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Autore: hanabi    09/04/2013    2 recensioni
Lontano, molto lontano, un mondo è pieno di leggende sulla propria origine e la propria storia. E in questo mondo tutto sembra duale: due soli, due continenti, due culture impermeabili, due etnie nemiche. Ma c'è un terzo incomodo, che esiste ed agisce nell'ombra...
Ed è quel terzo incomodo che unisce gli estremi di quel mondo, in una vicenda che sprofonda le radici nel remoto passato, tra intrighi e grandi imprese, sogni e vendette, misteri da svelare e sentimenti contrastanti, ferocia e sensualità. E alla luce di una luna che non è più solo un decoro del cielo, si dipana la storia dei protagonisti... come un gioco dei loro dèi. E di qualcun altro.
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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Non guardare giù.

Benché fosse nato tra i monti, Ran doveva sempre ricordarsi di quella vecchia regola. Perché qualcosa dentro di lui lo spingeva a sfidarla, solo per il gusto di sfidare qualcosa. 

Invece teneva lo sguardo poco più in alto, giusto per trovare i minuscoli appigli dove aggrapparsi per salire, ficcandoci le proprie dita ostinate in una sistematica ascesa. Non aveva bisogno di contemplare le fauci sbadiglianti della morte sotto di sé. 

Issandosi sull’ennesima crepa, ci vide una traccia rossa.

Il colore della pelle cambia, ma quello del sangue no...

Deyan doveva essersi ferito alle mani, mentre saliva. 

Ran gettò un’occhiata in alto e vide la sua figura avvolta in panni grigi che lo facevano confondere con la pietra della torre, mentre si arrampicava con movimenti rapidi e precisi: sembrava sfidare la magia a lui ostile di quel luogo, non rimanendo sullo stesso appoggio per più di pochi istanti, con una flessibilità di corpo che avrebbe fatto invidia a una danzatrice. Aveva un vantaggio quasi umiliante, ma l’avrebbe usato per arrivare per primo a calare una corda: Ran gli augurò la miglior fortuna.

Il vento fischiò, soffiandogli la polvere negli occhi. L’aria era fredda e limpida, e tutto era crudo e netto intorno a loro: il classico paesaggio dell’altipiano centrale di Sayanna, pieno di boschi oscuri, al centro del quale troneggiava la Città Sacra. 

Ran si chiese quale demone l’avesse spinto ad accompagnare Deyan in quell’impresa assurda...

“Mi occorre un codice antico,” gli aveva detto. 

“Compralo,” gli aveva detto lui. 

“Non è possibile, è un libro sacro.”

“Allora rubalo.”

“Infatti, è l’unica soluzione.

“E dove si trova?”

Deyan gliel’aveva detto.

“Ma sei impazzito?!” aveva tuonato. “La squadra... il costo... il rischio... e per una cosa da leggere?!”

“Non intendo portarmi dietro la squadra, è una cosa che riguarda soltanto me.”

“Tu sei un kelith, che te ne fai di un codice sayanni?” Una pausa. “Non ti bastava quel dannato sarcofago per cui hai speso una fortuna...”

“Il codice serve a Pushpa per scoprire come si apre quel sarcofago.”

Ran era rimasto a bocca aperta. 

“E tu rischi la vita per questo?!”

Deyan aveva annuito, come se fosse stata la cosa più naturale del mondo. 

 

 

 

 

 

 

 

Anche Pushpa aveva avuto di che sbalordirsi.

Deyan l’aveva fatto entrare in casa propria (con grande scorno di Saal, che arricciava il naso al suo odore di strane erbe) affinché potesse esaminare il feretro in piena luce.

Il t’yr ci si era letteralmente scagliato contro, con un grido di gioia.

“Incredibile! Sublime! Mai visto prima una cosa del genere! Ne avevo sentito parlare dai ladri di tombe, ma... costava veramente troppo... Dov’è stato trovato? C’erano altri oggetti con esso? Vasi sacri, armi, statue, gioielli...”

“Ho solo questo, Pushpa. Aiutami a saperne di più.” Deyan aveva fatto una pausa. “Naturalmente te lo chiedo come incarico e non come favore.”

“Questi caratteri... per le Divinità, sono antichissimi! Questo ideogramma è mutato, e anche questo... Oh Kamoh Benedetto, ci sono i segni delle Quattro Stelle... e questo è il segno dell’acqua... che hai detto, Deyan-shir?”

“Che ti pagherò.”

“Oh ma dovrei essere io a pagare te per il privilegio di studiare questa meraviglia!” L’aveva osservata da tutti i lati. “Forse è una statua. O forse un sarcofago, e in tal caso del periodo remoto in cui su Sayanna si praticava l’imbalsamazione. Quest’oggetto potrebbe quindi risalire all’Epifania della Reincarnazione...” 

“In termini kelith?”

Un’esitazione per calcolarla. “L’instaurazione del secondo Impero Bianco.”

“Più di mille cicli di soli fa?” aveva mormorato Deyan.

“Come minimo! Si è conservato benissimo...” Pushpa aveva guardato il feretro, aggrottando le sopracciglia. “Anzi, direi che sembra appena scolpito. Che pietra è questa?”

“Non lo so, e non lo sanno nemmeno i Marjaban. Sanno solo che contiene una magia diversa dalla loro. E io... la sento ogni volta che lo tocco.” 

“Una magia?” 

Pushpa aveva posato le dita su quella nera superficie. 

“Non senti quella sensazione come un brivido... come se qualcosa ti afferrasse la pelle?”

Il t’yr aveva provato ad accarezzare il feretro, in vari punti, concentrandosi a occhi chiusi. Ma poi aveva scosso la testa con un sospiro. 

“Non sento assolutamente niente, Deyan-shir.” E si era voltato a squadrarlo, con stupore. “Se chiunque altro mi avesse parlato di questa sensazione, avrei pensato a una suggestione. Ma tu sei un nobile kelith, vieni da una cultura razionale, sei indifferente alle nostre antiche credenze... com’è possibile che proprio tu mi parli di magia?”

“Non ho una risposta, saggio Pushpa. E ti ho chiamato apposta per cercarla.” Deyan si era avvicinato al feretro, ci aveva posato sopra la mano, e come sempre era trasalito. “Credo... che qui dentro ci sia qualcosa che mi sta chiamando. Che vuole che io apra questo involucro. Non so di cosa si tratta, ma non avrò pace finché non vedrò cosa c’è dentro. Invano ho provato a cercare giunzioni, aperture segrete, punti in cui forzare questa strana sostanza che sembra indistruttibile. Non mi resta che sperare che tutte queste iscrizioni sayanni mi aiutino a capire il mistero... e su Luna di Fuoco, ma anche forse in tutto il tuo mondo, la mente migliore per decifrarle è la tua. Sei disposto ad aiutarmi?”

