Libri > Harry Potter
Segui la storia  |       
Autore: Terre_del_Nord    18/04/2013    4 recensioni
Sul finire del primo millennio, i quattro più potenti Maghi del tempo, Salazar Slytherin, Rowena Ravenclaw, Godric Gryffindor e Helga Hufflepuff, raggiungono il Regno di Alba per fondare Hogwarts, una scuola in cui insegnare Magia. Attraverso lotte, amori e naufragi, tradimenti e Magia, realizzeranno il loro progetto; per uno di loro, però, ritornare ad Alba significa anche altro: mantenere una promessa mancata e riappropriarsi del proprio passato.
1. Prologo di "THAT LOVE IS ALL THERE IS - SLYTHERIN'S BLOOD" (si può leggere anche senza aver letto l'altra), la storia tratta personaggi e trame in buona parte originali.
2. Con "Nuovo Personaggio" ho indicato la presenza di vari personaggi rilevanti per le vicissitudini dei protagonisti.
3. Ho introdotto l'avvertimento "Violenza/Contenuti forti" per la presenza di scene di guerra e situazioni in linea con la vita dell'epoca.
4. La storia è in corso di revisione
Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Corvonero, Godric, Nuovo, personaggio, Priscilla, Corvonero, Salazar, Serpeverde, Serpeverde, Tassorosso, Tosca, Tassorosso
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza | Contesto: Dai Fondatori alla I guerra
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'That Love is All There is'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

That Love is All There is

Terre_del_Nord

Old Tales

Terre del Nord - I.007 - Di Centauri, Frati e Cacciatori



Un chiarore soffuso si levò da Oriente, emerse dietro la corona di colline e squarciò le tenebre, dipinse di un rosa irreale campi e villaggi e, come una benedizione, risvegliò la valle, liberando il cuore degli uomini dai demoni dell'oscurità. Per ultima, anche la tetra montagna di Am Monadh fu baciata dal sole nascente: i roghi, che avevano bruciato i suoi fianchi per gran parte della notte, erano stati spenti prima dell'alba da una pioggia improvvisa e ora, come lacrime versate per il sangue immolato, le ultime gocce scendevano dagli alberi a purificare le ferite della Madre Terra. Il vento, lieve, spazzò via il lungo silenzio atterrito, promettendo alle creature della foresta la pace di un nuovo giorno: la lunga notte d'odio e sangue era finalmente terminata, gli animali, rincuorati, iniziarono a lasciare i propri rifugi. La vita riprese il suo normale corso...
Banrigh fu scossa da un brivido e si fermò su una sporgenza di roccia a strapiombo sul fiume: il sudore, mischiato alle gocce di pioggia, scendeva tra i suoi capelli e andava a bagnarle la schiena; riprese fiato, reso corto dalla ripida salita, e, per la prima volta da quando l'aveva sottratta alla morte, abbassò lo sguardo sulla bambina che stringeva a sé: mentre correva, ne aveva sentito il calore e il pulsare ritmico del cuore, attraverso il mantello in cui la madre l'aveva avvolta, ma si era imposta di non guardarla. Era stata una decisione saggia: come vide quel ciuffo di capelli corvini e gli occhi chiari appena socchiusi, infatti, la memoria del Centauro tornò agli orrori della notte precedente e a lungo Banrigh non riuscì a soffocare il proprio turbamento. Si trovava a poca distanza dal campo di battaglia, quando aveva sentito sibilare il dardo che aveva trafitto Cormacc il Mago; poco dopo, aveva visto con i propri occhi Sheira nic a'Thon, la Sacerdotessa della Fiamma Verde, perdere le forze, accasciarsi a terra, tra gli alberi, e morire. Banrigh non aveva potuto fare nulla, incredula e inorridita era rimasta immobile, mentre ovunque, attorno a lei, infuriava il massacro, il fumo si levava in spire soffocanti e l'oscurità rossastra era squarciata dalle urla degli uomini e dal lamento della foresta. La Strega le aveva chiesto aiuto, consapevole di essere in punto di morte, eppure Banrigh si rifiutava di credere che la grande Magia dei Daur si rivelasse inutile proprio in quel frangente: fin da piccola, ascoltando le storie degli anziani, il Centauro aveva immaginato che i Maghi fossero invincibili, quasi immortali; da adulta, aveva avuto prova del loro leggendario potere quando Cormacc MacArtgal aveva salvato il suo Keiron. Per questo non riusciva a credere che Sheira potesse morire nel dare alla luce un figlio, o che il Mago, trafitto, non fosse forte e potente a sufficienza da rialzarsi, mettere in fuga gli uomini e portare in salvo il bambino... Solo quando aveva sentito le urla e i passi minacciosi avvicinarsi, Banrigh era uscita dall'apatia, aveva capito che doveva andarsene o sarebbe stata a sua volta in pericolo, si era chinata sulla bambina, l'aveva stretta tra le braccia e si era lanciata al galoppo, senza più voltarsi. Non aveva pensato a nulla, non aveva riflettuto su cosa fosse giusto e razionale fare, né alle conseguenze delle proprie azioni, si era solo imposta di fuggire, il più lontano possibile.
Ora che sorgeva un nuovo giorno, però, ora che la corsa l'aveva portata lontano dall'orrore, nel folto della foresta, Banrigh si rese conto delle difficoltà: per la piccola e per i suoi fratelli, ammesso fossero ancora vivi, il pericolo era tutt'altro che scampato, quella notte, infatti, il patto sancito tra i Centauri e i Daur, al loro arrivo nella radura, era stato violato; anche se usata solo per difendersi, la Magia aveva contribuito a portare morte e distruzione nella foresta, pertanto, persino i più tolleranti tra i suoi simili non si sarebbero più fidati dei Maghi, non avrebbero rischiato altri lutti, non avrebbero permesso ai ragazzi di restare. A nessuno di loro. Poco importava se, senza una madre a nutrirla e accudirla, il lungo viaggio verso le Terre della Confraternita sarebbe stato fatale a quella neonata, anzi... Banrigh conosceva i più intransigenti del suo branco, da tempo cercavano una scusa per allontanare i Daur dalla radura, sapeva addirittura che alcuni di loro, i più esagitati, non desideravano soltanto cacciarli via ma, in nome di un odio tra le due razze risalente alla notte dei tempi, avrebbero colto l'occasione più propizia per tentare di ucciderli. Banrigh, a sua volta, rischiava conseguenze già solo per aver appoggiato l'ingresso dei Daur nei territori di Am Monadh, anni prima... ora, addirittura, stava vagando per la foresta con quella bambina tra le braccia: la legge in tal proposito era chiara, qualsiasi intromissione nella vita degli Umani era inaccettabile, gli altri, al suo posto, avrebbero evitato la piccola fin dall'inizio, anche perché il Destino, privandola dei genitori nell'attimo stesso in cui era venuta al mondo, l'aveva chiaramente condannata a morte. Gli anziani non avrebbero ascoltato, tanto meno accettato, giustificazioni al suo comportamento, avrebbero potuto condannarla a morte insieme alla bambina, i suoi figli esiliati dalla foresta... Forse, se avesse accettato di rimediare al proprio errore senza opporsi, se avesse abbandonato la piccola in riva al fiume, così che la natura facesse il suo corso, nelle vesti di un lupo o di un orso affamato, il branco si sarebbe accontentato di cacciarla, senza fare del male anche ai suoi figli: ma questa era solo una speranza, non ne poteva avere la certezza.
Un brivido le attraversò la schiena, una selva di pensieri confusi le riempì la mente: il suo cuore si ribellò all'idea della bambina inerme, nelle fauci di un lupo, d'altra parte non voleva morire, né voleva vedere i propri figli trattati come traditori e reietti. Guardò il fiume, l'acqua trascinava rami secchi e detriti con estrema violenza, si chiese perché rischiare, forse era tutto inutile, forse i ragazzi erano già morti e non c'era più nessuno che potesse occuparsi di lei: se l'avesse lasciata cadere da quell'altezza, in quelle acque vorticose, la bambina avrebbe sofferto molto meno che straziata dai denti di un lupo, sarebbe finito tutto, subito, nessuno del branco avrebbe mai saputo la verità... lo doveva ai suoi figli, ne andava del loro futuro... lo doveva al suo piccolo Keiron...

