Polvere
di diamanti
Mi è stato
detto di prendere a modello la maestosità del ghiaccio.
Tra le coltellate di correnti tempestose della
Siberia, mi è stata
additata la superba fermezza dei monti di Verchojansk, della lastra indistruttibile che è il Mar Glaciale
Artico.
Statuario, silenzioso guerriero che non attacca mai per primo, egli riposa
sicuro del proprio essere invincibile. Il suo freddo non aggredisce l’uomo. Il
suo freddo non è la terribile collera che il dio scaglia sui tracotanti che gli
si avvicinano. Egli si accorge a malapena della sofferenza che il suo gelo fa
penetrare nelle ossa. Per lui, quel freddo è vita. Propria.
A differenza dell’uomo, tuttavia, le montagne ghiacciate del Nord vantano una natura
divina.
Sono dèi, nelle loro nervature è cristallizzata l’atavica Essenza che le ha costruite
così come sono.
L’uomo, spesso, è tutto tranne quello per cui è nato.
L’uomo ha una pagina bianca che attende di essere scritta.
E questo è tutto meno che libero
arbitrio.
Poiché t’impone una scelta.
La scelta consiste nel prendere, senza basi alcune, una penna e
dell’inchiostro, e scrivere in bella grafia, scandendo comprensibili costrutti
che esprimano un contenuto pertinente dalle idee chiare, in forma gradevole, su un tema
a sua volta a scelta, che non sia di argomento banale e che si mantenga sempre
sulla stessa linea. Se non ci riesci, muori. O perisci, o vieni lasciato indietro, o sei emarginato, o soffri le più
mute ed incomprensibili privazioni – ogni sbavatura, ogni errore maldestramente
sfuggito s’imprime a fuoco nella carta ad opera tua e di nessun altro,
così come il brillante accostamento di parole o il virtuosismo lirico.
Questo è il nostro potenziale e questo l’aperto nostro destino. Ineluttabile, a conti fatti, quanto quello
fisso delle rocce e delle acque, e nonostante questo il più sofferto e
tormentato, privo di veri punti di riferimento da quando l’uomo ha smesso di
credere negli dèi; poiché l’uomo ha deciso di slegarsi dal destino di ogni creatura,
facendosi artefice di sé stesso, ma non possiede la forza di un dio, che nel
braccio destro ha la forza della folgore.
L’immensa
forza immobile del ghiaccio siberiano mi è stato mostrato ad esempio.
Io ne ho fatto di più.
Io ne ho fatto il mio credo.
Io ne ho fatto il dio verso il quale tentare la scalata, la superbia di un
titano.
La metafora chiave su quella pagina bianca ancora in fase di riempimento ha
finito per permeare ogni parola, ogni goccia d’inchiostro se fosse stato possibile avrebbe
contenuto almeno un cristallo ghiacciato, splendido, rilucente e freddissimo.
Se ne avessi avuto la possibilità, avrei tracciato la storia della mia vita in
minuscoli granelli splendenti. Per sempre bellissimi e
invincibili, come polvere di
diamante.
“Perché sei stato via tutto questo tempo?”
Perché mi sono annoiato, diceva la voce di Milo, perché mi mancavi,
diceva così incurante del sicurissimo sorriso spavaldo, pre-impostato, naturale, mi sei mancato da morire, Camus.
Amare Milo era amare il fuoco e la vita, era amare i verdi prati della Grecia e
l’azzurro incredibile dei suoi cieli e delle sue acque. Amare Milo era della
netta sofferenza del ghiaccio spezzato e sciolto fra due mani, era un continuo
rialzarsi dopo essere caduto, era rimanere al di fuori di tutto un mondo nel
quale non riuscivi più a credere, ti rifiutavi di credere, perché dove c’eri tu c’era solo sole, verde, il
cielo e Milo.
E uscirne era aspro e dilaniante, e Milo non ne usciva mai.
