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Autore: _Renesmee Cullen_    19/04/2013    15 recensioni
210 a.C., Aurora, principessa Greca, dopo che la sua città è stata saccheggiata dai Romani, viene rapita da questi e scambiata per una ancella. Tra i romani c'è Fabrizio, un generale che mostra da subito un certo interesse per Aurora. La ragazza decide di non rivelare la sua vera identità a nessuno, ma dopo essere arrivata a Roma scopre che non è facile, soprattutto con gli occhi di Fabrizio, che sospetta qualcosa, sempre addosso. Nella Roma Repubblicana, dove la divisione tra classi sociali rappresenta una delle credenze più importanti di tutte, cosa potrebbe succedere se i due si innamorassero?
Dal primo capitolo:
Fabrizio alzò un sopracciglio, ma non disse nulla. Si spogliò invece dell’armatura e rimase a petto nudo. Nel fisico allenato risaltavano le braccia muscolose, le spalle larghe e i pettorali. Dopo poco venne verso di me, e si chinò alla mia altezza.
-Senti… facciamo così... io non prendo in giro te e tu non prendi in giro me, d’accordo? Mi sembra un patto vantaggioso per entrambi.- disse, a un soffio dalle mie labbra, nella sua lingua natale. Iniziai a sudare, ma mi obbligai a rispondere, in un perfetto latino.
-D’accordo.- conclusi.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Storico
Capitoli:
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Ex scintilla incendium oriri potest




Antefatto


Essendo Roma impegnata nella Seconda Guerra Punica contro Cartagine (218-202 a.C.), Filippo V re di Macedonia cercò di espandere i suoi possedimenti verso occidente.

Dopo che Filippo venne a sapere che Annibale aveva vinto sui Romani nella battaglia del Lago Trasimeno nel 217 a.C., prestò la sua attenzione ai possedimenti romani in Illiria. Fece così costruire una flotta per combattere i Romani via mare, ma questo non si rivelò efficace perchè Filippo, per mancanza di esperienza, perse alcune semplici battaglie in modo disonorevole.

Dopo aver avuto la notizia della disfatta subita dai Romani nella battaglia di Canne per mano di Annibale (216 a.C.), il re macedone pensò di inviare degli ambasciatori al campo del generale, per negoziare un'alleanza (215 a.C.). Gli inviati macedoni conclusero un trattato: Annibale e Filippo promettevano di difendersi a vicenda e di avere gli stessi alleati e nemici.

Sulla via del ritorno in Macedonia, gli inviati di Filippo furono catturati da un comandante della flotta romana, lungo la costa pugliese e vennero scoperti i termini del loro accordo.

L'alleanza del macedone con Cartagine aumentò l'apprenzione
 


di Roma, posta sotto il violento attacco di Annibale



e che, per mano sua, vedeva diminuire

 


il suo dominio nel sud dell’Italia.

Allo scopo di impedire al macedone di aiutare Cartagine, sia sul territorio italiano che altrove, Roma cominciò a cercare degli alleati in Grecia, che combattessero con essa stessa contro Filippo.

Roma riuscì a stipulare un trattato con la lega Etolica, eterna nemica della Macedonia. Gli Etoli avrebbero condotto le operazioni via terra contro Filippo, Roma quelle via mare; Roma avrebbe potuto ottenere degli schiavi e tutto il bottino di guerra, gli Etoli avrebbero avuto il controllo di tutti i territori conquistati.

Durante la primavera del 210 a.C. i Romani, con l’aiuto degli Etoli, riuscirono a conquistare la città di Anticyra, nella Focide; così Roma ridusse in schiavitù gli abitanti, mentre gli Etoli presero possesso della città.

E’ proprio qui, ad Anticyra, durante l’assedio dei Romani, che si svolge la nostra Storia.


CAPITOLO 1 -  Distruzione


Io, mia madre e le mie sorelle ci avviammo velocemente verso il tempio, che si trovava sull’Acropoli, il punto più alto della città. Entrammo a passo svelto e davanti alla statua della divinità chinammo la testa, ci inginocchiammo e iniziammo a pregare a bassa voce, ma fervidamente.

Nella città era il caos: i Romani erano quasi riusciti a penetrare nelle mura. Il freddo dell’inverno, anche se ormai giunto al termine, mi faceva battere i denti nella mia veste leggera. Quella mattina non avevo avuto nemmeno il tempo di vestirmi in modo adeguato: dopo essere stata svegliata all'improvviso dalla mia ancella, ero andata in fretta al tempio indossando soltanto una tunica.