    … Al mio Keiron salvato dai Maghi...

In un lampo Banrigh rivide Sheira accovacciata a terra, accanto al più piccolo dei suoi figli, gli teneva la mano, mentre Cormacc impiastrava le erbe sul suo corpicino debole e febbricitante... ripensò alla propria felicità, quando gli occhi d'ambra di suo figlio si erano aperti e le sue piccole dita avevano stretto con forza la sua mano. Invece di lasciarla cadere nel fiume, nel disperato tentativo di salvarsi, Banrigh si trovò a serrare ancora di più la presa sulla piccola Strega, come aveva stretto a sé Keiron, quel giorno lontano, e come avrebbe trattenuto i propri figli, se qualcuno avesse cercato di strapparglieli via.

    Non posso... e soprattutto... non voglio farlo...

Banrigh chinò il capo e lo mosse stizzita, per scacciare quei pensieri contrastanti, gli zoccoli irrequieti colpirono violenti la terra, sembrava voler pestare le emozioni che la turbavano, non riusciva a compiere una scelta razionale, tra la legge della sua gente e ciò che le imponeva il cuore: anche se, come tutti i Centauri, riusciva a leggere gli arcani corsi e ricorsi del tempo e riusciva a svelare i piani del Destino, si sentiva smarrita. Il turbamento che provava era inevitabile, prevedibile, lo sapeva, la sua gente si teneva alla larga dagli umani anche per questo, perché interagire con loro significava doversi addentrare nel terreno del caos, dell'irrazionalità, del dubbio. Il Centauro respirò a fondo, si voltò, si allontanò dal baratro per poi tornare indietro, ripeté quell'andirivieni alcune volte, vittima dell'incertezza, infine riprese a percorrere il sentiero, il passo via via più veloce: no, non era una questione di sentimenti, la sua, non si trattava neppure di una scelta, Banrigh violava la legge, razionalmente e giustamente, perché, quando i Maghi avevano salvato il suo Keiron, il Centauro aveva contratto un debito che andava saldato, a qualsiasi costo. Molte delle conseguenze che la spaventavano, inoltre, potevano essere evitate, se fosse stata rapida: raggiunta la Sorgente, senza farsi scoprire, la bambina e i suoi fratelli sarebbero usciti per sempre dalla sua vita e lei, rientrata nel branco, avrebbe giustificato la prolungata assenza confessandosi spaventata e turbata dalla lunga notte di violenza e orrore. Non sarebbe stata neanche una bugia. Convinta, Banrigh riprese a correre, senza farsi più distrarre da dubbi e ripensamenti. Per tutta la notte aveva evitato i sentieri frequentati dalla sua gente e gli altri percorsi più accessibili, in cui avrebbe potuto imbattersi in qualcuno degli uomini disperati, dispersi nel bosco; ora che si era fatto giorno, doveva muoversi con maggiore rapidità e discrezione, per questo, per raggiungere la Sorgente, decise di intraprendere la via delle rocce, più corta e più ostica, per ampi tratti perpendicolare al fiume, talmente scoscesa che persino gli animali più agili evitavano di avventurarvisi. L'aveva scoperta presidiando il fiume e la conosceva nei minimi dettagli, superare le sue mille insidie era un'impresa ardua per chi l'affrontava con le mani libere, figurarsi per lei che teneva anche un bambino tra le braccia: il Centauro rischiò varie volte di scivolare e fu costretta a esitare spesso, incerta sul bivio migliore da seguire, data la scarsa consistenza e resistenza del terreno intriso di pioggia, ma non si perse mai d'animo. S'impose di resistere alla fatica, al caldo, alla fame, pur di recuperare il tempo perduto, di correre forsennatamente negli ampi tratti pianeggianti immersi nella boscaglia. Affaticata, Banrigh riprese via via il controllo delle proprie emozioni, arrivando persino a elaborare un piano per aiutare i ragazzi a raggiungere le Terre: giunta nella radura, presso la Sorgente, avrebbe consegnato loro la bambina e indicato la strada che, circa diciotto anni prima, i genitori avevano percorso per sfuggire alla Confraternita, li avrebbe persino accompagnati per un tratto, se fosse stato necessario, avrebbe spiegato al ragazzo più grande i trucchi per convincere le “Madadha", le lupe, ad allattare la bambina durante il viaggio.
Riprese fiato presso una cascatella, si rifocillò con bacche e acqua fresca, e a un tratto la neonata vagì per la prima volta, all'inizio timidamente, poi scoppiando a piangere disperata: la Magia imposta dalla madre per calmarla doveva essersi esaurita e la bambina, dopo ore di viaggio e di digiuno, era affamata. Quei lamenti erano pericolosi, Banrigh lo sapeva, rischiavano di attirare le attenzioni non richieste dei predatori e di eventuali sentinelle ma, purtroppo, il Centauro non conosceva la Magia per calmarla né, in quella zona della foresta, sapeva di lupe con cuccioli cui chiedere di allattarla. Quanto a lei, aveva perduto l'ultimo dei suoi figli da poche settimane, ma pur potendo avere ancora del latte, non avrebbe dato a un estraneo, nemmeno per saldare un debito, ciò che era destinato al suo piccolo. La custode del fiume cercò una soluzione al problema poi, pur consapevole dell'inadeguatezza di ciò che stava per fare, cercò del miele, bagnò le labbra della piccola con acqua e nettare, la lasciò succhiare, la deterse e la riavvolse nel mantello. Sedati per un po' i lamenti, Banrigh riprese la sua corsa, finché la vegetazione variegata si serrò in un bosco compatto di soli faggi e il sentiero che lo attraversava iniziò a digradare lievemente, seguendo la linea più morbida di quello sperone della montagna: il Centauro si fermò ed emise un sospiro liberatorio, quello era il fitto bosco che terminava in una piccola radura circondata da un semicerchio di querce e, ai piedi della ripida parete di roccia che la chiudeva, sgorgavano le acque della Sorgente, protetta alla vista come una gemma custodita in uno scrigno. L'ultimo tratto di strada era coperto dalle fronde ombrose degli alberi, non avrebbe più sofferto il calore del sole, né avrebbe corso il rischio di scivolare e spezzarsi l'osso del collo. Gli zoccoli affondarono nel morbido tappeto di foglie che preannunciava l'autunno ormai prossimo: era trepidante, si guardò intorno, la natura lassù non aveva subito le offese della notte, ma tutto, dagli uccelli che giungevano dalla valle in volo, agli alberi che ondeggiavano al vento, alle farfalle che danzavano nell'aria, raccontavano da lontano l'orrore vissuto, il sangue che aveva imporporato il fiume, la morte violenta che aveva danzato nella foresta. Motivata e fiduciosa, Banrigh si lanciò al galoppo: quando il cielo si oscurò, attraversato da un'ombra nera, levata sopra gli alberi per pochi istanti e subito sparita, il bosco ammutolì in un silenzio gravido di sinistri presagi e il Centauro sentì un brivido gelido percorrere tutto il suo essere. Le era parso di udire delle voci umane al comparire dell'ombra, ma tentò di non farsi impressionare, doveva essersi trattato solo di suggestione, dovuta alla paura e alla stanchezza, l'ombra doveva essere solo una nube che preannunciava un temporale, motivo in più per affrettarsi a raggiungere il semicerchio di querce.
Voleva tornare a casa, Banrigh. Voleva riabbracciare i propri figli, lasciarsi quella notte d'orrore alle spalle. Riprese a correre, caparbia e convinta. Fiduciosa. Inconsapevole di ciò che il Destino aveva deciso per lei.

