bene a capire. Mi faceva troppo male la testa, cavolo, che cosa c’era in quel maledetto drink?
“Siamo...”
“Non ricordi niente, Kurt?” Intervenne Carole, con un’espressione piuttosto preoccupata, mascherata da una più fredda e professionale. E il fatto che mi stesse trattando come un paziente, piuttosto che come un figlioccio, non era affatto rassicurante.
“No”, ammisi, dopo aver tentato e ritentato di riuscire a connettere parte della mia memoria. Ma fu del tutto inutile: non ricordavo niente. Assolutamente niente.
Un momento prima ero a cercare un taxi per me e Mercedes... e poi, cos’era successo?
“Non sai quanto sono felice di vederti sano e salvo”, ammise mio padre, trattenendo a stento un sospiro. Il mio cuore si sciolse come avvolto da una coperta calda e mi sporsi per abbracciarlo, ma i dolori me lo impedirono.
“Rilassati”, mi rassicurò, accarezzandomi dolcemente la fronte, “Pensa a riposare.”
“Dovremmo avvertire Finn”, suggerì cortesemente Carole, e al solo sentire il suo nome le mie guance avvamparono immediatamente e mi sentii un vero e proprio stupido.
“Sì, chiama anche Brody e Rachel. Mi hanno scaricato il cellulare a forza di tutte quelle telefonate.”
Chi?
“Hai detto... Brody e Rachel?”
Quei Brody e Rachel?!
“Ma certo Kurt, pensavi che non si fossero preoccupati? Ci hai fatto prendere un bel colpo ieri sera.”
Ma a chi? Ma quando? Ma soprattutto, gli sembrava il momento di fare scherzi del genere, prendere in giro il suo povero figlio su un lettino di ospedale?! A volte l’insensibilità di mio padre era a dir poco disarmante.
“... Papà, davvero, non mi fa ridere. Lo sai quanto la mia vita in questo momento sia una merda, lo sai quanto ci sono rimasto male perché Mercedes ha ottenuto tre battute e io soltanto una, e tu cosa fai? Mi tiri fuori quei due che vorrei tanto legare insieme come palloncini da animazione e stritolarli? Sei incredibile, sul serio.”
E mio padre, in risposta, spalancò gli occhi in un tono molto sorpreso.
“E’ meglio chiamare il dottor Henricksen.”
“Burt” sibilò lei, visibilmente allarmata: “Ha preso una brutta botta. Potrebbe essere più grave di quanto sembri.”
“Ma di cosa state parlando?”
Perché continuavano a trattarmi come un bambino? Perché facevano finta di ignorarmi? E perché, soprattutto, la testa sembrava scoppiarmi come una bomba a pressione?
“Che ore sono?” Domandai.
“... Le dodici e mezza, Kurt.”
Mio padre mi guardò come quella volta in cui mi disse di aver perso la mamma. E poi, sopraffatto dalla stanchezza, mi riaddormentai.
 
 
 