Pushpa sapeva che aveva una sola risposta a quella richiesta, perché era quella a cui anelava anche tutta la sua anima. 

“Sono al tuo servizio.”

 

 

 

 

 

 

 

Il maturo t’yr aveva cominciato un gran andirivieni dal suo Tempio alla casa di Deyan, sempre con cumuli di rotoli tra le braccia e la veste macchiata di inchiostro: la gente di Luna di Fuoco lo vedeva affrettarsi per le strade polverose, borbottando tra sé e sé, gli occhi fissi in avanti come se stesse guardando dentro i propri pensieri e non chi lo salutava. Passava tutti i giorni in ginocchio sul pavimento davanti al feretro, a trascrivere lunghe file di caratteri su fogli di carta, per poi riempire altri fogli di incomprensibili scritte piene di cancellazioni. Non era raro che si fermasse pure di notte, cosa assolutamente disdicevole; e il padrone di casa non solo lo tollerava, ma mandava Ibal ad acquistare i migliori cibi sayanni per lui, cosa che l’eunuco faceva tra grandi sospiri e molto imbarazzo. 

La cosa era andata avanti per diverso tempo, finché un giorno Pushpa si era messo a cercare Deyan per tutta la casa: poco ci era mancato che provasse addirittura a varcare i proibitissimi cancelli della shanda, perché gli avevano detto che il padrone era lì. Ne era seguita una mezza collutazione - era assolutamente proibito disturbare Deyan quando si ritirava in compagnia delle sue schiave  - e alla fine a Pushpa non era rimasto che aspettare torvamente, guardato a vista da tutta la servitù della casa che era pronta a difendere l’intimità del loro signore con ogni mezzo. 

E quando finalmente Deyan era riapparso, si era trovato davanti quel sayanni imbronciato con gli occhi segnati dalle notti insonni. 

“Non posso completare l’opera che mi hai affidato: ti restituisco il compenso.”

E aveva lasciato a terra numerosi contrassegni d’argento, facendo per andarsene. 

Non aveva neanche raggiunto il cancello che Deyan l’aveva fermato.

“Le grandi emozioni nuocciono agli uomini ragionevoli,” gli aveva detto, accompagnandolo di persona verso i cuscini e ordinando rinfreschi per il suo ospite. “Calma il tuo spirito, saggio, e spiegati.”

Pushpa si era vergognato una volta di più di quanto gli piacessero le maniere di quel kelith di rango, anche con un sayanni... si era lasciato placare, ma non aveva nascosto il proprio scoramento.

“Ho fatto del mio meglio, Deyan-shir, e ho tradotto tutto quel che mi è stato possibile. Ma ancora troppe cose mi sfuggono, e non ho i testi adatti qui su Luna di Fuoco. Posso almeno offrirti la miseria che ho scoperto: sì, quello è un sarcofago. Sì, contiene un corpo. Sepolto durante la dodicesima Reincarnazione delle Divinità. E sì, tutto durante il passaggio nei cieli dell’Arca...”

“L’Arca?” Deyan era incredulo. “Vuoi dire... la mitica nave del Grande Vuoto che dissemina le razze umane tra le stelle?” Aveva scosso la testa. “Ma è una favola per bambini...”

“Come la Leggenda, vero?”

Era seguito un istante di silenzio.

“Un mito contiene sempre una traccia di verità, il ricordo ancestrale di qualcosa che non è più e che viene dimenticato. C’è un mistero sulla nostra presenza su questo mondo; noi sayanni ci riteniamo tradizionalmente figli del sole blu, e i kelith del sole giallo: perché questi miti celesti sulla nostra origine? Sembra che le nostre razze siano spuntate praticamente dal nulla migliaia e migliaia di cicli fa... e se entrambe venissero da un progenitore comune? Questo spiegherebbe le molteplici somiglianze tra i nostri idiomi, e perché kelith e sayanni, nonostante le loro differenze fisiche, possono... ancora...”

Aveva tentato di finire la frase, ma poi aveva taciuto, imbarazzato.

Deyan, da buon kelith, aveva capito. “Sì, è possibile, ma non può esserci prole da queste unioni.” 

“Invece sì,” aveva detto Pushpa con disgusto. “Anche se ovviamente nessuna delle due razze tollera questi scherzi della natura: anche qui su Luna di Fuoco, dove molti valori etici sono, ehm... discussi,” e aveva tossicchiato, “di mezzosangue non ce ne sono. Se individui peccaminosi si incrociano, l’eventuale frutto viene sempre misericordiosamente soppresso, affinché non viva un’esistenza sciagurata e metta a  rischio la purezza della razza.”

Deyan aveva fissato il vuoto, pensierosamente.

“Quindi mi stai dicendo che la mitica Arca sarebbe esistita veramente, avrebbe portato qui la nostra specie in un passato così remoto da dimenticarlo, e noi e i sayanni avremmo in realtà un’unica origine...”

Pushpa aveva annuito. “E poi quell’Arca sarebbe ritornata, forse per vedere cosa ne era stato dei suoi figli: su quel feretro si narra del transito di un vascello celeste così grande da oscurare i soli, con a bordo una razza antica e sapiente, i Ter, o Tirri; da cui prende nome la mia casta...” 

“Quali eredi di quella sapienza.”

“E se il passaggio dell’Arca è avvenuto davvero, questo forse spiega il mistero di quel feretro che elude le nostre conoscenze. Potrebbe essere stato fatto proprio dai Tirri, con la loro inimmaginabile magia.”

Deyan aveva guardato verso il sarcofago. 

“Un oggetto magico, fatto per contenere un corpo. Dev’essere stato di un personaggio di riguardo.”

“Oh sì. Era un Guerriero della Cometa.”

 

 

 

 

 

 

 

Ran si issò oltre il parapetto, per piombare senza fiato sul pavimento della torre. Deyan era già al suo posto, appiattato contro la porta. A parte le dita delle mani, non si vedeva un solo pollice della sua pelle: il suo costume lo avvolgeva completamente, coprendogli anche la testa e lasciandogli fuori solo gli occhi vulnerabili, che però aveva protetto con una maschera di cristallo. 