La mia città, Anticyra, era posta sotto assedio da settimane ormai: i Romani erano implacabili, non si fermavano davanti a nulla. Il nostro esercito, insieme alle truppe che mio zio, Filippo V di Macedonia, aveva inviato come soccorso, non era riuscito a spaventare i Romani, che ogni giorno cercavano instancabilmente di distruggere le mura della città. Certo era che l’aiuto fornito dalla lega Etolica li aveva avvantaggiati molto nell’assedio della città. La regione etolica si trovava proprio sotto quella dove si trovava Anticyra: era incredibile come stessi compatrioti potessero odiarsi a tal punto da intraprendere una guerra civile. I greci non avevano mai sopportato i macedoni e li consideravano barbari. Sebbene io discendessi dai macedoni, ero nata in Grecia, parlavo il greco, avevo ricevuto un’istruzione degna di un’ateniese... tuttavia questo non interessava a nessun cittadino delle Poleis greche.

Nonostante la situazione difficile, inizialmente gli abitanti di Anticyra erano scettici: nessuno, da anni, era mai riuscito a forzare le mura della Polis (nda. Città). Fino a quella mattina almeno. Quando ero uscita dal palazzo, poco più che un quarto d’ora prima, avevo visto la gente correre per le strade urlando “I Romani stanno per entrare, ci uccideranno tutti”. Fino al giorno prima nessuno aveva avuto davvero paura, ma a palazzo si era respirata fin dal primo assalto un’aria pesante e preoccupata. Mia madre conosceva la forza dei Romani, me ne aveva parlato più volte. Io per prima avevo studiato la storia romana e sebbene la disfatta di Canne avesse indotto mio zio a stipulare un accordo con Annibale, il generale cartaginese, io non ero poi tanto sicura che avesse fatto bene. Roma non era così sprovveduta come i nobili avevano fatto credere alla gente.

Secoli di storia avevano dimostrato che, nonostante le dure sconfitte, Roma era sempre riuscita a riprendersi, sia grazie all’efficienza dell’esercito, sia grazie al senso di appartenenza dei cittadini e alla lungimiranza di chi governava.

Sarebbe successa la stessa cosa anche adesso. Ero più che convinta, come mia madre, che i Romani avrebbero presto sconfitto Annibale, come precedentemente era accaduto con i galli e con tutti gli altri popoli che avevano avuto il coraggio di scontrarsi con i Romani, che già si stavano riprendendo, ed insieme alla lega Etolica, cercavano di sconfiggere definitivamente la Macedonia e di conquistare quindi la Grecia. La guerra contro l’Ellade infuriava da cinque anni ormai, da quando i cartaginesi e i macedoni avevano stipulato un patto.

I Romani si trovavano sotto le mura della mia città, ci avevano tagliato i viveri, gli approvvigionamenti non arrivavano da quasi due settimane e se le cose fossero andate avanti così, i cittadini sarebbero morti di fame e con loro l’esercito. Roma sarebbe riuscita a decimarci e ad entrare in città senza sforzi e avrebbe fatto prigionieri me e il mio popolo; sempre che prima non fosse riuscita ad aprirsi una breccia nelle mura, come stava per accadere, a quanto sembrava. L'obiettivo dei romani, oltre ad impossessarsi del fondamentale porto della città e a sottomettere la città per l’importanza che questa aveva nei commerci con tutto il Mediterraneo, era la mia famiglia. Io, mia madre, mio fratello e le mie tre sorelle maggiori eravamo le uniche parenti del re. Mia madre infatti era la sorella di Filippo. I Romani volevano catturarci (o anche ucciderci, dipende dai punti di vista) per due motivi: primo, se Filippo fosse morto, non avrebbe avuto eredi, dato che non aveva nemmeno figli suoi; secondo, con noi in ostaggio avrebbero potuto ricattarlo, per fargli accettare la resa e non solo. Peccato che non sapessero che a mio zio non importava nulla di noi, ne ero sicura. Lui, uomo stolto, ignorante ed incapace, si sopravvalutava a tal punto da credere di essere immortale, ma di certo non era così. A mio zio la nostra famiglia interessava solo perchè aveva il controllo su una città importante. Era stato lui a far sposare mia madre con un aristocratico del luogo, alla morte di mio nonno, così da potersi assicurare la fedeltà della Polis.