***

Non poteva crederci, il vecchio cappellano di Glower non riusciva a capacitarsi di essere scampato alla morte: barcollando, fradicio di pioggia, le vecchie gambe intorpidite dal freddo e dalla posizione scomoda tenuta a lungo in mezzo ai cespugli, Gregorius uscì dal nascondiglio, in cui aveva trovato riparo dalla ferocia dei lupi e dalla furia del demonio, e si fece il segno della Croce, cercando nella Fede la forza di camminare, scovandola in realtà nella paura che ancora lo attanagliava. Si guardò intorno, aspettandosi di essere di nuovo attaccato: quel bosco doveva essere l'anticamera dell'inferno, non c'era altra spiegazione per quello cui aveva assistito, serpenti che si svegliavano in piena notte e attaccavano, creature mostruose, generate dall'empio amplesso di uomini e cavalli, il demonio incarnato in un giovane capace di dominare la volontà delle bestie. Gregorius chinò il capo, supplice, ringraziando il Cielo, rabbrividendo ancora al pensiero degli sguardi di brace dei lupi affamati, dei denti delle serpi che erano scattati a straziare i corpi dei suoi fedeli: li aveva visti morire, tutti, tra le sofferenze più atroci, chi ucciso da un veleno tanto corrosivo da poter essere solo il seme immondo di Satana stesso, chi sbranato da creature sanguinarie... Quanto al signore di quei poderi, poi... il monaco chiuse gli occhi, sperando di non rivedere più la testa mozzata del signore di Glower che rotolava a terra, ai suoi piedi, e il nobile sangue che gli schizzava addosso, impiastrandogli il volto e la tonaca. Aveva avuto paura, il vecchio uomo di Dio. Ed era scappato, inseguito dalle belve. Accerchiato dai lupi, si era rifugiato, non sapeva neanche come, tra i cespugli. Lì, si era attaccato al Crocefisso di sua madre, pregando tra le lacrime fino a perdere la voce, fino a fondere le sue vecchie mani ossute nel metallo e nel legno del simbolo della vera Fede. Fino a perdere i sensi. Non sapeva per quanto fosse rimasto incosciente nel bosco, quando si era svegliato, però, era tutto finito. E lui era ancora vivo.
Fece di nuovo il segno della Croce e, senza smettere di camminare, cercò ed estrasse dalla tasca della tonaca il piccolo crocefisso di avorio cui si era aggrappato tutto il tempo, donato da sua madre, lady Eibhlin, nel loro castello di Morvedh (1), ormai una vita prima, quando era partito dai territori di Kernow diretto al monastero di (2) Dún Ceartáin, in Irlanda, per volere di suo padre. Non l'aveva più rivista. Mettendo la mano in tasca, però, le dita del monaco avevano toccato anche qualcos'altro e ora, bramose, s'immergevano di nuovo nel tessuto ruvido della tonaca, per assicurarsi che quella parte dei suoi ricordi non fossero soltanto frutto di un sogno: sua madre, la paura provata, la gratitudine verso Dio, tutto svanì dalla sua mente appena sentì l'oggetto rotondo e tiepido tra le dita. Un brivido di eccitazione corse a scaldargli le membra intorpidite, la mente contorta da pensieri che di spirituale avevano ben poco, proprio come la notte precedente, quando non era stato capace di trattenersi ed era andato a frugare tra le mani della Strega, il tempo di trovare ciò che cercava. Ora avanzava distratto nel bosco, senza curarsi di benedire con i sacramenti i corpi degli uomini massacrati nella notte, straziati da oscene ferite, esposti alle intemperie e al dileggio delle bestie selvatiche: sistemato il crocefisso sul petto, mentre il sole penetrava tra le fronde e riluceva iridescente sulle gocce che imperlavano le foglie, aveva estratto l'oggetto dalla tasca e ora teneva gli occhi fissi sulla sua levigata perfezione, la mente lontana dai doveri di un Uomo di Dio. Si fermò, alzò la mano, lasciò che il sole colpisse la purezza della pietra verde incastonata alla semplice verghetta di ferro: estasiato e, al tempo stesso, spaventato, rigirò l'anello tra le dita, fino a illuminare i segni incisi all'interno della fedina. Erano chiamate “Rune” ma erano l'alfabeto del demonio, come aveva appreso dal priore di Dún Ceartáin, fin dal suo arrivo in Irlanda.

    «Ancora loro... sempre loro... come sospettavo... le bestie della Confraternita...»

Il sole filtrava tra le fronde e Gregorius tremava, stretto nelle sue vesti lerce di fango e foglie marce: presto sarebbe tornato al castello, solo, affamato, ferito, avrebbe raccontato a Milady e al primo Consigliere quello che era accaduto, la disperazione avrebbe pervaso il maniero, dal ricco palazzo del signore di Glower e dalle sudice casupole della più miserabile plebaglia, ovunque si sarebbero levati i pianti e i lamenti del lutto... Il terrore per una successione difficile e per una nuova, probabile, guerra avrebbe spezzato anche l'animo dei più coraggiosi. Il monaco, però, era già lontano da tutto questo, non aveva interesse verso gli abitanti del castello in cui viveva e serviva come predicatore e confessore da vent'anni; i suoi occhi avevano già smesso di vedere la foresta straziata e i suoi orrori, correvano invece alla verde terra di Kernow che gli aveva dato i natali; le sue membra non erano più vecchie e stanche, erano quelle gracili di un ragazzino di quattordici anni... persino il nome che risuonava nelle sue orecchie, mentre qualcuno lo chiamava, non era Gregorius, ma Madron. Uguali a se stessi, restavano solo la paura, l'odio e la rabbia.

