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Autore: iloveromanzirosa    01/05/2013    8 recensioni
“Lasciami andare!” Esclamo io con un filo di coraggio in più.
Mi molla i capelli, ma continua a tenermi stretti i polsi, non ho la forza nemmeno di allentarla, quella stretta, figurarsi scioglierla.
Mi giro per guardare l’uomo in faccia, ed è un errore.
Avrà si e no due, forse tre anni in più di me. E’ altissimo, sul metro e novanta, pallido, meno di me, ha gli zigomi pronunciati e la mascella squadrata. Dei tratti affilati, e la sua espressione gelida non fa che peggiorare le cose.
Ma questo lo noto in seguito.
La prima cosa che vedo sono l’ebano e la giada.
Dei suoi capelli e dei suoi occhi.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Sovrannaturale
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Pov. Sir
 
Posso farcela.
Mi basterà muovermi piano, e nessuno si accorgerà della mia presenza.
Guardo l’edificio decadente, le cui finestre frantumate sono rattoppate con del nastro isolante o chiuse da pezzi di cartone.
E’ da un po’ che giro qui intorno, e ho visto quanto basta per capire che là dentro vi abita un gruppo di Ribelli.
Mi faccio coraggio e mi avvicino cautamente a una finestra. È la prima volta che lo faccio ma non ho altra scelta: l’alternativa è morire di fame. È da almeno tre giorni che non tocco cibo, e l’ultima volta ho rosicchiato scioccamente delle radici che sembravano poco commestibili, nonché dure e croccanti, e bevuto dell’acqua che scorreva in collina nei pressi di una montagna. È un miracolo che non mi sono ancora presa qualche virus intestinale.
Non sarebbe elegante scorrazzare in giro a cercar foglie per scaricare i propri bisogni.
Sposto piano il cartone che riveste la finestra e mi aggiusto la felpa.
Fa freddo qui.
Mi arrampico goffamente aggrappandomi al cornicione malmesso, e facendomi forza con le braccia mi accovaccio pronta per entrare. L’angolo dei miei pantaloni, già bucato in precedenza e incrostato di fango e acqua, si impiglia ad un chiodo e si allarga di un po’.
Fantastico.
Impreco con una smorfia, rendendomi conto troppo tardi di quanto sono stupida a parlare da sola, ma ormai è da così tanto che non parlo con un altro pacifico essere umano che sono arrivata a considerare la cosa triste ma abituale.
Cerco di fare meno rumore possibile, ma le assi del pavimento scricchiolano e non so quanto tempo passerà prima che si accorgano di me.
La stanza non è grande, anzi, somiglia di più a un ripostiglio, ma ho scelto bene: è piena di cibo in scatola e barrette energetiche.
Le pareti sono di un verde acqua più scolorito della tonalità che di sicuro era stata stesa in precedenza, chissà a chi apparteneva questo posto prima dell’avvento dello scombinamento delle stagioni, dell’aria, dell’acqua, delle creature che ci vivono e della vegetazione. È una cosa triste. Ma ognuno di noi umani è obbligato a prendere consapevolezza dei fatti e dell’imminente svolgimento degli eventi.
Mi butto subito su delle bottigliette d’acqua che ho appena notato e, mentre mi disseto, mi guardo riflessa su di un vetro appoggiato alla parete: Stento a riconoscere gli occhi che mi fissano. Neri. Come petrolio. Sono assatanati, lucidi, confusi... non sono più i miei. Quel colore è troppo scuro, le sopracciglia una volta morbide sono tese sulla fronte in un cipiglio concentrato e perenne. I miei capelli sono arruffati lunghi e rossi, dal taglio un po’ squadrato, sicuramente dovuto al mio tentativo di qualche mese fa di darmi una decenza.
E sono riuscita solo a fare peggio: sembro una specie di leone.