Non emetteva un suono, ma era estremamente affaticato, Ran lo vedeva dalla frequenza del suo respiro. Lo sforzo che aveva compiuto per arrampicarsi in quel modo era notevole, per un kelith non abituato alla magia di quel luogo (maggior gravità, la definiva, come se cambiandole nome la rendesse meno magica). Ma sapeva di poter contare su Ran per aver il tempo di recuperare le forze. Con i gesti silenziosi dell’antico codice dei ladri, gli segnalò la situazione. 

Due guardie dietro la porta. 

Ran annuì, controllò che la propria lancia fosse ben legata alla schiena, ed estrasse dalla cintura della sua veste due pugnali. 

Se ci catturassero qui, la mia morte sarebbe rapida: un colpo di maglio alla testa. Ma quel che farebbero a Deyan, una volta che scoprissero che è un albino... non oso nemmeno immaginarlo!

Eppure il kelith sembrava totalmente indifferente al rischio. Doveva essere per via di quella sua strana religione: molte volte l’aveva visto pregare a testa coperta, davanti a un semplice braciere su cui fumava del legno profumato. 

Io ho cercato di pregare i miei dèi, ma non mi hanno mai ascoltato.

Un balzo a spalancare la porta con una spallata, due facce stupite a guardarlo, due colpi di pugnale quasi contemporanei, e nella gola, per strozzare qualsiasi urlo. Ancora in piedi, i due erano già morti: Ran ne afferrò uno e lo lasciò scivolare silenziosamente a terra. L’altro si afflosciò contro la parete, spruzzando sangue. Le loro gambe si mossero appena, e poi fu tutto silenzio. 

Ran si pulì le mani con le loro tuniche e rinfoderò i pugnali, prendendo fiato. 

Riposate in pace, fratelli. Non prenderò le vostre piume, questo non è stato un duello. Mi dispiace avervi ucciso, ma avete mancato al vostro compito di guardie in un santuario... e se non foste morti per mano mia, ci avrebbero pensato i vostri superiori.

Deyan spostò la maschera sulla fronte, cavò da una delle sue tasche una minuscola ampolla e si mise una goccia del liquido negli occhi. Un istante d’attesa, e poi tornò a guardare Ran con un cenno di intesa: i suoi occhi erano diventati neri. 

La sua droga magica per vedere nel buio, pensò Ran con invidia. 

Lui non aveva mai avuto niente del genere, mentre i kelith avevano tutta una serie di sostanze da usare in combattimento, sia per loro sia contro i nemici. Deyan poi aveva una conoscenza particolarmente inquietante su molti veleni e narcotici: se li preparava da sé, con sostanze che pagava a peso d’oro. 

Ran appoggiò la mano sulla spalla del compagno: dopo l’abbagliante luce esterna, l’interno della torre era buio come la notte. Deyan capì: lo condusse con sicurezza verso una stretta scala a chiocciola, che scesero rapidamente; sbucarono quindi in una galleria scavata direttamente nella roccia della montagna, illuminata a malapena da vecchie lampade a polvere che spandevano una luce verdastra.  

Cominciarono ad avanzare, con Deyan che faceva da guida. Ran sapeva che aveva memorizzato alla perfezione la mappa che aveva comprato a caro prezzo dagli informatori dei Marjaban: molte aperture si intravedevano infatti nella galleria, una sorta di labirinto. Anche il sayanni aveva una copia della mappa con sé, ma si conosceva abbastanza per sapere che da solo avrebbe finito per perdersi.

E non c’è nessun motivo per cui dovrei tornare da solo. Sono qui per aiutare un amico. Se muore lui, muoio anch’io. Questo è il patto che ho fatto con me stesso, quando mi sono offerto di accompagnarlo...

Quel pensiero, anziché turbarlo, lo calmava.

All’improvviso, il suo vecchio istinto di ladro si tese. Si fermò un passo prima della biforcazione della galleria. Stette in ascolto un istante, e le sue mani fecero i segni.

Arriva qualcuno. Da sinistra.

Deyan non perse tempo: lo prese per un braccio e cominciò a correre in direzione contraria. 

 

 

 

 

 

 

 

Guerriero della Cometa.

Deyan aveva sentito il termine da Ran. Gli aveva chiesto a cosa si riferiva, dato che come principe gli avevano insegnato a distinguere i gradi dei vari guerrieri di Sayanna, ma non gli avevano mai parlato di questi fantomatici Xarani.

Sono fortissimi e dotati di poteri magici, o almeno così si dice: io naturalmente non ne ho mai visto uno in vita mia, perché stanno tutti intorno a Kamoh e Lilia, e figurati se uno come me è mai stato ammesso alla Divina Presenza! Immagino che neanche riescano a muoversi con la mole di armi, gioielli e diademi sacri che si porteranno addosso.

E si capiva che il suo sogno segreto sarebbe stato spogliarli di tutte quelle ricchezze e farle sue.

Pushpa era stato più rispettoso. “Un Guerriero della Cometa è il vertice assoluto della nostra casta guerriera, nato e allevato per servire direttamente le Divinità.”

“Una sorta di nobile guardia di palazzo...”

“Molto di più, Deyan-shir! È un essere speciale, sacro. Non c’è niente nella cultura kelith che sia paragonabile, è inutile fare confronti.”

“Da dove deriva tale sacralità? Dalla stirpe?”

“No, dal cielo. È un astro a selezionare il fiore della nostra razza; una particolare cometa, che alla massima luminosità transita nell’asterisma dei Quattro. Noi sayanni la chiamiamo Xarani; e in tutto il continente ogni bambino di casta guerriera che nasce sotto il suo segno viene immediatamente sottratto alla famiglia, e mandato in un tempio inaccessibile della Montagna Sacra, dove viene addestrato sin dalla più tenera età. Cosa accada in quel tempio è un mistero, ma dopo molti cicli solari alcuni giovani ne emergono, i più forti e i più perfetti, per essere consacrati alle Divinità. Gli altri... scompaiono per sempre.”

“Una selezione spietata,” aveva commentato il kelith.

“Ma che viene effettuata sin dalla notte dei tempi, per la salvaguardia del nostro popolo. I Guerrieri della Cometa hanno il compito sacro di servire le Divinità e di proteggerle: non hanno altro scopo nella loro esistenza. La loro obbedienza è totale e incondizionata. E che io sappia, in tutta la nostra storia mai uno di loro ha mancato a questo sacro dovere.” Esitò. “Con un’unica eccezione... che ho scoperto nella tua casa.”