Si, di certo distruggendo Anticyra i Romani sarebbero riusciti ad avere un grande vantaggio sulla Macedonia, ma sbagliavano in una cosa: mio zio non sarebbe mai sceso a compromessi per ottenere una nostra eventuale liberazione. Io, per di più, ero quella che gli stava più antipatica delle nipoti. Neanche a me lui piaceva. In me, nella mia intelligenza, nel mio fiuto per la politica e gli affari di stato, vedeva qualcuno che avrebbe potuto usurpargli il trono. Cosa alquanto impossibile dato che avevo un fratello maggiore cui spettava la successione e che ero una donna. Anche se, a dire la verità, mi sarebbe piaciuto vedere la sua faccia a luna piena chinata a terra al mio passaggio. Fantasie inutili ovviamente.

Da cinque giorni stavamo aspettando un aiuto da Tebe, ma i Tebani sembrava se la stessero prendendo comoda. La posizione di quella città era sempre stata ambigua durante il corso della storia e devo dire che i tebani, per quei pochi che avevo conosciuto nei miei quasi diciotto anni di vita, mi erano sembrati tutti molto antipatici ed indisponenti.

Purtroppo però non ci eravamo potuti rivolgere ad altre Poleis: erano tutte provate molto dalla guerra. Anche Anticyra, che era una città molto ricca e sfarzosa, stava attraversando un periodo di crisi economica.

Ad un tratto, mentre stavo declamando la preghiera più accorata che conoscessi verso la dea Artemide, protettrice delle vergini come me e dei raccolti, sentii delle urla e un fragore assordante, seguito subito dopo dal silenzio. Udii il cozzare delle armature e l’urlo di battaglia dei soldati: i Romani avevano invaso la città.

Mia madre alzò la testa e lentamente si rimise in piedi, seguita a ruota da me e dalle mie sorelle. Saremmo riuscite a scappare? Potevamo sempre rinchiuderci nel palazzo, nasconderci da qualche parte…

Alzai i lembi della veste ed iniziai a scendere gli scalini, ma mia madre mi trattene per il braccio.

-Cosa c’è, madre? Dobbiamo scappare, metterci in salvo da qualche…- ma non riuscii a continuare, perchè guardai il suo viso e compresi: non saremmo mai potute fuggire, ci eravamo messe in trappola da sole: chiunque ci avrebbe visto scendere dal tempio, dato che si trovava in un luogo sopraelevato. Non avevamo vie di scampo.

Voltai la testa e vidi le mura del palazzo reale, che si trovava ai piedi dell’Acropoli, che già stavano crollando sotto l’assalto delle catapulte romane: presto sarebbero venuti a cercarci nel tempio. Era cosa assai nota che le donne, nei momenti di crisi e guerra, andassero a pregare gli dei affinché proteggessero la città.

Mi girai lentamente verso mia madre e la vidi prendere una fialetta da una tasca della veste lunga e bianca. Così fecero le mie sorelle, con le lacrime agli occhi. Capii subito casa volessero fare

-Madre, madre cosa fate? Dobbiamo trovare un modo per metterci in salvo, sono sicura che se ci proviamo potremmo riuscirci…- ma mia madre mi zittì con un gesto secco.

-Aurora! Hai paura di morire? I Romani non ci riserveranno di certo un destino migliore di quello che ci si prospetta adesso.- disse con voce dura e risoluta. Era sempre stata così: una donna forte e coraggiosa, forse anche un po’ brusca.

-Madre non possiamo, troveremo il modo…- continuai, con le lacrime agli occhi. Non volevo uccidermi con una fialetta di veleno. Non ce l’avrei mai fatta. Per quanto coraggiosa fossi, non potevo morire così, avevo sempre sognato di avere una morte gloriosa. Io non ero un’eroina coraggiosa come le figure femminili di cui si parlava negli antichissimi poemi Omerici, ero solo una principessa. Una come tante ce ne erano state nella storia eppure, fin da quando ero piccola, avevo sognato che il mio nome fosse ricordato come quello di Ettore o Achille per le mie azioni. Non potevo rinunciare a questo sogno.

-Figlia mia… sei sempre stata ribelle, e mi hai sempre fatto penare, prima che potessi riuscire a farti ubbidire. Ma adesso fallo e basta, salvati anche tu. Non sarà doloroso, fidati.- sussurrò, accarezzandomi il viso con una mano.

Quasi mai, in tutta la mia vita, avevo accettato di fare qualcosa senza protestare o esprimere la mia opinione. Ero uno spirito libero, un’anima ribelle che si era dovuta adeguare alle regole di una società maschilista e spesso ingiusta.

Contemporaneamente mia madre e le mie sorelle, che facevano remissivamente ogni cosa che lei chiedesse loro e che la seguivano in ogni cosa, portarono la fialetta alla bocca.