Il viso pallidissimo e punteggiato di lentiggini è smunto, sono così dimagrita negli ultimi tempi che mi ci voleva proprio una di quelle barrette. Le labbra pallide e screpolate sono spaccate in alcuni punti, là dove le ho morse a sangue.
La felpa che indosso è troppo grande per me di almeno due taglie, e i pantaloni sono gli stessi da come minimo due settimane.
Mi faccio pena da sola.
Mi riempio le tasche di scatolette, poi mi sfilo dalle spalle lo zainetto e ci metto dentro più bottiglie d’acqua che posso, le mani tremanti ma spicce lavorano come automi dalle unghie spezzate, e infine ci sistemo anche le barrette energetiche.
So che questa scorta mi durerà almeno una settimana, e mi fa felice sapere che forse riuscirò a recuperare uno o due dei miei chili persi, anche perché non è bello essere deboli.
Sto per arrampicarmi di nuovo sul cornicione della finestra pronta per saltare via che mi sento afferrare da dietro. La testa mi fa male nel punto in cui qualcuno sta stringendo i miei capelli, e mi trattengo appena dall’urlare.
Invece gemo piano, tentando di sciogliere la solida stretta che mi tiene ferma la testa.
Sono due pugni grandi e mascolini. Forti.
“E tu chi cazzo sei?” è una voce maschile, fredda e distante.
Non rispondo, invece cerco di graffiargli le dita e pestargli i piedi, ma lui mi afferra le braccia con una sola mano, abbandonando un po’ la stretta sulla testa con l’altra. Troppo tardi realizzo le sue intenzioni quando mi ha già tolto lo zaino dalle spalle. Vorrei urlare di frustrazione e disperazione, ma so che sarebbe inutile, visto che attirerei solo l’attenzione dei suoi compagni.
Non so cosa vuole fare, ma una cosa è certa: non me la farà passare liscia.
“Ti prego...” lo imploro allo stremo. Ma perché mi sono lasciata sfuggire quelle maledette parole? Le lacrime premono negli occhi, e non so come fermarle. Sbatto gli occhi freneticamente e riesco ad asciugarli.
“Chi sei?” ribadisce lui in tono più morbido, ma comunque intimidatorio.
“Lasciami andare!” Esclamo io con un filo di coraggio in più.
Mi molla i capelli, ma continua a tenermi stretti i polsi, non ho la forza nemmeno di allentarla, quella stretta, figurarsi scioglierla.
Mi giro per guardare l’uomo in faccia, ed è un errore.
Avrà si e no due, forse tre anni in più di me. E’ altissimo, sul metro e novanta, pallido, meno di me, ha gli zigomi pronunciati e la mascella squadrata. Dei tratti affilati, e la sua espressione gelida non fa che peggiorare le cose.
Ma questo lo noto in seguito.
La prima cosa che vedo sono l’ebano e la giada.
Dei suoi capelli e dei suoi occhi.
La sola cosa che ci accomuna è il cipiglio sopra gli occhi. Ma il suo non sa di preoccupazione, quanto piuttosto di solitudine e angoscia.
E’ così bello che non ha importanza se mi sta per uccidere.
Spalanco la bocca e ne esce qualche suono soffocato, mentre lui mi stringe ancora più forte i polsi.
Fa avvicinare i nostri volti, mi guarda fisso negli occhi.
“Perché...?” ma non fa a tempo a finire che una voce femminile lo richiama dal piano superiore.
“Michele! Ti sei perso?” Lui distoglie lo sguardo dal mio, liberandomi da quella prigione verde, così oppressiva ma allo stesso tempo piacevole.
“Arrivo!” urla di rimando, e io sobbalzo, perché in quei pochi secondi avevamo parlato in sussurri fatti di suppliche e minacce, e il grido improvviso mi coglie di sorpresa. E inoltre sono convinta che mi voglia portare da lei.
Invece mi spinge verso la spaccatura sul muro attraverso cui sono appena entrata.
“Và via!” sibila. Non me lo faccio ripetere due volte e quasi mi butto fuori dalla finestra.
Corro verso il bosco sbucciandomi le ginocchia sull’asfalto quando inciampo, ma mi rialzo subito.
Beh, come primo saccheggio non è andato malissimo...
 