E aveva indicato il feretro. 

 “Le iscrizioni raccontano che questo Guerriero della Cometa si rifiutò incredibilmente di obbedire a un ordine delle Divinità... per salvarle, così è scritto: la cosa non è chiara. Un delitto del genere comunque era totalmente inconcepibile: la punizione doveva dunque essere terribile. Pare che siano stati i Tirri stessi a rinchiudere il colpevole in questo feretro, anche in questo caso si ripete il simbolo per salvarlo... il resto dell’iscrizione però parla chiaramente di suprema condanna, la negazione della dimensione di Ta’itza, il luogo mistico dove le anime si reincarnano.” La voce di Pushpa aveva tremato. “Se ho interpretato correttamente tutto questo, lo Xarani fu chiuso nel feretro da vivo, Deyan-shir. E i Tirri fecero in modo che non potesse morire.”

 

 

 

 

 

 

 

 

Sbucarono in una specie di caverna concava, illuminata da un pozzo solare, un enorme cristallo bianco che convogliava la luce dall’esterno. Tutt’intorno alle pareti, su massicci scaffali, pesanti codici in metalli preziosi erano disposti in file regolari assieme a pile e pile di vecchi rotoli. Al centro della caverna, seduta su una pelle di tigre delle montagne, c’era una figura curva, avvolta in un mantello di piume azzurre e circondata da tre uomini con la tonsura. 

Ran e Deyan si nascosero prontamente dietro a delle colonne naturali, ma per tutta la caverna risuonò una risata acuta, sguaiata. 

“Benvenuti, bambini miei!”

I sacerdoti si voltarono intorno, perplessi. 

Deyan lanciò un’occhiata a Ran, che sudava freddo perché aveva riconosciuto quel manto di piume.  Il sayanni portò due dita agli occhi, poi alla fronte e sulla guancia. 

Veggente.

Le dita di Deyan si mossero, senza nessuna soggezione. 

Catturare ostaggi.

Ran scosse la testa. Bottino e poi fuga.

Deyan girò l’indice intorno, e Ran capì: già, qual’era il codice che cercavano, tra tutti quelli che giacevano sugli scaffali? 

“Chi è là?” chiese uno dei sacerdoti, con voce nervosa. Un altro si avvicinò a una campana d’allarme, prendendo la barra di ferro per suonarla.

Ran lanciò un’altra occhiata a Deyan. Devo prendere tempo...

Si tolse dalla testa la sciarpa con cui si era avvolto, scoprendo il viso. Nascose la lancia sotto il mantello, respirò a fondo e uscì dal suo nascondiglio, dirigendosi con passo tranquillo verso i sacerdoti. Costoro lo videro e si irrigidirono, sospettosi. 

“Chi sei?” gli chiesero, perentoriamente. 

Alzò le mani con il palmo in alto. “Solo un pellegrino in cerca della Luce,” rispose, sperando di aver messo la giusta nota devota nella voce. 

“Che ci fai qui? Questo è un luogo proibito.”

“Mi sono perduto, santi uomini...”

Di nuovo, risuonò quella risata, e il mantello di piume si mosse, rivelando il corpo rinsecchito di una vecchia dall’età prodigiosa.

“Ti sei perduto molti cicli fa, bambino mio.”

Uno dei sacerdoti sbuffò. “Non dar retta alla veggente, non ha mangiato la bacca sacra e non sta guardando nel pozzo. Se è una profezia che cerchi, devi tornare alla sala delle preghiere...”

“Inutili sciocchi,” sibilò la vecchia, tendendo una mano verso Ran. “Non avete ancora capito chi avete di fronte?”

“Un... guerriero,” risposero i sacerdoti, osservando i tatuaggi del nuovo arrivato.

“Guerriero sì, ma di un nuovo mondo!...” La vecchia rivolse a Ran un sorriso sdentato. “Ti riconosco, figlio di Sayanna... torni alla tua casa per violarla... perché questo è il volere del destino, e quello che rechi è così grande che solo gli dèi possono averlo deciso!”

Ran la guardò con occhi spalancati. 

Un destino così grande...?

“Che significa?” mormorarono i sacerdoti, allibiti. “Chi è costui, che la veggente riconosce?”

“Me l’hanno detto gli dèi, che l’avrei incontrato...” La vecchia si aprì il mantello, mostrando un seno azzurro, lungo e avvizzito. “Vieni, bambino mio; tua madre ti ha cacciato, ora vieni a bere il mio latte!”

Ran fece un passo indietro, sempre più sconcertato.

“Ah, basta,” fecero i sacerdoti. “Tutto questo non ha senso, i fumi del pozzo l’hanno fatta uscire di senno.” E cercarono di far ricomporre la vecchia, ma questa li aggredì a manate.

“Non comprendete proprio niente! Non sentite il vento del mutamento che viene da quest’uomo?” Una risatina cattiva. “E non vedete neppure la bianca morte che si porta dietro... “

Ran si sentì sprofondare. Non si starà riferendo a...

“Su, bambino mio! Chiama il tuo sacrilego fratello!...” 

E la mano ossuta indicò la colonna dietro alla quale Deyan era nascosto. 

Maledizione ai poteri di questa vecchia!

Ran si scostò il mantello dalla spalla, portò una mano sul manico della propria lancia. A quel gesto, uno dei sacerdoti trasalì. 

“Presto, dai l’allarme...”

Si udì un sibilo. L’uomo vicino alla campana si irrigidì con occhi sbarrati, portandosi una mano alla gola. In pochi istanti una bava bianca gli coprì le labbra e la faccia si fece livida. 

“Troppo tardi, stupidi,” gracchiò la vecchia.

Deyan aveva deciso di entrare in azione. Ran vide con la coda dell’occhio il suo scatto acrobatico: una serie di balzi, un altro sibilo e un pugnale da lancio si conficcò nel petto del secondo sacerdote. 

In pieno cuore!... Accidenti, sarà anche un kelith, ma è davvero bravo...

A quel punto toccava a lui: una carica di spalla appresa in infinite risse da taverna, e l’ultimo sacerdote volò sul pavimento; quando si fermò Ran era già addosso a lui, con la lancia puntata. Un colpo preciso dall’alto al basso, e l’uomo non si mosse più. 

La vecchia era rimasta immobile. Contemplò la carneficina col respiro grosso. 