*

A Madron era stato imposto dal padre, signore di Morvedh, un nome che prometteva fortuna e felicità; in realtà, fin da bambino, il primogenito di Lord Gorlas era sempre stato cagionevole di salute, al punto che, ormai adolescente, tra i guerrieri e i consiglieri di suo padre, continuava a sembrare solo un moccioso; persino e soprattutto se messo a confronto con Bithek, l'unico altro figlio maschio, illegittimo, di suo padre, di appena un anno più grande. In continua lotta con i vicini bellicosi, persa ogni speranza, dopo anni di tentativi, di avere un altro figlio maschio dalla pia moglie, incerto sull'effettiva possibilità di ottenere una discendenza forte da quell'unico erede legittimo, Gorlas ruppe ogni indugio e, come regalo per il suo sedicesimo compleanno, disse al figlio che era inadatto a ereditare nome, titolo e averi, e che il convento di Dún Ceartáin, nell'ovest dell'Irlanda, lo avrebbe accolto tra i suoi confratelli. Bithek il bastardo, a sorpresa, si sentì nominare erede del titolo e di ogni sostanza del casato al posto del fratello minore. Madron non desiderava possedere le terre e sapeva che Bithek, così alto e forte, sarebbe stato un erede più adatto, inoltre amava studiare e vivere tranquillamente, non immaginava per se stesso un futuro da condottiero; nonostante tutto questo, però, non voleva neanche prendere i voti, né vivere la vita che suo padre aveva scelto per lui: non aveva alcuna vocazione, non voleva passare la vita a pregare al freddo e al gelo, in piena notte, né elemosinare un tetto e un pasto caldo facendo il mendicante di villaggio in villaggio. Soprattutto, non voleva essere allontanato da lì, dalle persone cui voleva bene, da sua madre in particolare, l'unica tra tanti a soffrire apertamente della decisione presa dal marito.
Per settimane Madron aveva riflettuto, aveva scelto le parole adatte, aveva cercato il coraggio necessario ad affrontare suo padre, finché gli aveva chiesto udienza e, pur tremando come una foglia e balbettando più del solito, alla presenza dei consiglieri, del cappellano e di suo fratello, gli aveva chiesto il permesso di restare in quella casa, senza pretendere nulla, offrendosi al contrario di tenergli in ordine i conti, di vivere come uno degli uomini che stipendiava, non essendo  all'altezza di potersi considerare suo figlio. Lord Gorlas l'aveva fissato a lungo, all'inizio, poi, a poco a poco, davanti a ogni parola stentata del sangue del suo sangue, aveva abbassato gli occhi per non doverlo guardare, gli angoli delle labbra piegati in un'espressione aspra e feroce. Prima che il giovane finisse, giudicata sufficiente l'umiliazione subita a causa sua, aveva chiesto a Piran, lo scemo di corte, che gironzolava per i cortili del maniero sempre insieme al suo maialetto pezzato, di passargli la corda legata all'animale e al notaio di prestargli piuma e pergamena, poi si era alzato, si era avvicinato alla bestia e con il bastone gli aveva toccato la schiena ruvida, nominandolo “secondo contabile e scrivano”. Tra le risate generali, schiumante di rabbia, il signore di Morvedh si era rivolto infine a Madron, rosso in volto per la vergogna, e gli aveva sputato addosso che il posto richiesto era appena stato occupato, poi avviandosi con passo spedito e nervoso verso il fondo della sala, aveva ordinato ad alta voce al cappellano di prendere accordi con il convento irlandese, così che Madron partisse non più tardi del giorno di Santo Stefano. Madron era rimasto sconvolto da quanto era accaduto, non solo per l'umiliazione subita e la partenza anticipata, ma perché, da quel momento, il padre impose al resto della famiglia di non rivolgergli più neanche la parola. La partenza fu fissata per il giorno di Santo Stefano, due mesi prima del suo diciassettesimo compleanno, aveva dieci mesi per imparare tutto ciò che gli era necessario alla vita monastica: di colpo, quel tempo passato pressoché sempre da solo con i suoi libri di preghiere, in silenzio, a parte quando recitava i salmi con il cappellano, gli parve infinito.
C'era solo Kera a illuminargli per alcuni minuti la giornata, una ragazzina poco più piccola di lui, giunta dalle colline dei dintorni l'anno precedente, poco appariscente, ma capace, con la sua risata schietta e il suo buon cuore, di illuminare la vita delle persone che la incontravano. Madron ringraziava tutte le sere il Signore per aver mandato Kera a rendere i suoi giorni meno tristi e disperati, anche se sapeva che doveva resistere e non pensare a lei, per non soffrire ancora di più quando se ne fosse andato. Le sue intenzioni erano buone ma anche inutili, sentiva il suo cuore riempirsi di felicità solo perché lei cantava facendo il bucato nel cortile, o perché entrava nella sua stanza, lasciando sul tavolo un vaso pieno di fiori appena raccolti, o gli sorrideva, mentre puliva via le tracce di inchiostro dalla scrivania su cui studiava. Non ebbe mai il coraggio di dirle neanche una parola, figurarsi tentare di baciarla o sfiorarle una mano, ma sapeva di essersi innamorato di lei, perché si ritrovava a immaginare la sua voce e il suo volto, in ogni istante, restando fisso sulla stessa pagina, per ore e ore, perso in pensieri tutti suoi. Quando Bithek e la sua orda di amici più grandi capirono che Kera stava portando un barlume di felicità nella sua vita di derelitto, iniziarono a dare il tormento a entrambi, prendendoli in giro senza pietà: di solito si appostavano presso la stanza di Madron e quando lei usciva la sbeffeggiavano, la sottoponevano a scherzi crudeli o le riversavano addosso parole oscene e irripetibili, tentando persino di metterle le mani addosso; quando invece incrociavano lui, a capo chino, al seguito del cappellano, all'inizio ridevano e dicevano battute sconce, poi iniziarono a mimare tra loro gli atti impuri che un uomo fa con una donna, sghignazzando che solo i veri uomini potevano farlo, mentre lui non avrebbe mai potuto, perché non era neanche un vero maschio. Madron taceva sempre, il volto in fiamme, sapeva di non poter fare nient'altro, aveva paura per sé e per Kera, della reazione che avrebbe potuto scatenare: era ancora scottato dai risultati dell'aver parlato apertamente con suo padre. Inoltre sapeva che con suo fratello, soprattutto quando era con quegli zotici dei suoi amici, ormai non si ragionava più, non era la stessa persona con cui giovava da bambino, e la nomina a erede sembrava aver tirato fuori tutte le sue peggiori inclinazioni. Madron sopportò, ignorò, sottovalutò per settimane e per mesi. Finché, sul finire dell'estate, il giorno dell'equinozio d'autunno, tutto precipitò.
I cieli del Kernow avevano perso i loro colori fluttuanti per ammantarsi di una coltre di grigia nebbia che saliva dal mare, rendendo di colpo la giornata breve e oscura. Madron era stato con il cappellano, quel pomeriggio, a ripetere a memoria i salmi che avrebbe dovuto cantare a Dún Ceartáin, di lì a pochi mesi, non si era lasciato distrarre nemmeno dalle urla di suo fratello e dei suoi compari che erano salite dalle scuderie per tutto il tempo: non era strano, esageravano sempre quando Lord Gorlas era fuori, a controllare e raccogliere le rendite degli amministratori più lontani. Stando agli stridii del maiale, sembrava che per quel giorno se la fossero presa con Piran e Madron tirò un sospiro di sollievo: sapeva di non doversene rallegrare, certo, ma se si erano già sfogati con quel poveretto, c'erano buone possibilità che, almeno per quel giorno, avrebbero lasciato in pace lui e la piccola Kera. Uscito da solo dalla cappella, vide Carrow, il figlio del fabbro, che vagava per i corridoi un po' instabile sulle gambe, come fosse ubriaco, Madron accelerò il passo, avendo cura di strisciare quasi contro la parete, dalla parte opposta, ben intenzionato a non rivolgergli la parola, né a guardarlo, per non dargli nessuna scusa per attaccar bottone. Quando gli passò accanto, però, senza mostrare alcun rispetto per quello che era pur sempre il figlio del suo signore, Carrow non si era limitato a sputargli addosso una delle solite cattiverie, ma gli aveva sbarrato la strada e l'aveva addirittura preso per la collottola poi, ridendo sguaiatamente, gli aveva messo una mano sulla bocca per farlo tacere e l'aveva trascinato per un braccio fino ai sotterranei da dove si accedeva alle scuderie. Madron provò a opporsi, ma quel giovane, temprato dal lavoro fisico quotidiano nella fucina del padre, aveva una forza dieci volte superiore alla sua. Un'intensa sensazione di indefinito pericolo colse il ragazzo quando si ricordò che quel giorno non c'era nemmeno Timotheus, il fabbro: Carrow aprì la porta della scuderia, il maiale di Piran corse fuori a tutta velocità, trascinandosi dietro un tanfo intenso di escrementi e carne bruciata, e incespicò su Madron che, già malfermo sulle gambe, rovinò a terra. Il carceriere scoppiò a ridere, lo prese per un braccio, lo trascinò dentro e rapido chiuse la porta dietro di sé. Infreddolito e spaventato, al buio, il ragazzo non aveva compreso subito la situazione, poi i suoi occhi si abituarono all'oscurità della stalla e con un tuffo al cuore si era reso conto che non erano soli: suo fratello e almeno altri due dei suoi peggiori compari, scarmigliati ed esaltati, a torso nudo, sudati e ubriachi, si affrettarono a uscire dai loro nascondigli e a rimettere un catenaccio alla porta, Madron cercò di sgusciare via dall'uscita laterale che dava sul cortile, ma Carrow gli fu addosso in un attimo, lo spinse con il viso contro il muro e gli ficcò da dietro un panno lercio e maleodorante in gola, perché non gridasse, poi, iniziò a legarlo con una delle corde che assicuravano i cavalli alla parete.

