Film > X-men (film)
Ricorda la storia  |      
Autore: margotj    11/03/2013    4 recensioni
IT'S TIME [X-men - First Class]
Spoiler per: Nessuno, basta aver visto il film. Allusioni varie.
Pairing: .../...
Rating: Angst, Friendship... Slash solo per chi vuole vederlo così: non l'ho scritto con quell'intenzione ma, allo stesso tempo, non ho nulla contro le riletture personali. Dopotutto, sono alla base di ogni fanfic.
Timeline: circa un anno dopo i titoli di coda.
Disclaimer: i personaggi non appartengono ai legittimi proprietari. L’autrice scrive senza alcuno scopo di lucro e non intende violare alcun copyright.
Nota dell'autrice: piove. E io sono in vena di picchiare sui tasti. Suonerei il piano, ne avessi uno e fossi capace. In mancanza di talento musicale, suono la tastiera del computer. E, con la forza del pensiero, obbligo la teiera a versarmi una tazza di the.
Genere: Angst, Dark, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Charles Xavier/Professor X, Erik Lehnsherr/Magneto
Note: Movieverse | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

IT'S TIME

[X-men - First Class]

 

di MargotJ

 

Spoiler per: Nessuno, basta aver visto il film. Allusioni varie.

Pairing: .../...

Rating: Angst, Friendship... Slash solo per chi vuole vederlo così: non l'ho scritto con quell'intenzione ma, allo stesso tempo, non ho nulla contro le riletture personali. Dopotutto, sono alla base di ogni fanfic.

Timeline: circa un anno dopo i titoli di coda.

Disclaimer: i personaggi non appartengono ai legittimi proprietari. L’autrice scrive senza alcuno scopo di lucro e non intende violare alcun copyright.

Nota dell'autrice: piove. E io sono in vena di picchiare sui tasti. Suonerei il piano, ne avessi uno e fossi capace. In mancanza di talento musicale, suono la tastiera del computer. E, con la forza del pensiero, obbligo la teiera a versarmi una tazza di the.

 

It’s time to begin, isn’t it?
I get a little bit bigger, but then I’ll admit
I’m just the same as I was
Now don’t you understand
That I’m never changing who I am
(It's time, Imagine Dragons)

 

E’ tempo di iniziare, vero?/Sono cresciuto un po' di più, ma devo ammettere che/sono rimasto lo stesso di un tempo

Non riesci a capire che/non cambierò mai chi sono

 

 

La scacchiera era ancora come l'avevano lasciata. Qualcuno la spolverava, regolarmente. E, dall'odore dolce che emanava, Charles non dubitava che fosse anche incerata, con meticolosa regolarità, dall'invisibile servitù di Westchester.

Eppure era ancora come quella sera. I pezzi già fuori gioco giacevano ordinatamente sul ripiano, quelli sulle caselle erano come congelati nel tempo.

Ormai, Charles ne conosceva a memoria ogni particolare. Sedeva sulla propria poltrona, la sedia a rotelle distante un braccio e osservava, in perenne attesa di una risposta alla propria mossa.

La torre nera, poi, attirava sempre il suo sguardo: aveva una venatura più chiara, quasi una crepa, dalla base alla merlatura.

Un segno di imperfezione che la rendeva diversa dalla sua gemella.

Un'imperfezione o, forse, una mutazione.

Charles sorrise, lasciando andare il capo contro lo schienale in pelle.

Tutto riportava sempre al grande quesito: dove finiva la normalità? E ciò che non lo era? Era abominio o genio?

 

Ancora non sapeva decidersi.

Ancora invidiava la sicurezza di Erik a riguardo.

 

Sospirò e riaprì il libro che stava leggendo. La scuola era silenziosa, l'orologio aveva suonato le due già da qualche minuto, ma Charles non si sentiva stanco. Era piacevole quella solitudine ovattata, l'assenza di crepitio tra le braci nel camino, l'assenza di passi, luci, parole.

Poche ore e sarebbero tornate le voci, le lezioni, la presenza degli studenti, come una carezza tra gli emisferi cerebrali. In un anno, la casa si era popolata di ragazzi, ragazzi speciali, talvolta vergognosi, talvolta fieri.

Figli di Cerebro, li chiamava scherzosamente Alex.

I figli di C.

C, come Charles. Ma nessuno lo diceva apertamente.

Forse perchè Charles, con meno di trent'anni, i ricci ribelli e il peso dell'evoluzione umana sulle spalle, era comunque troppo giovane per sembrare una figura paterna. Ma Alex non mentiva.

Oggi, figli di C. Domani, uomini di X.

Eppure, giovane o no che fosse, Charles, per un ognuno di loro, giorno dopo giorno, aveva scoperto di avere forza, forza e volontà più che per ogni altra cosa. Alzavano lo sguardo per essere guidati, per trovare una spiegazione così valida da poter accettare loro stessi senza provare più paura e lui rispondeva.

C'era stato un tempo, forse, prima di divenire il Professor Xavier, in cui la mutazione si era confusa con la vanità e con l'orgoglio personale ma ora, mutilato nella parte umana e sempre più forte in quella mostruosa, Charles riscopriva in se doti genuinamente primitive: proteggere i deboli, guidare i dispersi, accogliere i bisognosi.

Non vedeva nulla se non questo: proteggere.

E questo avrebbe insegnato, tra quelle mura.

Sospirò, richiuse il libro e tornò a fissare la scacchiera.

Niente da fare, non era una notte solo per leggere.

Alzò gli occhi verso la poltrona vuota innanzi a sé.

Da lì, con la voce bassa e senza battere ciglio, Erik gli aveva dato dell'arrogante.

Arrogante.

Charles si accarezzò, pensoso, la coscia. Il contatto non gli trasmise nulla di diverso da quello che provava con le dita sul velluto del bracciolo ma, si sa, le vecchie abitudini son difficili a morire.

Con le gambe se ne era andato ben poco dei vezzi che aveva sempre avuto: amore per i capelli, giocare con le tasche dei pantaloni, intrecciare le mani, fissare il proprio interlocutore senza alzare mai la testa.

Talvolta, durante le lezioni e gli incontri, gli mancava accavallare le gambe, allungare le braccia, pensare a se come a un gatto comodo e rilassato.

Ma la sera, mentre scivolava sulle vecchia poltrona abbandonando la sedia per qualche ora, se chiudeva gli occhi, aveva l'impressione di poterlo ancora fare.

Accarezzò quindi la coscia, ancora, distese le dita. Come un gatto. E chiuse gli occhi.

La tensione, l'impulso partì dal cervello, riempiendolo dell'immagine, della sensazione di poter contrarre i muscoli, obbligare la gamba destra a scavalcare la sinistra. Strinse di più la copertina del libro e lasciò che il brivido discendesse lungo la spina dorsale e si disperdesse, laddove dove il passaggio era sbarrato per sempre.

Ma non c'era dolore, quando tutto questo avveniva. Solo rassegnazione, pacata e distaccata rassegnazione.

Aveva altre risorse, dopotutto. E, avesse voluto, la mente avrebbe costruito per lui castelli con lunghi corridoi in cui correre, correre in eterno.

Se solo avesse voluto...

 

Arrogante.

Lo sono.

Sorrise, divertito.

Sono arrogante e vado fiero del mio ruolo. Salire in cattedra è potere.

Potere allo stato puro.

Ma il potere non è pericolo, se si sceglie come esercitarlo.

E io so farlo.

 

“Sono arrogante.” - si ripetè, accennando un mezzo sorriso.

Eccome se lo sono.

E, in quell'attimo, la mente gli si riempì di aghi.

 

***

 

Westchester, ormai, con l'aiuto di Hank McCoy, sembrava, oltre che una scuola, una fortezza: rispolverati i passaggi segreti, ampliati i sotterranei e potenziate le risorse tecnologiche, era divenuta una specie di camera blindata in cui l'accesso implicava un invito dal padrone di casa.

Tuttavia, esistevano zone franche. Buchi, li chiamava con tono insoddisfatto McCoy, studiando le cartine e perdendoci sopra grandi ciuffi di pelo blu.

Buchi nelle difese, finestre da cui passare, con un minimo di astuzia e... come dire... doti particolari?

Già. Hank si riferiva ancora così ai mutanti, con il tatto che si riserva alle persone disgraziate, il disagio di non sapere come accogliere l'anomalia nella propria vita.

Forse, lavandosi i denti al mattino, aveva lo stesso dialogo imbarazzato con il proprio riflesso nello specchio... ma Charles non aveva mai osato domandarglielo negli interminabili monologhi con cui lo scienziato gli prospettava le difese da questo, quello, quell'altro pericolo.

Alcuni passaggi vanno lasciati, ripeteva solo, con pazienza. Chiuderci dentro, al sicuro, fino a non riuscire più ad uscire non mi sembra un buon piano.

Hank, a malincuore, ammetteva la validità dell'obiezione. Ma non si arrendeva, riunione su riunione.

“E sia, buchi per uscire.” - aveva concesso, infine, un giorno, scontrandosi con la genuina pazienza di Charles - “Ma cosa faremo il giorno in cui qualcuno li userà per entrare?”

“Aspettiamo di sapere se sono amici o nemici.” - gli aveva risposto il professore, osservandolo arrotolare le planimetrie e passare all'invenzione successiva - “Poi agiremo.”

Ora, memore all'improvviso di quell'episodio, innanzi alle due figure che apparivano nel suo studio, Charles scoprì di aver dimenticato di considerare un'opzione.

 

E se non fosse stato in grado di capire se erano amici o nemici?

 

***

 

Azazel, il teleporta. Difficile non riconoscerlo, visto il colore della pelle e la coda.

Nemico. Senza ombra di dubbio.

Nemico.

Ma l'altro... Charles, con le dita già sulla tempia destra e pronto a combattere, si bloccò.

 

Nemico?

 

Non riusciva a vederlo come tale.

E, in quel momento, atroce, comprese che non ci sarebbe mai riuscito.

 

C'era Erik.

Erik.

E il rosso del suo sangue andava confondendosi con il braccio di Azazel che lo sorreggeva.

 

***

 

Lo strappo nello spazio-tempo lo aveva attraversato come una scossa. Ma fu nulla a confronto della sorpresa con cui registrò quei particolari. Erik. Erik e quel suo infernale teleporta, impegnato a tenerlo in piedi.

Sangue.

Era coperto di sangue.

La rabbia,ingiustificata e irrazionale, lo invase, così violenta da farlo tremare. L'unghia dell'indice gli penetrò quasi nella tempia.

“Lascialo!” - gridò, dritto nel cervello dell'essere - “Lascialo e vattene.”

Il mutante esitò, disorientato dalla violenza, che rendeva il messaggio confuso. Charles sentì il sapore amaro dell'adrenalina fino in gola e strinse le labbra dominandosi.

Se non lo faceva, avrebbe fatto scappare tutti i ragazzi dai loro letti.

“Lascialo.” - ripetè, divenendo forte nell'imporsi su quella mente - “Vattene in pace, lui sarà al sicuro.”

E Azazel, volente o nolente, ubbidì, scomparendo.

Quando svanì, in una nube rossa e polverosa, Charles vide Erik restare in piedi, sulle proprie gambe, con le proprie forze. E provò sollievo, autentico sollievo.

Amico mio...

Poi, lo vide cadere.

 

Cadere.

Cadere.

Cadere.

 

Erik, l'invincibile.

Eric, che per lui non avrebbe dovuto essere altro che una vertebra rotta, un punto in frantumi dove la rabbia diveniva insensibilità.

Eppure dimenticò.

Dimenticò l'accaduto, le parole, il dolore, tutto.

Dimenticò di non poter camminare, dimenticò quel punto del suo corpo in cui ogni sforzo cedeva il passo al nulla. Si afferrò ai braccioli e si lanciò, i muscoli delle spalle in tensione per lo sforzo di sollevare tutto se stesso, di raggiungere lui.

Con disperato raziocinio, rallentò il tempo, forzò le proprie potenzialità telecinetiche e si protese, afferrandolo.

Volarono insieme sul tappeto, Erik malamente difeso dalle sue braccia, dal suo corpo rotto. Il tavolino si ribaltò, i pezzi della loro partita abbandonarono la scacchiera, rotolando fin negli angoli.

Erik era caldo. Terribilmente caldo. Ma, con orrore, Charles comprese che quel calore era tutto ciò che restava della sua vita. E che già, irrimediabilmente, gli macchiava le mani.

 

***

 

Per gli abitanti di Westchester, lui era semplicemente Bestia. O, in situazioni ufficiali, professor McCoy. Ma, per Charles, sotto tutta quella pelliccia, era ancora solo Hank, il genio goffo e insicuro che non amava i libri di Stevenson.

La mutazione lo aveva rafforzato nel fisico e aveva calmato le sue peggiori inquietudini, ma non aveva interferito con la personalità originaria. Per cui, Hank, muovendosi per il centro medico, al secondo livello dei sotterranei, sembrava solo un orso in preda ad una crisi di nervi.

“Un teleporta.” - mugugnò, per l'ennesima volta, portando un'altra apparecchiatura più vicina alla barella - “Un teleporta nel nostro salotto.”

“Per l'esattezza sul tappeto del mio studio.” - rispose Charles. Era nuovamente sulla sedia a rotelle e teneva un braccio piegato perché Alex potesse bendarglielo, dopo averlo sbattuto durante il volo da angelo con cui aveva affrontato il problema - “E sarò pronto a ogni tua lamentela quando mi dirai ciò che mi interessa sentire.”

Hank gli rifilò un'occhiata seccata, da dietro gli occhiali che non gli servivano più ma che continuava ostinatamente a mettere.

“Perchè è qui?” - borbottò, ancora, premendo ancora qualche tasto.

“Non abbiamo avuto il tempo di parlarci.” - rispose Charles, verificando la fasciatura e ringraziando Alex con un cenno. Poi, ignorando i dolori generalizzati che aveva a schiena e braccia, si spinse più vicino al letto - “Allora?”

Erik era in uno stato penoso. E vederlo, senza particolar fantasia, sembrava uscito da un'esplosione: ustioni e micro ferite, come schegge, dappertutto, con intermezzi decisamente più preoccupanti, quasi virgole di carne viva lungo il torace.

Il teletrasporto di Azazel doveva aver temporaneamente bloccato le emorragie, il che spiegava l'improvviso sanguinamento che aveva tanto atterrito Charles, quando se lo era ritrovato addosso.

Umanamente, aveva aperto la bocca per gridare, chiamare aiuto e si era trattenuto solo per un soffio.

I ragazzi. Avrebbe svegliato i ragazzi, li avrebbe spaventati.

Aveva chiuso gli occhi e cercato la mente di Hank e quella di Alex, rese pastose da un paio di birre di troppo fuori orario scolastico. Li aveva svegliati, colpendoli con qualcosa di molto simile a una secchiata gelata dritta nelle sinapsi e ripromettendosi di porgere le più sentite scuse, sebbene non provasse nessun rimorso.

I due erano arrivati correndo e Charles, al momento, non poteva non capire l'ostinato silenzio di entrambi: trovare lui e il grande Magneto avvinghiati sul pavimento doveva essere sembrato quantomeno assurdo.

Opinabile, avrebbe detto Charles, ma non era certo che i ragazzi usassero un termine del genere.

Anzi, sulle loro facce e nelle loro teste, troneggiavano ben altri termini: la dicotomia amico/nemico che aveva frenato Charles dall'attaccare, non sembrava esistere da nessuna angolazione.

Magneto era un traditore, un bastardo quando era tra i buoni, un infame da quando era il cattivo numero uno.

Charles, per educazione e per rispetto, non commentò quei pensieri che filtravano da entrambi, mentre li raccoglievano da terra, soccorrendoli. Sapeva che lo avrebbero aiutato pur non approvandolo ed il minimo che poteva fare era, in una forma di rispetto, chiudere la mente e non tentare alcuna opera di convincimento.

Opera, per altro, si rendeva conto, così irrazionale da... no, la verità era che avrebbe voluto.

Mentre lo tiravano su da terra, mentre Alex lo aiutava a raggiungere la propria sedia a rotelle, mentre Hank si caricava Erik in spalla e scendeva le scale per non perdere tempo con l'ascensore, Charles avrebbe solo voluto mettersi ad urlare.

“Non vedete che è tornato? Non vedete che è uno di noi anche ora?”

Ma non lo era.

Non lo era.

E la sua bocca, disciplinata più dalla mente che dal cuore, si rifiutava di lasciar uscire quelle parole.

Erik era tornato. Ma sarebbe rimasto soltanto se fosse morto.

 

***

 

Hank gli aveva strappato i vestiti di dosso e lo aveva coperto con un lenzuolo, borbottando e ripetendo a se stesso alcune procedure di primo soccorso: adesso, tutto sommato, gli spiaceva essere rimasto indietro con gli esami di medicina, in quel semestre, avrebbe potuto fargli comodo un poco di tirocinio in più.

 

Del resto, dopo Cuba, si scusò con se stesso, c'è stato un po' da fare.

 

Alex e Charles lo avevano raggiunto mentre già si scervellava per capire quante fossero le ferite e quali fossero le prime su cui intervenire.

“L'ascensore è lento.” - borbottò, mentre i due entravano - “Potenziare il motore...”

Non credo sia il momento per preoccuparti delle carrucole, lo mise a posto Alex, come suo solito, incrociando le braccia e puntando i piedi. Avevano solo da chiedergli di fare l'infermiera per quel bastardo!

Charles si voltò, pronto ad ammonirlo. Poi ricordò i proprio propositi e si trattenne.

 

Del resto, ci stava già pensando Bestia.

 

“Alex, Charles sta sanguinando da un gomito. Renditi utile.” - gli disse, gettando alcuni strumenti chirurgici sul carrello. Niente, nemmeno una scheggia. Ma come era possibile?

“Non è sangue mio.”

“E' tuo, ha un odore diverso.” - fu la caustica risposta.

Charles non osò ribattere. Ormai era abituato a ritenere Hank come un enorme 'work in progress' mutante': la sostanza che si era iniettato non aveva giocato brutti scherzi solo a livelli dei bulbi piliferi, ma era intervenuta qui e là anche sugli organi di senso e, a intermittenza, veniva sempre fuori qualcosa di nuovo.

Si lasciò medicare poi, visto che Alex si era così chiaramente espresso tra sé e sé, si era avvicinato a Erik, con l'intenzione di aiutare.

Si era messo i guanti e aveva sollevato una delle garze. Si era proteso, cercando una pinza sul vassoio.

“Non ti serviranno.” - commentò Hank, con gli occhi fissi a un piccolo monitor - “Ci sono le ferite ma non ci sono le schegge. Nemmeno una.”

Alzò gli occhi, fissando Charles.

“Se le è strappate del corpo.” - aggiunse, grave - “E ha combinato un disastro.”

Come la pallottola della mia schiena, pensò Charles.

 

E, così, ha peggiorato la situazione.

 

Represse la nausea, lasciando ricadere la mano sul lettino.

“Ok, allora dammi ago e filo.” - rispose, con voce soffocata.

“Prima scopriamo quanto va ricucito dentro.” - replicò Hank, facendo finta di non vedere il suo disagio e, ringraziando, per una volta tanto, di aver tanto pelo per nascondere l'espressione - “E procuriamo del sangue del suo odor.... volevo dire gruppo.”

 

***

 

Odore o no, il gruppo sanguigno era stato recuperato. Contemporaneamente, era arrivato l'ossigeno. Charles gli aveva posato mascherina sul viso, sollevandogli la testa quanto bastava per far passare l'elastico.

Quando, con le dita, gli aveva sorretto la nuca, aveva sentito la sua mente.

Era stato un attimo, da cui si era ritratto con lo scatto che si ha davanti alla fiamma viva.

Uno straccio di immagine, distorta. Poi nulla.

Rimase incerto, le dita ancora tra i suoi capelli. Poi chiuse gli occhi.

Dopo le immagini, le sensazioni. Luce, fastidio, dolore. Non era la visione che si era distorta, ma tutta la realtà.

 

Un'esplosione.

Si, un'esplosione.

 

“Professore?” - lo chiamò Alex, restandogli alle spalle. Aveva smesso di chiamarlo per nome il giorno in cui si erano aperte le porte della scuola e i primi studenti le avevano varcate. Non aveva l'età per essere un insegnante, eppure ne aveva le doti. Questo faceva, tutti i giorni: insegnava, con la semplicità di chi sa come siano la strada e i disastri.

Insegnamenti semplici, diretti. Non sempre giusti, forse, ma raramente così sbagliati da dover essere smentiti.

Imparava e, con pari solerzia, ridistribuiva ciò che scopriva. Ed era Charles stesso a trasmettergli conoscenza: per questo lo chiamava professore, come facevano con lui i ragazzi, per ricordare a se stesso quanta strada ci fosse ancora da fare per meritarsi un titolo del genere.

“Tutto bene?” - insistette, avvicinandosi, quando Charles non gli rispose.

“E' stata un'esplosione.” - replicò Charles, tirando indietro la mano - “Ma lo sapevamo già.”

“Potremmo provare a scoprire dove.” - commentò Alex.

“E' una buona idea.”

“Se non mi ha bisogno qui...”

“Vai pure.” - disse. Era inutile trattenerlo contro la sua volontà in quella stanza - “Dovrai riorganizzare le lezioni del mattino, temo... io non penso...”

 

Si interruppe. Io non penso cosa? Di occuparmi delle lezioni? Resterò qui a tenergli la mano in attesa che si svegli?

 

“No, mi sono sbagliato.” - si corresse, aggrottando le sopracciglia - “Modificheremo l'orario solo se ci saranno emergenze.”

Poi chiuse la mente, con lo scatto di una tagliola.

Nessun pensiero. Nessun commento.

Ne fu sollevato.

“Bene.” - disse soltanto il ragazzo. Ma Charles non poté ignorare anche la sua espressione, mentre usciva dalla sala.