“Gli dèi ridono in questo momento... sento la loro risata nelle mie orecchie.” 

“Veggente.” Ran tese la lancia insanguinata verso di lei. “Cerchiamo un codice...”

“So cosa cercate,” lo interruppe lei, infastidita. “Sono veggente, no?... E metti giù quella lancia, stupido! So che non morirò oggi, quindi a che pro minacciarmi?” I suoi occhi cisposi fissarono la figura di Deyan, immobile ed ansimante al centro della caverna. “Non mi opporrò al volere divino, bambino mio... ma prima voglio vedere... l’inimmaginabile.”

“Che intendi?”

“Che voglio vedere in faccia anche lui!” 

E aveva teso il dito verso Deyan. 

Lo sa, pensò Ran, agghiacciato. 

 Seguì un lungo silenzio. Deyan scrutò tutt’intorno a sé con le proprie pupille dilatate. Quindi si decise, e si tolse cappuccio, maschera e velo. 

“Ahhh...” gemette la vecchia, come se avesse ricevuto un colpo fisico.

Un albino nel bel mezzo di un luogo sacro sayanni!

Ran ebbe un brivido di apprensione. Già era un sacrilegio aver tentato di rubare un codice sacro; ma che uno dei colpevoli fosse proprio un membro della razza più odiata su Sayanna... 

Si aspettava un torrente di urla e imprecazioni. Ma la veggente si limitò a ridacchiare, come se quel che vedeva la divertisse immensamente.

“Gli dèi sono davvero beffardi... a scegliere i loro strumenti per muovere il destino. Ho visto realizzarsi... la visione più folle della mia vita... e adesso posso anche morire in pace.” Sospirò e tese un indice nodoso verso una nicchia che a malapena si intravedeva. “Sia dunque fatta la loro volontà. Quel che cercate... è là. Prendetelo e andatevene da questo luogo sacro. E non osate tornare mai più.”

Ran e Deyan si fissarono per un istante, poi corsero alla nicchia.

Avvolto in un drappo e rilegato da massicce piastre d’oro, il codice che erano venuti a rubare era lì, davanti a loro. 

 

 

 

 

 

*

 

 

 

 

Gamosh ascoltò le note dell’immensa campana di palazzo, con una sorta di sollievo.

Da quanto tempo le aspettavo. 

Gli toccavano gli ultimi doveri di un erede: indossò tutti i propri indumenti formali, lasciò che i servi gli ponessero il diadema principesco e la collana di opali; e si presentò ai nobili di palazzo, che erano già tutti vestiti di blu, il colore del lutto. 

Si formò il corteo verso la stanza del principe. Gamosh vi sarebbe entrato per ricevere l’estrema investitura. Da ogni parte si sentiva levarsi il tradizionale lamento funebre, dovere di ogni suddito del principato, rinforzato dalla consueta pena di morte per chi osasse dimenticarlo. La città intera pareva piangere: chissà se Unari avrebbe apprezzato quel suono, per la propria dipartita. 

E la campana suonava, tocchi lenti e ritmati, che vibravano nell’aria asciutta del deserto. 

Gli abiti dei dignitari frusciavano sui pavimenti lucidi, nella loro silenziosa marcia. E si sentivano in lontananza le strida femminili provenienti dalla shanda di Unari. Quelle spregevoli femmine non avevano il cervello per capire quanto fosse disdicevole tutto quel baccano, in un momento così solenne... ma il loro lamento era ormai un elemento della tradizione, e si doveva sopportarlo.

Per Unari la morte arrivava come una liberazione: nella sua immensa e meravigliosa stanza del riposo, foderata di tappeti e arazzi e ornata da incensieri dorati, i profumi più rari non riuscivano a scacciare l’odore terribile della decomposizione. I medici si erano già ritirati, la loro vana opera finita; i dignitari restarono sulla soglia, secondo le usanze, perché solo l’erede poteva avvicinarsi al letto principesco, disperso come un’isola in quel mare di stoffe preziose, e ricevere l’investitura paterna. 

Gamosh entrò da solo, consapevole di essere osservato da tutti; si sforzò di tenere l’espressione corretta sul volto, ma sentiva i muscoli della faccia guizzare sotto la pelle: esaltazione e ripicca lottavano con tristezza e disgusto. Il risultato era una corrucciata espressione di trionfo, con un sorriso che avrebbe voluto essere compassionevole e invece sembrava quasi di scherno. 

Del resto, guardare in faccia Unari e rimanere impassibili era un’impresa: era ormai ridotto a un mezzo teschio scarnificato. La piaga si era diffusa sulla parte destra del volto, divorandogli la guancia e lasciando scoperte le radici lunghe dei denti; e l’occhio soprastante era marcito e caduto come un frutto troppo maturo. Anche il naso era ridotto a una purulenta caricatura, e il male aveva deciso di scendere verso la gola, come se si fosse stancato di torturare la propria vittima e volesse farla finita. Con una fistola aperta sotto al mento da cui sfuggiva la preziosa aria, Unari boccheggiava ormai da settimane come un pesce in agonia. Gli era stata persino tolta la capacità di urlare il proprio dolore, perché la sua voce era ridotta a un sibilo rauco che faceva inorridire chiunque lo sentisse. 

Shi-El Kaira’shtai.

I cortigiani sussurravano che a volte il vento nella Sala del Trono portasse ancora l’eco di quella antica e terribile maledizione. 

Gamosh si chinò sulla testa deturpata di Unari, sostenuta da preziosi cuscini. E gli parlò: la sua voce salì come un lieve mormorio dal tono consolatorio alle orecchie di tutti, ma le parole le avrebbe intese soltanto il padre.

“Dunque stai per partire per il lungo viaggio, Shana-iban-Vauya Unari-shir. Hai paura?”

L’occhio rimasto di Unari tremò. Sì, aveva paura.

“Non devi, mio padre e signore. Lasci Shana in buone mani. Lo so che mi hai sempre disprezzato, ma a torto: sono pur sempre io il tuo figlio maggiore, primo dello stuolo di cadetti che hai messo al mondo: i tuoi eredi infatti sono arrivati dopo. Dato che non ti sei mai curato di me, ho avuto molto tempo libero per pensare... e osservare. Ho capito tante cose. Per esempio, che il tuo primogenito, Nabil, era un buono a nulla, bravo solo a escogitare capricci per vedere fino a che punto l’avresti viziato. E il tuo secondogenito, Bakar, era migliore di lui, forse perché ti somigliava di meno; ma da te aveva preso quella crudeltà verso il suo sangue che alla fine gli è costata cara... ah sì, perché non è stato uno sfortunato incidente a farlo morire durante la doma dei corsieri del deserto, il suo sollazzo preferito assieme a quello delle nuove schiave... vedi, padre, sono stato io a ucciderlo, facendo sì che fosse calpestato a morte in modo che i medici vedessero le sue viscere squarciate, e non la droga che avevano contentuto.”