Io non lo feci. Le mie sorelle non si erano mai ribellate al volere di mia madre, la più grande, Euridice, aveva sposato un uomo molto più anziano di lei senza protestare. Io non ero così.

-Salvati- furono le ultime parole di mia madre per me. Quando vidi che tutte si accasciarono a terra, gridai

-No!- ma ormai era troppo tardi. Cominciai a piangere a dirotto, sopra i cadaveri di coloro che erano state la mia famiglia: non potevo e non volevo credere che fosse successo davvero. Sentii un dolore forte al petto, come se il mio cuore si fosse spezzato e una morsa che mi stringeva la gola e mi impediva di gridare davvero come avrei voluto. Le lacrime invece sgorgavano dai miei occhi senza tregua e mi rigavano le guance che sentivo scottare a causa del pianto.

Distolsi lo sguardo dai cadaveri della mia famiglia e guardai i Romani che avanzavano verso l’Acropoli molto più velocemente di quanto potessi mai pensare.

Romani!

pensai tra me e me

vi odierò per tutta la vita. Non passerà giorno in cui io chieda agli dèi di sterminarvi tutti e di distruggere l’Impero che state creando. Vi odierò per sempre, come giurò mia madre prima di me e come giurò mio padre quando ancora era in vita, prima che morisse in guerra.

Quei pensieri, intrisi di odio, furono formulati dalla mia mente con una rabbia che mai avrei pensato di possedere.

Riluttante e non trovando altra via di uscita, tirai fuori dalla tunica quella fiala, che mia madre mia aveva consegnato fin da quando ero piccola, da usare nei momenti di estrema disperazione. La guardai a lungo e con mani tremanti le tolsi il tappo e me la portai alla bocca. Stavo per bere il contenuto, quando qualcuno me la strappò di mano, facendomi cadere a terra.

I Romani erano arrivati.

Alzai lo sguardo verso colui che mi aveva levato l’ultima speranza di salvezza, con il viso solcato dalla lacrime.

Dritto davanti a me c’era un uomo: alto e con il fisico asciutto ed allenato. Gli occhi neri sembravano due pozzi senza fine e i capelli erano dello stesso colore. Mi guardò dall’alto in basso con sguardo compassionevole e pensieroso. Non avevo bisogno della sua compassione. Mi tirai su da sola, rifiutando la mano che mi aveva porto. Mi guardai intorno: dentro il tempio c’erano almeno dieci soldati romani e non osavo immaginare quanti ce ne fossero fuori. Di certo non avevo vie di fuga. Uno dei dieci soldati si avvicinò a me e mi squadrò da capo a piedi, soffermandosi su ogni parte del mio corpo. La sua occhiata mi lasciò una sensazione viscida ed indefinita addosso, non mi piaceva affatto...

Mi strinsi infine le guance con due dita e ghignò:

-E’ stata davvero una fortuna arrivare qui in tempo… sarebbe stato davvero un peccato perdere un gioiellino come te, vero?- disse, strafottente. Mi liberai con uno strattone dalla sua presa.

-Mh, scontrosa la ragazzina… chi sei tu per osare ribellarti a me?- chiese. Guardai quegli occhi marroni piccoli ed infossati, e poi gli sputai addosso.

Non avevo armi per attaccare, non avevo nessun mezzo per spiegare il mio odio, dato che ancora non riuscivo a parlare, quindi quel gesto era l’unico che avevo potuto fare per far sapere a quei Romani che mi facevano schifo, che li odiavo e che se ne avessi avuta l’opportunità, li avrei uccisi senza distinzione. Per un attimo tutti rimasero immobili ma poi mi arrivò uno schiaffo in pieno viso.

-Ragazzina come ti permetti di fare questo affronto a un nobile romano?- urlò il ragazzo a cui avevo sputato dritto in un occhio.

Non risposi e mi massaggiai la guancia colpita con la mano. Il ragazzo si stava di nuovo avventando su di me quando l’altro, quello che mi aveva levato la fialetta di mano disse:

-Antonio, lascia perdere. Stiamo solo perdendo tempo. Non vedi che è solo una povera ancella spaventata? Non ottieni gloria picchiando una donna indifesa.- la sua voce era calda e leggermente arrochita. Solo adesso notavo sul suo viso i segni della battaglia appena combattuta. Stavo per ribattere: non ero un’ancella, ero la principessa Aurora di Anticyra, non potevo essere scambiata per una serva. Stavo per parlare, ma poi ci ripensai: se i Romani fossero venuti a sapere la verità, chissà quale destino mi avrebbero riservato. Sarei diventata la concubina di qualcuno, mi avrebbero uccisa, frustata…? No, non dovevo dire nulla. Era stata una fortuna che mi avessero scambiato per chi non ero. Mi guardai sul riflesso delle armature dei soldati: con i capelli neri lunghi fino al fondo schiena sciolti e pieni di nodi, gli occhi rossi per il pianto, la veste semplice e leggera, non potevo sembrare altro che un’ancella.

