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Autore: Gondolin    24/03/2013    11 recensioni
Perché esce il film e ovviamente io mi metto a scrivere sul libro, la furbizia. Sono le sette di mattina e io non dormo da due giorni, fate vobis. Io dico che questa fic mi è uscita stranamente bene, nonostante tutto.
“Ah, se fossi Zeus saprei ben dove procurarmi un miglior coppiere!” esclamò Grantaire, volgendo spudoratamente lo sguardo verso Enjolras.
In breve, Grantaire è Grantaire ed Enjolras non sa flirtare. (Qualcuno regali un "Flirting for Dummies" a lui e a Marius, per favore.)
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Enjolras, Grantaire
Note: Nonsense | Avvertimenti: nessuno
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Ovvero la Gondola non scrive in italiano da mesi e prova ad imitare una prosa alla Hugo (ma ha studiato troppo modernismo) e ad entrare nella testa di Enjolras. Auguri. Condoglianze.

 

La citazione di Hesse ha un senso, a modo suo, ma ne ha di più se conoscete quei due disgraziati di cui sono stata costretta a leggere per la scuola quando ero troppo giovane per apprezzare e che ora mi fanno male quanto un OTP (oh, Narciso), perché il punto non è la madre. Tranne quando è la madre.

 

Poi ci sono altre cit sparse in giro, tratte dai deliri di Eponine nel romanzo, X-Men, Vecchioni, e ESSAY? CHI HA DETTO ESSAY? *si butta da un ponte per aver scritto fic anziché scrivere uno dei sei chilometri e mezzo di rotoli che deve consegnare ad Hogwarts fra meno di una settimana*

 

 

 

« Ma come vuoi morire un giorno, Narciso, se non hai una madre? »

Herman Hesse - Narciso e Boccadoro

 

 

Respirare inizia per R (e finisce per E)

 

 

Enjolras era curioso. Non per inerzia o pigrizia, ma di quella curiosità che è l'inizio della conoscenza. Osservava con cura, e ricordava. Era stata la curiosità a trasformarlo da giovane studente ricco di famiglia in rivoluzionario. Bambino, aveva divorato senza censure la biblioteca di famiglia; ragazzo aveva preso i libri sotto braccio ed era uscito a studiare il mondo. Con distacco, a volte, altre con ira, e con come un fantasma di compassione, più un'intuizione che un vero sentimento.

(Come vuoi morire, tu, senza una madre?)

(Sapeva contro chi, ma non sapeva per cosa.)

Dalla provincia, le lettere di suo padre si erano fatte preoccupate, poi sempre più rare.

(Com'è brutta Parigi quando si veste di bianco, come una puttana che si finge vergine.)

Quando aveva incontrato Combeferre, e le loro idee avevano preso posto fra i tavoli dell'arrière-salle del caffè Musain, e le sedie si erano popolate di compagni, di amici, era stato come vedere per la prima volta il progetto compiuto di un edificio di cui si erano a lungo studiate le rovine. Insieme, avrebbero cambiato la Francia. Insieme.

Otto paia di occhi guardavano la vecchia mappa della Francia sotto la Repubblica e ne vedevano tremolare i bordi alla luce del fuoco rivoluzionario, e la vedevano espandersi fino ad abbracciare di nuovo la Patria. Un paio invece vedeva un pezzo di carta inchiodato ad un muro scrostato. Erano occhi troppo azzurri e giovani per appartenere ad una natura tanto cinica e priva di speranza, ma erano così spesso rossi e cerchiati da aver già perso la brillantezza dei vent'anni. Ne ritrovavano un barlume solo quando si fissavano su Enjolras, seguendo ogni movimento delle sue mani e delle sue labbra, come avessero voluto dipingerlo con la sola forza della concentrazione, fino a farlo sentire il direttore di un'orchestra a due soli strumenti. Erano gli occhi di Grantaire.

Enjolras non gli aveva mai chiesto perché si ostinasse a frequentare i loro incontri: non ne aveva bisogno.