Unari si tese, con l’occhio sbarrato. Un sibilo gorgogliante gli uscì dalla fistola.

“Calmati, padre. Ho ucciso solo Bakar. Nabil non me ne ha dato il tempo: il tuo gioiello più raro era già condannato, come si capiva dalle sue membra fragili e quel petto sporgente... benché i tuoi servi lo rivestissero di abiti sontuosi per nascondere la sua debolezza. Non c’è voluto molto tempo perché il cuore gli si spezzasse come una noce, e con esso... tutte le tue speranze su di lui. Ti restava un ultimo erede... quello che avevi procreato distrattamente, perché pensavi di essere a posto con la linea di successione.”

Gamosh prese una pezzuola imbevuta di acqua di fiori, e rinfrescò la fronte pallida e tremante del padre, che lo fissava con un’espressione inorridita.

“Oh, sì, Deyan. L’ultimo erede, appunto. Ma per uno strano caso del destino, proprio in lui è sembrato reincarnarsi il puro sangue degli antichi imperatori... come se la tua Prima tra le Prime l’avesse distillato dal tuo nel proprio utero, purificandolo da tutti quegli incroci tra consanguinei che hanno rovinato la stirpe originaria di Shana. È per questo che l’hai sempre trattato diversamente da tutti gli altri? Tenevi a lui, o piuttosto ne avevi paura?... E per questo non ti sei opposto quando il Sacerdote Nero è venuto a palazzo, reclamandolo come discepolo quando era ancora soltanto un bambino?”

Di nuovo, Gamosh si chinò sul volto del padre.

“Mi sono sempre chiesto il perché di quel consenso, oh sì, era una vecchia tradizione, ma ormai in disuso ovunque in Kelitha. Era forse un tentativo di risparmiare almeno un erede dai complotti, armandolo di risorse segrete? O al contrario, è stata una macchinazione dell’antico culto, ormai in declino, che voleva garantirsi un protettore nell’Augusto Consorzio?... Comunque è stato tutto vano: Deyan non potrà mai regnare su Shana e proteggere alcunché. E avergli consentito di diventare un adepto di El non è servito ad altro che ad attirarti sulla testa la sua peggior maledizione... quella che ti sta uccidendo con tanta squisita crudeltà.” Un sorriso dolce, quasi commosso. “Oh padre, fin dall’infanzia ho assistito a spettacoli atroci, ma mai ho visto un capolavoro come il tuo volto in questo momento!”

L’occhio di Unari lasciò cadere una lacrima, e il suo tremito divenne estremo. 

Gamosh prese delicatamente la sua mano contratta, e rispettosamente se la portò alle labbra.

“Quindi come vedi il destino ha messo ogni cosa al suo giusto posto. Nabil e Bakar nelle loro tombe, e il nobilissimo Deyan ridotto a predone senza onore, schiavo di criminali. E io recupero la mia giusta eredità di vero primogenito, succedendoti su questo trono dorato. Da te ho imparato molte cose, mio padre e signore. E soprattutto ho imparato dai tuoi errori. Muori sereno, sapendo che trascorrerò la mia vita a porvi rimedio... a modo mio.”

E gli tenne la mano, a lungo, guardando con pazienza Unari mentre sibilava e gorgogliava chissà quali recriminazioni, maledizioni, preghiere, spiegazioni... 

Lo guardò finché non vide la luce spegnersi nel suo occhio, e l’immobilità della morte sul suo viso devastato. 

Allora alzò gli occhi ai cortigiani, che capirono e alzarono tutti le mani nel segno del lutto. Come un’onda silenziosa, quel gesto si propagò per tutto il palazzo, fino ai giardini e alle porte, fino alle piazze e alle vie dell’intera città, fino alle stazioni di posta che fecero partire i corrieri in ogni direzione.

La campana finalmente tacque.

E cominciarono le urla delle donne. 

 

 

 

 

 

 

 

Era impossibile che una notizia così non si diffondesse per tutta Kelitha, arrivando alle orecchie dei predoni che vi arrivavano da Luna di Fuoco. E da predone a predone, e da bettola e bettola, non giungesse alle capaci orecchie di Ran.

Il sayanni non aveva nemmeno finito di sentire il resto dei farfugliamenti dell’uomo ubriaco davanti a lui, che era già in piedi sentendo che doveva far qualcosa, che era suo dovere far qualcosa. Impulsivamente comprò un’anfora col miglior vino che offrisse il locale, e uscì per la strada come se avesse alle calcagna tutto l’esercito di Sayanna, correndo verso la casa di Deyan. 

Era notte, e il mondo azzurro e bianco che faceva da luna per quella luna era sospeso nel cielo, spandendo una luce fredda come il vento che fischiava per le strade. Ran non lo sentiva, benché avesse lasciato il mantello nella taverna. Pensava solo che Deyan non dovesse ricevere quella notizia da nessun altro che lui. 

Arrivò ansimante di fronte al portone della sua casa, battè più volte il pugno squadrato sulle tavole, chiamando i servi affinché gli aprissero, e maledicendoli perché esitavano ad obbedirgli: quella minacciosa figura di sayanni non ispirava fiducia. Comunque alla fine Saal lo riconobbe, e gli fece aprire la porta, tentando poi di interporsi per spiegare a quel barbaro zotico che era meglio rimandare quella visita a orario più conveniente per il padrone, e che non era educato mettersi a urlare in quel modo in piena notte...

Per poco non finì dritto nel pozzo di casa. 

Lo salvò Deyan, che era apparso a sua volta per vedere cosa provocava quel trambusto: vide Ran che già aveva sollevato per il bavero il povero maggiordomo, pronto a liberarsi una volta per tutte di lui. 

“Risparmia il mio servo,” gli disse, precipitosamente. “Se ti ha offeso, ti offro riparazione per l’insulto.”

“Digli di non trattarmi da essere inferiore!” urlò Ran, lasciando cadere la sua vittima. 