 

***

 

Alle quattro, Erik aveva aperto gli occhi.

E, alle quattro e tre minuti, Hank lo aveva sedato e aveva buttato fuori Charles.

 

Le cinque luci bianche sopra di lui erano troppo forti.

Era il bianco della stanza a distorcere la luce, obbligandolo a sbattere gli occhi.

C'era qualcuno.

Più di uno.

E non riusciva a muoversi.

Alzò un braccio, ma qualcuno lo spinse contro il materasso, premendolo.

Il terrore dilagò in lui, incontrollabile.

Una stanza bianca, una luce, un letto, mani che lo fermavano.

Un bisturi, entro poco, lo avrebbe inciso, con linee lunghe e sottili, sempre più a fondo, sempre più a fondo.

 

No, calma la tua mente.”

 

Sbatté le palpebre. Una voce,dentro la testa.

 

Non sei dove credi. Sei al sicuro.”

 

Erik cercò di alzarsi. Altre mani lo trattennero, sdraiato.

No, la voce mentiva. Stavano per fargli del male.

Avevano solo atteso che guarissero le suture della volta prima. Le aveva riaperte, strappando i punti con le unghie, per rallentarli... ma sapeva che avrebbero ricominciato presto.

 

“Erik, non ti stanno torturando. Calmati.”

 

Non mi stanno... avrebbe voluto farsi una risata, ma aveva qualcosa sulla bocca, qualcosa di umido.

Certo, devo aver urlato, l'ultima volta. Se urlo infastidisco, nell'ufficio qui a fianco c'è gente che lavora...

 

Charles trattenne i singhiozzi, quando l'immagine lo colpì come una pallottola. Era una visione fatta solo di emozioni, di sensazioni violente, cattive. Gli aveva afferrato la testa con entrambe le mani, ma non poteva alzarsi, per vederlo in viso. Erik si divincolava, non c'era modo di obbligarlo a voltarsi verso di lui, Charles con quell'angolazione non riusciva, senza fargli del male.

“Hank, aiutami.” - sibilò, trattenendolo come poteva - “Deve vedermi, o finirà con l'uccidersi.”

 

Non riconosce la mia voce.

Non sente le mie parole.

 

Calma la mente, Erik. Calmala.”

 

Nulla. Solo quel panico irrazionale, fatto di buio e dolore.

Hank lasciò andare i tracciati che reggeva con una mano e il torace di Erik che frenava con l'altra: quell'uomo era un disastro sia dentro che fuori e, se continuava a fare l'anguilla in quella maniera, non sarebbe arrivato all'alba.

“Adesso non posso.” - ringhiò, tornando ad occuparsi di cose che riteneva più importanti dell'empatia: flebo staccate, sensori, luci sui monitor e il peggio, tutto assieme.

E tutto perché quello spostato aveva deciso di comportarsi come un delfino epilettico.

Bene, si gioca al piccolo chirurgo, disse, a denti stretti, quando l'ennesimo tracciato sembrò impazzire.

Sarà una buona occasione per fare pratica, aggiunse, afferrando una siringa e appoggiandogliela sulla vena.

Poi si bloccò. Era un punto perfetto per un'iniezione. Lo si poteva capire dalla microcicatrice su cui posava la punta dell'ago. Una piccola cicatrice al centro di una sequenza numerica.

Un numero tatuato.

Ritrasse l'ago, come ipnotizzato. Poi, con una mano sola, lo afferrò per la nuca, obbligandolo a voltarsi verso Charles e arretrò, fino all'interruttore più vicino. Le luci si ridussero, ad un passo dallo spegnersi, ovattando la stanza, rendendola meno spaventosa

“Calmalo, devo operarlo.” - disse, senza trattenere l'urgenza nella voce. Fare pratica. Aveva detto che avrebbe fatto pratica squartandolo su un tavolo operatorio, lo aveva quasi sussurrato nel suo orecchio.

 

Tutto ad un tratto aveva voglia di vomitare.

 

E di pregare, pregare perché Charles, nel più breve tempo possibile, cancellasse da Erik quella paura... perché non poteva pensare che si addormentasse con i fantasmi del passato dentro agli occhi... perché non poteva pensare di divenire uno di quei fantasmi.

 

***

 

Charles non se lo fece ripetere due volte. Quando Erik incontrò il suo sguardo, protese la mente verso la sua, avvolgendola.

Erik boccheggiò, come se qualcuno gli avesse tenuto a lungo la testa sott'acqua.

“Guardami.” - disse Charles, usando la propria voce, ancorandolo alla realtà dei fatti, della sua presenza fisica - “Guardami, Erik, sei con me.”

 

Sei con me, sei al sicuro.

Sono passati vent'anni, non sei più quel bambino.

Resta con me... ora...

 

Erik sbatté le palpebre.

“Charles...” - rantolò. Era ossigeno che gli invadeva i polmoni, non acqua. Mosse le mani, i polsi. Non c'erano cinghie, non era legato.

“Sei solo ferito...” - aggiunse Charles, lasciandogli andare le tempie con lentezza, limitando il contatto a una mano sola, sulla sua pelle umida - “Ti proteggerò io....”

 

Ho strappato le suture per rallentarli... mi hanno ricucito con il fil di ferro...

 

Erik, Erik, no...”

 

...me le hanno fatte strappare, una ad una, perché non lo facessi più...

 

No, non succederà ancora. Non posso cambiare il passato, ma renderò sicuro il tuo presente. Hai la mia parola.”

 

Sono... sono a Westchester... con Charles...

 

E' così.”

 

Charles...

 

Sono qui.”

 

“Io non ...” - io non vorrei...

 

“Non lo sei.” - sussurrò Charles, piegandosi verso di lui, le fronti una contro l'altra - “Non sei solo, Erik... hai la mia parola.”

 

Si voltò, fissando Hank, invitandolo ad avvicinarsi con un cenno della mano.

Lo tenne stretto, mentre il mutante gli iniettava il sedativo nel braccio. Poi si ritrasse, con una spinta decisa, le mani spasmodicamente strette al telaio delle ruote.

“Resto qui fuori.” - disse, mentre le luci riaccendevano, accecandolo.

 

Sono qui fuori... eppure con te. Sempre.”

 

***

 

Rimase fuori da quella porta, con le mani intrecciate tra le ginocchia, in attesa.

Hank aveva parlato, in quelle ore di stasi, di un'emorragia addominale che andava tenuta sotto controllo. Ma Charles non aveva davvero compreso la gravità del problema, se ne rendeva conto solo ora.

 

Ora riusciva a immaginare il sangue nel corpo di Erik, in punti in cui non sarebbe dovuto essere.

Ora, con lo sguardo fisso e l'impressione di non poter nemmeno sbattere le palpebre, continuava a rivedere i fotogrammi del terrore, uno dopo l'altro.

 

Suture.

Suture di ferro.

Cinghie a un letto.

Urla.

 

Poi, più nemmeno quelle.

 

Era questo ciò che Erik teneva in quelle 'macchie nere' dentro la memoria. Charles le aveva come viste, nei rari contatti telepatici che l'uomo gli aveva permesso. Erano come sfere sigillate, scure, adagiate su altri pensieri, gettate alla rinfusa, come dentro uno scatola. Era a quelle che Erik attingeva, per il suo potere, prima che si conoscessero.

Ed era stato Charles a riportare a galla le sfere di luce pura che lo avevano reso potente.

Potente, ma non meno disperato.

Ora, indebolita, inerme, la mente di Erik lasciava che le sfere si schiudessero, che il loro veleno si infiltrasse in ogni altro pensiero.

Charles si impose di chiudere gli occhi, di respirare a fondo e protendere la mente. L'anestetico stava facendo effetto, la coscienza del ferito stava divenendo informe. Alcune immagini si muovevano, come nella nebbia, opaline. Una volta ebbe l'impressione di vedere Raven, Era imbronciata, nella sua espressione più tipica e gli aveva strappato un sorriso.

Raven...

Un dubbio prese forma tra le sue congetture, ma Charles lo ricacciò sul fondo: aveva altro di cui occuparsi, al momento.

La mente di Erik lo riaccolse senza opporre resistenza, ma Charles non ne approfittò per andare a caccia di informazioni. Rilassò le spalle, lasciando andare la nuca contro il muro alle sue spalle e creò un'illusione, per entrambi.

Era un ingresso, ampio, si affacciava su un salone. Era Westchester, in un giorno d'estate, le finestre spalancate sul parco, il profumo dell'erba appena tagliata.

Charles restò in piedi davanti alla porta, in attesa. La mente di Erik stava assimilando le immagini che le inviava, lentamente.

Poi, silenzioso come sempre, Erik apparve sotto l'arco del salone.

E Charles gli sorrise.

“Bentornato a casa.”

 

***

 

Erik lo osservò, in silenzio, circospetto. Charles sapeva che ci voleva tempo per abituarsi ad una presenza nella propria mente: glielo aveva spiegato Raven che, negli anni dell'adolescenza, docilmente, si era offerta come cavia.

Charles le aveva camminato dentro ai sogni, in punta di piedi. L'aveva presa per mano, aveva creato per lei illusioni piene di fiori, posti magnifici in cui la ragazza aveva ballato con lui, in cui si erano seduti a parlare, per ore ed ore.

Una volta, Raven lo aveva spaventato a morte, prendendo di nascosto alcuni sonniferi perché Charles potesse saziare la propria curiosità da tutti i punti di vista.

Mai prima di quel momento, faccia a faccia con Erik, Charles le era stato grato per quella bravata.

Si mosse con calma verso di lui: sotto anestesia, le pareti dell'inconscio divenivano più fragili e tutto poteva sbriciolarsi, da un momento all'altro.

Abbassò lo sguardo, guardando le proprie gambe discendere i gradini, cercando di sentire i propri muscoli, impegnati a sostenerlo.

Pagherò per questa illusione, considerò, amaramente. E farlo per un buon motivo non lo renderà un peso più leggero.

“Sono felice di vederti.” - disse, fermandosi a pochi passi di distanza, mettendo le mani in tasca, come suo solito - “Avrei preferito in una situazione differente ma...”

“Ero ferito.” - lo interruppe Erik. La sua voce era il vibrato che ricordava - “Questa non può essere la realtà.”

“No, non lo è.”

“Mi sei entrato nella mente?” - domandò Erik, indurendosi.

La stanza vibrò, come un cristallo. Charles, abbassando gli occhi, notò, sul pavimento di legno, le piccole sfere scure.

“Ti stanno operando.” - spiegò, rialzando gli occhi verso di lui - “Hank sta cercando di salvarti la vita e io son qui per proteggerti da quelle...”

Anche Erik le stava osservando, indecifrabile.

“Erik... sai cosa sono?”

“Se io muoio, la tua mente resterà intrappolata nella mia?” - incalzò l'altro, ignorando la domanda e fissando le biglie a terra.

“No.” - replicò Charles, in un soffio. Ma non era vero, non era certo di poterne uscire. Forse, dipendeva dalla lentezza della morte... ma il solo speculare su quell'incognita lo deconcentrava, faceva vacillare l'illusione intorno a loro - “E tu non morirai.”

“Eri solo un mutante, un anno fa. Quando sei divenuto un dio onniveggente?”

“Ho sviluppato qualche dote in più.”- sorrise Charles, rendendo la frecciata uno scambio di battute.

Erik, suo malgrado, sorrise.

“Non siamo costretti a parlare, se non vuoi.” - aggiunse Charles, guardandolo, mente i suoi occhi tornavano diffidenti - “Vorrei solo restare qui, se non ti spiace.”

“Vuoi proteggermi da queste?” - domandò l'altro, colpendo con un piede una biglia, facendola rotolare più lontano.

La sfera rotolò fino a un mobile e si ruppe, urtandolo. Una polvere nera si disperse, con un fischio sottile. Charles ebbe una fuggevole visione di un ambiente microscopico, poco più di una scatola, mani e piedi contro le pareti, il senso soffocante di respirare attraverso piccoli fori sul coperchio.

Comprimiti, diceva una voce all'esterno. Voglio che la modelli attorno al tuo corpo. Fammi vedere i tuoi lineamenti nell'acciaio...

Erik sussultò, sbarrando gli occhi, forse impreparato a ciò che era appena accaduto.

E Charles protese una mano verso di lui, su una guancia, creando l'illusione del contatto, del calore.

“E' successo molto tempo fa.” - spiegò, spingendolo indietro, obbligandolo a sedersi sui primi gradini della scala - “La tua mente è indebolita dalle ferite, non riesce a mantenere separata la realtà dai ricordi. Non sforzarla.”

Frastornato, Erik annuì. Aveva gli occhi pieni di lacrime.

La tua mente sa piangere, pensò Charles, in un angolo profondo della propria.

La tua mente piange ancora.

“Non dobbiamo far nulla, nemmeno parlare.” - ripetè, raccogliendo una singola lacrima con il pollice - “Restiamo solo assieme, qui. Al sicuro.”

 

***
 

Si sedettero sui gradini. Charles ne salì alcuni, assaporando egoisticamente la sensazione che gli dava il poter camminare. Si sedette, la schiena alla parete, le gambe allungate, accavallando le caviglie con incontrollabile rimpianto.

Erik rimase dove l'amico lo aveva condotto, dandogli le spalle, le ginocchia lievemente divaricate, le mani intrecciate, in silenziosa osservazione delle sfere sul pavimento.

Sembravano acini d'uva, sferici, bruni. Ma erano spaventosi, come un campo minato.

“Ricorderò tutto questo?”

“Non credo.” - Charles voltò la testa, inarcando appena il collo. La schiena di Erik era come la rammentava, perennemente tesa, dritta - “Ma non si può dire. La tua mente è sempre stata molto forte.”

“Non abbastanza da impedirti di entrare.”

“Sono poche le porte che non so scassinare.” - ammise, senza vanità - “Scelgo semplicemente quali aprire... e la tua mente è un labirinto.”

Erik si voltò, alzando la testa per vederlo. Seduto su un gradino, con i piedi quasi a sfiorare la ringhiera e le spalli indolenti al muro, Charles ricambiava la sua occhiata senza alcuna esitazione.

“Hai paura di perderti?” - lo provocò, cercando la sfida in una forma di autodifesa.

“No, ma ho paura per te.” - sussurrò l'altro, disarmandolo.

Poi si alzò, discendendo con lentezza le scale.

“Ora devo andare...” aggiunse, sedendosi sui talloni, al suo fianco, per vederlo in viso - “Devo uscire da qui.”

L'illusione, intorno a loro, si distorse. Charles alzò gli occhi al grande lampadario sopra alle loro teste.

Paura.

 

Sta provando paura.

 

“Sto morendo?”

“No, Erik. Questo posso sentirlo.” - replicò. Era vero. Con il corpo, in corridoio, fuori dall'infermeria, riusciva a sentire il ronzio dei macchinari. E la mente di Erik, intorno a loro, al di fuori del miraggio, non si stava sgretolando - “Io devo uscire da qui,ma non sarai solo. Là fuori siamo insieme.”

Abbassò gli occhi, afferrandogli una mano, stringendo.

“Senti la mia mano?” - chiese, stringendogli il palmo, premendo sul dorso con decisione e calore - “Tra poco sarà reale.”

“Allora vai.” - commentò Erik, deglutendo.

Charles si alzò. Poi, con un ripensamento, si piegò di nuovo, posandogli un bacio sulla fronte.

 

“Non sei solo, Erik. Non lo sei.” - sussurrò. Poi, semplicemente, svanì, insieme al palazzo.

 

***

 

Detto e fatto. Hank aveva aperto, riparato, richiuso. Non garantiva che la sutura fosse bella ma...

“Andrà bene.” - lo interruppe Charles. Non voleva pensare alle suture sul corpo di Erik, non voleva nemmeno provare a immaginarle, per paura che alcuni brandelli di ricordo tornassero a tormentarlo - “L'importante è che sia fuori pericolo.”

“Fuori pericolo è un'esagerazione. Diciamo che siamo ottimisti.” - replicò Hank, cercando anche di apparire positivo per espressione oltre che per affermazione - “Smaltirà l'anestetico nel giro di qualche ora, ma non deve assolutamente muoversi. Pensi di potere...”

“Sì, penso di potermi far ascoltare, ora.” - confermò Charles, annuendo, con gli occhi fissi alla branda e al suo occupante.

 

Era un cencio.

 

“Hank, vorrei tu mi facessi un favore.”

“Certamente.”

“Avverti Alex che abbiamo un cambio di programma.” - spiegò, allungano la mano e afferrando le dita di Erik - “Non penso che terrò lezioni, stamattina... vedi se può occuparsene.”

 

***

 

Non aveva tenuto quelle del mattino. Né quelle del pomeriggio.

 

Erik non riprese conoscenza. Le poche ore preventivate dal dottor McCoy divennero abbastanza da costringerlo a rifare tutti gli esami da capo, per essere certo della situazione.

Hank li rifece tutti borbottando, come suo solito, sull'inefficienza delle attrezzature governative.

“Siamo nel 1963, in piena modernità...” - sbuffava - “Come facciamo ad essere tanto primitivi quando si tratta della vita umana? E perché abbiamo così poca attrezzatura? Perché non ci ho pensato prima?”

Perché ci lavori soltanto da sei mesi, avrebbe voluto dire Charles. Ma Hank non avrebbe colto la comprensione e e avrebbe fatto un rimprovero.

Ormai, mantenere in vita Erik era per lui un fatto personale di una certa importanza.

Rifece ogni possibile controllo e confermò il precedente bollettino.

I tunnel che Erik si era scavato in corpo, rigettando le schegge che lo avevano colpito, erano tutti richiusi. Il sangue era stato trasfuso assieme a ogni medicinale reperibile nel prontuario della scuola.

Restava solo da aspettare, probabilmente l'organismo, così provato, impiegava più tempo a smaltire l'anestetico.

“Deve essere così, non ti preoccupare.” - lo consolò, ad un certo punto, Charles - “La sua mente è intatta. Va tutto bene.”

“Sarà...” - rispose Hank, mettendosi le mani in tasca e piegando le spalle irsute con contrarietà - “Ma, come suo solito, mi è ostile.”

Charles sorrise, gettandogli un'occhiata traversa.

“Davvero!” - rincarò il mutante, spalancando gli occhi azzurri - “Ti stupiresti, venisse fuori che lo fa per dispetto?”

“No, non particolarmente.”

“Allora non puoi darmi torto.”

“Non intendo difenderlo.”

“Davvero?” - Hank cambiò tono, obbligandolo ad alzare la testa e sostenere il suo sguardo - “Eppure lui è qui...”

“E' venuto qui per essere aiutato.” - replicò il professore, piano. No, non era vero, Erik era stato sorpreso di vederlo - “In un anno non abbiamo subito aggressioni, non si è mai fatto vedere. Mi è difficile reputarlo un prigioniero. O un nemico.”

“Ma lo è, Charles. Credo che su questo tu non abbia dubbi.”

Preferì non rispondere... Hank non meritava di sentirsi mentire.

 

***

 

Un nemico... Charles, per indole, aveva qualche difficoltà con le etichette sociali.

Non si era riconosciuto in nessuna che gli fosse stata affibbiata: secchione, genio, viziato, riccone, giustiziere, ribelle... ora, anche mettendo molta buona volontà, trovava fosse difficile poter racchiudere tutta una persona in una sola parola.

Erik, per giunta... comprimere Erik nella parola 'nemico' era un tentativo maldestro di limitarlo e circoscriverlo, un magnifico modo per scatenare tutto il peggio che poteva esserci in lui.

La parola 'nemico' era come la scatola metallica dei suoi ricordi:una bara a misura.

Erik non era un nemico. Erik non era un alleato. Erik non era un mostro, non era un profeta. Solo una parola, con esasperante costanza, tornava nella mente di Charles ad affiancare il suo nome: amico.

Amico era la parola in grado di dilatarsi a dismisura e avvolgere Erik, come la più calda delle coperte.

Amico. E, in amico, si poteva chiudere, con paradosso, anche la dicitura nemico.

Questo, per Charles, era accettabile.

“Amico e, talvolta...” - sospirò, lasciando aleggiare la frase incompleta nella calda penombra dell'infermeria.

La mano di Erik, nella sua, ebbe un tremito. Charles si raddrizzò, speranzoso. Hank, dalla sala a fianco, si mise in piedi, affacciandosi alla porta, in attesa.

Il fremito divenne un lieve spasmo. Poi una stretta.

Charles allungò l'altra mano, posandola sulla sua fronte, preparandosi a stabilire un contatto.

Amico mio, pensò soltanto, mentre la mano che stringeva ormai da ore riprendeva consistenza.

 

Avanti...

 

Ed Erik aprì gli occhi.

 

***

 

Li aveva riaperti, riconoscendolo.

Poi li aveva richiusi, sprofondando nell'incoscienza, troppo debole per resistere a lungo.

Charles aveva lasciato andare la sua mano, sentendo il peso scivolargli giù dalle spalle, lasciandolo privo di forze.

Qualcuno afferrò la sedia, tirandolo indietro e spingendolo fuori dalla stanza.

“Mi spiace, Charles.” - commentò Hank, quando furono in corridoio - “Ma credo che tu debba andare a dormire.”

“Io non...” - si interruppe. Quando aveva dormito, 'ultima volta? E mangiato? Non lo ricordava.

“Appunto.” - commentò Hank, dando ancora una volta prova di come lo conoscesse bene, mentre Alex si avvicinava - “Lui è d'accordo con me, siamo due contro uno, per cui, con rispetto, facci contenti.”

Charles sorrise, rassegnato. Gli dava del tu, ma gli imponeva decisioni ma sempre con rispetto.

 

Una vera democrazia.

 

“Vorrei che mi teneste aggiornato.”

“Non avevi nemmeno da chiederlo, professore.” - replicò Alex. Poi cambiò espressione - “E, a questo proposito, credo di sapere cosa sia successo.”

 

***

 

Si, probabilmente Alex aveva ragione.