Pov. Michele
 
Non riesco a credere di averla lasciata andare.
In mano ho ancora il suo zainetto, così lo apro. Dentro ci sono barrette energetiche e bottiglie d’acqua, nonché alcuni effetti personali e una collana d’oro. La devo nascondere per riuscire a trovare dei profitti e tenermeli per me.
Ho notato le sue tasche gonfie di scatolette ancora sigillate, ma ho fatto finta di non accorgermene.
Spero non torni qui, o la prossima volta potrebbe trovarsi Andrea davanti. E lui non sarebbe stato clemente come me, è sempre piuttosto violento, e non fa mai distinzione tra i due sessi. Se non per altre ovvie ragioni.
I suoi occhi disperati mi hanno scosso. Il suo viso magro è così pallido e innocente, in contrasto con lo sguardo maturo dei suoi occhi di petrolio.
Sembra una piccola gatta selvatica con quei capelli, un’affamata piccola gatta selvatica.
Esco dalla stanza prendendo cinque birre dal contenitore nascosto in uno scomparto.
Ne apro una mentre salgo le scale e la sorseggio mentre varco la porta della stanza.
Sento sulle mani ancora i residui di gelo che mi hanno lasciato i polsi della ragazza, talmente magri da sembrare fragili come rametti. Ma rammento ancora la sua pelle morbida contro la mia ruvida, e sento ancora sulle mani i suoi capelli di quell’incredibile colore, trascurati, ma allo stesso tempo bellissimi.
Entro nel salotto malmesso dell’edificio e subito Rossella parte in quarta con le domande.
“Cazzo se ce ne hai messo di tempo. Cos’è, adesso ti fai anche i muri?” È seduta in braccio ad Andrea, il quale mi guarda divertito.
“Chiudi quella fogna Ross” sbotto ghignando. Poi le porgo la sua birra.
Lei me la strappa di mano con lo sguardo offeso.
“Ehi, porta rispetto per la mia ragazza”mi ammonisce Andrea.
“Tanto domani non sarà più qui” sibilo con cattiveria, sentendomi subito dopo colpevole dallo sguardo di Ross. Sono consapevole del loro tira e molla costante, e di certo c’è almeno una possibilità su tre che durante la serata litighino.
Di conseguenza domani Andrea sarà così sbronzo da non reggersi più in piedi.
Ho fatto bene a portargli altre due birre. Gliele appoggio sul tavolo e me ne vado.
Semplicemente sono stufo di quei due, della loro felicità e spensieratezza, mentre io sono solo, peggio di un cane randagio, che poi è quello che sono: un semplice vagabondo che fugge dal suo destino e dalla sua vita.
Mentre ascolto la musica rubata da un cellulare rubato su un materasso rubato mi accorgo di pensare ancora a lei: la Ragazza dai capelli rossi, o la Gatta selvatica.
Non so come chiamarla.
 
Pov. Sir
 
Non riesco a fare a meno di aprire un’altra scatola di tonno dopo essermene divorata una intera. Mi manca il cibo vero. Mi manca terribilmente.
Sono fiera di me stessa per essere stata capace di tenere nascoste le scatolette che avevo in tasca al ragazzo, e ora ne saggio il merito mangiando da re. 
Non è stato sempre così, ho ancora qualche vario ricordo di com’era prima. Quando ancora si poteva mangiare senza dover rubare, quando le strade erano tranquille, e non un corridoio colmo di agguati.
Quando l’uomo ancora conviveva con se stesso.
L’Organizzazione si è mangiata tutto.
Ci sono dei gruppi di persone: i Ribelli. Loro non obbediscono, fanno di testa loro e si rifugiano in vecchi edifici, o addirittura dentro il bosco. Queste specie di gang si sono messe le une contro le altre e ogni giorno scoppiano risse nei vicoli, dalle quali nessuno può scappare.
Mi guardo la cicatrice che ho sul braccio e mi maledico per non aver scelto un mio gruppo. Ora sono sola e ne devo pagare le conseguenze.
Mi corico sul cartone che mi fa da materasso e ascolto le urla lontane di uno scontro poco distante.
Chiudo gli occhi cercando di dormire, ma non è facile dato che con questo freddo mi si stanno congelando pure i capelli.
Mi raggomitolo su me stessa sperando di scacciare questo gelo che mi intorpidisce le membra, e il ricordo delle Sue mani su di me ritorna furbo da un angolo della mia mente, dove lo avevo incatenato. Erano calde, e contro la mia pelle fredda sembravano bollenti, e nella mia mente non sono grevi come le ricordo. Sono gentili, e mi accarezzano i polsi in una presa giocosa.
Beh... se non mi sono riempita la pancia perlomeno mi sono rifatta gli occhi... devo ammetterlo.
Ma ho lasciato lì il mio zainetto, e dentro non vi sono solo le cose che ho quasi rubato, lì ci sono i pochi oggetti che mi porto dietro. La collanina della mamma è una di essi, e non lascerò che la vendano per ricavarne profitti.
Decido quindi di partire all’alba per riprendere il mio zaino, e forse rubare qualche altra razione di cibo,  così da avere i mezzi per sopravvivere a un’altra settimana.
Il ricordo dei suoi occhi mi accompagna mentre scivolo piano verso Nyx.
Per la seconda volta guardo quella casa malridotta, desiderando di avere scelta.
Ma non ce l’ho.
Cerco un’altra via d’accesso: sarebbe scontato entrare dalla stessa stanza in cui si è stati colti con le mani nel sacco.
E trovo una stanza del secondo piano con le finestre di cartone: perfetta per me. Un libero accesso ai ladri.
È ancora notte. Non ce l’ho fatta ad aspettare di più, ma il cielo si sta schiarendo in fretta, devo essere svelta.
Sposto di qualche centimetro il cartone, riuscendo appena ad intravedere una stanzetta in penombra. C’è un letto al centro e una figura sottile si muove piano dentro le lenzuola e sotto le coperte.
Nemmeno l’ombra del mio zaino.
Decido di entrare comunque e di avventurarmi nella tana del lupo.
Attraverso svelta la stanza osservando il bambino nel letto. Mi fa tenerezza tutto raggomitolato com’è su quel materasso.
Apro piano la porta attenta a non svegliarlo e mi ritrovo in un corridoio spoglio e con il muro scrostato.
Alle pareti vi sono almeno sei porte.
E capisco che la mia gita finisce qua, perché nel momento stesso in cui le noto, una di esse si apre e ne esce un uomo a petto nudo.
È alto e brizzolato, i muscoli sono ben definiti e tonici, il torace non è abbronzato, ma pallido come se quell’uomo avesse passato tutta la vita a nascondersi nell’ombra.
Mi fissa sorpreso e un filo di rabbia incupisce il suo sguardo.
Non faccio in tempo nemmeno a fiatare che lui mi prende per il collo e mi sbatte sulla parete.
Un singulto spezza il mio respiro quando le sue mani cominciano a premere aggressive.
All’inizio sento solo la botta sulla schiena, ma quando l’aria comincia a mancare sento di perdere i sensi.
Sento la porta contro cui sono premuta aprirsi violentemente e percepisco la presa del brizzolato allentarsi all’improvviso.
Cado a terra un po’ intontita, ma non per questo rinuncio ad alzarmi pronta a fuggire.
 