“La differenza fra me e te è che tu vuoi cambiare il mondo, io solo smettere di vederlo,” gli aveva detto una volta da dietro un bicchiere vuoto.

Enjolras non reagiva né alle sue provocazioni, né al suo sguardo (si poteva parlare di sguardi quando era un unico ininterrotto osservare da quando si erano incontrati?). E come avrebbe potuto farlo? Non era ad una persona che doveva rendere conto, ma ad un popolo, ad una nazione.

Un popolo però non aveva volto, non aveva occhi e labbra e voce. Non cantava per irritarlo arie che parlavano di belle donne e buon vino, non barcollava nel caffè con la camicia fuori dai pantaloni e addosso odore di bordello. Un intero popolo non avrebbe saputo scavarsi una nicchia tanto profonda nel retro della consapevolezza di Enjolras come aveva fatto Grantaire, fino a fargli sviluppare come un settimo senso: sapeva dal tipo di sarcasmo se quella sera era vino o assenzio, riconosceva i suoi passi anche in una folla e sapeva sempre dov'era durante i raduni e i discorsi, sempre un'ombra percepita con la coda nell'occhio anche senza cercare.

(“O Apollo, le mie ali sono di cera!”)

La sua indifferenza iniziò a mutare in reazione. Grantaire aveva la costanza disinteressata dell'acqua che trasforma le rocce.

Enjolras iniziò ad infuriarsi quando Grantaire disturbava discussioni serie con parole di scherno troppo chiare e lucide per le due o tre bottiglie vuote sul suo tavolo, e a rispondere affilando la fede e la retorica ad ogni stoccata di nichilismo. Iniziò, alcune sere, a prenderlo, lui per un braccio e Courfeyrac per l'altro, quando le gambe non l'avrebbero sorretto neppure per i due minuti di strada che separavano il Musain dalla sua stanza.

(“O Apollo, le mie ali sono di cera!”

“Sei ubriaco, R.”

“Sei perspicace, E.”)

(E poi lo svesto e lo rivesto e poi lo metto a letto, e quelle lettere che scrive e poi non sa spedirmi...)

Se gli altri a volte spostavano lo sguardo fra l'uno e l'altro come se si fosse trattato di contendenti a duello, o di attori che si dividevano un palco, non dicevano nulla. La scacchiera era loro, ed Enjolras si era ritrovato, suo malgrado, costretto a giocare.

(Come vuoi morire, tu, senza aver prima amato?)

“Bah! Fare grande la Francia? Chi, in Francia? Non è una creatura ad una sola testa, una nazione,” diceva Grantaire una notte, quando la luce nella sala principale era ormai spenta e Joly e Bossuet si erano già ritirati, quasi furtivamente, da qualche ora.

“Cosa vorresti, allora, restare qui a bere ed aspettare la rovina?” gli rispose Courfeyrac, senza dar troppo peso alle sue parole.

Ma fu Combeferre a rispondere. “Grantaire non ha torto. La vera prosperità di una nazione non si misura solo dalla sua ricchezza o dal suo stato rispetto agli altri paesi. Bisogna che l'ingiustizia...”

Grantaire lo interruppe: “L'ingiustizia, amici miei, governa l'universo e sempre lo governerà. Sua sorella è bendata e tale intende restare, non per equità, ma perché non le importa nulla di questo mondo,” alzò il bicchiere, “Bevo all'ingiustizia! Che mi tenga a lungo in salute, perché non faccio nulla per meritarlo!”

Vuotò il bicchiere d'un fiato. In quel momento passava Louison, la lavapiatti, diretta allo sgabuzzino che fungeva da lavatoio. Grantaire l'afferrò per un braccio e le mise in mano due monete. “Portami un'altra bottiglia!”

La donna lo scrutò fisso da sotto le spesse sopracciglia, poi si girò lentamente per fare quanto richiesto, sbuffando e imprecando a mezza voce contro “questi studentelli maleducati”.