Sdraiato nel proprio letto, i capelli ancora umidi e la piacevole sensazione che gli dava il profumo del sapone tra le lenzuola, Charles fissava il soffitto e rifletteva.

Un'esplosione nel nord del paese, così anomala da essere ancora senza spiegazioni, in un posto chiamato Alkali Lake. I fattori rilevati sul posto, inspiegabili per chi era intervenuto ad arginare il disastro, nella ricostruzione di Alex acquistavano un senso e sembravano collegarsi direttamente al ferimento di Magneto.

Ma, perchè Erik fosse lì...

“Questa penso che sia una domanda a cui dovrebbe rispondere lui.” - aveva commentato Alex, mentre Charles sfogliava gli incartamenti raccolti dalle varie agenzie nel corso della giornata - “Attualmente non ci si può nemmeno avvicinare alla zona, l'incendio è a malapena domato, la polizia è tutta un fermento. Vedrò cosa posso fare nei prossimi giorni, ma non c'è molto da illudersi.”

“Farò anche io qualche chiamata.” - aveva detto Charles, ritirando i fogli in un cassetto - “E ti prometto che lo chiederò a lui quando sarà abbastanza in forze.”

Buona fortuna, fu il pensiero di Alex.

“Grazie.” - rispose, sovrappensiero, il professore.

 

Ora, sdraiato nel proprio letto, con la vaga consapevolezza di essere quasi nel dormiveglia, Charles si domandava cosa potesse esserci di così importante ad Alkali Lake per far rischiare così tanto ad Erik... e, soprattutto, cosa avesse costretto i suoi uomini a portarlo a Westchester.

 

Dov'era Raven? Cosa le era successo?

 

“Non ci sono morti o dispersi.” - aveva specificato Alex, con il tono vergognoso di chi ha compiuto un'azione scorretta - “Non c'è traccia di Mystica... credo stia bene...”

 

Alex si era consolato per l'assenza di notizie. E Charles, di riflesso, aveva fatto altrettanto, ripetendo a se stesso come anche il teleporta Azazel, la notte prima, gli fosse sembrato incolume.

 

Con Cerebro avrebbe potuto trovarla, se solo non fosse stato così stanco: il prolungato rapporto con Erik, all'interno della sua mente, lo aveva sfinito, accumulandosi sulle ore di sonno perdute e sulle tensioni. Charles avrebbe voluto alzarsi, scendere sotto il blocco centrale della villa, posarsi il casco sulla testa... ma il suo corpo si rifiutava.

 

Il proprio corpo, per la prima volta da quasi ventiquattro ore, non collaborava, sabotava i suoi piani assurdi di eroismo e giustizia.

 

Un rottame.

Altro che paladino del bene! Ed ecco un'altra etichetta sociale che se ne andava a quel paese!

 

Ci sarebbe stato da farsi una risata. Magari due.

 

***

 

Era in piedi sul prato di fronte alla villa. L'erba gli solleticava la pelle.

Charles abbassò lo sguardo, osservandosi gli arti. Aveva una coccinella sull'alluce. Una coccinella perfetta in ogni particolare.

“Dannazione.” - sospirò, sentendo gli occhi bruciargli. Si voltò, lentamente, attendendo che si avvicinasse - “Ti stavo pensando, non credevo fossi così vicina.”

“Erik è lì dentro, non potevo essere lontana.” - replicò Raven, indicando con la testa la struttura alle sue spalle. Poi indicò un albero, una vecchia quercia - “Sto dormendo lì sotto.”

“Vuoi che...” - voleva proporle di svegliarsi, di parlarsi. Voleva e non voleva.

Lì, in piedi, era ancora alto come lei. Lì, lui era ciò che lei voleva.

“No, grazie.” - Raven aveva le fattezze umane, i capelli biondi, la sciarpa intorno al collo - “Qui va bene.”

Charles le indicò il parco, invitandola a fare due passi. Non era certo sull'appartenenza del sogno: a conti fatti, lui e Raven erano vissuti assieme per molto tempo, ascoltando la stessa musica, convivendo molti attimi. Tanti loro ricordi erano sovrapposizioni uno dell'altro.

E Westchester, nella bella stagione, era il loro regno.

Era Raven a renderlo così caldo. Ed ora erano i ragazzi, i suoi allievi a fare altrettanto.

“Stai bene?” - domandò, affiancandola, mettendosi come sempre le mani in tasca.

“Sto bene. Ho qualche scottatura, nient'altro.” - rispose la ragazza. Camminava senza guardarlo, gli occhi fissi innanzi - “Erik?”

“Hank è ottimista.”

“Hank è sempre ottimista.”

“Starà bene, non ti preoccupare.”

“Mi correggo: Hank copia il tuo ottimismo.” - sorrise Raven, senza insistere - “E' tuo prigioniero?”

“Non dovresti nemmeno chiederlo.”

“Hai ragione, scusami.” - Raven si fermò, l'espressione preoccupata.

Charles gettò un'occhiata all'ambiente circostante.

Nessuna distorsione.

Nessuno sbiadimento.

È' il mio sogno, dedusse. Le sue emozioni non lo stanno alterando. Alzò gli occhi verso le ampie finestre della casa. C'era una presenza, discreta, al suo interno, legata all'intelaiatura come un filo.

“Vieni, entriamo.”

“No, Charles.” - rispose lei, fermandolo - “Io non entrerò in casa.”

“Perchè?”

“Potrei... potrei non volerne più uscire.” - sorrise lei. E sembrò sgretolarsi.

Charles fu assalito dall'angoscia.

“Raven, calmati.” - mormorò. Si stava svegliando, come da un incubo - “La paura ti farà svegliare... resta.”

Si guardarono.

“Resta, Raven.” - ripetè, senza riuscire a controllarsi. Ora, anche il sogno vibrava, intorno a loro - “Ti prego.”

 

Si svegliò, di soprassalto.

E si accorse che stava piangendo.

 

***

 

Non si alzò. Era inutile.

Raven non era più nel parco. Anche protendendosi, non riusciva a trovare la sua mente. Sentiva Erik, giù, nel profondo, sottoterra. Ma non lei.

Se ne era andata.

Ed aveva lasciato dietro di sé la stessa solitudine provata a Cuba, come se non fosse passato nemmeno un giorno.

Charles afferrò il primo oggetto posato sul comodino e lo lanciò, coprendosi poi gli occhi con una mano.

Dannazione.

Dannazione!

Respirò a fondo, imponendosi la calma. Avrebbe svegliato tutti, doveva pensare ai ragazzi, ai suoi ragazzi.

Raven non tornerà. Ed Erik...

No, così non poteva riuscire. Si tirò su, a sedere, sul letto, si spinse indietro con le braccia, cercando nella testiera del letto un appoggio per non cadere.

Respirò a fondo e spinse il pensiero all'interno della propria mente, giù, per una scala a chiocciola.

Visualizzò i gradini poi le sue gambe che li percorrevano, volando.

Era sbagliato, ma era l'unica cosa che poteva distrarlo. Camminare, correre ancora.

Ora era in fondo alla scala. E c'era un corridoio, un infinito corridoio.

E Charles avrebbe provato ad arrivare in fondo.

In fondo.

 

Correndo.

 

***

 

La mattina dopo le sue occhiaie, a detta di Hank, avrebbero potuto fare storia.

“Quando ti abbiamo detto di riposare...” - brontolò, trovandolo nell'ampia cucina e aprendo il frigo a caccia del doppio litro del latte.

“Era nelle mie intenzioni. Ma c'era qualcuno che doveva parlarmi.”

“Lui? Se adesso oltre a prendersi le tue giornate non ti lascia nemm...” - Alex si interruppe, da sopra la scodella dei cereali, e fissò Charles, affranto - “Per favore, dimmi che lo hai sentito solo perché lo hai letto nella mia mente!”

“Sei tornato a darmi del tu.” - replicò, glaciale, Charles.

“Mi scusi.”

“Non importa.”

“No, intendevo mi scusi per quello che ho detto.”

“Non importa nemmeno quello.” - sospirò. Tanto valeva vuotare il sacco - “Ho parlato con Raven. Ci siamo incontrati in un sogno.”

“Molto Shakesperiano.” - commentò Hank, scegliendo un'insalatiera di debite proporzioni per contenere la propria colazione. Poi si bloccò, cambiò espressione e aggiunse, quasi ringhiando - “Doveva essere vicina per riuscire a farlo.”

“Sull'albero di fronte alla mia finestra.”

“Adesso esco e lo sradico.”

“E' il nuovo sistema di sicurezza che vuoi valutare? Il disboscamento?”

“Sono serio, Charles. Lei non dovrebbe poter...”

“Questa è casa sua, Hank. Può, quando e come vuole. E, credimi, io la conosco bene: puoi avvolgerci nella rete metallica fino al cielo e Raven continuerà a trovare modi nuovi per entrare.” - lo zittì. Insonnia e cattivo umore erano padroni incontrastati, quella mattina - “Come credi che sia venuta a vivere qui? Suonando il campanello?”

Hank non ribatté. Rimestò un poco il suo pastone, poi ci immerse buona parte del naso.

“Lei sta bene?” - bofonchiò, tra un cereale e l'altro.

Alex avrebbe giurato che il pelo sulla faccia fosse di un'interessante tonalità rosa.

“Benissimo.” - borbottò Charles, infilando il proprio broncio dentro la tazza del caffè.

Possibile che tutto fosse complicato, di nuovo? Sotto al tavolo, le gambe non c'erano, Charles ne era di nuovo dolorosamente cosciente. E il punto di interruzione, alla base della sua schiena, non era solo un buco nero che tutto inghiottiva, quella mattina. Era come un chiodo pulsante.

Un chiodo.

Posò la tazza, cercando di ridurre il nervosismo.

“Tu hai dormito?”

“Un po'?” - rispose Hank. Poi, ebbe l'impressione che la domanda ne nascondesse un'altra - “C'è stato qualche problema, di sotto...”

Charles sentì il chiodo penetrare più a fondo, risalire dentro lo stomaco.

 

Non ho sentito nulla.

Non ho sentito nulla perchè ero perso dentro me stesso.

 

“Che tipo di problema...”

“Quelli che hai quando sei un pazzo che si sradica il metallo dalle ferite e hai come chirurgo uno studente di medicina indietro con gli esami.”

 

Ecco, potendo, Hank avrebbe risposto così.

E Charles lo avrebbe convinto all'istante di essere un Pincher.

Per tanto, inghiottì quel pensiero e cominciò a snocciolare dati, proiezioni e tutto quello che poteva far sembrare Magneto una macchina a vapore in riparazione più che un uomo martoriato.

Charles lo ascoltò in silenzio, senza commentare.

“Quindi vuoi cambiargli anche le guarnizioni?” - domandò, infine, grondando sarcasmo.

“Quando avrò finito, potrà anche volare.” - fu la caustica risposta.

“Lui volava già senza il tuo aiuto.”

Si fissarono, in cagnesco.

Alex, che era rimasto seduto fino a quel momento a guardarli, alzò gli occhi al cielo e spinse il piatto verso il centro del tavolo.

“Io vado a lavorare.” - disse soltanto, puntando le mani sul tavolo e alzandosi - “Voi due dovreste fare altrettanto.”

 

***

 

Gli studenti furono contenti di rivederlo. Così sollevati che Charles rimase del tutto spiazzato.

“Sì è sentita la tua assenza, ieri.” - commentò Alex, restando in piedi sulla porta dell'aula. E Charles, pur dandogli le spalle, sapeva che stava parlando alla sua mente - “Per la prima volta, Westchester non sembrava sicura.”

Charles girò su se stesso, ponendosi di fronte ai ragazzi, impegnati a sorridergli ed informarsi della sua salute.

Ci è mancato, sa?

Eravamo preoccupati...

Rispose, gentile come sempre. Poi alzò gli occhi verso la porta, verso Alex. Sparito.

 

***

 

Alex discese rapidamente la scala in pietra che conduceva nei giardini e marciò dritto verso la boscaglia.

Si fermò solo quando fu certo di essere a debita distanza dal castello.

“Secondo me, sei qui.” - disse, ad alta voce, sfidando il bosco - “Allora, cosa vuoi sapere?”

Raven apparve da dietro un albero, come evocata. E si sfilò l'elmo di Magneto, scuotendo la testa. Le bastò il semplice movimento per tornare ad essere la ragazza bionda che voleva chiamarsi Mystica.

“Così, se i tuoi studenti ti vedranno con me...” - spiegò, avvicinandosi.

“Bionda o blu penserebbero la stessa cosa.” - tagliò corto lui - “Se vuoi parlare con Charles, entra o telefonagli. Ma lascialo dormire.”

“Non volevo disturbarlo, io...”

“Cosa ti aspettavi succedesse!” - la zittì di nuovo lui - “Un anno, Raven, te ne sei andata da un anno, con tutto quello che gli è successo e...”

“Cosa gli è successo!”

Alex si bloccò. Davanti a lui, Raven aveva in viso un'espressione che non le aveva mai visto.

Raven... Raven non sapeva.

Ma come era possibile?

Ed Erik, allora...

Involontariamente, le voltò le spalle, fissando Westchester. Si erano protetti bene, dunque, in quell'anno, se nemmeno Raven sapeva...

“Cosa è successo a Charles, Havok!” - insistette lei, ricorrendo al suo nome di battaglia per catturarne l'attenzione.

“Non ha importanza.” - replicò il ragazzo, tornando a fissarla dritto in faccia - “Lui è andato avanti, senza voltarsi mai. Tu hai fatto altrettanto. Lascialo in pace.”

“Io non sapevo cosa fare, Erik era ferito ed io...” - si interruppe, respirando, piano - “Ad Alkaly Lake ho visto cose che... che non voglio ricordare. Erik ha fatto tutto ciò che era in suo potere per fermarli, ma loro erano troppi e noi...”

Respirò a fondo, indossando nuovamente l'elmo. Il suo corpo si coprì di aculei, riportandola all'aspetto originale.

“Così non lo disturberò oltre.” - sputò, quasi sfidandolo.

Sfidi me perché non riesci ad ammettere che vorresti solo che ti consolassi, pensò Alex, senza tuttavia impietosirsi.

Raven li aveva abbandonati. Li aveva abbandonati tutti, su quella spiaggia.

“Come state, Alex? Puoi dirmi almeno questo?”

“Stiamo bene. Stiamo tutti bene, io, Sean, Moira, Hank e Charles... soprattutto Charles.” - replicò, affondando maggiormente la lama - “Non te la prendere, ma io non voglio sapere come stanno i tuoi nuovi amici.”

“E' giusto. E, immagino, adesso mi dirai di tornare da loro.”

“Ti direi di entrare, a dire il vero... ma risparmierò il fiato.” - rispose, girando sui tacchi e andandosene - “In un anno, non credo che tu ne abbia mai sentito la necessità.”

 

***

 

Adesso si sentiva meglio. Decisamente.

I ragazzi avevano questo potere su di lui: tanto loro si nutrivano delle sue conoscenze, tanto più Charles si sentiva appagato.

La mattinata era volata. Unica eccezione, una tazza di caffè forte a metà mattina, giunto a mo' di scusa dalle cucine. Ci galleggiava dentro un pelo blu ma Charles lo bevve comunque, apprezzando il gesto.

Sotto la tazza, ripiegato, c'era una specie di referto medico, con alcuni appunti sui margini.

Erik, nel complesso, reagiva. Dormiva, ma Hank riteneva che fosse un bene.

In fondo alla pagina c'era una domanda.

 

Possibile che abbia subito un trauma?

 

Possibile, scrisse subito sotto Charles, consegnando il foglio ad uno dei ragazzi e guardandolo fuggire via.

È successo qualcosa ad Alkaly Lake. Qualcosa di terribile.

Quando uscì dall'aula, nell'ingresso, in piedi, c'era Alex. E, di fronte a lui, con la sacca da viaggio tra i piedi, c'era Sean.

Ma che sorpresa, pensò Charles, avvicinandosi. Qui si comincia a chiamare la cavalleria.

Sean Cassidy, Banshee per gli X-men, si era arruolato in polizia circa otto settimane prima: poco dedito all'insegnamento, aveva espresso questo desiderio e nessuno aveva trovato motivo per contrastarlo.

Solo Alex, il signori dei riformatori e delle prigioni federali, aveva borbottato qualcosa sugli sbirri, ma era rimasto inascoltato.

Sean aveva fatto una scelta felice che lo appagava, senza ombra di dubbio. Aveva perso quel modo impacciato di muoversi e aveva rinunciato volentieri ai propri riccioli rossi, divenendo alto, magro e incredibilmente rilassato.

Eppure, tanto ormai Alex Scott sembrava un uomo, tanto Sean aveva ancora la faccia dell'eterno ragazzino.

Del resto, Charles poteva dire la stessa cosa di se stesso.

Quando si avvicinò, entrambi si voltarono nella sua direzione, sorridendo. E Sean si protese, in bilico su un piede solo, per prendergli una mano tra le sue.

Affettuoso. E buono di cuore, come sempre.

“Ci sono novità?” - domandò Charles, guardandoli.

“Nessuna.” - commentò Alex - “Voglio solo indagare un po' più a fondo sulla faccenda di Alkaly Lane, se non è un problema.”

“Stai solo attento.”

“Saremo prudenti, Charles.” - scherzò Sean, strofinandosi la testa rapata, quasi non si fosse ancora abituato - “Non preoccuparti.”

“Oh, si, adesso sono molto più tranquillo.” - scherzò Charles, spingendo indietro la sedia - “Vado, i ragazzi mi aspettano.”

Alex e Sean lo guardarono allontanarsi. Sean avrebbe voluto fissare la nuca del suo professore, ma non riusciva a levare gli occhi dalla sedia, in una forma di rimpianto.

“Non vuoi dirgli che l'hai vista?” - domandò, sottovoce.

“No, non servirebbe a nulla.” - replicò Alex, la testa voltata nella sua direzione - “Lei non tornerà mai.”

 

E lui... lui non è qui per restare.

 

“Adesso siamo noi la sua famiglia.” - aggiunse, voltandosi verso l'amico - “E Charles è la nostra.”

 

***

 

Dovevano essere le tre del pomeriggio quando Charles lo sentì.

Terminò la frase a alzò una mano, perché restassero in silenzio.

I ragazzi gli ubbidirono, come sempre: sapevano che il professore, con i suoi poteri, era spesso in ascolto di qualcuno o qualcosa, presente con loro e altrove nello stesso momento. E avevano compreso, ormai, che c'erano attimi in cui una delle due dimensioni rischiava di confondere l'altra, attimi in cui il professore doveva riportare l'ordine tra i propri pensieri con la forza e la disciplina.

Charles protese la mente, in ascolto. Lo sentiva ancora, ma troppo distante. Troppo, per essere soltanto a poche decine di metri sotto di loro.

Troppo distante.

 

Come se stesse... cadendo.

 

“Perdonatemi, ragazzi, ma credo di essere richiesto altrove.” - commentò, facendo un cenno al ragazzo più alto, in fondo alla classe, perché prendesse il suo posto - “Iniziate gli esercizi che avete di compiti, mentre mi allontano.”

Alex.” - chiamò, uscendo dall'aula - “Ti ho bisogno qui...”

Attese qualche istante, fremendo. L'ascensore era lento, Hank aveva ragione. Ma dov'era Alex?

Le porte scorrevoli si aprirono e ne emerse Sean.

“Vado io dai ragazzi, Alex mi ha avvertito.” - comunicò, sfrecciandogli a fianco, così veloce che Charles lo sentì a malapena - “Penso che lei debba scendere...”

 

Era ancora in ascensore quando l'urlo lo raggiunse. Un urlo di agonia.

Come quel giorno, con Shaw. Charles si piegò su se stesso, la testa tra le mani, per difendersi.

 

Erik!”

 

Erik...

 

L'urlo era vicino, vicinissimo. Quel senso di distanza che Charles aveva percepito, che lo aveva messo in allarme, era completamente svanito.

 

È tornato.

 

Nello stesso attimo in cui le porte si aprirono, Hank emerse in corridoio, venendogli incontro.

Aveva le mani insanguinate.

“Sono stato costretto a fargli male, ma credo di avergli salvato la vita.” - disse, andandogli incontro.

Charles guardava il pavimento dietro di lui, orripilato: Hank lasciava una scia di impronte rosse che sembrava non finire mai.

 

***

 

Alla fine, una scheggia c'era. Ma ci erano volute parecchie lastre, per trovarla.

Una volta localizzata, Hank aveva capito che c'era un'unica soluzione al problema: svegliare Erik.

“Tu hai fatto cosa?” - Charles aveva l'impressione che gli occhi gli stessero per cadere dalle orbite.

“Io non avevo la minima idea di come raggiungerla, lui sì.” - si difese il mutante, cercando per l'ennesima volta di togliersi il sangue incrostato dal pelo - “E' stato un lavoro di squadra.”

“Una cosa in cui non credete né tu né lui.” - sibilò Charles, al limite della pazienza.

“Puoi pensarla come vuoi, ma ha funzionato! Non avevo altra scelta, Charles, non avevo mai visto un materiale del genere, è come se si fondesse con i tessuti umani, io avrei potuto tirarlo fuori solo scarnificandolo!” - Hank si rese conto di stare sovrastando l'uomo, obbligandolo ad alzare la testa, per vederlo in viso.

E se ne pentì.

Abbassò le braccia, cercando un posto dove sedersi. Prese il primo mobile sottomano, la scrivania, la trascinò vicino e si sedette.

“Io credo che sia questo il materiale che lo ha colpito, nell'esplosione. E, a questo punto, francamente, non so nemmeno se in forma solida o liquida. Gli è sfuggito un frammento, uno solo. Deve averlo portato fino in superficie ma, non buttandolo fuori, quello si è scavato un tunnel dentro di lui. Cosa avresti fatto, al mio posto?”

 

Bella domanda.