L’impatto con il secondo risveglio fu molto più sensato.
Capii subito di trovarmi in ospedale, e di aver subito un brutto incidente: il mio corpo era indolenzito da capo a piedi, ma appariva funzionante. Avevo un braccio gessato fino al polso, e la flebo che penzolava da un lato della brandina conteneva della morfina ad alto dosaggio.
Il fatto di ritrovarmi da solo, senza Papà o Carole a tartassarmi di domande con il loro fare ansioso, mi permise di concludere un paio di ragionamenti e cercare di fare due più due. Mi trovavo in ospedale. Dovevo aver subito un incidente, dunque. Non mi ricordavo cosa fosse successo, ma non ci volle molto ad intuirlo: un momento prima ero a cercare un taxi, un momento dopo ero sotto il taxi. Non faceva una piega. La consapevolezza di essere vivo e quasi del tutto integro, fu l’unica ancora di salvezza che non mi fece svenire di nuovo: poteva andarmi molto peggio. Per una volta tanto, Kurt Hummel era stato fortunato.
Quello che non tornava, però, era tutto il resto: come ci ero arrivato in quell’ospedale? Mi ci aveva portato Mercedes? O Tina? Dov’erano ora? E perché Papà e Carole si trovavano lì? Anche se avessero preso il primo aereo, contando le ore di volo era impossibile che fossero arrivati subito. A meno che non avessi dormito più di quanto pensassi.
Mi chiesi che ore fossero.
Cercai qualche orologio appeso al muro, o uno appoggiato sul comodino, ma completamente rassegnato fui costretto a chiamare un’infermiera. Quest’ultima si presentò quasi subito, con un grazioso camice bianco e i capelli biondi raccolti in una coda.
“Signor Hummel. E’ sveglio!”
Pronunciò il mio nome come se fosse quello di un Dio. Che strana politica di relazione con i pazienti.
“Sì, adesso sono sveglio.”
“Vado subito a chiamare i suoi genitori. Erano qui fino a un momento fa, ma poi li ho mandati a casa perché-“
“Non c’è bisogno”, mi affrettai a dire, “Volevo solo sapere... beh, quanto ho dormito, cosa è successo...”
Sul volto della ragazza scomparve tutta quella sorta di trattenuta euforia, per lasciar spazio a un’espressione più cupa e tesa.
“Le faccio subito parlare con il dottore.” Balbettò, visibilmente tesa. Ero tentato di dirle che se un ragazzo in ospedale le faceva tutto quell’effetto, allora aveva chiaramente sbagliato lavoro.
“Intanto, le lascio la sua borsa con tutti gli effetti personali rinvenuti dopo l’incidente.”
Oh, allora era stato un vero e proprio incidente. Chissà se il mio corpo era volato a metri di distanza, proprio come nei film?
La signorina mi porse una borsa a tracolla interamente fatta di cuoio, facendola scivolare maldestramente sul mio grembo e affrettandosi subito a raccoglierla.
“Oh, mi-mi dispiace signor Hummel!”
Forse tutto quel comportamento strano non era a causa mia; forse, lei era strana di suo. Esistono le persone strane, no?
“No-non mi era mai successo, è che sono così tesa...” abbassò gli occhi scuri cercando di contenere il rossore sempre più intenso delle sue guance. Io la guardai confuso, assolutamente allibito.
“E’ la prima volta che parlo con un VIP, perciò...”
E sì, in quel preciso momento mi guardai intorno per capire se mi fossi dimenticato di qualcuno presente nella stanza. Ma no, c’ero solo io. E allora ero io il VIP? E in quale emisfero di questo mondo, di grazia?
Non feci in tempo a chiederle spiegazioni, che la vidi sgattaiolare in corsia con fare indaffarato e la cartella stretta tra le dita. Spostai la borsa dal mio grembo e, così facendo, sollevai accidentalmente un pezzo del mio pigiama di seta.
Mi paralizzai di colpo.
Che cosa erano quegli addominali? Quando avevo fatto gli addominali? Dove erano finite le mie ciccette adolescenziali, la mia pancia liscia e morbida, le mie maniglie dell’amore? Adesso di fronte a me c’era un corpo da adulto; tonico, ben formato, con i muscoli al punto giusto, le gambe lunghe e soprattutto, un torace che non poteva essere mio. Per caso mi avevano operato per un trapianto di corpi?!
Passandomi una mano sulla testa, urtai la borsa accasciata da un lato del letto, e lì sorse un altro enorme problema. La tastai e rivoltai in tutte le direzioni possibili, e le mie sopracciglia si inarcarono sempre più cinicamente: quella non era mia. In effetti, ero assolutamente certo di non aver visto niente di simile prima di allora.
Era completamente di cuoio, con una tracolla in microfibra rinforzata con del cotone elasticizzato, e una zip color amaranto che si apriva tramite una chiusura del tutto particolare. Non riuscivo nemmeno ad aprirla, era una cosa mai vista prima, e non riuscivo assolutamente a crederci che quell’infermiera mi avesse dato la tracolla di qualcun altro. Ma forse era proprio la mia. Oppure, in quell’ospedale c’era un altro Kurt H. che si divertiva a firmare le borse.
Un momento: perché mai su quella borsa c’era l’etichetta “Kurt H.”?
“Signor Hummel, sono felice di vederla più lucido.”
Il dottor Henricksen era un uomo sulla cinquantina, dall’aria compita e la voce calda e rassicurante. Aveva l’aria di conoscermi da tempo, si muoveva e mi parlava con confidenza; pensai che fosse soltanto l’ennesima politica di relazione con i pazienti, tipo un giuramento di Ippocrate alla massima potenza.
“Le gira la testa?” Mi chiese, squadrandomi con i suoi occhi scuri mentre con una pila osservava ogni riflesso della mia pupilla.
“Un po’. Ma più che altro mi sento indolenzito.”
“E’ l’effetto dell’anestesia e dell’operazione. Le passerà tra qualche ora.”
“Operazione?”
Cavoli, allora era proprio vero che bere fa dimenticare. Il dottore si soffermò di scatto, con la pila che era in procinto di essere sistemata nell’apposito taschino del camice. Rivolse un’occhiata all’infermiera, e lei, impercettibilmente, fece un minuscolo gesto della testa, come per annuire a qualcosa. Non prometteva nulla di buono.
“Adesso mi deve ascoltare, signor Hummel. Non è facile spiegarle con chiarezza.”