    «Lascialo libero di muoversi, è innocuo! E sarà più divertente... voglio vederlo ribellarsi...»

Bithek gli si avvicinò, lo fissò per alcuni istanti, poi la sua mano salì a togliergli anche il panno puzzolente dalla bocca.

    «Non serve neppure questo... non ha le palle per ribellarsi, e anche se lo facesse... chi gli presterebbe ascolto? Ahahahah»

Scoppiò a ridere, gli altri risero con lui, Madron, libero, tentò di nuovo di scappare, svelto cercò di raggiungere la porta laterale e mettersi in salvo, da qualsiasi genere di carognata suo fratello avesse ideato per lui quel pomeriggio, ma quando già era sulla porta la nuova risata di Bithek e la voce rotta di una ragazza gli pietrificarono la mano sull'anta di legno.

    «Cosa ti dicevo, puttanella? Guarda come se la dà a gambe quel coniglio del tuo innamorato! Non gli interessa quello che può capitarti... anzi... che ti è già capitato... ahahah...»

Madron si voltò, Bithek e gli altri stavano ridendo, tra loro c'era Kera, a terra, in lacrime, con le vesti lacere e insanguinate, il volto pesto e lividi ovunque riuscisse a posare gli occhi. La vide respirare male, molto male, gli occhi vuoti, assenti. Due di loro la presero e la ributtarono nella paglia, Bithek gli rise addosso, e gli diede le spalle. Anche Carrow non si curò più di lui. Madron non seppe mai cosa gli accadde in quel momento. Mai. Dove trovò la forza di non crollare a terra, di non piangere, di non urlare. Di non scappare. Attorno a lui erano solo risa e lacrime, la luce tremula di una candela sullo sfondo, il tanfo acre di sangue e carne bruciata, poi tutto divenne oscurità. Sentì il legno stretto nella sua mano tremante, il peso del forcone, tale da poterlo solo trascinare.

    Risate, lacrime, urla, risate, urla, risate... Risate, risate...

Sentiva il dolore del peso estremo, tale da spezzargli il braccio... Sentì il dolore della spinta del suo corpo contro un altro corpo... Vide il fiato che usciva dalle labbra incredule di suo fratello, prima irridenti, poi esangui... Vide il sangue, tanto sangue, che gli schizzava addosso... La luce di quei suoi occhi, accusatoria, mentre si spegneva... Alcune mani lo presero, lo colpirono, lo schiaffeggiarono, lo sbatterono contro la parete, alcuni corpi gli furono addosso, lo pestarono, i cavalli nitrirono, spaventati dalla violenza e dal sangue, dalle urla, uno scalciò contro il legno, la parete vibrò, la vibrazione si propagò e la candela cadde. La paglia si incendiò. Fu il caos: gli altri fuggirono, si calpestarono a vicenda, furono calpestati dai cavalli in fuga, nessuno si curò di lui, o di Bithek o di Kera. Madron vide uno dei cavalli impazziti alzarsi in piedi, imbizzarrito e ricadere giù, centrando con lo zoccolo la testa di suo fratello e scappare. Poi non vide più nulla, non sentì più nulla.
Si riprese quando un brivido gelido corse sulla sua pelle nuda, subito dopo arrivò il suono secco e il dolore feroce della scudisciata sulle natiche peste. Urlò e sputò sangue e fumo, con le poche forze che aveva si puntellò sui palmi per sollevarsi, ma non ci riuscì, rovinò sulle sue braccia, sotto gli improperi e le urla di chi aveva appena aperto le porte dei ruderi della scuderia. Non capiva nulla, prima di tutto come fosse ancora vivo. Non vedeva nulla, la sua testa era confusa, come quella volta, un paio di anni prima, quando Bithek gli aveva fatto bere idromele con l'inganno e la fantesca l'aveva trovato riverso a terra, nel porcile. Con gli occhi appannati riuscì a riconoscere un mucchietto di vestiti lerci che emergevano dalla paglia davanti a sé, con orrore riconobbe il grigio tenue della casacca di Kera: era lei quella cosa bruciacchiata e sanguinolenta che intravedeva, inerte, ai piedi di Piran, seduto, completamente nudo e ubriaco, contro la parete della stalla. Non capiva. Cercò di alzarsi, ci riuscì, si voltò, nudo come un verme, e si ritrovò davanti suo padre, preda della rabbia più feroce che gli avesse mai visto, dietro di lui il cappellano e diversi altri adulti che non riuscì neanche a riconoscere, che si facevano il segno della Croce davanti al corpo esanime di suo fratello. Lord Gorlas aveva la frusta in mano ed era pronto a colpirlo di nuovo, gli urlava contro il nome di suo fratello e lo strattonava, il ragazzo non capiva, non reagiva, l'uomo in lacrime gli diede uno schiaffo in faccia tale da girargli la testa dall'altra parte, poi il cappellano riuscì a fermarlo, e il lord se ne andò urlando che avrebbe decapitato tutti quanti per vendicare la morte del suo erede.
Quella sera, mentre le donne si occupavano del corpo di Bithek, Gorlas convocò i suoi consiglieri e il cappellano, Madron fu sottoposto a un interrogatorio serrato, furono coinvolti tutti gli altri giovani presenti, il quadro di quel pomeriggio di sbornia e depravazione fu delineato in ogni singolo dettaglio, ma sembrava che il signore di Morvedh non fosse soddisfatto di quella spiegazione, non riusciva a credere che Madron, noto a tutti per la sua codardia, avesse ucciso Bithek per una ragazzetta delle cucine. Ordinò al cappellano di esprimersi su quanto era accaduto la sera stessa: il vecchio, intorpidito dalla malattia e dall'abuso d’idromele, controllò Madron, gli fece delle domande, scuotendo pensoso la testa e recitando le sue litanie con spirito sempre più afflitto, poi il ragazzo fu invitato a uscire e condotto nelle sue stanze, dove restò solo con i propri pensieri fino a tarda notte. Quando il capo della guardia salì a riprenderlo, mancava poco all'alba: davanti al padre e ai consiglieri stremati, Madron sentì il vecchio cappellano sentenziare che Piran era il responsabile di ogni evento, pur noto a tutti per essere sempre stato un buon cristiano, pacifico e timorato di dio. Non doveva essere in sé quando aveva attirato con l'inganno Bithek e i suoi amici, dividendo con loro il vino che aveva annebbiato le loro coscienze. Il vino che la serva gli aveva chiesto di portare al giovane erede di Morvedh. Era lei, perciò, la “femmina”, la vera responsabile: nessuno ne conosceva le origini, si presentava in ritardo e malvolentieri alle funzioni religiose, e nessuna ragazzina, a meno che non fosse una poco di buono, avrebbe mai tentato di attirare su di sé le attenzioni di un giovane destinato a consacrarsi a Dio, al punto di sporcarne l'anima con un delitto. L'oscurità di cui era serva, aveva incitato i ragazzi coinvolti a esagerare nella lussuria e nella violenza, diceva il cappellano, finendo con l'esserne lei stessa vittima.
Lord Gorlas, uomo particolarmente religioso ma soprattutto superstizioso, sentendo parlare di oscurità, interruppe la riunione, non volle sentire altro, condannò Kera e Piran all'abisso, senza altri indugi, quanto a Madron, ingiunse che partisse immediatamente per Dún Ceartáin, e ordinò che fossero recitate preghiere per un anno, nella speranza che la vita del monastero e i salmi delle pie donne, purificassero quel maniero e l'anima del figlio macchiata dall'atroce delitto commesso. Il cappellano per scrupolo, chiese e ottenne di verificare l'eventuale presenza del segno del diavolo sul corpo della ragazza, che fu denudata davanti a tutti, fu così che Madron aveva visto per la prima volta  sul  petto acerbo e tumefatto di Kera strani ghirigoro di inchiostro nero: ne decoravano parte del corpo, il collo, il ventre, le dita dei piedi e delle mani, là dove la giovane portava sempre delle piccole bende. Il cappellano alitò facendosi il segno della Croce “la nenia infernale...”  e subito costrinse le guardie a portarla via, a legarla a un carro di buoi e a prepararsi a condurla al pozzo. Era l'ultima occasione per Madron di intervenire e salvarla, ma non lo fece: la sua mente ricordava le parole udite da sua zia, lady Ailla, sua figlia era stata rapita e disonorata, la notte di Beltane, in un bosco vicino al loro maniero, da una bestia immonda facente parte della “Confraternita”...
I tatuati erano pagani, dediti ancora all'antica religione, figli del demonio da tutti riconosciuti per i segni che portavano sul corpo, simili a quelli di Kera: facevano parte di una confraternita sacrilega, vivevano sulle colline ai margini delle foreste, non si vedevano mai, agivano nell'oscurità di cui erano servi e ogni tanto uscivano a rubare nei granai e nei campi, o per rapire le giovani timorate di Dio per i loro turpi sacrifici. A volte, per qualche motivo, alcuni di loro venivano allontanati e cercavano, come Kera di vivere tra le persone a modo, ma prima o poi dimostravano a chi era realmente consacrata la loro anima. Madron comprese che era colpa di quella Strega se il suo spirito era stato avvelenato, era stata lei, con le sue malie a far di tutto perché si ribellasse alla volontà paterna... Era stata lei a far impazzire suo fratello e i suoi amici. Convinto di tutto questo, non solo non difese la giovane, ma addirittura si offrì di accompagnare gli altri per vederla calare nel pozzo oscuro, il luogo che quei pagani un tempo veneravano, sotto un cerchio di pietre, che i suoi antenati avevano cercato di abbattere. Giunti sul posto, la ragazza aveva urlato, anche Piran aveva urlato, mentre gli altri li schernivano, li maledivano, li ingiuriavano, e il cappellano cantava le sue litanie, Madron chiese e ottenne di  gettare su di loro la pece, poi accese al braciere la fiaccola e infine, la gettò nello stretto pozzo. Solo allora sentì la vicinanza di tutti gli altri, solo allora non vide scherno o sospetto nei loro volti. La fiammata risalì fino alla superficie, accompagnata dalle urla dei due morenti. Madron aveva il volto inondato di lacrime, ma le sue labbra continuarono a incitare come tutti gli altri al grido di “morte, morte”... Quando guardò suo padre, per la prima volta nella sua vita vide un cenno di soddisfazione. Sua madre si tolse il crocifisso dal collo e glielo pose dalle mani, per tutta la notte e il giorno seguente pregarono insieme, finché all'alba, partì sul suo carro, diretto in Irlanda.