Pov. Michele
 
Vengo svegliato da dei tonfi che provengono dal corridoio.
Mi alzo di slancio rabbrividendo all’aria mattutina, anche perché indosso solo i boxer, e spalanco di scatto la porta, allarmato da tutti quei rumori.
Quello a cui non sono preparato è la persona che quasi mi cade addosso, rotolando invece sul freddo pavimento.
Anzi, La persona.
Non riesco a credere che sia ancora qui, non dopo tutti quegli avvertimenti che le ho dato, azzardandomi anche a metterle le mani addosso.
“Prendila!” mi ordina Andrea, e io, non potendo fare altrimenti, la prendo per le braccia, immobilizzandola contro il mio petto.
La sento che si dibatte furiosamente alle mie mani, proprio come la sera precedente, ma so anche che è impossibile che mi contrasti con quei braccini esili che sto stringendo. Avverto il profilo delle sue spalle magre sull’addome, anche se i calci agli stinchi che mi sta tirando fanno piuttosto male.
“Che è successo?” chiedo confuso. Non capisco cosa stia accadendo.
“Ho beccato questa stronzetta a girovagare per i corridoi come nulla fosse” mi spiega lui.
E allora mi sento in colpa, perché so che se le avessi dato lo zaino con le sue cose dentro, questo non sarebbe mai successo.
La sento singhiozzare disperata: ha paura.
E io che posso fare?
 