 

“Probabilmente la stessa cosa.” - ammise Charles, rilasciando i braccioli che aveva stretto fino a quel momento.

“Ho il campione e lo analizzerò il prima possibile.” - promise il colosso peloso - “A lui ho già fatto le trasfusioni e mi sembra che regga bene, il cuore ha smesso di battere solo per poco e...”

“Il suo c... che cosa?”

 

***

 

Era stato necessario che Hank ricominciasse da capo la spiegazione perché Charles rinunciasse al proposito di regredirlo allo stato di quadrupede.

 

Ok, hai capito che c'era ancora una scheggia. Lo hai capito stanotte, quando gli verificavi la convergenza... bhe, si, Hank, ti sto prendendo in giro, posso?

 

Sarà meglio.

 

Quindi, hai avuto questo colpo di genio: lo hai svegliato e gli hai fatto vedere la lastra... figuriamoci se Erik sapeva dirti che era una pessima idea!

Ok, lo avete fatto. Cioè, forse lui l'ha fatto un po' troppo veloce per i tuoi gusti.

Sì, mi è chiaro, così ha sanguinato meno. Bene.

 

Visto come è ridotto il corridoio, non voglio sapere cosa sarebbe successo se avesse fatto 'con calma' e sanguinato un po' di più. Comunque... bene.

 

Un po' meno bene se mi dici che ha avuto un arresto cardiaco. Capisco, né tu né lui avete tenuto conto degli effetti collaterali.

 

Del resto, come potevate... tu sei diventato blu dalla sera alla mattina e lui è quello che vuole che le persone gli sparino in fronte perché intanto ferma i proiettili con il pensiero.

 

Capisco, certo. Capisco tutto.

Spero che voi, del resto, capirete me: se lui non muore, lo uccido io. E tu... scappa.

 

***

 

Quando fu a fianco del letto di Erik, Charles si concesse un gesto che non aveva mai fatto. Afferrò la gamba destra e la accavallò, di peso, sulla sinistra. Poi, intrecciate pure le mani, posando tutto il peso sul bracciolo, contemplò lo stato penoso dell'uomo, con l'espressione che riservava alle sequenze genetiche sulle lavagne di Harvard.

Alex, lasciato di guardia mentre Hank lo aggiornava, lo sbirciò sottecchi: era possibile (possibile, che eufemismo!) che Charles fosse furibondo con Erik.

Più furibondo di quando aveva cercato di far scoppiare da solo la terza guerra mondiale.

E più furibondo di quando aveva dirottato i missili a Cuba.

 

“Sei arrabbiato...” - sospirò una voce, soffocata, facendo sobbalzare Alex.

“Penso, amico mio, che tu non possa darmi torto.” - replicò Charles, senza muoversi. Poi si voltò verso Alex, invitandolo ad uscire, con cenno.

“Raggiungi i ragazzi.”

“Non vuoi che resti?”

“Tranquillo, non mordo.” - sospirò Erik, senza aprire gli occhi.

“Vai, Alex. Va tutto bene.” - insistette Charles. E, quando il ragazzo fu in fondo al corridoio, chiuse gli occhi, protendendo un pensiero.

 

Non parlare.”

 

“Credi che così sia meno faticoso? Esci dalla mia mente, Charles.” - fu la risposta, affaticata.

I macchinari emisero alcuni suoni di allarme, ma Charles già sapeva come Erik si stesse sforzando per tenerlo fuori dai suoi pensieri.

“Non voglio violare i tuoi spazi. Voglio solo che non ti sforzi.”

“Esci, Charles.” - sospirò ancora, Erik. Poi voltò la testa, aprendo gli occhi, guardandolo - “Ora.”

Charles gli obbedì. Si ritrasse, più gentilmente possibile, sollevando le palpebre.

 

Eccoli.

Uno a fissare l'altro.

Per la prima volta da...

 

Troppo tardi per creare un'illusione e nascondere la verità.

 

Charles deglutì, sostenendo il suo sguardo. Lasciò che Erik lo percorresse con gli occhi, lasciò che, con estenuante lentezza, si soffermasse sui particolari... che unisse i pezzi... che capisse.

 

“E' successo molto tempo fa, ormai.” - sussurrò, quando gli occhi di Erik, dilatati all'inverosimile, cercarono i suoi - “Non è stata colpa di nessuno.”

 

Non è questo che hai detto a Cuba.

 

E i monitor mandarono suoni terrorizzati.

 

“Maledizione.” - ringhiò Charles, cercando disperatamente di districare il nodo delle sue gambe e muoversi - “Erik, no, calmati.”

C'era già Hank, dall'altro lato del letto.

“Ma cosa...”

“Sono stato io. La sedia, la dannata sedia!” - sbraitò Charles, riuscendo finalmente a raggiungerlo, ad afferrargli il viso, a trattenerlo sdraiato - “Calmati, Erik.”

 

Non poteva riuscirci.

Semplicemente, non poteva.

 

Non posso. Non chiedermelo, Charles.

 

Sì, che puoi. Calmati.”

 

No.

 

è stata colpa mia.

Colpa mia.

E me ne sono andato. E Raven... mio dio, Raven...

 

“Gli salteranno definitivamente le coronarie, se non smette di agitarsi.”

“Allora addormentalo.” - ribatté Charles. E alzò gli occhi su di lui - “Se non lo fai tu, lo faccio io.”

Hank esitò: non poteva più dargli nulla, aveva già usato di tutto e non era più certo di ciò che stava facendo. Vergognandosi di quello che stava per chiedere, annuì.

 

“Fallo. Addormentalo.”

 

“No, Charles, no...” - lo implorò Erik. Aveva l'impressione che il cuore fosse salito in gola, riempiendosi di aculei - “Non... entrare...”

“Mi dispiace, Erik. Non mi dai altra scelta.”- rispose, premendo con entrambi i palmi sulle sue tempie - “Ora.”

 

Il corpo di Erik si inarcò, con uno spasmo. Poi divenne inerte.

 

E Charles si lasciò andare indietro, disperato.

 

“Non doveva andare così.” - sussurrò, guardandolo. Erik aveva un braccio a penzoloni dal letto, il volto verso di lui - “Non avevo mai pensato che saresti stato tu il debole, al nostro primo incontro...”

 

Non avresti dovuto soffrirne così tanto.

 

Perdonami.

 

Allungò una mano, afferrandogli le dita fredde.

 

Perdonami.

 

***

 

Addormentarlo era stata, alla fine, una decisione facile da prendere.

Lo aveva fatto per il suo bene, non se ne pentiva.

Il problema di addormentarlo in quel modo era doverlo poi anche svegliare.

 

E quella era una decisione davvero davvero difficile da prendere.

 

Cosa avrebbero dovuto dirsi? Cosa c'era da dire?

 

È storia vecchia.

È acqua passata.

Non farne un dramma, sono solo gambe...

 

Già, complimenti, Charles, tutte magnifiche scelte.

Noi non siamo storia vecchia. E diventeremo vecchi prima di essere acqua passata. E poi, l'ultima opzione... non voglio nemmeno ammettere con me stesso di aver pensato di dire una cosa del genere.

“Insomma, magari ti terrò addormentato qui per sempre.” - sospirò Charles, tormentandogli un palmo con l'unghia del pollice - “Non sarebbe poi una cattiva idea...”

 

Abbassò gli occhi, fissando la propria mano e la sua.

 

“Potrei entrare nella tua mente e potremmo parlarne.” - considerò - “Ma qualcosa mi dice che così passiamo dall'infarto all'ictus.”

 

Battute a parte, l'infarto non c'era stato. Forse ci era arrivato vicino, ma i valori erano precipitati nel momento stesso in cui Charles aveva premuto sull'interruttore di spegnimento.

Era penoso come prima, cencio come prima, disarmante come prima. Ma non peggio di prima.

Charles sentiva di potersi accontentare.

 

Sei sopravvissuto ad un'esplosione e per poco non ti ho ammazzato io con le mie gambe morte.

 

Dopodiché, gli rimorse la coscienza. Qui le gambe sono solo il colpo di grazia.

Sono le mie parole che lo hanno ucciso.

 

Non è stata lei, Erik. Sei stato tu.”

 

Allora non sapevo di cosa ti stavo accusando, altrimenti non l'avrei fatto. E Raven... Raven voleva venire con te. Se fosse rimasta per questo motivo, io non avrei mai saputo perdonarla.

Scommetto che l'hai resa felice. Che le hai dato quella vita piena che desiderava, che le hai insegnato ad amarsi e amare.

 

Perché tu sai amare, Erik. Ma non sei in grado di ammetterlo nemmeno con te stesso.

 

***

 

Due giorni.

Hank lo aveva soccorso, nel suo dilemma, con una semplice domanda.

 

“Ci sarebbero effetti collaterali restasse così per due giorni?”

 

“Non ho interrotto alcuna funzione vitale, se è questo che vuoi sapere.” - replicò Charles, tormentandosi il labbro inferiore con due dita. Da quanto sedeva lì, nella penombra. Ore? - “E' solo costretto a dormire... e, anche avesse degli incubi, non potrebbe svegliarsi.”

“C'è un modo per impedirgli di avere incubi?”

“Sono un telepate, Hank, non un mago.” - ridacchiò Charles, suo malgrado. Poi si voltò a fissarlo, interrogativo - “Vorresti che restasse così?”

“Sì, mi piacerebbe. Non mi fraintendere, non lo dico perché sono stanco di vederlo dare in escandescenza ma perchè... insomma, non gli fa bene.” - aveva le mani piene di scartoffie, segni di inchiostro sulla pelliccia. Probabilmente, a questo punto, considerò Charles, ha anche scompaginato l'enciclopedia medica per trovare le risposte - “Lui guarisce abbastanza in fretta, ma non se continua a perdere sangue. C'è il ferro, nel sangue.”

“E il ferro lo aiuta...” - dedusse Charles, seguendo i suoi ragionamenti.

“Per questo ha dormito più di quanto io pensassi, ieri. Si sta rigenerando con le trasfusioni ma gli vanno un sacco di energie, per farlo.”

“Da sveglio occorre più tempo...”

“E, da sveglio, con la pressione alle stelle, il suo corpo non ha tempo per tutelarsi.” - concluse Hank - “Quarantotto ore. Se ho contato giusto , basterebbero. Possiamo?”

“Possiamo.” - concesse Charles - “Ma non di più. Non rischiamo.”

“Perfetto.” - Hank annuì, sollevato. Poi, sotto la sua pelliccia, l'espressone mutò, divenendo, se possibile, ancora più seria - “Charles...”

“Hank...”

“Per le prossime quarantotto ore non ti voglio qui sotto.”

 

***

 

“Sono molto tentato di convincervi che siete tre papere.” - fu il suo commento, quella sera, quando giunse in cucina, più o meno spinto da Alex - “Mi sento in ostaggio.”

“Se ti fa piacere...” - concesse Sean, finendo di accendere le candele sul tavolo - “Io vorrei proprio vedere Bestia che nuota nello stagno.”

“Io ti ci affogo, nello stagno.” - replicò il peloso, controllando per l'ennesima volta, il contenuto del forno.”

Charles li osservò, divertito.

“Non abbiamo più la cuoca?” - domandò, mentre Alex lo lasciava per recuperare i bicchieri e finire di apparecchiare.

“Se ne è andata dopo aver sfamato i ragazzi.” - Sean spense il fiammifero soffiandoci sopra, con il rischio di capovolgere il tavolo - “E questa è la mia cena di bentornato. Mamma Bestia mi ha fatto le lasagne.”

“Chiamami ancora mamma e ti farò a bistecche.”

“E quando hai trovato il tempo di cucinare?” - chiese Charles, girando la testa per seguire i movimenti del cuoco.

Aveva lasciato Hank nel sotterraneo a fare il medico e ora se lo ritrovava chef!

 

“E chi ha avuto tempo! Alex è andato a comprarle già fatte e io le sto scaldando.”

“Capisco.” - Charles, suo malgrado ridacchiò, dispiegando il tovagliolo - “E posso dunque chiederti come sta il tuo paziente? Prometto a tutti che poi non lo menzionerò fino a fine cena.”

“Dorme.” - fu la caustica risposta, presto corretta - “Ma questo già lo sapevi...”

“Sì, qualcuno me lo ha detto.”

“Comunque va meglio. Potrei aver aver avuto ragione.”

“Potresti?”

“Suvvia, Charles, non essere pignolo. Hai detto che se dorme non gli succede nulla e a me serve qualche ora in più per confutare la mia tesi. Ne parliamo domattina a colazione.”

“Che bello!” - commentò Alex, posando la pirofila al centro del tavolo - “Magneto, latte e cereali... il sogno della mia vita.”

“Alex..” - esordì Sean, imbarazzato.

“Che c'è! Intanto, se non le dico, me le legge in testa...”

 

***

 

A volte dimenticava di essere ancora giovane. Si immaginava anziano, magari senza capelli, magari su una sedia ancora più tecnologica dell'attuale.

Dimenticava di avere a malapena trent'anni, di essere un neolaureato di Harvard con la vita e la carriera innanzi.

Non si sentiva stanco.

Si sentiva solo vecchio. E solo.

 

Poi, quando meno se lo aspettava, una stilettata di giovinezza: un fumetto abbandonato in giro dagli studenti, una radio che trasmetteva musica leggera con un volume un po' troppo alto, un film in televisione.

E, d'improvviso, tornava tutto: il desiderio di una birra in un pub, di rimorchiare una ragazza, di camminare per strada all'una del mattino cercando un locale ancora aperto.

Il desiderio di vedere Raven saltare, sfidarsi a cantare a squarciagola un pezzo di Neil Sedaka.

Uno a fianco dell'altro, un passo a destra e due a sinistra, ondeggiando e schioccando le dita.

 

Sì, gli mancava ballare, tanto quanto gli mancava ridere.

 

Ma i ragazzi... i ragazzi quella sera gli avevano dato il meglio.

Lasagne, certo... e poi hamburger, birra e ancora birra.

 

In un anno erano cresciuti, divenendo uomini, annullando poco per volta la distanza di età dei primi tempi. E se, con Hank, le distanze non si erano mai del tutto sentite, Charles si sorprese a comprendere quanto fossero cambiati Sean e Alex.

Per la prima volta assieme dopo molto tempo, Charles riscopriva il gusto delle parole scambiate solo per il piacere della compagnia, con una radio a basso volume di sottofondo che trasmetteva Bill Haley e non il solito immancabile radiogiornale di guerra.

“Devo ammetterlo Sean, hai avuto un'ottima idea!” - esclamò, ad un tratto, Hank, tendendo la propria bottiglia verso la sua e obbligando gli altri ad unirsi in un brindisi.

“Vorrà dire che ne faremo un'abitudine.” - ribatté il rosso, bevendo una sorsata e brindando ancora - “Le cene di bentornato. Concordi, Charles?”

“Eccome. E la prossima volta cucinerò io.”

“Oh, no, ti prego, non lo fare!”

 

Ridevano come dei pazzi. E Charles con loro.

 

E si rese conto, con un attimo di preveggenza, non avrebbe mai più dimenticato quella sera che, come da promessa, fu la prima di molte.

Prima di Kennedy, del Vietnam, quello vero, delle prime battaglie e dei primi caduti. Prima di Malcom X, della fine dei Doors e dei Beatles, prima che il mondo divenisse irrimediabilmente diverso.

Quella sera, Charles, per un lungo istante, tornò giovane. Giovane come loro, come Hank, che sarebbe vissuto più di loro, come Alex, che lo faceva sentire tanto vecchio ostinandosi a chiamarlo professore anche stappandogli una birra, come Sean, che non sarebbe mai cresciuto del tutto.

Giovane, con loro.

 

E comprese che così sarebbero vissuti, così avrebbero lasciato scorrere il tempo: insieme, andando lontano eppure tornando sempre.

 

Quella sera, Charles comprese di non essere solo.

Giovani, tutti assieme. Perché lo erano, e la battaglia era appena iniziata.

 

Fu per questo che alzò la birra ancora una volta e li guardò fare altrettanto.

“Per gli X-men.” - disse soltanto.

 

X-men, per sempre.

 

“X-Men.”

 

Noi invecchieremo, domani. Ma gli X-men... gli xmen saranno immortali.

 

Fuori dalla finestra, protetta dal casco di Magneto, Raven osservava la scena.

Lo osservava brindare, senza mettersi in piedi.

E piangeva, come se non esistesse più un domani.

 

***

 

Due giorni.

Lui dormirà due giorni. Tu non scenderai nei sotterranei.

Patti chiari, tra Charles ed Hank.

Ma Charles, senza particolare rimorso, barava. In maniera discreta, circa una volta all'ora.

Protendeva la mente, verificava lo stato di quella di Erik, si ritraeva.

Verificava che sognasse, senza incubi né paura.

Come una carezza, percorreva la sua mente in maniera superficiale, quasi in punta di piedi.

Poi si ritirava in buon ordine, tornando alle proprie lezioni.

 

Barava. E non se ne vergognava.

Intanto, ripeteva a se stesso, con una punta di malizia, Hank non se ne può accorgere.

 

***

 

Charles aveva barato un'altra volta.

Hank ruotò la sedia, levandosi gli occhiali e fissando il ferito.

Era... che so... la terza volta in due ore?

Ma esisteva un modo per impedirgli di essere tanto cocciuto e seccante?

 

“Quando fa così...” - borbottò, tornando a sfogliare i suoi tomi - “Vorrei tirargli una mazzata sulla testa.”

 

Alle sue spalle, immerso in un sonno profondo, Erik aveva appena pronunciato la parola.

La stessa detta tre volte in due ore.

 

Charles.

 

E sembrava un sospiro, un sospiro di serenità.

 

***

 

Shaw aveva una certa passione per l'energia. Gli piaceva obbligarlo a deformare cavi scoperti, immergerli in acqua, sperimentare.

Gli piaceva vedere come reagiva il suo corpo all'elettricità, se era un buon conduttore, se il suo campo magnetico naturale potesse essere una fonte di energia utilizzabile.

Lo sfiniva, obbligandolo ad alimentare il generatore del campo, osservando l'intensità, la stabilità e quant'altro concepisse la sua mente.

Ed Erik, esperimento dopo esperimento, sentiva le proprie energie venire meno. Sul fondo della cella, nudo e stremato, attendeva di morire.

E' un incubo.” - mormorò una voce, nell'angolo più buio della stanza - “Non averne paura.”

“Non è vero. Questa è la realtà.”

“Lo era.” - replicò Charles, inginocchiandosi a suo fianco e sollevandolo - “Guardami... mi riconosci?”

Erik lo fissò a lungo. Si rese conto, fuggevolmente, di essere un adulto. Vide la propria mano entrare nella visuale, afferrarsi con due dita alla camicia dello sconosciuto.

Uno sconosciuto dagli occhi gentili.

Dove lo aveva già visto?

Gli sembrò di ricordare dell'acqua, due braccia ad afferrarlo, trarlo in salvo.

 

Nessuno mi aveva mai salvato, prima di quella notte...

Tu tenevi a me prima ancora di conoscermi.

 

“Charles?” - domandò, insicuro se fosse il nome esatto.

E Charles sorrise.

“Vorrei dirti in carne e ossa...” - scherzò, tirandogli indietro i capelli e lasciando che gli posasse la guancia al torace - “Ma sarebbe scientificamente inesatto.”

“Non importa.” - sospirò Erik. Dei vestiti si stavano creando sul suo corpo, come un velo, una seconda pelle - “E' un incubo...”

“Lo è. E non puoi svegliarti, non ancora.” - sussurrò la voce vicina alla sua tempia - “Ma possiamo renderlo meno spaventoso, non credi?”

L'aria divenne meno umida, tiepida.

La cella svaniva, Erik aveva l'impressione che si sgretolasse, senza suoni.

“Attento, lui se ne accorgerà.” - mormorò, ad un tratto. Passi, qualcuno percorreva il corridoio correndo - “Non riesco mai ad uccidermi, lui interviene sempre.”

“Questa volta no, Erik. E non dovrai più tentare di ucciderti, per fuggire.” - sussurrò Charles, con le dita sulla tempia, per incanalare il potere.

 

Cambiare la struttura di un sogno, dentro un sonno profondo non era uno scherzo.

Ed era pericoloso, dannatamente pericoloso.

 

“Sta arrivando.”

 

Doveva fare in fretta.

 

“Ti sbagli. Apri gli occhi.”

Erik aveva il viso sepolto nella sua camicia. E Charles si piegò su di lui, gentilmente.

“Apri gli occhi, Erik.” - ripetè, adagiandolo a terra.

Profumo di terra. Di erba.

Calore del sole.

“Qui sarai al sicuro.” - sussurrò ancora la voce, allontanandosi.

Ed Erik dischiuse le palpebre.

 

Tra le fronde del gelso, nel calore del pomeriggio, Westchester brillava come una promessa.

 

***

 

Charles aprì gli occhi. E voltò la testa verso l'orologio. Quasi le sei.

Aveva dormito a lungo, profondamente, dopo...

“Erik.” - mormorò, tra il preoccupato e il seccato, protendendo la mente.

Nulla. Solo pace, buio.

Non c'erano sogni, in lui.

Solo riposo.

“Meglio così.” - sospirò, ad alta voce, tirandosi indietro capelli e lasciando ricadere le braccia sul cuscino.

Si sentiva a pezzi e si chiese, onestamente, come avrebbe fatto ad alzarsi.

Quel tour de force avanti e indietro dalla mente di Erik lo stava massacrando. Era come fare sulle mani venti rampe di scale.

Meno male che oggi... ecco, appunto.

 

Oggi era il giorno in cui svegliarlo.

 

Le mani di Charles tornarono a infilarsi nei capelli, a caccia di conforto.

Oggi è il giorno in cui devo parlare con Erik.

 

Magari potrei svegliarlo domani...

 

“Ma che vigliacco che sei.” - mormorò Erik, in piedi in fondo al letto.