“Ah, se fossi Zeus saprei ben dove procurarmi un miglior coppiere!” esclamò Grantaire, volgendo spudoratamente lo sguardo verso Enjolras.

La frase di Grantaire si era fatta spazio in uno di quegli strani momenti in cui tutte le conversazioni in una sala piena sembrano rallentare o arrestarsi contemporaneamente, seppure indipendenti le une dalle altre. Tutti avevano udito.

(Fra quegli spiriti assoluti...

Sempre discordante, sempre scordato, l'unico strumento con un la diverso dal loro, come non udire quella voce?)

I passi pesanti di Louison svanirono giù per le scale. Gli astanti trattennero il fiato. Enjolras ricordò di aver diritto alla prossima mossa.

(“I pedoni muovono per primi.”

“Perché sono sacrificabili?”

“Perché il re è al caldo e non ha bisogno di muoversi.”

“Perché sono sacrificabili.”)

Contro un insulto alla causa, avrebbe saputo come reagire. Contro un attacco, sarebbe stato pronto. Ma quello non era un attacco, quella era l'armatura di Grantaire che cigolava e offriva il fianco, pur sventolando sempre fiera la bandiera della spudoratezza e del libertinaggio. Si ritrovò a desiderare che gli sguardi di tutti i loro amici non fossero puntati su di lui, a desiderare che qualcuno si volgesse anche verso Grantaire, che gli battesse una mano su una spalla e ridesse con lui, anziché osservare Enjolras come fosse stato la Virtù Offesa.

Grantaire aprì bocca, certamente per far passare in secondo piano quanto detto con altri motti salaci; nello stesso momento Enjolras prese fiato per rispondere; Louison arrivò con la bottiglia.

Senza veramente pensare e senza distogliere gli occhi da quelli di Grantaire, Enjolras prese il vino da Louison, la quale emise un singulto sorpreso e si affrettò a sparire nella stanzetta sul retro. Si avvicinò al tavolo del cinico, stappò la bottiglia e si chinò a riempirgli il bicchiere.

Qualcuno (Courfeyrac, certamente) si lasciò sfuggire un grugnito che suonava molto come una risata a stento trattenuta. Prouvaire sospirò.

Grantaire era muto.

(“Non è troppo presto per versare vino ai tuoi discepoli?

Ti prego, Apollo, dimmi che non è questa l'ultima cena.”

Grantaire era muto.)

Misericordiosamente, Combeferre riprese il discorso sull'equa distribuzione della ricchezza. Menzionava un'ottima argomentazione sul perché l'Inghilterra avesse torto, sulle sue masse di poveri, ma Enjolras seguiva a mala pena. Quel brevissimo scambio l'aveva come prosciugato. Come poteva qualcosa di tanto triviale come un semplice scambio di battute distrarlo a tal punto?

Perché un popolo intero non aveva occhi, e labbra, e mani irrequiete che lasciavano schizzi ai bordi dei libri di Jehan e sui tavoli del Musain, sui pamphlet di Courfeyrac e solo a volte su dei fogli bianchi.

“Alla mia ambizione bastano i margini,” ripeteva Grantaire, sorridendo e schizzando ora il volto della bella di Bahorel, ora dell'ultima conquista di Courfeyrac, ora di Musichetta nelle vesti della Libertà alla guida del popolo, facendo arrossire Joly e sorridere Bossuet. “E poi, ho sempre preferito rubacchiare mele piuttosto che studiare arte,” continuava, seminando aneddoti sul suo periodo di apprendistato presso un pittore. Era difficile immaginare Grantaire bambino, per Enjolras.

“Attento, le mele hanno sempre causato danni imprevedibili,” gli rispondeva invariabilmente Bahorel con una risata e una pacca su una spalla.

“Ah, ma io non ho un paradiso da cui essere cacciato,” rispondeva Grantaire, ma i suoi occhi scorrevano rapidi il perimetro di quella saletta e si fermavano sempre un istante su Enjolras.

“...Enjolras?”

Enjolras si ritrovò a fissare Combeferre.