Respira Kurt. Com’erano i corsi di respirazione che facevano alla Nyada? Diaframma fuori e diaframma dentro. Piano e accuratamente.
Attesi tutto il tempo necessario, ma all’ennesima esitazione del dottore, contrassi le labbra in una smorfia e sbottai: “Mi può spiegare che sta succedendo? Le prometto che non comincerò a urlare correndo mezzo nudo per tutto l’ospedale. So gestire bene le situazioni difficili.”
Ero abbastanza stufo di quella solfa. Volevo tornare a casa, chiamare Mercedes e spararci qualche telefilm. In fondo, a parte il braccio ingessato e il mal di testa temporaneo, stavo piuttosto bene. Facevano meglio a dimettermi subito e risparmiare un lettino per qualcun altro.
“... Qual è l’ultima cosa che si ricorda, signor Hummel?”
Ma che domande erano?
“Ricordo tutto fino a un attimo prima dell’incidente. Devo ammettere che avevo un po’ bevuto... anche se non mi era mai successo di perdere così tanto la memoria. Comunque stavo cercando un taxi per me e Mercedes, eravamo a un pub di Manhattan, pioveva a dirotto e-“
“Signor Hummel, questo non corrisponde alla dichiarazione che mi hanno dato i suoi genitori.”
Come sarebbe a dire?
“Mio padre e Carole non c’erano”, replicai con fermezza, e anche una punta di scetticismo. “Ero a un pub. Con la mia amica Mercedes. La può chiamare, se vuole. Anzi, lasci che prenda il mio telefono, sono sicuro che ci saranno un’ottantina di chiamate perse.”
Ma il dottore indugiò ancora una volta. Era come profondamente a disagio per qualcosa che non riuscivo nemmeno lontanamente a capire. Ma le cose erano due: o mi stava prendendo in giro, o ero stupido io. Era uno scherzo forse? Adesso sarebbe spuntata una telecamera con scritto “Sei su scherzi a parte”?
“Signor Hummel... suo padre mi ha detto chiaramente che vi trovavate a casa sua a festeggiare il suo compleanno, quando lei è inciampato ed è caduto per le scale a chiocciola.”
Scale a chiocciola? Ma quali scale? Nel mio appartamentino? Era già tanto che ci fosse una porta!
“Ha capito proprio male. Io non ho delle scale.”
“Era una festa con tutti i suoi amici”, mi ignorò il dottore, “Lo può confermare ognuno di loro. E’ caduto dalle scale e ha sbattuto forte la testa, oltre che aver riscontrato dei danni intercostali e una frattura al braccio.”
... Ma era una battuta forse? Se possibile, tutta quella messa in scena a dir poco ridicola mi fece innervosire ancora di più.
“Ma vi siete messi d’accordo tutti quanti?” Sbottai parlando trai denti, con le mani strette a pugno – per quanto riuscissi a stringerle – “Devo ridere per caso? Mi dispiace, alla Nyada non mi hanno ancora insegnato un corso di ‘risata per scherzi da idioti’. Magari lo farò al terzo anno.”
Va bene, forse ero stato un po’ troppo brusco. Lo capii dal modo con cui il dottore abbassò lo sguardo, come controllando qualcosa nella sua cartella; in fondo sapevo bene che dietro tutto quello c’era lo zampino di mio padre che non smetteva mai di inventarsi scherzi sempre più cretini.
“Signor Hummel, adesso le farò qualche domanda, e la prego di rispondere anche se le sembrano molto ovvie.”
“Certo”, sentenziai, “Nessun problema.”
Saranno le classiche domande di routine che fanno a qualsiasi paziente prima che venga dimesso. Finalmente, pensai, me ne potrò andare a casa.
“Può dirmi come si chiama?”
“Kurt Hummel”, risposi senza nessuna ombra di dubbio.
“Ed è nato nel?”
“1993.”
“Perfetto.” Lo vidi annotare qualcosa sulla cartella, prima di rialzare lo sguardo e fissarmi severo: “Ricorda dove si trovava ieri sera, più o meno verso mezzanotte?”
“Ero al pub con Mercedes.” Gli occhi del dottore, per un momento, si fecero più intensi. “C’era anche Tina, ma lei era troppo impegnata a pomiciare con Mike Chang. Pioveva a dirotto, non esistevano taxi e ne ho preso contro uno. Fine della storia.”
Insomma, non mi sembrava niente di così complicato, no? Ci saranno decine di incidenti del genere al giorno!
“Signor Hummel, lei ieri sera era a casa sua. Stava festeggiando il suo compleanno con i suoi genitori e
alcuni amici intimi. E’ scivolato ed è caduto da una rampa di scale.”
Sembrava sicurissimo.
“Dottore, non è possibile, mi sta confondendo con qualcun altro.” Gesticolai la mano libera di fronte agli occhi, come per fargli cenno di risvegliarsi, perché quello confuso mi sembrava lui, e tanto.
“Ieri ho festeggiato il mio compleanno con Mercedes e Tina. Non ce l’ho nemmeno le scale nel mio appartamento. Abito nel 225 di West Side.”
“Come dice?” Lo vidi scorrere la cartella con un dito, soffermandosi grosso modo a metà. “Qui dice che abita al numero 129 Greenwich Village.”
Sì. Certo. Ovviamente uno studente al primo anno della Nyada abitava nel quartiere più ricco di New York.
“Ci dev’essere un omonimo in questo ospedale”, dissi allora con voce piuttosto contenuta, “Ho anche trovato la sua borsa, l’hanno scambiata con la mia.”
Magari il ragazzo della borsa si chiamava Kurt Hudson. O Kurt Hammer. Kurt Hogan. Kurt Ho-un-cognome-che-inizia-per-acca-ma-che-non-è-assolutamente-Hummel.
Gli mostrai la sconosciuta borsa in cuoio, e in quel momento l’infermiera che era rimasta silenziosa fino ad allora scosse la testa piuttosto intimorita: “Mi scusi signore, ma quella è proprio la sua borsa. Ieri sera ero io di turno al pronto soccorso, mi sono occupata io dei suoi effetti personali.”
“Oh mio Dio non ci posso credere, mio padre ha coinvolto anche lei in questa sceneggiata?”
“Signor Hummel.” La voce severa del dottore mi fece ammutolire. Era impostata ma, allo stesso tempo, nascondeva una certa punta di dolcezza che mi fece sentire subito più vulnerabile.
“Le farò un’ultima domanda”, aggiunse infine. “Mi sa dire in che anno siamo?”
In che anno?
“Nel 2012”, risposi.
E in quel momento mi guardarono come se avessi appena detto che alle elezioni aveva vinto Mitt Romney.
“Signor Hummel, questo è il 28 maggio del 2015.”