 

E Charles, per poco, non ebbe un infarto.

 

“La prossima volta che entri in un mio sogno... e mi lasci sotto un albero come la Bella Addormentata.” - sottolineò Magneto, appoggiandosi alla colonnina del baldacchino - “Assicurati che non ti segua fino a casa.”

 

***

 

“Stiamo ancora sognando...”

“No, non credo. Credo che tu stia sognando, Charles.” - lo contraddisse Erik, girando attorno al letto e sedendosi sulla sponda, un ginocchio piegato, per chinarsi verso di lui - “Io non lo stavo facendo.”

“Non posso esserne sicuro.”

“Sì, che lo sei.” - Erik aveva occhi incredibilmente chiari, più che nella realtà. Trasparenti - “E devi svegliarti.”

“Non c'è bisogno...”

“Sì, invece. Devi farlo o non troverai più la strada.” - la voce di Erik divenne dura, perentoria - “Svegliati ora.”

 

La tua mente è ancora aperta. Sei vulnerabile.

 

Svegliati.

 

Svegliati, Charles.

 

“Io non..”

“Andiamo, svegliati!”

C'era qualcuno che lo scuoteva, facendolo rimbalzare sul materasso.

“Svegliati, maledizione!”

Charles spalancò gli occhi, ansimando.

Si voltò, rantolando, mentre due mani lo aiutavano. Tossì, in preda ai conati, sporgendosi oltre il materasso.

Aveva l'impressione che i suoi organi fossero in poltiglia, che la testa potesse scoppiargli.

“Ho esagerato...” - gracchiò, allungando una mano verso le pastiglie che teneva sul comodino.

“Si, lo hai fatto perché sei un emerito, incommensurabile stupido!”

 

Raven!

 

Charles si girò sulla schiena, di scatto. Gli analgesici volarono un po' dappertutto, tra le coperte, sul pavimento.

Raven, seduta sul letto, come Erik prima di lei.

“E' di nuovo un sogno.”

“No, non lo è!” - ringhiò la donna, chinandosi verso di lui. La sua pelle mutò, divenne blu - “Non mi permetteresti mai di essere così, in uno dei tuoi sogni.”

Abbassò la mano, artigliandogli una coscia, premendo con le unghie dentro la carne insensibile.

“Se fosse un sogno, sentiresti la mia mano.” - sibilò ancora, così vicina da lasciarsi sentire il calore del suo respiro - “E cammineremmo, nel parco, parlando solo per mentirci...”

 

Come Erik, Raven aveva negli occhi le nubi della colpa. E provava dolore.

 

“Oh, Raven...” - mormorò Charles, cercando di afferrarle il viso.

 

Niente da fare.

 

Si alzò, arretrando, rimettendosi l'elmo sulla testa.

La finestra era aperta, alle sue spalle.

“Raven, aspetta!”

“Stammi bene, Charles.” - la sentì dire, prima di saltare al di là del davanzale.

 

***

 

“Raven nei nostri dormitori?” - muggì Hank, per l'ennesima volta.

“No, assolutamente, solo nella mia camera da letto.” - rispose Charles, restituendo il bicchiere vuoto a Sean e ringraziandolo - “Vorrei anche aggiungere che non c'era bisogno di piombare qui tutti.”

“Se gli allarmi collegati alla centrale operativa scattano, io piombo un po' dove mi pare e con chi voglio, caro il mio Charles!” - ruggì Hank, ergendosi in una spropositata statura - “Ti ho perdonato il Teleporta in studio e Magneto sul tappeto ma... ma questa poi!”

“Tu perdoni a me? Ma io non ho fatto niente!”

“Tu non... ascoltami bene, perché lo dirò una volta sola: questi buchi in casa, da cui vanno e vengono quelli che forse sono dei nemici ma che tu non ritieni tali, sono pericolosi ed è ora di chiuderli!”

 

E Charles perso l'ultimo barlume di pazienza che gli restava.

 

“Io mi rifiuto di chiuderli, perché lei è mia sorella e lui è il mio amico!” - urlò, zittendolo - “E non saranno nemici fino a quando le loro azioni future non contraddiranno quelle del passato.”

“Non contr... io c'ero a Cuba, io ho visto cosa è in grado di fare!”

“C'eravamo tutti a Cuba. E io non ho voluto seguirlo, Hank! Non ho voluto seguirlo perché il suo piano è folle, assurdo e terrificante ed io, come te, so che è sbagliato, oggi come allora! Per questo sono qui e mi metterò contro di lui ogni volta che dovrò farlo! Io difenderò gli uomini finché avrò forza, perché costruiscano con noi un futuro insieme, difenderò gli uomini e difenderò i mutanti finché avrò vita e, se troverò un modo, anche oltre. Ma lui è e resterà Erik, per sempre!” - si interruppe, per prendere fiato. E gli occhi gli divennero metallici - “E non chiedermi di condannare mia sorella all'esilio perché non intendo farlo.”

 

Dopo, si sentì come svuotato. Abbassò la parole, lasciando che il silenzio cadesse sui presenti, pesantemente.

Respirò a fondo, cercando di calmarsi, rendendosi a malapena conto di come anche Hank si fosse lasciato cadere su una poltrona, sprofondandoci.

“Io ti chiedo scusa, Charles. Non era mia intenzione aggredirti.” - lo sentì mormorare - “E credo che tu sappia che vorrei Raven in giro per casa quanto te, se non di più.”

Charles alzò la testa, fissandolo. Ed Hank, che si innervosiva per un nulla, sostenne la sua occhiata senza battere ciglio.

“E' la verità e lo sai.” - aggiunse, asciutto - “Ma so che non accadrà mai. Le porte non sorvegliate, le finestre che rimangono scassinabili, non la faranno mai tornare a casa. Lo sappiamo entrambi.”

“Stanotte mi ha salvato. Non mi sarei più svegliato, da solo.”

“Non posso metterlo in dubbio. Ma credo sia stato un caso. Era già qui, quando ha capito che ti serviva aiuto. Non è venuta per aiutarti.”

 

Era vero.

Charles se ne rese conto in quel momento.

Raven aveva l'elmo di Erik. Non era entrata perché lo aveva sentito.

Raven era già in camera sua.

Perché? Perché?

 

“Forse voleva avere notizie di Magneto. Forse voleva parlarti...” - stava dicendo Hank, in lontananza, rispondendo quasi ai suoi pensieri - “Non posso saperlo. Quello che so è che non doveva poter entrare così facilmente e che, come è entrata lei, può entrare chiunque altro. Ed è pericoloso.”

“Allora cercheremo nuovi modi per proteggerci.” - rispose Charles, inghiottendo quell'amara verità su Raven e ricordando la sua espressione. Non qui per salvarlo, ma per sputargli addosso la rabbia - “Ma voglio che tu tenga a mente una cosa, Hank: se e quando mia sorella vorrà entrare in casa, io le spalancherò di persona la porta.”

 

***

 

Erik aveva paura della solitudine.

Charles non aveva bisogno di attraversargli la mente, per esserne certo.

Erik era vissuto tutta la vita da solo e aveva mutato ogni cosa in rabbia, senza mai limitarsi, per avere una compagna con cui scaldarsi.

Anno dopo anno.

 

La rabbia ti ha quasi ucciso, lo aveva contraddetto,una volta. Non ti ha aiutato a sopravvivere.

 

Quella rabbia che ti sembra una coperta calda non è altro che una corda intorno al tuo collo. Una corda che si stringe.

Era la ricerca a mantenerti vivo: la disperata ricerca di un momento di pace.

Ma non lo hai trovato, considerò Charles, sostando ancora un attimo a fianco del letto, in contemplazione. Hai confuso la libertà con la vendetta.

Era qui, in questa casa, il tuo momento di pace.

Era la scacchiera su cui giocavamo la nostra partita, era quel modo che avevi di accendere il camino che non ho mai imparato. Era Raven, che ti irritava con le sue incertezze, era Hank con i suoi colpi di genio.

Ci hai respinti tutti perché sapevi che, se per un attimo ci avessi lasciati entrare, non saresti più riuscito a farci uscire.

 

Perché non hai ceduto, Erik.

Perché hai reso tutto così difficile...

 

Allungò una mano, posandola sulla fronte, percependone la freschezza.

 

Svegliati.”

 

Poi, rapido, abbandonò la stanza, prima di qualsiasi possibile parola.

 

***

 

Lezioni. Studenti. Gli era impossibile pensare le sue giornate senza.

Ancora lezioni, passi su e giù dalle scale.

Una casa piena. Ed ancora spazio, per altri ragazzi.

Nuove lezioni, nuove regole, ogni giorno una scoperta.

No, non avrebbe mai smesso.

“Chiedo scusa...” - c'era Sean sulla porta - “Non volevo disturbare ma...”

Charles gli fece un cenno, perché entrasse. Sean lo raggiunse, scavalcando i ragazzini che sedevano fin suoi suoi piedi.

“Vorrei anche sottolineare che non volevo assolutamente fargli un favore.” - preambolò, porgendogli un biglietto.

Charles lo aprì. E un sospirò gli sfuggì, quando riuscì a decodificare quella terrificante calligrafia sbilenca.

Forse era un genio del male, ma non sapeva proprio scrivere.

 

La calligrafia pessima, tuttavia, non toglieva nulla allo stato d'animo con cui il biglietto era stato composto.

 

Tre tipi di sogno si avverano: il sogno mattutino, il sogno di un amico che ti riguarda, ed il sogno interpretato in mezzo a un sogno.”

 

Un verso del Talmud.

Calligrafia oscena, splendida citazione.

Charles non poté trattenere un sorriso, posando il biglietto sulla scrivania e cercando una penna.

 

“Vediamo...” - sussurrò, a se stesso, riordinando le idee. Poi ridacchiò.

Chi di spada ferisce....

 

Un sogno non interpretato è come una lettera non letta.” - ribatte, per iscritto.

Se non ricordava male, era il verso prima.

 

Esitò un attimo. Poi aggiunse un'ora in fondo al biglietto.

 

“Sean, sono mortificato.” - disse, rivolto al martire che attendeva, come un interrogato davanti alla cattedra. Poi gli porse il biglietto - “Ma dovrai fare lo stesso piacere a me...”

 

***

 

Anche Erik non poté fare a meno di sorridere, quando lesse.

Charles, sei impareggiabile.

 

“Sei congedato.” - disse al fattorino, attendendo che, dopo un'occhiata ostile, uscisse dalla porta.

Poi chiuse gli occhi, non riuscendo a trattenere una smorfia.

Aveva l'impressione che il torace fosse in fiamme. Per una questione di orgoglio, aveva scelto di sedersi, indisponendo Hank per il puro piacere di farlo.

Poi si era scambiato due effusioni con Alex, non uscendone del tutto soddisfatto: quel ragazzo era un muro di gomma.

Sean, invece...

Ora, avesse potuto, avrebbe solo voluto essere sedato, di nuovo.

Le ferite erano fatte di un dolore stratificato che affondava nell'interno del suo corpo. Le bende, dove Hank era intervenuto, di tendevano, dandogli l'impressione di essersi fuse con la pelle stessa.

Desiderava urlare.

Solo urlare.

 

Riaprì gli occhi. C'era Hank, di nuovo.

 

“Non posso darti altri antidolorifici, per il momento.” - commentò, controllando un tracciato e verificando un piccolo monitor - “Però posso dirti che stai guarendo, più in fretta del previsto. Ma devi essere paziente.”

“Non è tra le mie doti.” - rispose, calmo, nascondendo il dolore.

Hank gli stava puntando una stilo negli occhi, una stilo che Erik avrebbe voluto sfilargli di mano e infilargli in un orecchio.

“Lo so, Erik.” - rispose Hank, chiamandolo per nome, ricambiando l'occhiata traversa dell'uomo nello spegnere la lampadina - “Ma dovrai averne, questa volta. Sei vivo per miracolo.”

“Dopo il tuo colpo di genio...”

“Il mio colpo di genio era il nostro, se non ricordo male. E sei proprio vivo per quello, per quanto mi riguarda.” - replicò Hank, sollevando una provetta e porgendogliela - “Guarda tu stesso”

“E' la scheggia.” - mormorò, alzando un braccio e cercando di convincere la propria mano a non tremare.

“Ed è più grossa di ieri. Cresce circa un millimetro al giorno.” - gli comunicò lo scienziato blu, infilando le mani nelle tasche del camice - “Quella roba si stava preparando a colonizzarti.”

“E' instabile...” - commentò Erik, ruotando la provetta. Lentamente, la lasciò andare, facendola galleggiare in aria, aggrappandosi con i propri poteri al frammento al suo interno.

 

Poi ebbe l'impressione che l'aria gli fosse risucchiata fuori dai polmoni.

 

“Ehi, non fare stupidaggini.” commentò Hank, tendendo la mano e prendendo al volo il reperto, mentre Erik ricadeva indietro, sui cuscini - “Non sei ancora abbastanza forte per controllarlo.”

“Lo sarò presto.”

“Non ne dubito. Nel frattempo, però, potresti almeno dirmi cosa sai di questa roba.”

“Lo chiamano Adamantio.” - fu la risposta, mentre chiudeva gli occhi - “E quando saprò il resto, tu sarai l'ultimo a cui verrò a dirlo.”

 

***

 

“E' insopportabile.” - comunicò Hank, quando le porte dell'ascensore si aprirono - “E' borioso, arrogante e del tutto insopportabile.”

“Ti sei ripetuto.” - gli fece notare Charles, avvicinandosi. Hank aveva fatto del corridoio il proprio ufficio, con una scrivania e libri ovunque - “Stai cambiando la disposizione dei mobili?”

“Non ho voglia di essere la sua dama di compagnia. Da qui so se è vivo o morto senza doverlo frequentare.”

“Credevo che avessi anche un ufficio, qui sotto...”

“E' un letamaio. Una tragedia sull'altra, non ho avuto il tempo di riordinarlo.”

“Capisco.” - sospirò Charles. Hank sapeva essere veramente assurdo, certe volte - “Allora io entro. Se vuoi andare a farti un giro...”

“No, resto, grazie.”

“Hank...”

“Charles, siamo seri. Ogni volta che ti vede, rischia di morire. E io non ho voglia di fare le scale di corsa con te che mi gridi nel cervello.”

 

***

 

Hank gli aprì la porta, lasciandolo passare. E la richiuse alle sue spalle.

Erik era seduto, le mani abbandonate sulle gambe. Gli elettrodi gli costellavano il torace, aveva aghi in entrambe le braccia, una ruga verticale di dolore ad attraversagli l'espressione.

“Sei puntuale.” - commentò l'uomo, senza aprire gli occhi.

“Le lezioni finiscono quasi sempre puntuali.” - rispose, impacciato. Cosa avrebbe dovuto dire? - “Come ti senti?”

 

Come se mi avessero macinato, fu la candida risposta.

 

Poi Erik aprì gli occhi e gli sorrise.

 

Fu involontario.

Charles ne rimase spiazzato, Erik gli sembrò altrettanto esterrefatto.

Gli aveva sorriso, senza riuscire a trattenersi.

Ed ora...

 

Il piccolo monitor alla sue sinistra emise un ronzio allarmato. L'ago che disegnava il tracciato cardiaco sembrò divenire epilettico.

“Non ti agitare...” - mormorò Charles, avvicinandosi. Era solo un sorriso...

“Ho l'impressione che tu non sappia dirmi altro...” - borbottò Erik, a denti stretti.

Avesse potuto, si sarebbe strappato di dosso gli elettrodi e avrebbe fatto volare ogni singola apparecchiatura. Gli rendevano impossibile nascondere ogni singola emozione, lo facevano impazzire.

“Ho l'impressione che, se non ti calmi, tra un istante piomberà qui Hank.” - ribatté Charles, allungando una mano all'apparecchio e verificando i suoi valori - “Calmati, o me ne vado.”

“Dovrei esserne colpito?” - ritorse Erik, portandosi una mano al torace. Faceva male, tutto.

“Non essere ostile.” - fu la flemmatica risposta. Charles gli aveva posato una mano sul torace, poco sopra la fasciatura - “Respira più lentamente, avanti, o ti spengo di nuovo.”

Erik avrebbe voluto morderlo. Invece posò una mano sulla sua e chiuse gli occhi, mentre qualcuno faceva scattare il lettino, sdraiandolo nuovamente.

Hank e Charles si scambiarono un'occhiata, sopra la sua testa. Charles annuì, in un muto ringraziamento. E il mutante uscì, silenzioso come era entrato.

I minuti trascorsero, nel silenzio. Erik poteva sentire il respiro di Charles, come se lo stesse guidando. La sua mano, sotto la sua, era calda, gli posava sul cuore, scaldandolo.

E, poco a poco, tacquero anche i borbottii contrariati delle apparecchiature.

“Contento?” - sussurrò allora, riaprendo gli occhi e fissandolo.

“Molto.” - rispose Charles, così vicino da sorprenderlo. Aveva ripiegato un braccio, posandolo sul lettino e vi aveva appoggiato il mento, a meno di un palmo dalla sua testa. E gli sorrideva, gentilmente.

“Ciao, Erik.” - sussurrò, quando i loro occhi si incontrarono - “Sono contento di vederti.”

 

***

 

Erik lo fissò in silenzio. Charles non era cambiato poi molto. Aveva i capelli un po' più lunghi, forse, ma non c'era altro in lui, che testimoniasse l'anno trascorso.

 

Sempre uguale, gli stessi occhi, la stessa espressione sorniona, la stessa discreta presenza.

Così uguale da fargli provare un sentimento morto e sepolto: nostalgia.

 

Sempre uguale, eppure... irrimediabilmente spezzato.

 

“Charles...” - lo salutò, lentamente, guardandolo. Poi rimase in silenzio.

 

Sembrava disorientato, incerto su cosa dire, cosa pensare.

Charles sostenne il suo sguardo, ma lasciò che il sorriso si spegnesse, divenendo serio.

“Non sei prigioniero...” - gli spiegò, abbassando il tono di voce - “Sei arrivato qui quasi quattro giorni fa, con Azazel. Eri grave, ti abbiamo soccorso.”

“Lo so. Me lo ha detto Hank.” - rispose, seguendolo docilmente sulla via di una conversazione meno impegnativa - “Ma non è stata una mia scelta. Credo sia stata Mystica a farmi portare qui...”

“Credo anche io. E' qua fuori, da qualche parte.” - aggiunse. Ed Erik impressione che l'argomento lo ferisse - “Al momento non ha molta voglia di parlarmi.”

 

Adesso non poteva più fuggire.

Adesso non poteva più farlo nessuno dei due.

 

“Lo ha scoperto.” - sussurrò Erik, guardandolo.

 

Charles aveva gli occhi lucidi.

 

“Non si è fatta quasi venire un infarto...” - scherzò, nascondendo la bocca che tremava dietro l'avambraccio - “Ma, come te, non l'ha presa bene.”

 

Oh, Charles...

 

Erik non disse nulla. Si fissarono, indecisi. Poi, prima piano, poi sempre più forte, Erik gli strinse le dita della mano.

 

“Le serve tempo...” - rispose, con lentezza, guardandolo dritto negli occhi - “Concediglielo. E, se puoi, concedilo anche a me.”

 

Siamo colpevoli entrambi. Ed entrambi non ce lo perdoneremo mai.

 

Charles non disse nulla.

Non aveva nulla da dire.

 

Ti va se resto?” - si sentì sussurrare nella mente Erik - “Non siamo costretti a parlare...”

 

Gli occhi di Erik si illuminarono, in una risata silenziosa.

 

“Io so stare zitto...” - rispose, sottovoce - “Sei tu che non taci mai, grillo parlante...”

 

***

 

Hank entrò e uscì, un paio di volte. Alle sette, Alex fece la sua comparsa in corridoio. Hank, seduto sulla scrivania addossata al muro, scriveva, con un taccuino appoggiato alla coscia.

“Potevi prenderti anche una sedia, durante il trasloco...” - commentò, avvicinandosi.

Di risposta, Hank gli indicò un relitto contorto in un angolo.

“Troppo delicata.”

“Capisco.” - sospirò Alex. E, con quella, erano trenta. Poi si voltò, allungandosi per vedere dal vetro della porta dell'infermeria - “Allora? Ancora vivi tutti e due?”

“Peggio.” - commentò Hank, voltando un'altra pagina del volume e segnando un altro appunto - “Dormono assieme.”

 

***

 

Si era risvegliato nel suo letto, senza sapere con esattezza chi lo avesse aiutato a raggiungerlo.

Doveva essere notte fonda e, come suo solito, per verificare l'ora, Charles accese la luce, cancellando ogni possibilità di riaddormentarsi a breve.

Qualcuno gli aveva tolto i vestiti e l'orologio, riponendoli con attenzione.

Non era la prima volta che gli capitava: si addormentava in giro per il castello e si svegliava nella propria camera, al sicuro, sotto alle coperte.

Era straniante, piacevole allo stesso tempo.

Quando erano più piccoli, anche lui lo faceva con Raven. La lasciava addormentarsi sul divano e poi la portava a letto, senza mai svegliarla.

Saliva le scale tenendola stretta, per paura che gli cadesse ed era bella quando le braccia di lei gli stringevano il collo.

Raven aveva un buon profumo, come un dolce. Anche crescendo lo aveva conservato, come una fragranza sulla pelle, qualcosa che le restava addosso anche quando mutava.

Quel profumo la tradiva sempre.

 

E lo stava facendo anche ora.

 

Charles spense la luce, tornando a sdraiarsi.

 

“Hank dice che dovremmo rendere questa casa più sicura.” - mormorò, al buio - “Dice che devo smetterla di lasciare incustoditi dei varchi da cui tutti possono passare, umani o mutanti che siano. Li chiama buchi e lo mandano su tutte le furie.”

 

Pausa.

 

“Non so come spiegargli che, ogni volta che chiuse un buco, io ti sento più lontana.”