-Che cosa ne facciamo di lei?- chiese qualcuno dei soldati

-Io propongo di lasciarla di notte nell’accampamento con i soldati annoiati…- propose il tale Antonio.

-Fratello, non lasciarti accecare dall’ira, infondo questa ragazza non sapeva ciò che faceva: ha appena perso tutto. E’ meglio portarla con noi e tenerla sotto la nostra protezione, quando arriveremo a Roma da nostro padre potrebbe rivelarci delle informazione utili sui piani di Filippo il Macedone. Sicuramente era un’ancella fedele e di cui le padrone si fidavano, non hai visto come era disperata per la morte delle sue padrone?- disse di nuovo l’uomo con gli occhi neri. Antonio lo fulminò con un’occhiata

-Certo Fabrizio, come al solito ci hai illuminato con la tua saggezza ed hai impedito che io facessi qualcosa di stupido.- disse. Così l’uomo che mi aveva salvatacondannata si chiamava Fabrizio.

Nelle parole di Antonio c’era qualcosa di nascosto, lo percepivo, ma nessuno disse nulla e tutti si limitarono ad annuire dopo ciò che aveva detto Fabrizio, che probabilmente ricopriva una carica importante nell’esercito, visto che tutti lo ascoltavano e gli ubbidivano.

Fabrizio mi prese le mani, me le legò dietro la schiena con una corda e tenne l’altro capo. Decisi che non avrei parlato, neanche sotto tortura, decisi che non avrei fornito nessuna informazione riguardo il mio popolo. Non una parola sarebbe uscita dalle mie labbra. Non tanto per rispetto a quel poco di buono di mio zio, quanto per rispetto a mia madre e alle mie sorelle che erano andate nell'Ade. E mio fratello…? Chissà dove si trovava in questo momento. Forse era sano e salvo, o forse...

Quando scendemmo dall’Acropoli, capii che avrei fatto meglio ad uccidermi come aveva fatto mia madre. Vidi cadaveri e cadaveri lungo la strada, donne che urlavano stringendo neonati al petto, uomini che erano stati legati assieme per essere venduti come schiavi. Nessuno dei defunti avrebbe avuto una degna sepoltura. Cercai mio fratello con gli occhi, soprattutto tra i prigionieri. Non poteva essere morto… lui, che da quando ero piccola mi aveva sempre voluto bene, che pur essendo un uomo aveva accettato i miei consigli e che si confidava con me e soprattutto che mi rispettava nonostante le tradizioni e nonostante la società. Mio fratello, che era l’unica persona che mi avesse veramente capita in tutta la vita.

Voltai lo sguardo su un cadavere lungo la strada: lo riconobbi, era lui.

Trafitto da una lancia, il suo corpo era stato lasciato al bordo della via, come se fosse stato un servo qualunque

-No!- mi ritornò la voce di colpo ed urlai con quanto fiato avessi in gola, in latino. Pur essendo una greca, avevo studiato il latino come una seconda lingua e lo capivo e parlavo come se fossi nata a Roma. Cercai di strattonare i lacci che mi legavano i polsi ma non riuscii a romperli. Mi spinsi con tutto il corpo verso quello di mio fratello, ma Fabrizio mi trattenne.

-Cosa c’è?- chiese Fabrizio, in greco. Capii il mio errore: solo un nobile aveva diritto all’istruzione. Solo i nobili greci parlavano il latino, allo stesso modo solo gli aristocratici romani parlavano il greco. Era come se mi fossi smascherata da sola. Continuai a strattonare i lacci e iniziai a piangere, sperando che, nel trambusto generale, nessuno ci avesse fatto caso. Sentivo purtroppo che non era così.

-Vi prego, quel giovane laggiù è mio fratello- iniziai, questa volta in greco, certa che non l’avrebbero mai riconosciuto come principe dato che non aveva neanche l’elmo con il pennacchio macedone in testa –vi prego, fate almeno in modo che abbia una degna sepoltura, non lasciate che la sua anima vaghi senza meta per tutta l’eternità nel limbo tra questo mondo e l’aldilà, vi scongiuro, vi imploro…- continuai a gridare tra i singhiozzi. Fabrizio mi costrinse a continuare a camminare strattonando fino al mio limite massimo di sopportazione la corda.