*

Madron prese i voti definitivi al compimento del sedicesimo anni in Irlanda, dove prese il nome di Gregorius, suo padre impegnò quasi tutte le risorse del proprio casato e impose nuove tasse ai suoi sudditi per erigere un santuario alla Vergine, su una delle scogliere che dall'altopiano di Morvedh si conficcavano a picco nel mare del Kernow. Il giorno della consacrazione dell'edificio, Gregorius ottenne di poter far visita alla sua famiglia, ma sua madre era già morta da alcune settimane. Ammirò la piccola chiesa, con il piccolo chiostro, sarebbe stata la sede di una comunità di monaci irlandesi... Celebrò la funzione e legò quel luogo al nome di sua madre, poi, prima di ripartire per la sua vita, camminò a lungo sull'altopiano, vagò, osservò ciò che restava dell'antica foresta, abbattuta per volontà di suo padre, per scacciare definitivamente gli spiriti degli antichi e non permettere più le immonde feste di Beltane. Arrivò fino alla pietra forata, le tre oscene pietre, intorno alle quali si celebravano da secoli riti pagani, attratti dalla chiara simbologia fallica, erano state abbattute, non si sarebbe più attraversata gattonando per propiziare la propria fecondità, né per sanare fanciulli, perché la grazia andava richiesta solo al Signore...  Pesanti non era stato possibile spostarle né distruggerle, ma Gregorius sapeva che, prima o poi, l'erba avrebbe coperto tutto quanto e il ricordo sarebbe sopito. Si chinò, raccolse uno stelo d'erba, lì vicino, nascosta tra erba e terra, c'era una delle tessera di pietra incisa con gli strani simboli che aveva visto sulla pelle di Kera, l'alfabeto del diavolo, se ne trovavano ancora tante nei dintorni... E tutti erano soliti gettarle nel pozzo oscuro che si apriva nei pressi delle tre pietre. Gregorius la prese, si incamminò di nuovo tra le pietre, osservò le rune incise sulla pietra forata,  raggiunse il pozzo, sollevò la mano e gettò la tessera all'interno.

***

Aprì gli occhi, Cuilén. Supino, aprì gli occhi al gorgheggiare degli uccelli e, come ogni mattina, davanti a sé, vide solo tanto verde. Infagottato nella sua coperta, spostò appena lo sguardo e vide il verde degli alberi anche alla sua sinistra e pure alla sua destra. Tanto verde, certo, ma di una tonalità stranamente cupa, non il solito verde brillante riscaldato dal sole che gli accarezzava lo sguardo ad ogni risveglio.

    Forse oggi ci sono le nubi oltre le chiome degli alberi...

Quando voltò del tutto la testa, però, vide poco sopra di sé un limpido raggio di sole che penetrava tra i rami, illuminandoli di una luce tenue. Il bambino non capì il motivo, ma notò subito che c'era qualcosa di strano. Gli alberi erano strani, erano... anzi “non erano” i suoi alberi: erano altrettanto alti, certo, e grandi, e... ma erano... diversi...

    Sto ancora sognando?

Il bambino si stiracchiò, percorso da un brivido di freddo, si chiese dove avesse calciato via la sua pelle di orso, durante la notte, e perché suo fratello non l'avesse rivestito, come faceva sempre, visto che gli era rimasto addosso solo il mantello; sperò che non fosse finita nel fuoco o suo padre, stavolta, si sarebbe arrabbiato sul serio. Sbadigliò e iniziò a strofinarsi con energia gli occhi, ancora impastati di sonno poi, a fatica, si sollevò a sedere, sicuro di essere finalmente sveglio, le mani appoggiate a terra, dietro di sé.

    «Ahi!»

Si sentì come... pungere... Guardò in basso e si accorse di non essere sopra la paglia che gli preparava Dòmhnall, per proteggerlo dall'erba madida di rugiada, ma sulla terra nuda, o meglio, sulla terra ricoperta da aghi di pino: nella sua radura c'erano molti alberi, sua madre gli aveva insegnato a riconoscerli, ma non c'erano mai stati pini, non capiva perciò da dove venissero tutti quegli aghi. Confuso, Cuilén alzò gli occhi, si guardò ancora intorno, stavolta non osservò le chiome ma i loro fusti. E di nuovo non capì perché fossero così diversi.