 

Silenzio. Solo silenzio, intorno a lui.

 

“Ogni volta che Hank perfeziona le nostre difese, io perdo una parte della libertà che avevamo. E penso a te, alla notte in cui ti ho trovato che frugavi in frigo e mi sei diventata indispensabile.”

 

Charles tirò su con il naso. E si passò una mano sugli occhi, con irritazione.

 

“Ti ho lasciata andare perché avevo promesso di renderti felice e ho impiegato troppo tempo per capire che non ne ero in grado di farlo, non quanto Erik.” - sussurrò, cercando di controllare la voce - “E lui.. lui lo conosci e sai quanto bene gli ho voluto. Non avevo mai avuto un amico, prima.”

 

Avrei voluto che costruissimo tutto questo insieme.

Vi avrei voluti con me.

 

Un respiro. Così lieve da essere quasi invisibile.

Ma Charles voltò comunque la testa verso quel suono sottile.

 

“Io ho sperato che andassi con lui, quel giorno, a Cuba. Perché sei la mia più cara amica e non avevo nulla di più prezioso da offrirgli. Perché darai a lui ciò che hai dato a me, la gioia di non essere mai solo.” - aggiunse - “E non mi importa di che colore sei o come tu preferisca essere chiamata. Qualunque cosa accada, io ti vorrò sempre bene. Non dimenticarlo mai.”

 

Lo so che siete qui solo di passaggio.

Ma mi consola sapere che, quando andrete via, sarete insieme.

 

***

 

Sei giorni. Le ferite più lievi erano ormai richiuse. Restavano le peggiori e gli atroci ricami di Hank.

Persino Erik, propenso a non badare molto alle cicatrici che aggiungeva alla sua collezione, ne era stato un po' disgustato.

“E tu saresti un medico?” - lo aveva apostrofato, mentre finiva di medicarlo.

“Non ancora.” - era stata la risposta - “Ma sto studiando molto, dovrei esserlo in un anno.”

Eric aveva sentito la propria bocca aprirsi e poi richiudersi.

“E Charles ti ha permesso di mettermi le mani addosso?”

“Sono perfettamente consapevole di come Charles volesse suturarti con le sue mani.” - rispose l'altro, finendo di impiastricciarlo con un cicatrizzante dall'odore fastidioso - “Ma io ho ricucito più polli di lui quindi ho più esperienza.”

“Polli?”

“Polli.” - confermò Hank, bloccando la fasciatura - “Ai ragazzi piacciono farciti e nulla va sprecato.”

Erik non sapeva se essere disgustato o ammirato dal peloso chirurgo-massaia che gli volteggiava attorno e a cui doveva la vita.

“Polli.” - borbottò, ancora una volta, cercando di propendere verso il disgusto.

Poi, visto che Hank gli dava le spalle, posò un piede a terra e scese dal lettino.

“Ehi, cosa pensi di fare!” - esclamò lo scienziato, voltandosi di scatto, sentendolo avviarsi verso la porta.

“Faccio due passi.” - rispose Eric, impegnando tutto se stesso per non franare a terra ignobilmente - “Non aspettarmi alzato, torno presto.”

“Oppure non esci proprio, figliolo.” - replicò Alex, intercettandolo e posandogli una mano sul torace. Lo fece arretrare e lo riportò in infermeria - “Hank, credo che questo sia tuo.”

“Stavo giusto domandandomi se lo volevo indietro.” - replicò il mutante, finendo di riporre le garze - “Dove pensi di andare?”

“Di sopra?” - lo provocò Erik, puntando un dito verso il soffitto - “Questo bunker mi provoca la nausea.”

“Capisco la sensazione e la condivido. Anche a me manca il sole e sono stufo marcio delle rogne che mi provochi.” - replicò Hank, senza farsi intimorire dall'espressione trucida dell'uomo - “Ma tu non esci, non ancora.”

“E sarai tu ad impedirmelo?”

“Lui, io, uno dei tanto che incontrerai in giro per casa... e non credere che il Professore apprezzerebbe.” - rispose Alex, restando sulla porta - “Al momento, fossi in te, non andrei in giro ad attaccar briga. Potresti finire gambe all'aria piuttosto in fretta.”

“Tu credi?”

“Io credo.” - confermò il ragazzo. Poi gli indicò la fasciatura - “Verifica tu stesso.”

Rossa. Una bella macchia rossa in espansione.

Erik borbottò un'imprecazione a denti stretti. Poi si sentì afferrare per la collottola.

“Sdraiati che ti rammendo.” - gli comunicò Hank, trascinandolo verso il lettino - “Sai, Eric, ho proprio capito una cosa: tu, in fatto di cervello, sei tale e quale i miei polli farciti.”

 

***

 

“Ti fai chiamare professore, adesso?”

“Mi chiamavano professore anche quando ci siamo conosciuti.” - ribatté Charles, alzando gli occhi e osservandolo, in piedi, sulla porta dello studio - “E qualcosa mi dice che tu non dovresti esser qui.”

“Ho bloccato le porte dell'ascensore.” - rispose Eric, decidendosi ad entrare. Camminava barcollando, senza riuscire a distribuire il peso su entrambe le gambe - “E anche quella delle scale.”

“Eric...”

 

Nessuno sapeva dirlo con quel tono di rimprovero. E quanto gli era mancato!

Eric fu sollevato dal fatto che Charles, in quel momento, non potesse vederlo in faccia.

 

“Aspetta, mi siedo e li libero.” - rispose, lasciandosi scivolare nella poltrona di fronte alla scacchiera. Poi scosse una mano in direzione dell'ingresso, ma Charles ebbe l'impressione di sentire, in lontananza, un sinistro rumore di lamiere.

“Sei maldestro...” - commentò. Eric aveva smesso di tendere la mano. Ascoltava soltanto.

“Non sono io.” - rispose, sedendosi meglio. E guardandolo - “Fanno da soli... che gentili.”

“Era proprio il caso?”

“Io non amo i prepotenti.”

“E adesso cosa ti aspetti che faccia?” - chiese, chiudendo il registro che stava compilando e cercando il cappuccio della stilografica - “Ti difendo da loro?”

“Scommetto che non hai fatto altro, in questi giorni. Loro sanno che sono il nemico, solo tu sei utopico nei miei confronti.”

“Hank ha ragione.” - commentò Charles, posando le mani sulle ruote della sedia e muovendosi per intorno alla scrivania per avviarsi verso l'ingresso - “Sei insopportabile.”

“Anche tu.” - replicò Eric, guardandolo allontanarsi. Era la prima volta che lo vedeva realmente, che seguiva le sue mosse.

 

E, nel farlo, sentiva una fitta atroce, che non aveva nulla a che fare con le proprie ferite.

 

Charles non camminava più per caso, in quel suo modo indolente.

Charles non correva più come un passo intorno alla casa, al mattino, prima di far colazione.

Charles aveva smesso di scivolare, non visto, sul corrimano, per arrivare più velocemente in fondo alle scale.

 

C'era qualcosa di terribile, nell'enumerare quelle piccole banali abitudini ormai perdute. Terribile, quasi fossero piccoli frammenti di Charles che si fossero dispersi al vento, amplificando la mutilazione, stravolgendolo, sminuendolo.

Lo osservò, ma non lo seguì con lo sguardo, voltandosi: Charles avrebbe sentito i suoi occhi sulla nuca, come sempre, ed avrebbe provato a interpretarli.

Rimase seduto al suo posto, carezzando distrattamente il bracciolo consunto, ascoltando a malapena le voci concitate che si scambiavano lamentele in corridoio. Quella stanza era sempre uguale, calda, impregnata dal camino che, a quanto sembrava, nessuno sapeva accendere a dovere.

Guardò i ceppi, osservandone la disposizione. Magari avrebbe potuto alzarsi e sistemarli...

“Non lo fare.” - lo ammonì l'altro, tornando indietro.

“Stai fuori dalla mia mente.”

“Non l'ho letto dalla tua mente.” - lo contraddisse Charles, affiancandolo - “Ti stavo osservando...”

Erik piegò la testa, scrutandolo.

“Ti conosco.” - aggiunse Charles, in un sospiro. E tornò serio - “Non avresti dovuto alzarti.”

“Mi sdraierò dove vuoi, ma non in quel bunker.” - ribatté, sostando il peso e appoggiandosi a un bracciolo, per essere vicino. Poi indicò la scacchiera - “Come mai la tieni così in disordine?”

Lo era.

Era terribilmente in disordine.

Dopo che l'avevano rovesciata, insieme, precipitando sul tappeto, Charles aveva ricominciato a ridisporre i pezzi, a memoria.

Peccato che le interruzioni si fosse sistematicamente ripetute.

“E' la nostra partita.” - rispose, come se questo spiegasse tutto.

“Questo lo vedo anche io. Ma i pezzi non sono tutti dove dovrebbero essere.”

“C'è stata un po' di confusione, l'altra sera, e si sono mischiati. La sto ancora sistemando.”

“La torre era più indietro.” - rispose Erik, sporgendosi. Poi tenne il pezzo sollevato, per un attimo, prima di disporlo - “Buffo, non avevo mai notato quella venatura più chiara.”

La osservò ancora un attimo, poi voltò la testa, fissando Charles.

“Secondo te è una mutazione?” - chiese, serio.

Charles sorrise. Era difficile capire se fosse una battuta o una constatazione.

“Me lo sono domandato anche io.” - commentò, spostandosi e ponendoglisi quasi di fronte. Intrecciò le dita, studiandolo: si muoveva con calma, come suo solito. Ma c'era incertezza nei suoi gesti, come se dovesse controllare il dolore, come se occorresse concentrazione per coordinarsi - “Dovresti essere a letto.”

“Sei davvero un Professore.” - fu la risposta, alzando fuggevolmente gli occhi.

Poi spostò un pezzo.

Una nuova mossa.

Eric restò in attesa. Ma qualcosa, in lui, obbligò Charles a voltare la testa.

La propria poltrona, quella di fronte alla scacchiera... vuota.

Girò di nuovo la testa verso Erik.

“Ti disturba?” - domandò, vedendo il suo sguardo indugiare sulla sedia a rotelle - “Vuoi che mi segga lì?”

“Potresti?”

“Lo faccio spesso.” - rispose, dandosi una spinta e avvicinandosi alla poltrona. Si afferrò ai braccioli e si spostò, rapido, da una all'altra.

Rapido, quasi fluido, come se fosse una cosa naturale.

 

È questo che fai, ora, pensò Erik. Ormai crei illusioni anche con il corpo, non più solo con la mente.

Ma... dentro? Fin dove si spinge quella frattura, nella tua anima?

Cosa è rimasto di te, dall'altro lato?

 

Charles non disse nulla. Come aveva sempre fatto, si piegò sulla scacchiera, osservando i pezzi.

E mosse.

“Frettoloso.”

“Ho avuto tempo di valutare quale potesse essere la tua mossa, in un anno...”

“E sono stato prevedibile?”

“Era un calcolo di probabilità, non di prevedibilità.” - rispose Charles, tornado ad accomodarsi. Ormai aveva l'impressione che, tra loro, fosse in corso un gioco d'osservazione. Si studiavano l'un l'altro, certi di non essere visti.

Analizzavano ogni espressione, ogni ruga, ogni incertezza, riscoprendosi, cercando il cambiamento, domandandosi come quell'anno li avesse attraversati, rafforzando e mutando.

Sì, mutando.

Era questo che cercavano: la nuova mutazione portata dalla vita e non dalla genetica.

Erik si prese il tempo necessario per muovere. Charles quello che gli occorreva per guardarlo senza entrargli in testa.

Aveva l'aria malata ma, tolto questo, non era troppo di diverso dall'ultima volta in cui avevano giocato.

Nemmeno i pantaloni e la felpa erano troppo diversi da quelli che portava durante l'allenamento. Forse erano addirittura i suoi, venuti fuori da uno scatolone perso da qualche parte in casa.

I capelli continuavano a ricadergli sugli occhi, il lieve accenno di barba lo rendeva solo un po' più incolto del necessario, senza renderlo meno aristocratico.

“Sei tutto mani.”- commentò, sovrappensiero, guardando le dita afferrare finalmente un pezzo.

“Ho difficoltà ha capire se mi hai fatto un complimento.”

“Pure io.” - rispose Charles, incerto - “Penso che fosse solo una riflessione ad alta voce.”

“Magari non stavi parlando e io ho sentito i tuoi pensieri....”

“Erik, non credo che tu possa...

“Stavo scherzando, Charles. Stavo solo scherzando. - sospirò Erik, tornando ad appoggiarsi allo schienale della poltrona - “Sempre sulla difensiva...”

“Senti chi parla.” - ritorse Charles, gettandogli un'occhiata storta. Poi alzò la testa verso la porta e sorrise - “Ororo, entra, entra pure.”

Era una ragazzina. Magneto alzò un sopracciglio, quando la vide passare a fianco della scacchiera e inginocchiarsi vino al Professore.

La carnagione scura, in contrasto con i capelli color cenere, la rendeva una piccola bellezza.

Mutante... Alfa, secondo la classificazione con cui Charles lo tediava la sera, ignaro che si possa evitare di parlare sempre del proprio hobby.

Alfa, in grado di evolvere.

La ragazzina stava chiedendo una spiegazione: con il libro sul bracciolo della poltrona, indicando alcune righe con una matita, parlava sottovoce, voltandosi ogni tanto verso di lui.

Innamorata, considerò Erik, coprendosi la bocca divertita con una mano.

Innamorata del mentore... quasi banale ma comprensibile: lui ha le conoscenze di Aristotele e i capelli di Paul McCartney... nessuno è pronto ad un insegnante di questo genere.

Charles, d'altro canto, era come suo solito assorto nella propria missione: se Brigitte Bardot gli fosse volata tra le braccia, lui avrebbe solo saputo blaterare delel meraviglie dei suoi capelli biondi da un punto di vista scientifico e poco galante.

Io apprezzo profondamente Brigitte Bardot.”- disse una voce, nella sua testa.

Stai fuori dalla mia mente.” - replicò lui, con un pensiero quasi litanico, annoiato.

Charles non rispose. Alzò solo la testa, rivolto alla ragazzina. Le spiegò alcune cose ma, sull'ultima...

Questa credo di ricordarla poco, ammise, con fare conciliante, senza per questo apparire meno attendibile. E indicò Erik.

“Penso che lui possa spiegartelo con parole più semplici delle mie.” - aggiunse.

Erik avrebbe voluto annodargli gli alamari del camino attorno al collo.

Ma, ormai, non poteva tirarsi più indietro. La ragazzina si era alzata e gli tendeva la mano, rispettosa, presentandosi.

“Ororo Monroe. Mi chiamano Tempesta.”

“Piacere di conoscerti... Tempesta.” - rispose, ricambiando la stretta e tendendo la stessa mano per avere il libro. Sento che sarà l'inizio di una splendida amicizia - “Prego... dimmi come posso aiutarti.”

Magnetismo. Un paragrafo sull'elettromagnetismo.

 

Proprio al momento opportuno, non trovi?”

Chiudi il becco telepatico, Charles... sto lavorando...”

 

Lo stava facendo. Lo stava facendo davvero: spiegava ad Ororo l'elettromagnetismo, con termini semplici, lineari, paragoni. Aveva competenze di fisica più forti delle sue, più utili al suo dono e, a quanto sembrava, sapeva anche trasmetterle.

“Ho capito, grazie.” - disse la ragazzina, quando Erik smise di parlare, rendendole il libro. Ed erik le sorrise, in quel suo modo stranamente sghembo e sincero.

Se ne andò, silenziosa come era venuta ed Erik si sporse, seguendola fino a quando non sparì, in fondo al corridoio.

“Capisco perché ami insegnare.” - commentò, tornando a osservare la scacchiera, movendo e lasciando andare le braccia lungo i braccioli della poltrona, indolente - “E' una benedizione per l'ego.”

“Amo l'attimo in cui comprendono e sono pronti per andare avanti.”

“E l'arroganza, Charles? Non la nutri con tutto questo?”

“Non sono più particolarmente arrogante, amico mio.” - commentò Charles, movendo il proprio pezzo, gli occhi fissi alla scacchiera - “Vedo qualcosa di diverso dalla superiorità, nel trasmettere quello che so.”

“In ogni caso, qualunque sia il motivo, ti dona.”

“E questo, a differenza del mio, sembrava essere un complimento.”

“Non esserne tanto sicuro, Charles.” - ribatté Erik, divertito, piegando la testa - “Non esserlo proprio.”

 

***

 

“Una ragazzina promettente...”

“Sono in molti, qui dentro.”

“Vedo che Cerebro serve ai tuoi scopi, dopotutto. E non danneggia i capelli...”

“Per il momento...”

“Cosa intendi fare, Charles?”

“Per i capelli? Non ho ancora ben deciso...”

Erik ridacchiò, accettando la battuta.

“Bel tentativo.” - ammise - “Li porterai tutti qui? Anno dopo anno, decennio dopo decennio...”

Charles allontanò la mano dalla tastiera, senza muovere.

“E tu, Erik?” - domandò, solenne, senza rispondere - “Cosa farai nel frattempo?”

“Mi preparerò. E, quando accadrà ciò che deve accadere... sarò pronto.”

“Allora stiamo facendo la stessa cosa.”

“Ma, come hai avuto modo di sottolineare, noi non vogliamo la stessa cosa.” - replicò Erik, pacatamente, fissandolo dritto negli occhi - “Ora dimmi, Charles: mentre educhi dei ragazzi e prepari un esercito, in cosa sei poi così diverso da me?”

“Non sto preparando un esercito...” - non soltanto.

“Davvero? Quella ragazza controlla il clima, Charles. E, crescendo imparerà a fare cose che io, personalmente, non riesco nemmeno a immaginare. Tu lo sai che potrebbe essere un'arma letale e le stai comunque insegnando i i fondamenti di fisica.”

“Per controllarsi.”

“No, per disciplinarsi. Tu insegni disciplina, Charles, non controllo. Insegni come sfruttare questi poteri nel migliore dei modi salvo poi aspettarti che non vengano usati.” - lo contraddisse - “Tu insegni a trovare un punto, un punto di equilibrio che ci renda perfetti, lo sappiamo entrambi.”

“Quel punto di equilibrio non giace nei nostri poteri, Erik. Quel punto si nasconde nella parte umana di noi. Senza le emozioni, senza essere anche uomini, oltre che mutanti, noi saremmo solo macchine.” - replicò Charles, deciso - “Le nostre emozioni creano la nostra forza, fanno di noi ciò che siamo... ma è con la disciplina che non diveniamo ciò che vogliamo divenire. Noi scegliamo Erik, scegliamo da quale parte di noi attingere. E io insegno a questi ragazzi quale sia la parte migliore di noi.”

“Oh, Charles, ma così finiremo con l'essere tutti dei in un mondo di formiche...”

“Ti sbagli. Solo così rimarremo uomini in un mondo in cui ci credono mostri.”

 

***

 

Si fissarono. Poi, con lentezza, Erik si alzò.

“Sei un illuso, Charles.” - mormorò. Ma non c'era derisione, solo dispiacere - “Loro ti faranno sempre credere che esista una parte migliore di noi e, ogni volta, per quanti siano gli sforzi compiuti, diranno che non è abbastanza. Puoi educare questi ragazzi, renderli fieri, insegnare loro la tolleranza... ma là fuori, nel mondo, in quello reale, nessuno sta educando allo stesso modo gli uomini. Se non stai facendo dei tuoi studenti dei guerrieri, allora stai crescendo una generazione di martiri.”

“Insegnerò loro a difendersi. A difendersi soltanto.”

“E, un giorno non troppo lontano, dovrai dire loro che la miglior difesa è l'attacco.” - ritorse Erik, senza alzare al voce. Tu non sai, non sai cosa stia accadendo ad Alkaly Lake - “Li dovrai guidare, gettare nella battaglia. E chi saranno i vostri nemici, a quel punto, Charles? I tuoi essere umani o i fratelli dei tuoi ragazzi?”

“Combatteranno l'odio. L'ingiustizia. E l'intolleranza.”

“Tutti nobili nemici... peccato che stiano sempre all'interno di sacchi di carne.” la mano che lo sorreggeva, posato sullo schienale della poltrona, divenne una morsa - “Io ho ucciso, Charles. E ho visto la morte. Ho visto i tuoi nemici, l'odio, l'intolleranza e quant'altro... li ho visti, li ho affrontati... ma, credimi, non li ho mai visti bruciare nei forni.”

“Erik...”

Ed Erik rise, sommesso, scuotendo la testa.

“Tu dici Erik come una preghiera.” - mormorò, con dolcezza - “Ma, qui, non sono io che voglio essere un dio.”

 

***

 

Era uscito sulla terrazza, spalancando entrambi i battenti della finestra. Aveva dovuto accelerare il passo per raggiungere la balaustra, per posare entrambe le mani e non cadere.

Aveva chiuso gli occhi, cercando di respirare più lentamente possibile, circoscrivendo il dolore al petto, riducendo il tremito delle braccia.

“Se adesso svengo...” - sussurrò, a se stesso - “Non me lo perdonerò mai.”

Si girò verso la casa e si accorse, con agitazione, di aggrapparsi a quelle mura spesse come se fossero tutto ciò che restava delle sue difese.

Casa di Charles.

Casa di Raven.

Ed avrebbe potuto essere casa sua.

Avrebbe potuto.

L'impatto con il lastricato fu terribile. Il colpo si riflesse lungo la spina, contra la balaustra, strappandogli un ringhio soffocato. Piegò le gambe, peggiorando la situazione e si bloccò, come un animale ferito, ansimando.

Westchester si piegava su di lui, distorcendosi.

Ed Erik cercava disperatamente di scacciare quel senso di protezione che emanava.

Un posto in cui i mutanti potevano crescere e imparare ad amarsi.

Un posto in cui i mutanti erano fratelli e si preparavano ad affrontare il mondo.