-No! Vi supplico- continuai a piangere e ad urlare. In quel momento pensai che forse le mie sorelle e mia madre, essendo morte da regine, avrebbero avuto dei funerali degni. Lui no. Fabrizio esitò e fece per sciogliermi i polsi, ma Antonio, che non aveva distolto lo sguardo da me neanche per un attimo, replicò

-Fabrizio, cosa fai? Che questo sia di monito per tutti coloro che si oppongono ai Romani o che complottano contro il loro nome. Ragazzina, tuo fratello avrà soltanto ciò che si merita solo per il fatto che è stato ostile al nome romano.- disse.

-Spero di fare la sua stessa fine allora, piuttosto che rimanere in vita come vostra schiava!- gli urlai istericamente in faccia. Antonio sogghignò e non rispose. Piansi più forte, ancora e ancora man mano che avanzavamo all’interno della città e che vedevo cadaveri e donne che piangevano. Non mi interessava se i Romani avessero visto il mio dolore: quel pianto non era da vili, ma era lecito e giusto.

Verso l’ora di pranzo, arrivammo finalmente all’accampamento dei Romani. Essendo l'unica “ancella” catturata che aveva un “così stretto rapporto con i reali”, Fabrizio non si fidò a lasciarmi da sola tra i soldati e sotto lo sguardo contrariato di Antonio mi portò con se nella sua tenda personale. Quanto pensava che fossero importanti le informazioni di cui una povera ancella era a conoscenza? Mi fece mettere seduta a terra mentre continuavo a piangere, mi slegò i polsi indolenziti e poi fece per andarsene. Non potevo credere che mi avrebbe lasciato da sola: già stavo macchinando un piano per provare a fuggire quando, come se mi avesse letto nel pensiero, disse

-Non provare a scappare… non ti conviene… aggraveresti soltanto la tua situazione. I fuggitivi non sono visti di buon occhio a Roma.-

E in quel momento seppi di non aver via di scampo: non sarei mai riuscita ad andarmene da quell’accampamento. Io, sciocca ragazzina, non sarei mai riuscita a scappare sotto il naso di un soldato romano. Altrimenti, non avrebbero vinto tutte quelle guerre nel corso dei secoli, e non sarebbero stati conosciuti in tutta l’Asia minore con quella fama di astuzia e forza bellica.

 

Dopo aver aspettato per circa due ore seduta immobile sulla pietra fredda e dopo aver finito di piangere a dirotto, sentii una strana calma dentro. Non riuscivo più a versare lacrime e mi sentivo terribilmente stanca. Durante quella mattinata erano successe troppe cose. Dopo poco Fabrizio tornò nella tenda con il mio pranzo. Mi mise davanti un piatto con del pane nero e delle verdure. Mangiai avidamente, affamata, dato che non avevo fatto nemmeno il primo pasto della giornata. Fabrizio mi guardò in silenzio, poi disse, in latino

-Dobbiamo partire domani, per arrivare il più presto possibile a Roma. Una flotta ci sta aspettando al porto in questo momento. Se il vento sarà a nostro favore, entro pochi giorni costeggeremo l’Italia-

Io continuai a guardarlo, senza far cenno di aver capito. Dovevo rimediare all’errore fatto in precedenza.

Fabrizio alzò un sopracciglio, ma non disse nulla. Si spogliò invece dell’armatura e rimase a petto nudo. Nel fisico allenato risaltavano le braccia muscolose, le spalle larghe e i pettorali. Dopo poco venne verso di me, e si chinò alla mia altezza.

-Senti… facciamo così... io non prendo in giro te e tu non prendi in giro me, d’accordo? Mi sembra un patto vantaggioso per entrambi.- disse, a un soffio dalle mie labbra, nella sua lingua natale. Iniziai a sudare, ma mi obbligai a rispondere, in un perfetto latino.

-D’accordo.- conclusi. Fabrizio si alzò.

-Come mai se sei un’ancella conosci così bene la lingua di Roma?- chiese, andando dritto al punto. Sapevo che se n’era accorto. Oltre che gran guerriero quale sembrava, era anche un astuto politico. Cercai di inventare qualcosa

-Ho soltanto avuto la fortuna di essere al servizio di una padrona colta che mi ha insegnato molte cose.- risposi, con tono ossequioso. Mi dava fastidio il fatto che dovessi rivolgermi a lui con tutto quel riguardo… da quando ero piccola ero stata abituata a ricevere gli ossequi da tutte le persone che erano di rango inferiore al mio... ma dovevo fingere di essere una schiava giusto?