Deyan entrò nel cortile, indifferente al vento che gli scuoteva i capelli sciolti e le leggere vesti da casa.

“Saal?” disse, con voce severa. 

“Padrone,” mormorò il maggiordomo, mettendosi immediatamente in ginocchio con la testa a terra.

“Non ti avevo già spiegato che Mastro Ran deve essere trattato come ospite di riguardo a casa mia?”

“Padrone, ecco... un ospite però ha anche dei doveri...”

Deyan sospirò. Poi fece un cenno a uno dei servi. 

“Chiama Ibal.” E la sua mano destra fece un segno con le dita. 

Ran intanto si era passato la mano sulla fronte, tergendosi il sudore. “Perdona la mia intrusione, Deyan-shir, ma è una questione urgente. Se possiamo andare in un luogo riservato...”

“Solo un momento, Ran. Vorrei sistemare una volta per tutte questa questione.”

Ibal accorse, affannato. Si inchinò a Deyan e gli tese uno staffile: Saal alzò appena la testa, ebbe un’espressione desolata, e la rimise prontamente a terra.

“Hai offeso il mio ospite, che deve aver sempre libero accesso alla mia casa in qualsiasi momento, col solo divieto di entrare nella shanda, naturalmente. Inoltre egli è stato il mio padrone legale, e va trattato da tale, cioè come persona di rango uguale o superiore al mio...”

“Non esagerare, Deyan-shir...” borbottò Ran.

Il kelith gli fece un cenno, come per dirgli di lasciarlo fare. “Di rango uguale o superiore al mio, ci siamo intesi, Saal? Non voglio mai più dovermi trovare nella situazione di dovermi scusare per te!”

Quella parola ebbe un effetto straordinario su Saal. Il maggiordomo si rizzò con un’espressione piena di vergogna.

“Se il mio padrone avrà pietà degli errori del suo servo e lo terrà ancora con sé, non dovrà più scusarsi con... Mastro Ran.”

“Lo spero bene. Ran, vuoi frustarlo tu? Dieci colpi, giusto per chiudere la questione.”

Ibal portò cerimoniosamente lo staffile al sayanni. 

“Cosa?” mormorò lui, preso alla sprovvista. 

Guardò Saal, ancora in ginocchio, ma con le spalle ben dritte e un’espressione molto dignitosa. Quante volte l’avrebbe preso a calci per tutta Luna di Fuoco... ma in quel momento, l’idea di frustarlo lo ripugnò: sembrava non aspettare altro!

“No, non mi importa. Lascia perdere, Deyan-shir.”

Il kelith fece un sorriso lontano. “Me lo immaginavo, conoscendoti. Bene, accomodati pure nella mia casa. Ibal, pensaci tu.”

E senza attendere oltre entrò, seguito da Ran che era alquanto a disagio... specialmente quando sentì lo staffile cominciare a schioccare sulla schiena di Saal. Si affiancò a Deyan e gli sussurrò, pressante:

“Senti, è proprio necessario...”

“Le faccende di noi kelith si devono sistemare nel modo dei kelith,” rispose lui, recisamente. “Saal ha commesso un errore, e mi ha costretto a interrompere il mio riposo per intervenire: lui stesso trova giusta la sua punizione. È un uomo molto coscienzioso.”

“Ma frustare così quel poveretto...”

“Stavi per buttarlo nel pozzo, quel poveretto.”

“Ero arrabbiato!”

“Allora si è meritato le sua frustate, perché ha fatto arrabbiare un mio amico.” Deyan gli sorrise, con una sorta di remota dolcezza. “Non temere, Ibal non ha la mano pesante, e quella è la frusta che uso nella shanda: l’onore di Saal sarà ristabilito davanti a tutti i servi, ma il dolore sarà leggero.”

Ran restò interdetto, e non disse altro. 

Deyan raggiunse la sua stanza preferita, piccola ma ben arredata con tappeti e morbidi cuscini. Prese da un basso tavolino una coppa pulita, e una brocca dorata decorata con smalti; ma esitò. 

“Vedo che con te hai del vino, è forse per questo momento?”

Ran si rese conto distrattamente di tenere ancora in mano l’anfora che aveva comprato alla taverna. 

Esitò. Come doveva comportarsi?

Alla fine si lasciò cadere in ginocchio su un cuscino. Posò l’anfora a terra e chinò la testa.

“Ti reco notizie da Shana, Deyan-shir. Tuo padre... è morto.”

Seguì un lungo silenzio. 

Ran sentì appena il tocco della brocca sul tavolino. Rialzò lo sguardo: il volto di Deyan era pallidissimo, nonostante l’espressione tranquilla. 

“Sai quando è avvenuto?”

Non mi chiede neanche se ne sono sicuro... come farebbe chiunque al posto suo.

“Dieci giorni fa.”

“Ha sofferto?”

Ran deglutì. “Dicono di sì. Molto.” 

Deyan non cambiò espressione, ma si udì un lievissimo scricchiolio... la coppa che teneva in una mano. I suoi occhi erano rivolti a Ran, ma non lo guardavano. 

“Ti ringrazio per avermi recato di persona questa notizia.”

Ne sei felice? O sei triste? Ti ha sorpreso?... Ti ho visto nel momento della tua massima gloria, e della tua vergogna più tremenda; poi abbiamo rischiato la vita insieme, mangiato insieme, bevuto insieme, e anche riso insieme, per quel poco che sai ridere... lascia stare questo tuo ritegno principesco, almeno davanti a me: sono tuo amico!

Ma Deyan non si muoveva, restava in piedi, con quell’espressione intraducibile sul volto.

Ran sospirò pesantemente e spostò davanti a sé l’anfora sigillata.

“Ti ho portato del vino: non so quali siano le usanze del tuo paese. Dopotutto un vino può aver tanti usi diversi. Un’offerta solenne ai morti... l’oblio per superare un grande dolore... o il nettare per festeggiare la dipartita di un nemico.”

“Festeggiare?” fece eco Deyan, con voce remota.

“Sì!” Ran digrignò i denti. “Secondo me è questo, che dovresti fare. Festeggiare! Perché non c’è niente per cui rattristarsi, se un mostro come Unari ha finito di vivere!” 

La faccia di Deyan si impietrì.