“Enjolras, siamo tutti stanchi. Possiamo andare a casa, per stasera.”

“Una rivoluzione non si fa senza pressione, senza fretta...” provò a protestare.

“Combeferre ha ragione,” disse Feully, “Se ci sfiniamo prima ancora di cominciare non saremo utili a nessuno.”

Con un certo senso di colpa, Enjolras ricordò che l'altro lavorava da mattina a sera prima di partecipare ai loro incontri.

“La seduta è tolta!” dichiarò Grantaire troppo forte prima che Enjolras avesse il tempo di pronunciare una sola parola, e sbatté la bottiglia sul tavolo a mo' di martello.

Prouvaire prese sotto braccio Courfeyrac e praticamente lo spinse fuori parlando fitto fitto. Feully e Combeferre raccolsero alcune bozze di volantini e se ne andarono insieme, seguiti da Bahorel.

Enjolras rimase.

“Ho detto che la seduta è tolta. La camera è sciolta, la rivoluzione ha chiuso i battenti per stasera.”

“Grantaire.”

“Sì, nostro eroico condottiero?”

(“O Apollo...”

“Basta così.”

“Se cado, mi sorreggerai?”

“Grantaire, non sei così ubriaco.”)

“Grantaire, non sei così ubriaco. Non hai neppure finito questa bottiglia.”

“No,” rispose questi con un sorriso dolce e tagliente, “Intendo conservarla.”

Enjolras si sentì smuovere qualcosa dentro ad avere di nuovo su di sé tutta l'attenzione concentrata di Grantaire, stavolta senza un discorso preparato o una folla a fare da cuscinetto. Gli porse una mano. “Vieni.”

Grantaire si alzò, senza afferrare la mano che gli veniva offerta e senza domandare dove. La bottiglia era stata messa al sicuro nella sacca dove ancora portava qualche libro, nonostante fosse, per quanto riguardava la frequenza universitaria, della scuola di pensiero di Bossuet e Bahorel.

L'aria fuori dal caffè era fresca, ma non fredda, le pietre della strada ancora calde per il sole della giornata. Enjolras iniziò a camminare senza una precisa direzione in mente, Grantaire al suo fianco, i loro passi che combaciavano quasi fossero stati soldati in parata.

“Dimmi, Apollo, qual è il tuo piano?”

Enjolras sorrise. “Non ne ho uno.”

“Chi sei e cosa ne hai fatto di Enjolras?”

Enjolras rise.

“Sono serio, c'è qualcosa che non va, il mondo è fuori asse, e non sono io quello nato per rimetterlo in sesto!”

“Amleto? Davvero? E per cosa?”

“Il nostro comandante senza un piano. Trovavo appropriato il suo sgomento.”

“C'è del marcio in Francia,” replicò Enjolras.

“È solo l'odore della Senna,” fece Grantaire, spalancando le braccia.

In effetti erano arrivati sulla riva del fiume. Qualche passante si affrettava a rientrare in casa, ma per il resto la città era silenziosa. Immobile.

Con un sospiro rassegnato, Grantaire si sedette (più si lasciò cadere) a terra e tirò fuori un foglio e un carboncino. “Visto che non intendi parlare, permettimi per lo meno di ritrarti.”

“Permesso accordato.”

Rimasero così, Enjolras immobile (lottando contro la propria natura – presto, più presto, bisogna muoversi, le rivoluzioni non si fanno da fermi) e Grantaire chino sulla pagina, una mano in movimento continuo, l'altra che si univa occasionalmente per sfumare, labbro inferiore fra i denti, una ciocca di capelli che gli ricadeva di continuo sugli occhi. Enjolras decise di essere stato fermo abbastanza a lungo e si chinò a spostargli quel ricciolo offensivo dalla fronte. Grantaire alzò lo sguardo.