    Che cosa è successo alla mia radura?

Non aveva risposte, Cuilén, allora, con l'ingenuità dei suoi pochi anni, prese il mantello e se lo tirò fin sotto il mento, si stese di nuovo, sicuro che ci fosse una sola spiegazione possibile: stava ancora dormendo e sognando, pertanto non c'era da preoccuparsi, suo fratello dormiva al suo fianco e presto l'avrebbe svegliato, toccandogli delicatamente un braccio, o scompigliandogli i capelli.

    Ha promesso di portarmi a provare il richiamo, oggi... e se l'ha detto, Dòmnhall lo farà...

Si accoccolò sul fianco, chiuse di nuovo gli occhi, spostò appena una gamba contro il proprio ventre: sentì qualcosa di appuntito premere sulla sua pancia, ricordandogli improvvisamente quanto bisogno avesse di fare pipì. Si tirò su di soprassalto: anche l'altra volta credeva di sognare e invece... No, sogno o veglia che fosse, non voleva che finisse come l'ultima volta che suo padre l'aveva trovato a bagnare il letto. Non voleva essere punito. Non quel giorno. Mentre si alzava, confuso e come sempre preoccupato dalle reazioni paterne, Cuilén percepì il fruscio di qualcosa che cadeva a terra, in mezzo al soffice tappeto di aghi di pino; si chinò, gli occhi lo videro, la mano lo afferrò, le dita ne percorsero leggere la superficie liscia, su cui si rincorrevano intagli precisi. Il cuore iniziò a battere accelerato, quasi a volergli scoppiare via dal petto.

    Che cosa ci fa il richiamo per uccelli di Dòmhnall, a terra, se questo è solo un sogno?

Il bambino non capiva, si strofinò ancora una volta gli occhi e si guardò ancora intorno: era certo di essere sveglio, era chiaro, quello non era un sogno confuso ma la realtà, però non capiva perché tutto fosse così strano. Ricordò i lamenti provenienti dalla tenda della madre, le spiegazioni di Dòmnhall attorno al fuoco, il richiamo fatto da suo fratello solo per lui: la sera precedente era nato loro un fratellino... Un'idea spaventosa iniziò a farsi largo nella mente del bambino.

    No, non è possibile... ma se... invece...
         
    «Dòmnhall! Dòmnhall! Dove sei?»

Pronunciò il nome di suo fratello, una prima volta piano, poi lo urlò, una volta, due volte. Non capiva, Cuilén, mentre la terza volta il nome dell'amato fratello usciva dalle sue labbra solo come un sospiro, tra le lacrime che iniziavano a rincorrersi sulle sue guance infuocate. Si guardò attorno, girò su se stesso, aspettandosi di vedere apparire il fratello da dietro quei tronchi fitti, ma attorno a sé c'era solo un silenzio irreale: quando l'avevano sentito urlare, infatti, le creature della foresta erano ammutolite tutte insieme e ora restavano in silenzio ad ascoltare il suo pianto. Cuilén attese, incredulo, si pizzicò una gamba, per essere sicuro di non dormire, lo ripeté ancora e ancora e ancora, ma anche se i lividi sbocciavano fitti sulla sua pelle tenera, non cambiava nulla, lo circondava un silenzio strano e spaventoso e un mondo diverso da quello che aveva lasciato la sera precedente: attorno a sé, c'erano solo alberi sconosciuti, una penombra densa, qua e là rischiarata dalla luce che filtrava a stento, non c'erano più la tenda di sua madre, illuminata dalla luce della Fiamma Verde, o il sacco a pelo di Dòmnhall, steso accanto al suo giaciglio, né i resti del loro falò, o la voce spaventosa del fiume che l'aveva sempre terrorizzato, giorno dopo giorno.

    Non c'è più neanche l'erba umida di rugiada... Perché? Dove sono?

Suo padre e suo fratello gli avevano insegnato a fare silenzio nel bosco, per non far fuggire le prede e non essere individuato dai lupi, ma Cuilén aveva troppa paura di essersi perduto, all'improvviso le sue labbra iniziarono a piegarsi e a distendersi a ripetizione nel nome di sua madre e di suo fratello, l'aria usciva in grida disperate dal suo corpo, rubandogli tutto il fiato, fino a lasciarlo sfinito, a terra, preda dei singhiozzi. Violenta lo colse la paura di essere stato abbandonato nel cuore della notte da quel padre che non lo amava e non l'aveva mai amato, disperato immaginò che avesse deciso di lasciarlo in pasto ai lupi, perché ora aveva un bambino nuovo che avrebbe preso il suo posto, il posto del figlio che lo deludeva sempre: il terrore lo pietrificò, il calore del sole che stava ormai scivolandogli addosso, filtrando tra le fronde, nulla poteva contro il gelo che sentiva nel cuore. Con le lacrime agli occhi guardò con più insistenza, ma non c'era nulla da guardare, solo alberi e alberi... tutti uguali e tutti ignoti, cercò tra i suoi ricordi, ma non era mai stato portato dai suoi, durante la caccia o la raccolta, in un posto simile. Per sicurezza, si avvicinò al pino nero sotto il quale si era svegliato, accarezzò la sua corteccia, si chinò a raccogliere i suoi aghi, chiuse gli occhi e ascoltò il fruscio che facevano mentre cadevano, aveva visto sua madre fare spesso così, come se gli alberi fossero capaci di parlarle; rimase immobile, ascoltando il silenzio tetro di quella foresta, in cui nemmeno gli uccelli cantavano più: per quanto si concentrasse, però, nessun ricordo era ricollegabile a quelle sensazioni. Cuilén capì di essere perduto.

    Perché Dòmnhall glielo ha lasciato fare? Dòmhnall mi ha sempre protetto... e ha sempre rispettato le promesse fatte...

Un'intera foresta si apriva tutto attorno a lui, tutta uguale, non si vedevano neppure sentieri da seguire, né orme che indicassero una direzione. Sua madre gli aveva detto molte volte che se si fosse perduto nel bosco non doveva muoversi, doveva restare fermo in un posto preciso, trovare un punto riparato e aspettare di essere trovato. Non era mai accaduto ma sua madre glielo ripeteva sempre e Cuilén ascoltava, perché era un bambino ubbidiente. Quel giorno, però, mosse dei passi, nemmeno se ne accorse, all'inizio: le sue gambe cercavano di portarlo lontano da lì, dal pino ai cui piedi si era svegliato, dal mantello che, caduto a terra, indicava dove avesse passato la notte. Cuilén camminò, deciso a raggiungere un albero di fronte a lui, ma più camminava, più si trovava sempre nello stesso punto, come se una mano invisibile rendesse vani i suoi movimenti. Si voltò e di corsa provò un'altra direzione e ancora un'altra e ancora un'altra. Provò e riprovò, ma pur mettendoci tanta energia e caparbietà, alla fine si ritrovava sempre a pochi passi dall'imponente pino nero. Qualsiasi cosa fosse accaduta quella notte, ora lo sapeva, era stato Dòmnhall a condurlo fin lì: lo riconosceva, usava quell'incantesimo quando lo portava con sé a raccogliere erbe o a cacciare, per proteggerlo da cadute, aggressioni di animali selvatici o altri incidenti, se si trovavano da soli in un luogo potenzialmente pericoloso.

    Perché Dòmnhall mi ha portato qui in piena notte? E perché non torna da me, ora, quando lo chiamo?