 

Un posto in cui non sarebbe mai successo loro nulla di male.

 

Sentì dei passi, su dalle scale, nella sua direzione. E apparve Alex. Voltò la testa verso di lui, lo vide cominciare a correre.

Ho bisogno di aiuto, urlò forte, afferrandolo per le spalle mentre scivolava a terra.

Aiutatemi.

Stavano accorrendo. Se Alex non avesse chiamato aiuto, non lo avrebbero mai trovato.

C'erano mani che lo toccavano.

“Stai tranquillo.” - disse Alex, piegandosi verso di lui. Ed i suoi occhi divennero gialli - “Non ti muovere...”

Erik lo fissò dritto in viso. E il sorriso divenne una smorfia di dolore.

Quell'Alex sapeva di zucchero... di dolce.

 

Poi, fu il buio.

 

***

 

“Ho il desiderio di legarlo al letto.”

“E io non voglio mai più sentirti dire qualcosa del genere.”

“Andiamo, Charles, sai benissimo in che senso.” - Hank, sembrava la voce di Hank. Ma era lontana - “E sai che non lo farei mai. Io... io ho visto il tatuaggio. E so perché odia il bunker.”

“Io odio il bunker perché lo odio.” - replicò Erik,con voce impastata. Aveva qualcosa nel naso, ed era insopportabile - “Palla di pelo...”

Si udì un borbottio, poi un ringhio. Sembrava una parola. O, magari,erano un paio molto unite tra loro.

“Ostile. Ostile e insopportabile.”

Erik aprì gli occhi.

Bunker, di nuovo.

Troppa luce.

Chiuse gli occhi, perché non riusciva ad alzare le braccia.

“Mi hai legato?”

“Ho appena detto che non lo farei mai. Se non riesci a muoverti è solo colpa tua.”

“Parlami con più gentilezza. Sono ferito.”

“Te le procuro io le ferite, idiota di un pazzo!”

“Mi sembra che stiate degenerando.” - si intromise una voce.

“Charles, e chi se no...” - sospirò Erik, senza riuscire a trattenersi - “Un vero Grillo Parlante...”

“Il Grillo parlante ringrazia e ti fa presente che devi ad Hank la vita.”

“Vai a quel paese, Grillo.”

“Per una volta che non ti difende, è un piacere starlo a sentire.” - mugugnò Hank, girando attorno al letto e abbassando, suo malgrado, le luci - “Apri gli occhi, avanti.”

“Va meglio?” - aggiunse, quando vide Erik fare il richiesto.

“Sì.” - dovette ammettere l'altro, a denti stretti. E, peggio ancora - “Grazie.”

“Di niente.” - Hank lo osservò, piegando la testa, come un grosso san Bernardo - “Il bunker ti da davvero fastidio...”

“Tu non immagini quanto.”

“Ok. Facciamo così: se resti calmo almeno un paio d'ore e ti stabilizzi, io ti cerco una stanza al piano di sopra.”

 

Gentile. Troppo gentile.

 

Erik voltò la testa, fissandolo. Charles alzò la propria, facendo altrettanto.

“Non ho cambiato idea su di te.” - comunicò, piatto, il bestione blu. Poi, con un dito, gli indicò il braccio - “Ma ho rispetto per quello.”

Il numero. Erik lo fissò per un istante, affrontando le immagini che si accompagnavano alla sua visione, poi tornò a fissare Hank.

“Mio padre vive in Illinois e lavora in un impianto nucleare.” - spiegò Eric, essenziale, stringendosi le spalle - “Ma, prima della guerra, aveva un altro nome e lavorava comunque con l'energia nucleare... forse è per questo che sono così, ma non è questo il punto. Il punto è che lui ne ha uno uguale sul braccio.”

 

Io so cosa gli hanno fatto. Lo so, ma non lo immagino.

Con te è uguale. E puoi essere cattivo finchè vuoi, pazzo finchè ti pare, ma io non intendo legarti a una barella e puntarti altra luce bianca addosso.

Io sono blu. E sono grosso. E peloso.

Ma non sono un mostro.

 

“Non me lo avevi mai detto...”

“Anche tu, Charles, non mi dici mai dove hai nascosto i corpi dei tuoi genitori, qui dentro. E io non te lo chiedo.”

“Li ha sciolti nel laghetto delle anatre.” - commentò Erik, a quel punto - “Le anatre sono la sua passione. Non minaccia mai di fare di te una papera?”

Forse Erik lo sbeffeggiava come al solito, con le sue battute. Ma, quando lo fissava negli occhi, ora, Hank vedeva rispetto.

 

***

 

Hank aveva preso la decisione. Ma era stato Charles a scegliere la stanza: ad Erik bastò un'occhiata, per capirlo, la mattina successiva.

C'era Alex, ai piedi del letto.

“Eri incosciente, quando ti hanno portato di sopra.” - commentò, restando immobile.

“Era la tua stanza.” - replicò Erik, voltandosi piano ed esplorando lo spazio circostante - “Secondo te, con quale motivazione l'ha scelta per me?”

“Perchè è una di quelle in cui io posso entrare più facilmente.” - rispose Alex. Il corpo gli si coprì di aghi e, con rumore da insetto, tornò blu - “Charles ha un modo tutto suo di assecondare il nemico...”

“O l'amico...” - replicò Eric, puntando le mani e mettendosi a sedere.

 

***

 

Mystica si sedette sul letto, afferrandogli la mano.

“Sto bene. Meglio di quanto sembri.”

“Sei un pessimo bugiardo.”

“Sei la prima che me lo dice.” - la stanza era fresca, la luce filtrava da una finestra appena dischiusa - “Hank è stato di parola.”

“Lo è sempre.” - sorrise la donna. Hank... difficile da dimenticare - “Ed è stato bravo, a salvarti la vita...”

“Raven, lui non è nemmeno un medico. La prossima volta, vorrei che tu scegliessi uno scienziato vero.”

“Non ho scelto lo scienziato. Ho scelto il luogo e qualcuno che ti proteggesse.” - rispose, decisa. Ti ho donato a lui, aveva detto Charles, perché non fosse mai solo. Perché tu lo difendessi da se stesso - “Qui c'era la combinazione perfetta delle due cose.”

“Casa dolce casa...” - commentò Erik, alzando un sopracciglio.

“Non ci vedo nulla di sbagliato.”

“Non c'è nulla di sbagliato.” - concordò Erik - “Trovo soltanto che sia una scelta interessante, dopo il modo in cui ce ne siamo andati.”

“E lo stato in cui lo abbiamo lasciato.” - aggiunse Mystica, abbassando lo sguardo.

 

Eccoci al dunque.

 

“Credi che sia mia la colpa?” - domandò Erik, piegando la testa per vederla in faccia - “Tranquilla, non sei la sola a pensarlo.”

 

Non so cosa pensi Charles, a questo punto.

Ma so cosa penso io.

 

“Io sono... sono così arrabbiata...” - mormorò lei, a denti stretti. E la mano di Erik sul viso la sorprese.

“Io conosco bene la rabbia.” - replicò, con dolcezza - “Tu, mia cara, ancora non sai cosa sia. Questo è dolore. La rabbia giungerà quando il dolore sarà cenere.”

 

“Oh, Erik.” - sospirò lei, sgretolandosi, tornando bionda, tornando umana.

Umana come le emozioni, come i singhiozzi con cui gli si strinse al petto.

 

Oh, Erik...

 

***

 

“Trasformami in una papera.”

“Hank...”

“Sul serio, Charles.” - insistette il mutante, versandogli un caffè e passandogli il giornale - “Voglio che mi trasformi in una papera finchè la tua nemesi non si toglie dai piedi.”

“La mia nemesi?”

“Sì, la nemesi, il tuo Erik, il tuo indispensabile nemico-amico.” - spiegò Hank, gesticolando con una mano e versando il canonico doppiolitro di latte sui cereali con l'altra - “Io sono stufo di lui, mi sanguina addosso, mi manca di rispetto, mi chiude negli ascensori... voglio essere una papera fino a quando non sloggia.”

“Se lo fai diventare una papera, possiamo fargli una foto?” - chiese Sean, masticando biscotti come un criceto.

“Se lo fai, possiamo non farlo tornare più normale?” - fece eco Alex. Poi si corresse - “Normale quel poco che gli riesce, insomma.”

“E sia.” - sospirò Charles, bevendo un sorso di caffè e sfogliando il quotidiano - “Hank, sei una papera, voi due siete Cip e Ciop.”

“Tutto qui? Non ho nemmeno voglia di nocciole!”

“Sì, certe volte questi trucchi non mi riescono bene.” - replicò, come se niente fosse, girando un'altra pagina.

Anche sforzandosi, in quel momento, non sarebbe riuscito nemmeno a spostare la saliera: la sua mente era sigillata, del tutto limitata all'interno degli spazi umani dati dalla scatola cranica.

Tre piani più su, c'era Raven. Raven era con Erik.

Ed era bastato che respirasse per sentirla.

Per questo, ora, Charles sceglieva il silenzio e la prigionia per il proprio potere.

 

Troppo vicina.

Troppo vicini entrambi.

Troppo vicini insieme.

Troppo.

Semplicemente troppo.

 

Girò ancora pagina.

E, innanzi, gli si parò la distruzione di Alkaly Lake.

 

***

 

Sto arrivando. Dille di andarsene.”

 

Erik abbassò gli occhi, in ascolto. Nulla, la voce di Charles era sparita.

“Credo stiano salendo.” - disse, fingendo di sentire un rumore sospetto - “Vai.”

Raven non se lo fece ripetere due volte.

“A stanotte.” - lo salutò, mutando.

“Sarò pronto.”

 

Quando Charles la incontrò, in corridoio, aveva le sembianze di uno studente.

 

“Sei in ritardo, fila in classe.” - ordinò Alex, continuando a spingerlo.

“Subito, professore.” - rispose il ragazzino, accelerando il passo e strappando un sorriso divertito a Charles.

 

“Signori...” - salutò Erik, restando seduto al centro del letto. Aveva decisamente un'aria riposata - “Posso esservi d'aiuto?”

“In effetti...” - rispose Charles, arrivando a fianco del letto e porgendogli il giornale - “E' qualcosa di cui devo preoccuparmi?”

 

Alkaly Lake, riconobbe l'uomo, all'istante. Afferrò il giornale alzandolo, leggendo rapidamente l'articolo.

Il resoconto era una superba mistificazione federale: si parlava di fonti energetiche, esplosioni accidentali, nessun morto. Più leggeva, più Erik sentiva salire la rabbia.

“Idiozie.” - sputò, infine, lasciando cadere l'articolo, lanciandolo verso il fondo del letto - “Questo fanno i tuoi umani, Charles, mentono e negano!”

“Questi non sono i miei umani, Erik. E so abbastanza di te da sapere che non sei il tipo che va in giro a sabotare le centrali elettriche. Cosa c'è ad Alkaly Lake da obbligarti a rischiare la vita?”

“E' una base militare. Ci fanno ricerche.” - gli occhi di Erik brillarono, diventando metallici - “Il tipo di ricerche in cui era maestro Shaw.”

 

Torturano i mutanti.

Li vivisezionano.

Innestano e strappano.

 

E non intendono fermarsi.

 

***

 

“Usano i mutanti per creare l'uomo perfetto. Hanno risorse e sostanze che non possiamo nemmeno immaginare.” - spiegò. Adesso c'era anche Hank, alle spalle di Charles, in attesa - “Non eravamo pronti a ciò che abbiamo trovato. Io stavo semplicemente seguendo l'adamantio, volevo saperne di più a riguardo. Ma, là sotto...”

Si interruppe.

Poi riprese.

“Ho distrutto tutto ciò che potuto. Ma loro erano preparati a difendersi.”

“Senza ombra di dubbio.” - confermò Hank,alzando il contenitore di laboratorio che teneva in tasca. La scheggia di adamantio, ora, era grossa quasi quanto una nocciola - “Questo materiale è assurdo, non voglio nemmeno immaginare cosa stiano facendo.”

“Non lo immagini davvero o vorresti non avere un'idea?” - gli chiese Erik, tendendo la mano per avere l'oggetto.

“So che si nutre dei tessuti viventi, li incorpora. Questo frammento ha continuato a crescere per le sostanze organiche del tuo corpo. E sospetto che, se ora cominciassi a nutrirlo, ricomincerebbe.” - disse Hank, grattandosi la nuca, a disagio - “Se stanno cercando un modo per manipolarlo, se solo ci riescono... potrebbero innestarlo, iniettarlo tra le ossa, farne corazze sottocutanee.. qualsiasi cosa.”

“Renderebbe invulnerabili.”

“No, è questo il punto: renderebbe invulnerabili esseri che già lo sono. Erik è già un pezzo da novanta, eppure è sopravvissuto a stento ad una singola scheggia grossa quanto la punta di una matita!” - esclamò Hank, indicando l'uomo - “E' vivo soltanto perché si è sradicato tutti i frammenti dal corpo con la forza del pensiero e... ommioddio, tu lo manipoli. Tu ci riesci.”

 

Charles alzò la testa, fissando il mutante.

Come suo solito, Hank era passato da una spiegazione teorica di alto livello ad una fulminante verità di livello ancora superiore.

“Tu riesci a manipolarlo.” - stava ripetendo il colosso, sempre con il dito puntato su Erik che ben si guardava dal rispondere - “Per questo lo stavi cercando. Tu vuoi usarlo.”

 

E, come capitava di solito, passando da una spiegazione ad una verità, era riuscito a precipitare nel disastro diplomatico.

 

“Io non sono Mengele.” - fu la risposta, infatti, fredda come il ghiaccio - “Per quel che mi riguarda, l'adamantio non è un materiale da lasciare in mano all'uomo. Lo pensavo prima di andare ad Alkaly Lake e lo penso ora più che mai.”

Aprì la mano. E il flacone galleggiò fino innanzi ad Hank.

“Puoi tenerlo, se sei così curioso, e farne quello che vuoi nella tua tana sotterranea.” - ringhiò, indicando loro la porta - “Ma credevo di essere stato abbastanza chiaro sul fatto che non intendo aiutarti.”

 

***

 

“Tu resti a farmi ragionare?” - domandò Erik, poco dopo, gettando da un lato le coperte e scendendo dal letto.

“Veramente io volevo sapere se scendevi a colazione... oh, maledizione, Erik!” - esclamò, vedendolo barcollare e aggrapparsi a una colonna del letto con entrambe le mani - “Ma non puoi, per una sola volta nella tua vita, porti dei limiti?”

“Ma senti da che pulpito. Sei la Florence Nightingale dei miei stivali!” - rispose l'altro, digrignando i denti e scivolando di nuovo a sedere sul materasso. Si piegò indietro, puntellandosi, una mano sul torace fasciato - “Charles, non voglio una paternale prima di essermi lavato e sbarbato.”

“Come se io non facessi altro!”

“Perchè, sai fare altro?” - domandò la lingua biforcuta.

“Quando non devo badare a te? Un sacco di cose magnifiche!”

Poi si fissarono.

E sorpresero a ridere entrambi della situazione.

“Hai proprio una bella considerazione di me.” - ridacchiò Charles, gettando indietro la testa e passandosi una mano tra i capelli.

“E pensare che, per una volta, non stavamo nemmeno discutendo di etica...”

“Mi è molto difficile non darti ragione, su certi argomenti.”

“Lo so.” - Erik voltò la testa, guardando il giornale che giaceva, spiegazzato, in fondo al letto - “Non voglio dirti cosa fare, Charles, ma sarebbe meglio che vi teneste a distanza di sicurezza da quel posto. Con tutto rispetto, non siete pronti ad affrontare gente di quel calibro.” - aggiunse, lasciandolo senza parole - “Questo posto è pieno di ragazzini. Persino i tuoi insegnanti lo sono e tu...”

 

Alzò la testa, guardandolo.

 

“Sei preoccupato per me.” - rispose Charles, senza trattenersi. E, senza volere, posò una mano sulla sedia. - “È questa? Credi che non sappia più difendermi?”

“Sono preoccupato perché tu sei giovane quanto loro.” - rispose Erik, guardandolo dritto in faccia. Si piegò in avanti, i gomiti sulle ginocchia, avvicinandosi - “Charles, io sono preoccupato perché tu non puoi immaginare di cosa siano in grado.”

“Allora mostramelo.” - replicò l'uomo, sostenendo il suo sguardo - “Io devo proteggere questi ragazzi e, per farlo, devo sapere fino in fondo contro cosa sto combattendo.”

“Se io ti facessi vedere ciò che ho visto e ciò che ho vissuto, ti diverrebbe difficile credere nei tuoi ideali. Non credo di volermi macchiare anche di questa colpa.” - ribatté Erik, alzandosi e avviandosi verso il bagno.

“Anche, Erik?” - gli domandò la voce di Charles, alle sue spalle - “Hai già altre colpe nei miei confronti?”

 

Se proprio vuoi saperlo, ho saputo anche farne un elenco.

 

Ti ho portato via la giovinezza.

Ti ho strappato via le gambe.

Ti ho rapito la sorella.

Ti ho tradito come amico.

Ti ho spezzato il cuore.

 

Poi, ho compreso che non avrei mai rimediato a nulla. E ho smesso di contare le mie colpe.

Me ne sono andato, Charles. E non posso più voltarmi indietro.

 

Erik non gli rispose. Lo fece per lui la porta del bagno, chiudendosi con un leggero scatto.

 

***

 

Alkaly Lake. Charles sedeva a capotavola nell'ampia cucina.

Dopo il primo impatto con Erik, aveva sentito l'irrefrenabile desiderio di un secondo caffè e, contrariamente alla morigeratezza che ormai di imponeva, aveva anche deciso di concederselo doppio.

Quasi petrolio.

Così aveva dovuto versarci mezza zuccheriera.

E un goccio di latte.

Ed era comunque imbevibile.

Tuttavia, era un caffè. E Charles adorava il caffè.

“Cielo, ma che roba è!” - esclamò Erik, arrivandogli alle spalle e facendolo sobbalzare - “Ma ha un odore ributtante!”

“E' un caffè forte. Ne vuoi?”

“Forte non è il termine che userei.” - rispose l'uomo, zoppicando per la cucina - “E no, no grazie. Potrebbe forarmi lo stomaco.”

“Lì deve essercene una versione per persone delicate.” - rispose Charles, indicandogli un bricco posato a lato dei fornelli - “Serviti pure.”

“Meno male.” - commentò Erik, scegliendosi anche un biscotto, con aria critica. Se lo mise tra i denti e tornò indietro, brandendo la tazza.

Come promesso, si era sbarbato e messo dei vestiti meno informi di quelli a cui lo aveva costretto, punendolo, in quei giorni. I capelli, ancora umidi, erano gettati indietro, lasciando sgombra la fronte ampia. Sulla tempia, a malapena visibile, c'era ancora un segno dell'esplosione.

Si sedette vicino a Charles e si rubò il suo giornale.

Altra testata, altro articolo su Alkaly Lake.

Falso quanto il primo.

 

Erik masticò in silenzio il biscotto, rimuginando sulle parole che leggeva.

“Nessuna vittima.” - sibilò, infine - “Nessuna vittima umana, s'intende.”

“Non lanciare anche questo giornale. Non voglio raccogliere fogli per tutta la cucina.”

“Bevi il tuo caffè e lasciami fare colazione. - rispose Erik. Aveva dimenticato il cucchiaino sul mobile. Tese una mano e quello gli si posò sul palmo.

“Stai decisamente meglio...”

“Per un cucchiaino volante? Ti aspettavi che mi dissanguassi per lo sforzo?”

“In effetti sì. E sono sbalordito, credimi...” - rispose Charles porgendogli un fazzoletto - “...dopotutto, ti sta sanguinando solo il naso.”

 

***

 

“Io sono uno che solleva sottomarini.”

“Lo so.”

“Sottomarini, Charles, non cucchiaini.”

“Erik, le tue lamentele cominciano ad annoiarmi.”

Erik alzò la testa e lo fissò, sbalordito.

“Come, prego?”

“Ti sanguina il naso. Non è un dramma. Se ti comporti da irresponsabile, è il minimo che possa succedere. Per cui, o ti dai una regolata e smetti di andare in giro a lagnarti della tua stu-pi-di-tà.”

Erik lo fissò, stringendo gli occhi.

Paternalistico. Vecchio e paternalistico, seduto sulla sua sedia, sporto in avanti e con le mani intrecciate come un reverendo.

“Si sta rafforzando, in me, il desiderio di non frequentarti più.”

“Non mi frequenti da un anno. Un motivo doveva esserci già.” - ribattè Charles, sbeffeggiandolo.

Erano rintanati nello studio, uno sdraiato sul divano, l'altro non troppo lontano. Alex aveva portato i ragazzi nel parco ad allenarsi e, in lontananza, dalle finestre aperte, si sentivano le loro voci, il baccano che si portavano appresso.

Una scuola qualsiasi, con ragazzi impegnati a fare sport, lontano da occhi indiscreti.

Forse, pensò Erik, piegando il fazzoletto e mettendoselo in tasca, era un travestimento che poteva funzionare.

“Charles, mi permetti una domanda?”

“Tu ne permetterai poi una a me?”

“Vorrei sapere perché mi hai avvertito, stamattina. Che bisogno c'era di farla scappare...”

“Ho pensato che preferisse così. Non ha piacere di parlarmi e non credo che voglia avere contatti con i suoi vecchi amici.”

“Probabilmente hai ragione.”

“Probabilmente. Forza, chiedi.”

“Come?”

“Una domanda a testa.” - ricapitolò Charles - “Sto al gioco. Tocca a te.”

“Non provi rabbia per quello che ti è successo?”

 

Non era una domanda. Era La Domanda.

 

“Mi domandavo se ti saresti mai deciso a chiedermelo.”