“Sei impossibile,” sbuffò Enjolras, “Hai l'intelligenza di un Odisseo ma fai di tutto per apparire un Tersite, non c'è nulla che ti interessi, nulla che riesca a risvegliare in te convinzione o fiducia, e a volte ti sento parlare e tremo all'idea di quanti parigini possano essere del tuo stesso partito, quanti possano avere in spregio il progresso. Hai del talento ma rifiuti di usalo, e sei la mia più grande frustrazione. Perché? Perché?”

“Resta con me stanotte,” chiese (implorò) Grantaire invece di rispondere. La sua mano tremava intorno al carboncino. Enjolras la strinse fra le sue.

Che Grantaire rimanesse pure una domanda senza risposta.

(Come puoi morire tu, senza...?)

Il ritratto si mosse con un alito di vento e minacciò di volare via. Fu Enjolras ad afferrarlo. Era scuro, ombre sui suoi vestiti e ombre intorno alle sue braccia come catene, ma la luce della luna era bianchissima sul foglio, intorno ai suoi capelli e nei suoi occhi, incastrata in mezzo alle pupille nere e alle iridi grige.

(Ma ti ho amato per mille anni, e ti amerò per altri mille ancora; ti rivedrò negli occhi di ogni rivoluzione e riascolterò la tua voce nel ritmo dei tamburi, sentirò il tuo respiro quando soffierà il vento del cambiamento.

Ed io, io sarò lì.)

Camminarono insieme, i passi fuori sincrono, ed Enjolras scelse una direzione, seguì il rigirarsi insensato delle strade fino alla propria abitazione. Era una stanza ammobiliata simile a quella di mille altri studenti. Più libri forse, libri ovunque, una pila accanto al letto così alta da minacciare continuamente di cadere (era lì da un mese e non era ancora caduta) e varie sul tavolo, dove Enjolras non mangiava da mesi per semplice mancanza di spazio. Una giacca e due cravatte erano abbandonate di traverso sulla sedia, e il letto era rifatto. Il ritratto, ora arrotolato, trovò uno spazio fra un calamaio e il tomo di diritto romano (chiuso) sul quale riposava Considerazioni sul governo della Polonia (aperto). Avrebbe dovuto studiare per un esame, ma si era lasciato trascinare da Feully in un dibattito che durava ormai da giorni, come uno di quei racconti pubblicati a puntate sui giornali popolari. Rousseau aveva ragione, ovviamente, anche se Feully portava alcuni esempi che... Rousseau aveva ragione. Grantaire era nella sua camera.

(Tu sei un artista, io un pensatore. Tu dormi sul petto della madre, io veglio nel deserto.)

Grantaire rise alla sua evidente distrazione. “Immaginavo fossi uno di quelli che passa le nottate a studiare. Su, va', consumati gli occhi e le candele, io farò come fossi a casa mia.”

Per qualche istante, Enjolras pensò di ribattere, di dire che era un ospite, di protestare, ma dopo tutto gli esami si avvicinavano e Grantaire era sempre .

Era , addormentato sul suo letto con un dito in mezzo ad uno dei suoi libri a segnare la pagina, era , quando invece fu lui a svegliarsi, la schiena indolenzita e una guancia sporca d'inchiostro perché era di nuovo crollato alla scrivania, e poi a fare colazione con lui in quel caffè che Bahorel aveva consigliato qualche sera prima, più tardi fuori dalla facoltà, senza borsa e con una bottiglia di assenzio, quella sera al Corinthe e la sera dopo al Musain.

“Oggi ho visto il signor abate,” annunciò Courfeyrac con l'aria di avere una grande notizia.

“Pontmercy?” domandò Enjolras distrattamente.

“Proprio il nostro bonapartista preferito,” confermò l'altro, “Se continua così finirà davvero abate. Mai una distrazione, mai un amore, e continua a vestire di nero, dico, poteva levare il lutto sei mesi fa...”

“La mancanza di distrazioni non è in sé una cosa negativa,” gli fece notare Enjolras.

“Ma lui non ha nemmeno una causa!” rispose Courfeyrac con aria frustrata, “Non capisco cosa faccia.”