Impulsivo ed irrequieto, Milo si arrabbiava ed ingenuamente disperava al
sentirsi allontanato da qualcosa, quando al massimo eri tu ad essere attirato
nella sua orbita, e a forzarne l’uscita; poiché Milo era centro ed origine del suo
proprio mondo, e lo
alimentava con la sola presenza di sé stesso. Milo era uno di quelli che la
penna l’aveva intinta con tanta decisione nell’inchiostro che quella aveva tirato senza
una sbavatura in linea perfetta tutte le lettere, una in fila all’altra, finché
il nero non era esaurito, ma non c’era da preoccuparsene, perché bastava
intingerla nuovamente. Milo era uno di quelli che il tema lo improvvisava, e il risultato era di una spontaneità tale da
rendergli merito di una coerenza non paragonabile a quella di coloro che si
sforzano di costruirla per facilitare la comprensione al testo.
La punta della mia penna che scriveva sicura ha traballato con un fremito nel
momento in cui ha incontrato gli occhi azzurri di Milo.
Incondivisibile, Milo.
Milo era sempre lì, nascosto fra le pieghe della carta, con quei fiduciosi
occhi che mi appuntavano in petto la dolorosa consapevolezza che sarebbe morto, per me.
Volevo il potere di raggelare con lo
sguardo.
La sensazione fisica che le mie iridi possedessero il potere della montagna.
Nella mia scalata pensavo di essere superiore a coloro che mi circondavano; io ero un santo, e i santi
sono più vicini a Dio degli uomini. Affilavo le unghie sulla lastra ghiacciata,
invece di usare penna e calamaio, perché le mie lettere fossero eterne come le
nevi dell’emisfero dove l’inverno è altrettanto eterno.
Tutti noi cavalieri d’oro avevamo il germe della divinità dentro noi, perché gli dèi ci avevano scelto fra tanti uomini.
Io non volevo sostituire il mio dio; io volevo esserlo. Essere creato a sua immagine e somiglianza
non mi bastava, le mie braccia e le mie mani volevano indurirsi e cristallizzarsi in quella
forma perfetta che non si sarebbe sciolta al primo soffio di vento di maggio
tra il grano. Ma ero un santo, non ero un dio.
Così, invece di fabbricare un involucro che mi proteggesse, in polvere di diamanti scrissi la mia vita indurendone il nucleo. Non era
come credevano gli altri. La mia non era una corazza. La parte più intima e
profonda di me stesso era il ghiaccio perenne. Piuttosto lo strato esterno,
fragile, incrinabile, era di uomo, perché la mia natura non poteva essere altra. Un santo non ha
l’onnipotenza del dio e lo spirito volubile dell’uomo. Un santo è forgiato
esattamente come un dio, ma le sue spoglie sono mortali.
Milo era
stato l’unico, in tanti anni, ad averlo capito.
Era la mia pelle che Milo toccava e scaldava, Milo era lì per avvolgermi perché
solo così poteva penetrarmi dentro fino a che gli strati sempre più rigidi di
me stesso non riducevano i suoi flussi a minuscoli capillari che speravano di
raggiungermi. E ci riuscivano. Spesso diceva, scherzando, che avrebbe infranto la mia
corazza di ghiaccio di cui andavo tanto orgoglioso, e mi prendeva in giro mettendomi al
livello di un ghiacciolo da sbrinare. Era il suo modo di fare. Tuttavia,
l’ombra nei suoi occhi mi diceva molto di più dell’innocente battuta fine a sé stessa, parlava di mondi e di acque e di sole della
Grecia che non dovevano infrangere alcuna barriera insormontabile, ma solo
farsi strada a passi costanti a partire da là dove il vento cominciava a
soffiare, la steppa inospitale che preludeva alle sterminate distese bianche, e
poi sempre dritto, sempre più a fatica, sempre più insinuante serpeggiare fino
al trasparente centro nevralgico e toccare lì il cuore senza pulsioni dello
zero assoluto. Milo lo sapeva fare senza alcuno sforzo.
E così il braccio del santo si alzava per scrivere un’altra vita, la vita di
Hyoga, con
polvere di diamante.
Da un certo momento in poi ho voluto sollevarlo dall’incarico di scrivere da
solo, come il genitore troppo premuroso che ciecamente desidera solo
alleggerire di un onere troppo gravoso il figlio prediletto. Scioccamente,
desiderai risparmiargli quell’angoscia che mi aveva segretamente preso davanti
al foglio bianco e una vita da decidere. Scioccamente, ciecamente, preso dal
mio ruolo di maestro, ho voluto metterlo da parte, decidere il punto d’arresto,
oltre il quale avrebbe rischiato di rovinare una composizione tanto sentita e
ben scritta, e prendere la sua penna in mano ed usare per lui l’inchiostro per me
più bello che potesse esistere. Desiderai tracciare le ultime parole della sua esistenza in
polvere di diamante.