“Ho pensato di giocarmi tutte le carte in un colpo solo.” - replicò Erik, girandosi con cautela sul fianco e sedendosi - “Non penso che avremo molte conversazioni negli anni futuri, siamo uomini impegnati. Preferisco togliermi il dubbio adesso. Allora, la tua rabbia?”

“All'inizio, forse. Ma non è durata molto.” - replicò Charles, dopo un attimo di silenzio - “Io penso di averlo capito a Cuba, in maniera quasi inconscia...”

“Ti sei rassegnato.”

“Qualcosa del genere.”

“E pensi che me la beva?”

“Potresti farlo per gentilezza. Io fingo di credere a tutte le tue bugie...”

Perché menti male, Erik, gli disse la coscienza. Ed aveva il timbro di voce di Raven.

“Sono pieno di rimpianti, Erik. Cosa ti aspetti che dica? - aggiunse l'amico, cogliendolo di sprovvista - “Io adoravo correre...”

“Lo so.”

“E so di essere molto limitato, se non si tiene conto dei miei poteri. Ma io, se dovrò, combatterò comunque.”

 

Ti sbagli, pensò Erik, in silenzio.

In questa guerra tu manderai allo sbaraglio i tuoi soldati.

E, prima o poi, dovrai imparare a compiere sacrifici.

 

Charles non diede l'impressione di aver captato quelle crude verità.

Ed Erik si prese il tempo necessario per rispondere, a voce alta.

 

“Non ne dubito, Charles. Credimi, non dubito che lo farai.”

 

E mi dispiace sapere che saremo sulle due barricate opposte, credimi.

“E questo ci porta all'ultima questione che dobbiamo affrontare.”

“Davvero? Non sapevo stessimo tenendo un summit. Credevo fosse la mia convalescenza con la tua compagnia.”


“Devi mostrarmi cosa hai visto ad Alkaly Lake.”

 

***

 

“No.”

“Erik, io ho bisogno di vedere. E capisco le tue reticenze ma...”

“No, Charles, rispettosamente parlando, tu non capisci le reticenze di nessuno. Frughi nelle teste, cammini tra le biglie non tue, interpreti come un indovino episodi che dovrebbero restare segreti. Sei tutto tranne che comprensivo!”

“Ma sai che ho ragione.” - ribatté, per niente intimorito da quell'arringa per altro verissima - “Io devo sapere a cosa vado incontro. Perché su una cosa posso illudermi, ma hai ragione: ci sarà una guerra. Io devo essere pronto.”

“Preparati in un altro modo.”

“Mi dispiace, Erik, ma questo è l'unico modo che conosco. Tu puoi aiutarmi a capire. E credo che tu me lo deva.”

Gli occhi di Erik si dilatarono. Si alzò in piedi.

“Perchè!” - sibilò, sovrastandolo, i pugni stretti, pronti a colpire - “Perchè dovrei essere debitore!”

“Perchè io ho fatto di te l'arma di guerra che sei. Nel bene e nel male, tu sei il primo a cui ho insegnato, il primo per cui ho provato passione.” - rispose Charles, alzando la testa, fissandolo dritto in faccia - “Ti prometto che, con il tempo, impareremo a odiarci, Erik. Ti prometto che diventeremo vecchi e saremo lontani, pieni di rimpianti, eppure ancora amici. Rassegnati, puoi provare tutta la rabbia che vuoi, ma non potrai cambiare la realtà dei fatti: tu mi hai voluto bene, quanto te ne ho voluto io.”

 

Erik alzò il pugno, in alto.

Ma Charles sapeva che non lo avrebbe colpito.

Non l'avrebbe mai fatto.

 

“Io ti chiedo aiuto, fratello.” - aggiunse, senza battere ciglio - “E, per odio o amore, non sarà né la prima né l'ultima volta che lo farò. Per cui, ora, smetti di proteggermi da tutto questo orrore e preparami alla battaglia.”

 

***

 

Smetti di proteggermi.

Preparami.

Insegnami.

 

E' tutto una prova generale con te, Charles, pensò Erik, abbassando lentamente il pugno. Si piegò sedendosi sul divano, alla sua altezza. Giochi con me e mi tiri sempre all'amo quando penso di essermi liberato.

Io... io vorrei odiarti.

E saperti distruggere.

 

Ma solo il tempo dirà chi di noi fosse il più forte.

 

“Non voglio che mi entri nella mente.” - scandì, con lentezza, alzando gli occhi verso di lui - “Crea un'illusione, un posto che conosciamo entrambi ma da cui tu possa uscire senza confonderti. Un posto che sai che non può essere vero, in cui non puoi realmente essere.”

“Penso di avere un'idea.” - replicò Charles, portando le dita alle tempie.

 

Erik si lasciò andare contro lo schienale del divano e chiuse gli occhi, in attesa.

 

La mia colpa più grande non è averti privato di tutto ciò che amavi.

La mia colpa più grande è continuare a farti male senza provarne il desiderio.

 

Vieni, Charles. Ti aspetto. E' tempo.

 

La spiaggia di Cuba.

In piedi, uno di fronte all'altro.

Ed Erik rise.

“Appropriato, Charles. Davvero.”

“Un posto in cui sappiamo di non essere e che conosciamo entrambi.”

“E, lasciami aggiungere, un posto in cui non vorremmo mai essere stati.”

Charles non replicò. Tese solo le mani verso di lui.

“Adesso sta a te condurmi.” - disse, lasciando che si avvicinasse - “Andremo solo dove mi porterai, non vedrò nient'altro che quello che vorrai mostrarmi.”

“E hai la mia parola che ti mostrerò tutto ciò che devi sapere.” - rispose Erik, posando i propri palmi sui suoi - “Niente di più, niente di meno.”

 

***

 

Le urla morirono prima ancora di iniziare.

Muto, vide.

 

Erik aveva detto che l'odio si nasconde in involucri di carne.

 

In quei fotogrammi, Charles comprese ciò che Erik non aveva osato dirgli.

 

Quando l'odio si scatena, gli involucri di carne diventano poltiglia. E l'anima li segue.

 

***

 

Non tornarono nell'illusione di Cuba. Quando emersero in superficie, si ritrovarono nello studio, a Westchester, con le voci dei ragazzi in lontananza e il calore del sole sulla pelle.

 

Ma le mani di Erik erano su quelle di Charles.

Ed erano incredibilmente forti.

Sei tutto mani, pensò stupidamente, abbassando la testa e guardandole.

Sei tutto mani perché nelle mani si nasconde la tua tenacia.

 

Per questo i metalli di piegano al tuo volere. Tu sei adamantio, Erik.

Tu sei adamantio tra gli uomini.

 

“Grazie.”

“No, Charles, non lo fare. Non ringraziare mai il tuo torturatore.”

 

***

 

Cenarono insieme, quella sera. E non fu una cena di bentornato, ma una di addio.

Parlarono, seduti al tavolo della sala, sbeffeggiando Hank per le tecniche chirurgiche abbinate alla cucina e per la sua estrema capacità di rovesciare ogni contenitore.

Poi fu la volta di Charles e della sua propensione di essere noioso anche nel raccontare una barzelletta. Ed Erik li intrattenne, con qualche aneddoto, con quel suo modo ombroso e allo stesso tempo sarcastico di inserirsi nelle conversazioni.

Risero. E brindarono con la birra. Discutibile birra americana, ma pur sempre birra.

 

Poi, ognuno per la sua strada, senza farsi domande e senza promettersi nulla.

 

Era finita. La parentesi stava per chiudersi.

 

***

 

Era mezzanotte quando Charles spense le luci dello studio e, avviandosi verso l'ascensore, lo vide.

 

Erik sostava in piedi davanti ad una delle finestre del salone, contemplando l'oscurità.

“Non sapevo fossi qui.” - commentò, raggiungendolo.

“Stavo saccheggiando la tua collezione di liquori.” - Rispose l'uomo, senza voltarsi, sollevando soltanto il bicchiere - “Hank voleva portarmi a giocare in laboratorio ma io sono scappato.”

“Farà dei disastri con quel frammento.”

“Immagino di sì.” - ammise Erik, infilando la mano in tasca ed estraendo un anello - “Per questo me lo sono rubato.”

Charles lo fissò, senza parole.

 

Un anello. Un anello di adamantio.

Ma cosa poteva esistere di più borioso?

 

“Vuoi uno scotch?” - domandò l'uomo, mettendosi la fede e facendo tintinnare il ghiaccio nel proprio bicchiere.

“Sì, credo proprio di averne bisogno.”

“Te lo avevo già versato.” - sorrise Erik, piegando la testa nella sua direzione e porgendogli un bicchiere - “Tanto sapevo che saresti arrivato.”

“Sono davvero così prevedibile?”

“Decisamente. Ma è ciò che mi piace di te.” - rispose Erik, colpendo il suo bicchiere con il proprio - “Alla salute.”

“Alla salute.”

 

Rimasero in silenzio, fissando il parco e la notte.

 

“Vorrei dirti una cosa, in tutta onestà, Charles, se mi permetti.”

“Ti ascolto.”

“Penso di non essermi espresso bene, in questi giorni: io ammiro questa tua opera. Ammiro questa scuola profondamente. E so che sarai un insegnante magnifico, per ognuno di loro.” - mormorò, continuando a contemplare la notte - “Possiamo vedere il mondo da punti di vista differenti ma, su questo, mi troverai sempre d'accordo. Educali e rendili fieri di ciò che sono. Ma non dimenticare mai che È leone chi è figlio di leone.

 

Educali alla guerra. E salva il mondo intero.

 

“Lo farò, hai la mia parola.”- rispose Charles. Il profilo di Erik era una linea nel buio, pura, perfetta - “Qui saranno al sicuro.”

“E puoi dire ad Hank da parte mia di non preoccuparsi troppi dei suoi buchi. Non attaccherò mai questo posto ed impedirò ai miei mutanti di fare altrettanto. Difendetevi dagli uomini, saranno loro i primi ad attaccarvi.” - posò il bicchiere ormai vuoto sul tavolino intarsiato - “ Ed ora, resta solo una cosa da fare, prima che me ne vada...”

“E sarebbe?”

“Questa.” - Erik gli tese una mano - “Alzati da quella trappola.”

“Scusami?”

“Nel caso non te ne fossi accorto, Charles, sei in un sogno. Siamo. E, secondo me...” - specificò, indicandogli la porta - “E' un tuo sogno. Io ho gusti musicali migliori.”

 

C'erano le luci accese, in casa, ora. E Neil Sedaka cantava Carol a squarciagola.

 

Charles non osava muoversi.

 

“Dammi la mano, Charles. E fidati di me, un'ultima volta.” - sorrise Erik. E, con un strattone lo mise in piedi - “Vai, ora. C'è qualcuno che ti aspetta.”

 

***

 

Il pavimento era coperto di quarantacinque giri. Il giradischi gracchiava e Raven gli ballava intorno, girando su se stessa, i capelli biondi che si aprivano a ventaglio.

Raven, con un maglione grigio e sformato e un paio di calze viola sotto. Inguardabili.

E calzettoni. Al solo guardarle i piedi, Charles non sapeva se ridere o piangere.

Calzettoni. I suoi calzettoni da tennis.

“Me li rubavi sempre...” - mormorò, quando la ragazza gli andò incontro, prendendogli le mani, trascinandolo nella stanza.

“Perchè sono caldi e sono morbidi.” - sorrise lei, passandogli le braccia attorno al collo - “E tu non ti offendi, se ne scompare qualche paia...”

“Qualche decina.” - precisò lui, cingendole la vita e obbligandola a camminare a ritroso.

Camminavano sui dischi, tra alcune biglie dorate.

Urtandole, sbriciolandole, Charles aveva l'impressione di sentire risa lontane, voci.

Le loro voci.

“Balla con me.” - sussurrò lei, in un suo orecchio. Poi si allontanò, senza lasciargli le dita, allungandosi in un passo di danza - “Scegli la musica e danziamo.”

“Io non credo che sia il caso...”

“Io non credo che lo faremo mai più.” - sussurrò lei. E piangeva, piangeva senza smettere di sorridergli - “Balla con me, Charles.”

 

Balla con me, per un'ultima volta.

 

Il giradischi lasciava andare nell'aria Stand by Me. E Charles la tirò a sé, in un ultimo lento.

Raven sentì la propria pelle mutare, divenire blu, i capelli smettere di solleticarle il viso.

“Un'ultima volta.” - ripetè Charles, con gli occhi pieni di lacrime - “Un'ultima volta con la più bella ragazza che esista.”

 

Vorrei durasse per sempre.

Vorrei non facesse così male.

Vorrei sapere che domattina non sarò solo.

Vorrei che tutto questo non fosse un sogno.

 

Vorrei tante cose, ma è il momento di dire addio.

 

Saremo ancora noi stessi, saremo giovani ancora a lungo e non ne saremo mai più così certi.

 

Ma non saremo mai più assieme.

 

Mai più.

 

La puntina non aveva più un solco su cui correre. Scattava, senza più una sinfonia a nascondere il fruscio di fondo.

Non c'era più musica.

Restavano solo loro, stretti, a ballare, nel silenzio.

“Mi perdonerai mai?” - sussurrò Raven, posandogli la testa sulla spalla.

“Solo quando tu perdonerai me.”

E lei ridacchiò, piano, cercando di non far divenire le risa dei singhiozzi.

“Allora succederà quando saremo vecchi...”

“Io sarò vecchio, tu sarai ancora giovane e bellissima.” - sussurrò Charles. Poi, con gentilezza sciolse l'abbraccio - “Credo che tu debba andare, ora...”

“E' presto...”

“No, Raven. Se non lo fai ora, io non saprò lasciarti andare.” - la contraddisse. Aveva gli occhi luminosi e fingeva di essere calmo - “E sarò costretto ad entrarti in testa e convincerti che sei una papera dello stagno.”

Lei rise, asciugandosi le lacrime. La mano, scivolandole sulle guance, le mutava la pelle da blu a rosa.

 

Era di nuovo lei, la lei che aveva amato di più, la sua insopportabile e gelosissima sorella bionda.

Lei, l'unico baluardo che aveva avuto innanzi alla solitudine.

 

“Io ti ringrazio per avermi concesso questo ultimo ballo.” - ora, Charles non tratteneva le lacrime, nel posarsi la mano sul cuore, nel cercare di essere scherzoso - “Ti prometto solennemente che non danzerò più con nessuna.”

“Oh, Charles, ti prego...” - aveva di nuovo le braccia attorno al suo collo.

“Vattene, Raven. Vattene ora.” - ordinò, districandosi, voltandole le spalle - “vai via, vattene mentre non guardo.”

 

Rumore di passi. Poi più nulla.

Chiuse gli occhi, pensando di crollare.

Poi si voltò.

 

C'era Erik sulla porta.

 

Immobile.

 

Raven era scomparsa.

Per sempre.

 

***

 

C'erano ancora le biglie a terra. Biglie dorate. La stanza ne era piena.

Charles si chinò, colpendone una con un dito, facendola rotolare e lasciando che si rompesse contro un'altra.

Un lieve fruscio e l'immagine di una spiaggia. Una spiaggia su cui si vide correre dietro una ragazza con il bikini rosso.

“Bella come Brigitte Bardot.” - commentò Erik, avvicinandosi.

“E' sempre stata più bella di Brigitte Bardot.” - rispose Charles, restando seduto sui talloni e alzando solo la testa, per sorridergli. Piangeva, senza ritegno - “Ho sbagliato a pensare che non ci fosse bisogno di dirglielo.”

“Ora lo sa.”

“Per merito tuo. Ed è tua, ora.” - rispose, accettando la mano e rimettendosi in piedi - “Promettimi tutto ciò che puoi, Erik.”

“Stai tranquillo, per lei farò qualsiasi cosa.” - replicò.

“Lo so.”

Non restava altro da dirsi.

 

Tra di loro c'erano un paio di biglie, più dorate delle altre.

Erik si chinò, raccogliendone una, porgendogliela.

 

“Pensò che sia più preziosa delle altre...” - mormorò, cercando di non romperla. E le mani di Charles si chiusero sulla sua, respingendolo.

“Per questo devi tenerla tu.” - sorrise l'uomo - “Io so cosa contiene... e so che tu ne avrai bisogno più di me.”

 

Erik lo contemplò, in silenzio.

 

“Non mi servono più ricordi felici, Charles. Io sono ciò che sono.” - replicò - “Ma tu... sei rimasto solo...”

“Non sarò mai solo. Io ho questo posto e questi ragazzi.” - Charles scosse la testa e spinse verso di lui la mano e la sfera - “Questa casa non sarà mai vuota.”

 

Erik non replicò.

 

Forse mentiva, forse no.

Forse stava sbagliando... forse no.

 

Come sempre, era difficile sapere chi avesse ragione tra i due.

Come a scacchi, non si potevano prevedere poi così tante mosse prima del colpo finale.

 

Alla fine, per quanto uno si impegnasse, l'ultima mossa restava un sorpresa. Una sorpresa ineguagliabile.

 

E gli sorrise. Sorrise, sentendo frantumarsi la sfera tra le loro dita.

 

Un ricordo, un ricordo prezioso più di ogni altro.

Il ricordo di te, di te che ridi. Il ricordo di un attimo, sospeso tra rabbia e serenità.

 

Eri tu Charles. Eri tu il mio attimo.

 

“Non dimenticarlo mai, intesi?” - insistette Charles, afferrandogli il viso e guardandolo dritto negli occhi - “Resta concentrato, non permettere mai a nessuno di piegarti.”

 

Oh, Charles... si voltò, senza dire addio. Si voltò perché, altrimenti, non sarebbe mai più uscito da quella mente vasta e solenne come una cattedrale.

 

“Ah, Erik...” - lo chiamò un'ultima volta, per il puro piacere di vederlo girarsi, già oltre la soglia - “Grazie.”

 

E fu il riflesso di un sorriso. Poi le luci si spensero. E scese il silenzio.

 

EPILOGO

 

Gli allarmi collegati alla centrale avevano suonato.

Hank gli era piombato in stanza, come una furia, svegliandolo.

Aveva sbraitato sui buchi, inveito contro le intrusioni, urlato imprecazioni dietro un teleporta che magari non era nemmeno entrato a Westchester.

 

Charles aveva provato a convincerlo sull'inutilità di ulteriori norme di sicurezza.

 

Ed era finita come al solito.

 

Finito questo rituale, si erano valutati i danni e contate le vittime: Erik se ne era andato, l'adamantio era sparito e il prontuario della scuola era stato saccheggiato in maniera meticolosa.

Erano spariti medicinali e strumenti di primo soccorso.

 

Hank aveva ringhiato finchè, impigliato in un ripiano, non aveva trovato un lungo e spesso capello rosso arancione. Dopodichè, senza più dire una parola, aveva finito di riordinale la confusione.

 

Alex e Sean, di ronda intorno alla scuola, avevano discusso a lungo sul fatto di non essersi accorti di nulla. Sia l'uno che l'altro insistevano sul fatto di essere scambiati informazioni, incrociandosi.

 

Sul lato est, diceva uno.

Sul lato nord, precisava l'altro.

 

Charles aveva chiesto se ci fosse stato profumo di dolci, nell'aria, mentre si parlavano.

Palesemente, entrambi l'avevano ritenuta una domanda assurda, ma non avevano potuto negare che fosse così.

 

Profumo di dolci. Come di zucchero. Sul lato nord. No, sull'est!

 

All'alba, Westchester si era svegliata come se, nella notte, non fosse successo nulla.

I ragazzi avevano fatto confusione, chiesto a gran voce polli farciti per pranzo ed erano andati a lezione. Solo un gruppetto di ragazze si era attardato, in mensa, per un ultimo pettegolezzo.

A quanto si diceva, Ororo si era innamorata di un bellissimo sconosciuto dagli occhi blu, ospite nella scuola. E già si sussurrava che fosse un nuovo professore che presto sarebbe tornato.

 

Charles visse un giorno come tanti altri già passati e come molti futuri: insegnò, trasmise, discusse e trovò nuove motivazioni per il proprio compito.

Non si concesse un rimpianto, non si voltò mai indietro.

Alla sera, stanco ma soddisfatto, come da abitudine, si scelse un libro e scivolò nella sua amata poltrona di fronte alla scacchiera.

Alzò gli occhi, contemplando con tristezza la poltrona vuota di fronte alla sua.

Tua. Tua per sempre, anche per così poco tempo, pensò, concendendosi quell'attimo di malinconia che ancora non aveva vissuto.

 

E fu allora che vide il biglietto, contro la torre.

Lo spiegò, lisciandolo con le dita e sorrise per l'ignobile calligrafia. Talmud, come sempre.

 

Basta che esista un solo giusto perché il mondo meriti di essere stato creato. Tuo Erik.

 

Tuo...

 

Sotto, di difficile decodifica, un'ora.

Charles alzò gli occhi alla pendola. Mancavano pochi minuti, ormai.

 

Attese.

Attese nel buio e nel silenzio.

 

La venatura nella torre sembrava più chiara, più profonda. Che stesse mutando davvero?

 

Attese, minuto dopo minuto.

Ora, pensò, guardando scattare la lancetta. È tempo.

 

E, una voce, come un sussurro, giunse da un angolo della sua mente.

 

“Cavallo in E-7.”

 

Rise, piano, per non farsi sentire. E si sporse, movendo il pezzo nero, portandolo dove richiesto.

Poi, con pazienza, prese a pianificare la propria mossa.

 

***

 

In un'altra parte del mondo, Erik sentì la sua risata e sorrise.

Giocava con l'anello, fissando il mare.

 

C'erano due ragazzi che correvano, sulla spiaggia. E lei aveva il bikini rosso.

 

And I am left to sell

The path to heaven runs through miles of clouded hell

 

a me non rimane che vendere/il sentiero che porta al paradiso/e che passa per miglia di inferno annuvolato

 

 

[11 marzo 2013]

 

 

  
Leggi le 4 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Film > X-men (film) / Vai alla pagina dell'autore: margotj