“Vive,” rispose Prouvaire.

Courfeyrac si voltò verso di lui con l'aria di volergli dire “cosa devo fare con te?”, ma anche “ti darei un pugno se le tue risposte non fossero così brillanti”, e pure “l'hai di nuovo incontrato mentre ti perdevi per i giardini del Luxembourg, vero? E non fai caso a come si veste perché sei tu e di certo c'erano nubi più interessanti delle toppe sul suo pastrano”, ma ovviamene nessuna di queste cose lasciarono la sua bocca. Enjolras si stupì di averle intuite lo stesso. Ma dopo tutto erano anni che assisteva agli scambi silenziosi fra i suoi amici. Immaginò come dovessero sembrare tutti loro, ormai così abituati gli uni agli altri, ad un osservatore esterno.

“Si annoia,” aggiunse più prosaicamente Grantaire.

“L'estrema melancolia è talvolta causata da uno sbilanciamento degli umori, forse dovrebbe vedere un medico,” fece Joly con aria preoccupata. Poi scrollò le spalle. “Non me di certo, perché sto per morire. Ieri avevo la tosse e oggi il mio polso è debole. Peccato, speravo di vivere fino a vedere ergersi le barricate.”

“Tu ci seppellirai tutti, Jolllly,” Grantaire sorrise e gli diede una pacca su una spalla.

“Ti ritiro il permesso di pronunciare la mia orazione funebre,” borbottò Joly.

“Non mi piacciono i funerali, fosse per me non parteciperei nemmeno al mio.”

“Tecnicamente...”

“Signori, possiamo tornare ad una discussione seria?” fece Enjolras in tono severo. Poi, voltandosi verso Combeferre: “Non posso credere che Marius riesca a risultare una distrazione pur assente.”

“Alcuni hanno tutti i talenti,” si intromise Grantaire, e prese un sorso direttamente dalla bottiglia, guardando Enjolras dritto negli occhi.

“E alcuni li sotterrano senza farli fruttare,” ribatté Enjolras.

L'incontro proseguì con una discussione sul diritto di voto e l'elenco di tutte le botteghe nel cui retro si fabbricavano in quel periodo proiettili, mentre Grantaire demoliva con pazienza e costanza la bottiglia d'assenzio.

C'erano munizioni, ma mancava la polvere. No, c'era polvere, ma non si sapeva dove tenerla. Mancavano d'armi. No, c'erano armi, ma mancavano gli uomini. Enjolras sentiva salire quell'agitazione inarrestabile che gli veniva dall'incertezza.

“Resta con me stanotte,” sussurrò a Grantaire prima che l'incontro fosse finito, la mente che si ritraeva come scottata dall'idea di tornare a casa fra le sue pile di libri e di progetti che non poteva ancora portare a termine.

Uscirono insieme dal caffè, ed Enjolras girò risolutamente a destra, verso casa di Grantaire. Erano mesi che non saliva quelle scale, ma riconosceva ancora la porta. Grantaire girò la chiave e la aprì per lui, invitandolo dentro con un mezzo inchino. Enjolras lo fulminò con lo sguardo.

“Chiedo perdono, cittadino Enjolras.”

(“Dolce principe.”)

“Tu fai di tutto una battuta di spirito.”

“È lo spirito della battuta, il problema,” lo corresse rapido Grantaire, sollevando una bottiglia ed agitandola.

“Di tutto un gioco di parole!” continuò Enjolras irritato.

“Dice il capo degli Amici dell'ABC.”

(Les Amis de l'ABC

o, per assonanza

de l'Abaissé, del degradato, cioè il Popolo.)

(Enjolras

per assonanza con

ange, angelo.)

“Oh, taci, per una volta in vita tua, taci, R!”

Enjolras fu ubbidito, ma Grantaire non aveva finito di provocare.

(Ma perché gli importava tanto, perché perché perchéperchéperché?)