“Sì, era tuo padre,” continuò Ran, rabbiosamente. “Ma era anche il classico principe kelith, crudele,  avido e sadico, che comprava i prigionieri sayanni per farli a pezzi durante i suoi banchetti, e che ha fatto morire in modo orrendo uno dei suoi stessi figli per via di quella stupida etichetta di corte! E anche un codardo, che per paura dell’ira di un vicino pervertito...”

“Non continuare.” Gli occhi di Deyan lo guardarono, quasi implorandolo.

“Perché, cos’altro c’è rimasto da ferire in te?“ Ran si alzò in piedi, con impeto. “Nei miei ricordi c’è un sovrano, ricchissimo, in un palazzo favoloso... che ha avuto il coraggio di mercanteggiare con un predone come me, per il prezzo di uno schiavo, me la ricordo ancora la sua domanda, quanto vale per te un principe kelith?... Chissà cosa se n’è fatto dei miei soldi, quelli che dovevano servirmi per non fare bancarotta e che gli ho lasciato sul pavimento... gli servivano così tanto? Perché era suo figlio che mi stava vendendo, quel maledetto, eri tu!... Cosa vuoi, Deyan-shir, che io pianga per uno così?... E se è vero, come mi hanno detto, che era così sfigurato dalle piaghe che non hanno avuto il coraggio di esporlo nel tempio dei suoi dèi, vuol dire semplicemente che questi gli hanno portato l’anima sulla faccia...”

 “Basta, Ran!...”

Il sayanni ammutolì a quella sorta di ruggito.

Deyan si era voltato di scatto, dandogli le spalle. Il suo respiro era rapido, spezzato. 

“Accetto... il dono del tuo vino,” disse, con voce stentata, lottando per riprendere il controllo. “Con gratitudine. Ma adesso ti chiedo di... lasciarmi solo. Te ne prego...”

Ran esitò. Poi si decise, e fece quello che Saal l’aveva sempre ammonito a non fare. 

Posò le sue forti mani sulle spalle di Deyan, in un gesto antico di conforto. Il kelith trasalì a quel tocco, ma non lo sfuggì, e Ran sentì un’ondata di affetto genuino verso di lui.

“Perdonami, amico mio,” gli disse. “Non sopporto di vederti soffrire per un uomo simile.”

“Chi ti ha detto... che soffro per lui?” Le spalle di Deyan tremarono. “Sono io che ho invocato la vendetta di El, non dimenticarlo. E la dea mi ha ascoltato...”

“E allora che questo pensiero ti consoli.”

“Ma io... avevo anche una madre...” 

Ran scosse la testa, senza capire. 

“Madre?” ripetè, con un filo di voce. “Ma... “

“Una Prima tra le Prime non sopravvive al marito,” mormorò Deyan. “È la nostra usanza... tutte le donne nella shanda di un principe vengono uccise alla sua morte, affinché lo accompagnino nell’aldilà.”

Ran restò agghiacciato. 

“Mia madre è stata dolce con me, e anche se ho dovuto smettere di vederla in viso quando sono uscito dal suo quartiere... la ricordo come molto bella. Spero che sia stata coraggiosa, e che non abbia sofferto troppo...” 

“Come, sofferto?”

Deyan si girò, e Ran vide i suoi occhi tranquilli luccicare di lacrime. “Come Prima tra le Prime, aveva il privilegio di essere la prima a morire. Quando mio padre è stato dichiarato in agonia, lei è stata purgata e messa a digiuno, e poi vestita con il sontuoso costume che le spettava di diritto, e adornata coi gioielli della corona; e così ha atteso il suo momento...”

“Purgata... digiuno... perché?”

“Perché non le si sciogliessero le viscere quando l’avrebbero stesa di fianco al corpo di mio padre, per essere strangolata.”

Ran lo lasciò di scatto, arretrò inorridito.

“Ho ucciso io mia madre,” concluse Deyan, con occhi vacui. “L’ho uccisa quando ho invocato la maledizione di El su mio padre. È questo il peso che oggi tu hai portato nel mio cuore...”

No. No!

Ran sentì un’ondata di emozioni contrastanti salirgli nel petto, fino a soffocarlo.

“Una povera donna innocente... ammazzata così...” Kamoh, Lilia, aiutatemi... ”E voi kelith avete il coraggio di dire che i barbari siamo noi?!”

“Ran...”

“Ma che razza di gente siete, voialtri?!” urlò, fuori di sé. “Che genìa sputata dalle viscere dell’inferno?! Per le mie Divinità, sono orgoglioso di essere sayanni! Mille volte meglio aver la pelle azzurra, che appartenere a una razza di sporchi assassini come la tua!”

E con quelle parole si girò di scatto, uscendo da quella stanza... da quella casa... urtando servi più abietti di vermi... fuori da quel mondo che era sempre stato suo nemico, che odiava con tutte le sue forze, e che a dispetto della sua amicizia con Deyan non avrebbe mai capito, mai, mai...

Siano maledetti i kelith per tutta l’eternità!

 

 

 

 

 

 

Naturalmente, se ne pentì nello spazio di una clessidra. 

Ma non tornò subito da Deyan, perché non ne aveva il coraggio. Ci rimuginò sopra tutta la notte, e metà del giorno successivo; quindi, facendosi forza e preparando le proprie scuse, si ripresentò a casa sua.

Stavolta Saal gli aprì immediatamente e si inchinò a lui.

“Il Mastro Ran è il benvenuto,” disse, con una vocetta formale. 

“Come va la schiena?”

Saal restò contegnoso. “Mastro Ran è gentile a chiederlo, ma non deve preoccuparsi.”

Il sayanni sospirò. “Sono stato uno stupido, ieri.” 

Saal lo fissò come per dirgli sì, sei stato proprio un grosso barbaro stupido, ma tacque e si inchinò. 

“Dov’è il tuo padrone, Saal? Devo parlargli...”

“Deyan-shir non c’è,” disse una voce stanca dalla porta. 

Ran la seguì e restò stupito. “Pushpa, sei tu?...”

Il t’yr si stava asciugando le mani dopo essersele lavate.

“Sì, sono qui per lavorare su quel feretro e tentare di aprirlo, dopo che mi avete portato il codice per interpretarne le ultime iscrizioni. Il tuo socio mi ha incaricato di restare fino a quando non otterrò un risultato e, visto quanto intende pagarmi, rispetterò il mio accordo.”

“E Deyan-shir dov’è?”

“È andato alla Grande Casa, da solo.” Pushpa ebbe un’espressione corrucciata. “Dicono che abbia pagato i Marjaban per farsi mandare su Shana.”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  
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