Pov. Sir
 
Ma come posso essere così impulsiva? Avrei dovuto immaginare che in quell’edificio vi abitassero almeno una decina di persone. Altrimenti che gang sarebbe?
Non riesco a liberarmi dalla stretta di questo ragazzo, ha una mano a trattenermi i polsi e l’altra impugna la mia felpa sformata, sgualcendola ancora di più.
Ho un singulto. Ma come faccio a cacciarmi sempre nei guai?
Sono troppo impulsiva, la prossima volta dovrò stare più attenta. Ma quale prossima volta? Non se questi mi ammazzano! Li sento parlare, ma non percepisco altro che qualche mugugno distante.
Un improvviso dolore alla guancia sinistra mi riporta alla realtà.
Uno schiaffo.
“Sta’ ferma”Mi ordina il brizzolato.
Sono immobile e vorrei scatenare l’apocalisse, ho le mani dietro la schiena e vorrei saltare addosso a quell’uomo e riempirlo di botte.
Una stretta sul mio braccio. Lieve ma decisa. Un avvertimento.
Se quel ragazzo mi sta tenendo in trappola e non vuole aiutarmi, allora perché mi fa questi segni? Non mi vuole uccidere anche lui?
“Andrea...” lo sento chiamare.
“Andrea un corno! Se i Grifoni ci hanno scoperti siamo fottuti, hai capito?” sbraita lui.
“Ma magari fa parte di un altro gruppo...” prova a ribattere Michele. Ha il fiatone, sembra preoccupato, me ne accorgo perché ho la schiena premuta contro il suo petto nudo... aspetta... petto n-nudo?
Divento rossa solo al pensiero di quei muscoli ben definiti, e mi sembra di essermi accorta adesso che un uomo in mutande mi sta stringendo a lui.  
Andrea, da quel che ho capito, si rivolge direttamente a me.
“Come ti chiami?” mi chiede. E io non so che rispondere, perché potrebbero usare ciò che dirò contro di me.
“S-Siriana” rispondo in un sussurro.
Non percepisco più il suo sguardo su di me, così alzo il mio, lo fisso.
“Sei la compagna del Boss?” mi chiede infine facendomi abbassare gli occhi.
“Non so chi sia il B...” faccio per rispondere.
Ride, lui.
“Non è possibile che tu non lo conosca, praticamente tutti sanno che lui è il capo dei Grifoni... a meno che... tu non faccia parte dell’Organizzazione.” A quel nome scatto.
Anche Michele ha una reazione, sento molto bene il breve e lieve singulto che gli spezza il respiro per un attimo.
“No...” cerco di negare, anche se so che non mi crederà perché ormai si è già scritto la mia storia da solo.
Manca solo il verdetto finale.
“No.” Ripeto, come se potesse servirmi.
“Chiudila in una stanza, deciderò dopo che farne, intanto dobbiamo assicurarci che i Grifoni non ci tendano un agguato.” Dice Andrea.
“E... mettiti qualcosa addosso, per favore...” .
Poi si gira e se ne va.
Appena svolta l’angolo Michele lascia la presa dal mio braccio e mi gira  violentemente prendendomi per le spalle.
“Ti avevo detto di non tornare.” Sibila ad un centimetro dal mio viso.
Dovrebbe farmi paura, ma l’unica cosa che riesco a fare è perdermi nel verde dei suoi occhi.
Lui non si muove, e io neanche.
Dopo aver intuito che probabilmente non avrei aperto bocca si allontana da me, spostando la sua salda presa dalle spalle ai polsi, tenendoli insieme con una sola mano.
“Frà!” Lo sento gridare, e io sobbalzo, mi ero abituata al silenzio che si era insinuato tra il nostro gioco di sguardi e noi.
Dall’angolo del corridoio malmesso, lo stesso da cui è sparito Andrea, compare un ragazzino di non più di dodici, forse tredici,anni.
Sta correndo, vedo il suo petto esile alzarsi e abbassarsi in profondi respiri.
Arriva di fronte a Michele, si ferma dritto dritto davanti a lui, come se questo bastasse a farsi dare rispetto. Lo guarda infatti con ammirazione misto a rispetto e un pizzico di stupore, forse dato dal fatto che il suo mito è in boxer con me accanto.
“Ho bisogno che tu la tenga d’occhio, devo rivestirmi, e se vuoi la puoi anche legare.” Ogni volta che quel ragazzo apriva bocca mi lasciava stupita.
E poi dove sarei potuta scappare? In qualsiasi modo andasse ho intuito che non è così facile fuggire da questo luogo: c’è gente ovunque.
“Va bene...” Il ragazzino accoglie di buon grado il compito, gonfiando il petto.
È più alto di me forse di qualche centimetro, considerando la mia scarsa altezza, ma gli ci vogliono due mani per tenermi fermi entrambi i polsi, benché esili anch’essi.
Io semplicemente lo lascio, guardando Michele sparire all’interno della sua stanza.
 