Gli si avvicinò

(perché gli scorreva così rapido il sangue nelle vene, a lui che nelle rivolte dell'anno precedente aveva marciato senza un solo fremito?)

e lo prese per le spalle

(perché?)

le dita strette quasi da far male, come a tenerlo fermo, e lo spinse indietro di un passo, contro la porta. La chiave cadde a terra con un rumore spaventoso nel silenzio, ma Grantaire non emise un suono mentre accostava il volto al suo, ed Enjolras tremò. Da una parte sapeva quale doveva essere il seguito di questa scena, ma fino ad un istante prima non aveva avuto idea di desiderarlo. Il respiro di Grantaire si fermò contro le sue labbra

(“O Apollo, le mie ali erano di cera.”

“Taire...”

“Non c'è più niente da sorreggere ormai.”

Un sussulto, sangue sulle labbra, sangue dappertutto.

Pilade, a terra. Oreste, inchiodato al muro.

La mappa della Francia, muta.)

e poi riapparve contro il suo collo, prima che avesse idea di come si era mosso. Si accorse di voler sentire, toccare, e infilò una mano fra i ricci di Grantaire. L'altra andò ad aggrapparsi alla sua camicia, incerta e poi spasmodica mentre la lingua di Grantaire gli sfiorava la pelle.

“Le labbra dei rivoluzionari non dovrebbero essere fatte per baciare,” avrebbe detto Grantaire poi, molto tempo dopo, e tutti avrebbero riso, perché tutti avrebbero saputo che non era vero, e tutti avrebbero pensato alla bella che li aspettava a casa o alla mano che stringevano sotto il tavolo, e tutti avrebbero saputo che non era vero e avrebbero guardato Enjolras sorridere da dietro un giornale senza interrompere; avrebbero guardato Enjolras prendere fiato prima di un discorso e le sue parole sarebbero volate forti sulle ali delle sue convinzioni, e la folla avrebbe risposto sempre. Le sue labbra avrebbero formato frasi su cui costruire nuovi ideali, o con cui ricostruire i vecchi, i suoi discorsi avrebbero ancora dato forma alle loro idee e soffiato via le ragnatele dall'eroismo del popolo francese.

Le ragnatele nell'angolo più in alto della camera di Grantaire dimenticarono sempre di toglierle.

“Ho fatto amicizia col ragno,” disse Grantaire un giorno, “Mi sembrerebbe quasi una cattiveria sfrattarlo ora.”

“Lo dici solo perché passi più tempo da me che da te.”

“Potrebbe anche essere vero,” rispose, e gli baciò la fronte prima di alzarsi dal letto per andare a cercare qualcosa con cui fare colazione.

“Sembri Afrodite che emerge dalle acque,” gli disse invece un altro giorno, vedendolo emergere (con molta più fatica e meno grazia della dea) dalle lenzuola bianche.

Enjolras sbadigliò e gli chiese se avrebbe mai smesso di paragonarlo a degli dei.

Grantaire gli sorrise. “Non finché ancora ho respiro, Apollo.”

 

 

 

 

Note di chiusura:

 

'Taire' è il più bel soprannome per Grantaire che il fandom mi abbia fornito e si scrive esattamente come il verbo “tacere”, capite?

 

E sì, ho citato Novelesque Diary (la frase sull'ambizione limitata ai margini), perché Ryssa è perfetta e così anche le sue AU. Se leggete in inglese, leggete Ryssa. Leggete ND. Non leggete Situational Irony, for the love of all that's good, non fatevi questo... ma chi sto prendendo in giro, se siete arrivati fin qui significa che avete amato I Miserabili, in quanto a masochismo siete messi come me.

 

Se vi state chiedendo perché nessuno dei dialoghi abbia senso è perché la mia fearless leader ed io abbiamo deciso di creare il musical dell'assurdo mentre scrivevo questa fic, e anche perché in realtà Grantaire ed Enjolras non si capiranno mai veramente. Non ci sarà mai una totale comunione di anime, non è possibile. Scusatemi mentre vado a piangere tutte le mie lacrime.

  
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