***

Angolo di Fra


Salve, sono Fra! Forse vi ricorderete di me per fanfiction quali "Come un HEADSHOT al cuore", "Blame it on Blaine", e adesso state leggendo questa frase con la voce di Troy McClure!

Detto questo. Vi presento la mia nuova long-fic, KLAINE (ci tengo a specificarlo vista la trama futura...) e signore e signori NON HA RATING VERDE! Ma questo non vuol dire che ci sarà lo smut spaccacervella. Quello mai. Ci ho pensato molto su cosa pubblicare e quando pubblicare, e alla fine con l'aiuto della mia amica SeleneLightwood (fate un salto nella sua pagina!) abbiamo deciso oggi, perchè è il Glee day (e perchè sappiamo tutti cosa succederà questa sera), ma anche perchè ultimamente il fandom mi sembra molto teso. Speriamo di allentare un po' la tensione con qualche lettura tranquilla :)

Comunque, due piccole precisazioni:
a) Non so quando aggiornerò. Ho pronti alcuni capitoli ma non vorrei rimanere a corto tra un mesetto. Comunque di tanto in tanto controllate la pagina dove vi terrò aggiornati!
b) Questa storia si ispira (un po' liberamente) al libro "Ti ricordi di me?" Di Sophie Kinsella. Quindi sì, tutti gli elementi in comune sono VOLUTI. E con questo tengo a precisare che non mi appartiene Glee, non mi appartiene il libro della Kinsella e Dio mi salvi, non mi appartiene tutto quello che ha inventato Ryan Murphy.

Insomma, fatemi sapere se questo primo capitolo vi ha convinto, e in caso contrario siete libere di infamarmi. In ogni caso, GRAZIE a chi ha letto altre mie storie e ha voluto leggere anche questa.

Fra
   
 
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