Ma avevo
commesso un atroce errore di valutazione.
Hyoga era diverso
da me.
Hyoga era
migliore.
E dolcemente, ingenuamente, fece per
me quello che avrei voluto fare io per lui, ed io gliene fui grato, e solo alla
fine sentii come se tutto si stesse compiendo, come se l’insieme di periodi
messi laboriosamente assieme avesse trovato la sua giusta chiusa.
Milo l’aveva impreziosito, Hyoga
l’aveva completato.
Pensai a Milo e al sole e alle acque della Grecia, mentre il freddo
m’investiva, senza aggredirmi, silenzioso guerriero che non attacca mai per
primo, una morte inevitabile, assurdamente naturale, avvolgente, pura catarsi.
Pensai a Milo mentre Hyoga realizzava per me la più bella opera che potessi desiderare.
Dolcemente, scrisse la mia vita in
polvere di diamanti.
When
the moon is in the Seventh House
And Jupiter aligns with Mars
Then peace will guide the planets
And love will steer the stars
This is the dawning of the age of Aquariuuuuuus
The age of Aquariuuuuuuuuuus ~
*spegne stereo*
Yo, qui è Camus
dell’Acquario che parla. é_è/
Dato che questa cosa è stata revisionata proprio in
concomitanza dell’irruzione del mio Milo all’Undicesima Casa, con tutti i
deliziosi fastidi che ne conseguono e di cui solo lui è capace, mi sbrigo a
metterla su prima di torcergli le orecchie in modo irreparabile e sfigurarlo
per sempre – non vuole stare lontano dallo schermo, e io non carico MAI una
pagina che non ho ricontrollato almeno cinque volte. Eccola qui. Spero vi risulti gradita.
ALLORA, IO UN POV DI CAMUS-cioè, IO E UN POV DI
CAMUS, cioè, UN POV DI CAMUS! Che FATICA!
[mente e lo sa bene] Giuro su Dio
che non lo farò mai più! [/mente e lo sa bene]
Insomma, fate un po’ voi. Io personalmente sono molto soddisfatta, ma questa è
la mia primissima fanfic su Saint Seiya. Posso
comprendere che le mie scelte e sentenze possano apparire particolarmente
stravaganti, perché forse mi sono lanciata un po’ troppo, perché ho scavato
dentro Camus completamente a modo mio, e con ciò vi
prego di essere clementi e captare tutto il mio amore,
che ad ondate si diffonde su codesti deliziosi oggetti di fangirling!
^O^ <3
E poi per scrivere fissavo queste stupende foto dei monti della
Siberia Orientale.
E mi sentivo un po’ maniaca anch’io con quei deliri di onnipotenza in limine.
O maniaca in generale.
O ossessivo-compulsiva, o
semplicemente pericolosa per me stessa e per gli altri.
E no, comunque.
Io sono freddolosissima. Col cazzo, alpinismo. Con buona pace di Camus dell’Acquario.
Ovviamente questa fanfic è dedicata al
mio Milo in primis (LeFleurDuMal
– le sue fanfic su Saint Seiya sono semplicemente un
obbligo per i fans. Neve perché è poesia. Tutta colpa di Shiryu
il dragone perché LOLWTFzOMG *rotola ovunque* quello sfigato con
la biscia lampeggiante sulla schiena! No, davvero, non potete capire.
Poi la dedico a Kijomi
alias il nostro impeccabile Aphrodite, perché è stata
la mia compagna di iniziazione e solo noi due possiamo
capire cosa vuol dire essere INIZIATE a quella maniera. *grabba viscidamente*
Per Leryu ci sono solo dei ringraziamenti
spietati, perché lei è il Primo Motore di questa splendida follia, e perché io
attendo il suo Giudizio come il Tasso ansiosamente spasimava
per il beneplacito della Santa Inquisizione. ç_ç
*caccia folletti *C°;;;* E
le sue fanfic sono più o meno la Bibbia. Specie se siete fan
di Death Mask.
Leggetele.
Alla prossima, gente. Che ci sarà, alla facciaccia vostra.
*riaccende stereo*
Aquariuuuuuuuuuus
~
Aquariiiiiuuuuuuuuuus~