Affamato, sfinito, spaventato, Cuilén si lasciò cadere a terra, il viso nascosto tra le braccia, mentre calde le lacrime gli segnavano il viso e le sue labbra ripetevano quel nome, sempre più lentamente, sempre più silenziosamente.

    «Dòmnhall...»

Si addormentò così, con la schiena appoggiata al tronco del pino nero e il sole che gli scivolava addosso, scaldandogli prima i piedi e in seguito, su su, tutto il corpo, fino agli occhi. Quando sentì un rumore di legna secca calpestata e spezzata, a pochi passi da lui, rinvenne spaventato, le pupille che si annerivano velocemente, in allerta: guardò davanti a sé, ma non vide nulla, il sole filtrava con un'angolazione tale, ormai, da rendere il suo orizzonte stretto e oscuro. Sentì dei passi pesanti frusciare sul tappeto di aghi di pino, passi che non avevano nulla di umano. Si tirò in piedi, Cuilén, di soprassalto, portando gli occhi a un'altezza sufficiente a uscire dal raggio di sole e vedere qualcosa: di fronte a lui si ergeva una massa oscura, pesante e greve, ma non riusciva a metterla a fuoco; sentì subito il suo cuore accelerare i battiti, preso tra il terrore e la speranza, quando si rese conto che al suo fianco c'era anche un uomo. Trattenne un grido e provò a scivolare rapidamente dietro il tronco del pino, per nascondersi, senza capire che l'estraneo l'aveva già visto e, soprattutto, l'aveva udito gridare. Il suo gesto improvviso e concitato, inoltre, strappò alla massa informe un verso che gli fece rizzare i peli in mezzo alla schiena, anche perché, nello stesso istante, la vide avventarsi rapida e furiosa su di lui.

    «Buono Heliantòs... buono! E tu stai fermo, ragazzino... non aver paura...»

L'ombra umana riuscì a far arretrare la massa informe, sfiorandogli, pareva, una testa munita di becco e dandogli qualcosa da mangiare, poi tese la mano verso di lui; Cuilén, che al tentativo di aggressione si era buttato a terra, si raggomitolò su se stesso, nascondendo di nuovo il capo tra le braccia, ma lasciando gli occhi sopra l'incavo, così da vedere cosa stesse accadendo. Un bagliore argenteo impedì all'uomo, proteso verso di lui, di chinarsi abbastanza da toccarlo, vide la sua mano ritrarsi, come se fosse stata colpita da una sensazione dolorosa: lo scudo di Magia che suo fratello gli aveva eretto intorno stava facendo il suo dovere, e il cuore di Cuilén si aprì, al pensiero che Dòmnhall non l'avesse abbandonato, ma l'avesse, come al solito, protetto. L'uomo, dopo un istante di esitazione, non si diede per vinto, prese qualcosa dalla cintola, in controluce a Cuilén parve fosse solo un rametto di legno, la puntò verso il bambino e pronunciò delle parole strane, che non assomigliavano a nulla che avesse mai sentito uscire dalle labbra dei suoi genitori, quando evocavano il fuoco, o curavano le ferite alle sue ginocchia sbucciate. L'uomo tentò più volte, con parole diverse, invano, e Cuilén, via via sempre più rassicurato dall'incapacità di quell'uomo di raggiungerlo, prese coraggio e alzò la testa per guardarlo. Ancora una volta il sole gli impedì di metterlo a fuoco, vedeva soltanto che era molto alto, quasi quanto il suo papà. All'ennesimo tentativo, però, la mano dello sconosciuto arrivò su di lui, fino a sfiorargli i capelli, proprio quando ormai Cuilén era certo di essere al sicuro, cogliendolo di sorpresa; il bambino urlò, cercò di alzarsi e fuggire, ma l'uomo, rapido, gli fu addosso, lo prese per i polsi e lo bloccò, sollevandolo da terra. Cuilén si divincolò, come facevano i conigli che Dòmnhall prendeva al laccio, ma esattamente come loro, la sua resistenza si rivelò presto inutile e deleteria. Con il fiato reso grosso dalla paura e dall'agitazione, sfinito, il bambino dovette arrendersi; immobile, riuscì a mettere a fuoco i tratti del suo aggressore, attraverso lo sgaurdo pieno di lacrime: era un uomo ancora giovane, dai lunghi capelli corvini, il volto in buona parte coperto da una fitta barba cespugliosa, un cacciatore, probabilmente, visti i pugnali che portava alla cintola e le vesti macchiate di sangue.

    «... Stai calmo... Non voglio farti del male, voglio solo sapere il tuo nome...»

Cuilén girò il volto e non rispose. Voleva sua madre, la voleva in quel momento, disperatamente. Si morse l'interno della guancia per non scoppiare a piangere.

    «So che sei spaventato... Dimmi solo sì o no... Sei tu Cuilén, figlio di Cormacc MacArtgal e di Sheira, figlia di Thon? »

Il bambino si voltò a guardarlo, udendo i nomi dei suoi genitori, improvvisa avvampò in lui la speranza che quell'uomo sapesse dove fosse la sua famiglia; doveva essere così, nessun cacciatore che viveva in quei boschi poteva sapere tante cose, lui stesso aveva saputo il nome dei suoi nonni solo spiando suo padre che insegnava a suo fratello un po' di storia della Confraternita. Cuilén, però, era anche un bambino ubbidiente e sua madre gli aveva sempre detto di diffidare degli estranei, perciò, nonostante la speranza, non poteva fare a meno di chiedersi chi fosse quell'uomo e come facesse a conoscere il suo nome e quello di suo padre. Aveva paura, come mai ne aveva avuta prima, nemmeno quando Cormacc, suo padre, l'aveva gettato nel fiume. Incrociando gli occhi dello sconosciuto, però, qualcosa in quell'intenso colore grigio impose a Cuilén di fidarsi e non avere paura; quando poi i suoi occhi scivolarono sul collo sporco e sudato dell'uomo e notarono Rune simili a quelle che portavano i membri della sua famiglia, Cuilén non riuscì più a trattenersi, annuì, chiese della sua mamma e scoppiò in un pianto dirotto. L'uomo non lo riprese per quelle lacrime, come faceva sempre suo padre, anzi, gli passò la mano forte e ruvida sui capelli, toccandolo delicatamente, come se fosse qualcosa di estremamente prezioso. Cuilén alzò gli occhi su di lui, il volto dell'uomo si aprì in un sorriso di incoraggiamento.

    «Mio Signore... non dovete temere... Daghall il Nero è qui per voi, per portarvi a casa... sano e salvo...»
 


*continua*



NdA:
Ringrazio quanti hanno già letto, aggiunto a preferiti/seguiti/ecc, recensito questa ff. In questo capitolo e nel prossimo presenterò due nuovi personaggi, Gregorius e Daghall, che avranno un ruolo nel futuro dei ragazzi e del patriarca degli Sherton, Hifrig. Riguardo alle note:
1) Morvedh è l'antico nome cornico di Morvah, una cittadina della Cornovaglia celebre per un sito dell'età del bronzo Mên-an-Tol, che abbiamo già incontrato in That Love (il luogo in cui Fear e Alshain trovano antiche tessere con incise delle Rune e, più recentemente, la grotta in cui Lord Voldemort ha tenuto prigioniero Alshain). Anche tutti gli altri nomi sono tratti dalla tradizione cornica, Kernow per esempio è l'antico nome della Cornovaglia.
2) Dún Ceartáin è il nome gaelico di una località, Gleann an Ghad, nel nord ovest dell'Irlanda, anch'esso famosa per un cerchio di pietra.

A presto
.
Valeria



Scheda
Immagine
  
Leggi le 4 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Harry Potter / Vai alla pagina dell'autore: Terre_del_Nord