-Come ti chiami?- mi chiese di nuovo Fabrizio, prendendo una bacinella d’acqua da sotto il letto. Esitai, ma poi risposi la verità: non poteva sapere il nome di una principessa.

-Aurora.- risposi. –E… Tu?- controbattei, cercando di non essere inopportuna, rivolgendomi a lui con il più grande ossequio possibile. Fabrizio sorrise ma non rispose.

-Non ti hanno insegnato a non porre domande, quando non sei in una situazione in cui puoi farle?- chiese. Si me lo avevano insegnato, ma non avevo mai dato molto retta a tutte le cose che avevano cercato di inculcarmi in testa. In quel momento me ne pentii.

-Quanti anni hai?- mi chiese ancora. Risposi con più ossequio di prima: era davvero difficile fingere di essere un’ancella

-Tra un mese 18- ed era vero. Non feci domande.

-Sei giovane… non ti avranno ancora insegnato a portare il giusto rispetto ai superiori.- concluse. Strinsi le labbra. Lui non era un mio superiore, semmai lo ero io. Tacqui ed abbassai lo sguardo, come faceva di solito la mia ancella quando la rimproveravo. Cominciai a ricordare la sua gestualità e mi riproposi di prendere esempio da lei.

Fabrizio di sedette sul letto da campo e con un pezzo di stoffa iniziò a pulirsi le braccia e il torace dalle ferite e a rinfrescarsi la pelle scottata dalle ustioni. Io rimasi seduta per terra a guardarlo. Se fossi andata avanti di questo passo, le mie bugie non sarebbero state credibili. Ad un tratto Fabrizio mi guardò

-Bhe? Cosa fai lì impalata?- mi chiese. Io non capii, non ero mica la sua serva. Tuttavia non osai dire una parola dato che non sapevo cosa dire. Avevo paura che qualsiasi cosa avrebbe potuto compromettere la mia situazione. Per fortuna, Fabrizio parlò prima che io potessi dire qualcosa di stupido.

-Il minimo che tu possa fare dopo tutti i privilegi che ti sono stati riservati è quello di aiutarmi a curare le ferite sulla schiena. Da solo non ci arrivo.- disse. Io mi alzai in piedi e, titubante, presi in mano la pezzuola e la bagnai nell’acqua, poi glie la passai sulla schiena delicatamente, come faceva sempre la mia ancella quando mi sbucciavo le ginocchia da piccola.

-Io sono il generale Quinto Fabrizio Galba e sono il figlio del senatore Publio Cornelio Galba.- disse, per rispondere alla mia domanda precedente. Quindi Fabrizio era figlio di un senatore... ecco perchè era un generale. Era un pezzo grosso, allora. Persa nei miei pensieri, non mi accorsi di aver strofinato troppo forte una sua ferita. Sentii un mugolio di dolore da parte sua

-Scusa…- dissi, imbarazzata. Non ero mai stata in compagnia di un uomo da sola. Era così che si sentivano le ancelle quando dovevano fare il bagno ai loro padroni, accudirli o... altro? Ma no, loro non si sarebbero imbarazzate… era il loro mestiere.

-Posso farti una domanda?- chiesi. Di solito le mie ancelle, prima di parlare, chiedevano sempre la parola. Sperai di non aver sbagliato formula anche questa volta.

-Si, ti è concesso.- disse piano. Trattenni uno sbuffo: non mi piaceva quella situazione, ma non potevo fare altro. Tutto questo non sarebbe successo se non fossi stata così codarda. Quanto avrei voluto tornare indietro nel tempo. Non avrei nemmeno sentito dolore… e adesso? Come avrei fatto? Scossi la testa per scacciare quei pensieri e poi formulai la mia domanda:

-Come ti sei fatto queste ferite?- chiesi. Morivo dalla curiosità di saperlo. Avevo sentito più volte le ancelle chiedere queste cose, quindi non avevo pensato che potesse essere qualcosa di sospetto. Fortunatamente avevo ragione

-In una delle tante battaglie che ho combattuto qui ad Anticyra…- disse. Strizzai la pezzuola e glie la ripassai ancora una volta sulla schiena

-E da quanto tempo combatti?- chiesi ancora. Fabrizio rispose di nuovo

-Da quando avevo diciassette anni. Ora ne ho ventiquattro, quindi da sette anni… ma vengo addestrato alla lotta da quasi tutta la vita.- concluse. Restammo in silenzio, fino a quando non andai a gettare fuori dalla tenda l’acqua, ormai inutilizzabile.