Pov. Michele
 
Appena la porta si chiude mi ci addosso contro.
Stupida ragazzina! Ma in che guai si va a cacciare? Questa faccenda è più grave di qualche furto per principianti. Molto più grave.
Afferro un paio di jeans dal mucchio di pantaloni sparsi a terra e mentre me li infilo cerco con lo sguardo una maglietta non troppo sgualcita. Quando la individuo me la metto subito: devo fare il più in fretta possibile.
Va bene che Francesco è un ragazzino molto scaltro e orgoglioso, ma non è poi così muscoloso da riuscire a trattenere una gatta selvatica come la rossa.
Esco subito prendendo della corda dal mio comodino - se così si può chiamare un tronco d’albero ritrovato nel bosco - .
Resto sorpreso nel vedere che lei non ha tentato di liberarsi, anzi, se ne sta buona buona a testa bassa.
Appena mi vede le leggo negli occhi timore misto a insicurezza, e quando nota la corda tra le mie mani lo riabbassa subito.
E per fortuna.
Altrimenti avrebbe notato il mio sguardo colpevole .
E tutto sarebbe saltato.
Le riprendo i polsi e congedo Frà che non vede l’ora di andarsene – forse avere a che fare con un prigioniero poco bellicoso lo annoia - e con poca fatica le lego le mani dietro alla schiena.
Non riesco a trattenermi dal toccare una ciocca dei suoi capelli e la sento scattare in avanti spaventata.
Lei tenta di girarsi e io la lascio fare.
“Scusa.” Le dico.
Non sembra tranquillizzata dalle mie parole e così mi decido a farmi più severo con lei.
Meglio evitare qualsiasi contatto emotivo e fisico, se non strettamente necessario. Le afferro il braccio e la giro.
Devo portarla nell’altro sgabuzzino, quello senza finestre.
Lei si lascia condurre: è consapevole di non avere scelta.
Lo sguardo curioso di Ross mi arriva agli occhi fino a trafiggermi il cranio come un bastoncino per spiedini.
“E lei chi è?” chiede allegra, forse non ha litigato con Andrea ieri sera. Appena nota la corda ai polsi della rossa il suo sguardo si fa duro e mi lancia un’occhiata severa.
“Ma ti sembra il modo di trattare una ragazza?” mi chiede.
“Ordine del capo” le rispondo io.
“Ora mi sente quello...” e parte in quarta verso la sala delle riunioni.


 
Io sospiro, so che la discussione finirà per diventare una grande litigata.
Riprendo a camminare trascinando con me anche la rossa.
Si sta guardando attorno come un animale braccato: ed ha ragione. Che fine potrà avere? Da quando faccio parte dei Ribelli non mi è mai capitata una cosa del genere. E se le aspettasse la morte?
Scuoto il capo per scacciare questo amaro pensiero dalla mente.
Le gambe si fanno rigide e riluttanti a svolgere il proprio lavoro: sono pesanti dai macigni del senso di colpa, due zavorre astratte ma grevi.
Mi faccio forza perché so benissimo di non avere voce in capitolo.
Essere uno tra gli ultimi arrivati non giova a nessuno e da nessuna parte.
 Raggiungo la porta dello sgabuzzino.


Pov. Sir
 
Quando Michele mi spinge dentro improvvisamente, non posso fare a meno di sussultare.
La corda che mi stringe i polsi comincia a bruciare, e d’un tratto mi assale la paura di quello che potrebbero farmi.
Non sento più le sue rigide mani a contatto con i miei polsi e così mi giro verso di lui, intimorita e arrabbiata allo stesso tempo.
Mi sta fissando.
Non sembra avere alcuna emozione verso di me: lo sento distante come la prima volta che ci siamo visti.
Non riesco a capacitarmi di quello che gli è preso quando mi ha toccato i capelli.
Sembrava una qualche forma di richiesta di perdono, ma forse mi sbaglio.
L’ambiente in cui mi trovo è umido, sto respirando affannosamente ed è per questo che me ne accorgo quasi subito.
Le pareti sono di un colore strano, ma forse è dovuto dalle grandi macchie di muffa che vi torreggiano sopra.
La prima cosa che noto è l’assenza di finestre: d’altronde da uno sgabuzzino che cosa ci si può aspettare?
Michele chiude la porta dietro di sé, e dopo qualche secondo sento il suono della serratura scattare nel silenzio di quell’angusto posto, spezzato solamente dal mio incerto e veloce respiro.
Ecco: ora sì che sono nella merda.
L’unica cosa da cui posso considerarmi al sicuro è l’Organizzazione stessa.
Quando io e mio fratello Alessandro eravamo rimasti soli dopo la guerra, assieme a tutti gli altri minori, avevamo sempre vissuto per strada.
Ma da quando lui è morto le cose non sono più state le stesse.
Gli ho promesso che mi sarei presa cura di me stessa, e così ho cercato di fare.
Ed ha funzionato.
Fino a oggi.