-Prendi delle foglie che stanno nel baule che si trova sotto il letto, e mettimele sulle ferite.- ordinò. Io eseguii quanto mi era stato detto, ma al momento di adoperare le erbe, non sapevo cosa farci. Dovevo masticarle? Di certo non potevo mettergliele a crudo sulla pelle. Feci per portarmele alla bocca, quando Fabrizio si girò di scatto e mi si gettò addosso, finimmo a terra mentre mi bloccava le braccia sul pavimento con le sue mani, mentre io ancora impugnavo le erbe in mano.

-Sei impazzita? Non lascerò che ti uccida!- disse, irato. Non riuscii a comprendere cosa intendesse dire

-C-cosa…?- balbettai, incredula e imbarazzata. Che situazione strana e scomoda

-Quelle foglie sono velenose se le mangi, ma sono una buona cura per le ferite, soprattutto per le ustioni. Non venirmi a dire che non lo sapevi!- esclamò, questa volta a voce più alta. Lo guardai e mi si velarono gli occhi di pianto. Ne avevo abbastanza per quel giorno di gente ce mi urlava contro e mi picchiava.

-Io non lo sapevo. Non ho alcuna intensione di uccidermi!.- dissi, insolente, non sapendo fino a che punto questo fosse vero.

-Non mi stupirei se lo facessi.- disse, brusco. Si allontanò da me e io mi rimisi in piedi. Ci fronteggiammo per qualche secondo, poi bagnò le erbe con dell’altra acqua presa da una borraccia e me le porse. In silenzio glie le applicai sulla schiena.

Appena finii, Fabrizio uscì senza dire una parola.

Mi sedetti di nuovo a terra nello stesso punto di prima, a riflettere. Mi avrebbero torturata, una volta giunta a Roma? Dovevo farla finita adesso, come pensava che avrei fatto Fabrizio? Ma come?

In quel momento capii che non avrei mai più avuto il coraggio di porre fine alla mia vita. Per questo avevo esitato nel tempio: non avevo il coraggio di uccidermi. Pensai a ciò che mi aspettava in Italia: l’avrei affrontato e forse sarei riuscita a costruirmi una nuova vita. In fondo, nessuno avrebbe saputo chi fossi in realtà. Forse mi avrebbero lasciata andare, una volta saputo che io non ero a conoscenza di nessun complotto contro i Romani. Relativamente.

Mi ricordai in quell’istante che quella mattina avevo sbraitato contro quell’Antonio, e che questo mi avrebbe portato sicuramente a dei guai. Avevo un brutto presentimento per la vita che mi avrebbe atteso a Roma, ma dato che non avevo alcuna possibilità di scappare, perchè mi avrebbero trovato e perchè l’accampamento era strettamente vigilato, e dato che non avevo voluto e non volevo nemmeno uccidermi, dovevo pagare per la mia codardia.

Portai le ginocchia al petto e mi addormentai su di esse con il pensiero di Fabrizio che mia aveva “salvata”(o condannata) per la seconda volta. Il ricordo del calore del suo corpo sul mio, mi regalò un sonno tranquillo.


 



Note dell'autrice:

Buongiorno a tutti, dopo una lunghissima assenza da EFP ho deciso di iniziare a scrivere una nuova storia. Avevo promesso che avrei postato questa nuova storia molto prima ma il mio computer si è rotto, fino a un mese fa e ho avuto numerosi impegni con la scuola ecc...
Spero che questa storia vi piaccia e che riceva tante recenzioni quanto l'altra. Come sempre, accetto tutto consigli, critiche, mi fa molto piacere sapere i pareri dei lettorilettrici e risponderò ad ogni recenzione. 
L'ambientazione di questa storia è complessa come anche il suo intreccio quindi se avete bisogno di chiarimenti non esitate a chiedere! Spesso metterò degli asterischi per delle cose che non sono molto chiare e troverete la spiegazione a fine pagina.
L'aggiornamento DOVREBBE essere periodico, dovrei aggiornare una volta ogni settimana ogni dieci giorni, comunque non assicuro niente.

Aspetto le vostre recenzioni, un saluto,

_Renesmee Cullen_

p.s. questo è il link della mia prima fan fiction, sempre una romantica, spero ci farete un salto 


http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=690419&i=1

 

 

  
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