“Non lasciarmi!” gli gridavo scuotendogli le spalle.
“Mi devi promettere che non ti metterai nei guai...” continuava a ripetere “Niente guai... intesi?”. Non potei fare nulla, se non annuire impotente. Mezza annegata tra le lacrime e il dolore gli tastavo il petto: là dove lo aveva colpito la pallottola.
Venne interrotto da un forte attacco di tosse e del sangue gli macchiò la maglietta che non cambiava da quasi una settimana.
Lui cercava di sorridermi, ma i denti macchiati del suo stesso sangue rendevano l’immagine grottesca.
Il braccio bruciava, la testa pulsava, ma ero abbastanza sveglia da capire che non ce l’avrebbe fatta; non quella volta, almeno.
Lui era sempre stato il mio eroe, il mio punto fisso. Ed ora se ne stava andando.
“Ti prego...” mormorai stupidamente: come se lui potesse farci qualcosa.
Ma non mi rispose.
Non mi avrebbe mai più risposto.

 
Sono seduta, o meglio raggomitolata, stretta stretta alla parete come se quel pezzo di muro fosse la mia ancora di salvezza.
Ormai è successo, non c’è nulla da fare.
Fisso la porta che si è appena chiusa trattenendo le lacrime: non c’è modo di scappare e io non posso stare qui.
Sbatto leggermente la testa sull’intonaco scrostato e dei pezzi mi cadono sui capelli.
Stupida, stupida, stupida...
Ogni botta è un insulto a me stessa.
Me lo merito; sono troppo emotiva, troppo poco superficiale da rischiare la vita così, d’impulso, per una collana, un ricordo che ora di certo non mi verrà restituito.
Un primo singhiozzo mi percuote le spalle e io faccio di tutto perché sia l’ultimo, ma non ci riesco.
Scoppio in un pianto dirotto aumentando la forza delle botte.
È colpa mia. Solo colpa mia.
Sono io la causa di tutto, dovevo essere io la vittima di quell’uomo, non mio fratello, il mio fratellone!
Morto. Non c’è nulla in più da dire, si potrebbero usare altri termini: Deceduto, mancato, sparito dalla faccia della terra, stecchito... ma niente descrive la morte meglio di quel verbo. Niente.
Chissà poi se è davvero morto... magari in questo momento sta vegliando su di me.
Magari quel leggero prurito sulla spalla destra è la sua mano che mi consola.
Magari ora sta tentando di asciugarmi le lacrime con i suoi arti fatti d’aria.
Magari... no. È inutile torturarsi con tutti quei se.
Nulla lo farà mai tornare indietro.
Scivolo piano con la schiena dalla parete e in poco tempo mi ritrovo a terra, incapace di un pensiero coerente.
Ripenso a tutti quei bei momenti in cui io e mio fratello, da piccoli, giocavamo a nascondino e sorrido tra le lacrime al pensiero di come non riuscivo mai a trovarlo.
Immagino me: una bella bambina dai capelli rossi e gli occhi scuri che scrutano ogni angolo del piccolo boschetto che usavamo per giocare.
Poi lui: Un ragazzino con i capelli castani, diversi da quelli della sorellina, ma dagli stessi occhi neri ed espressivi.
E poi mi ritrovo a rammentare quando, più grandi, fummo  strappati dalle braccia dei nostri genitori.
Già da allora era così protettivo verso di me.
Ed io l’ho deluso.
Stringo i pugni.
Quando mai potrà andarsene questo dolore?
 
 
 
 
 
 
 
Ciao a tutte coloro che hanno avuto il coraggio di leggere questa mia ff! XD intanto ringrazio in anticipo (per quelle che sono ancora vive) chi mi lascerà una recensione, aggiungerà questa storia alle seguite, alle preferite o alle ricordate. Ma ringrazio anche coloro che se ne staranno in silenzio e la apprezzeranno (o la disprezzeranno). Detto questo: al prossimo capitolo. La aggiornerò tra un paio di settimane, forse dopo o forse prima.
A presto! ;)
Chiara

  
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