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Autore: chi_lamed    01/05/2013    0 recensioni
Seguito di Conversazioni Notturne.
"E si rese conto, per la prima volta, che il mondo di dolore in cui si era rifugiato non era più soltanto una difesa. Impedirsi di provare emozioni per non soffrire ancora.
Era diventato una trappola da cui non era più capace di uscire."

Aberforth Silente e Severus Piton hanno in comune una vita di dolore. Uno è ben deciso a superarlo e lasciarselo alle spalle, l'altro invece si tiene la sofferenza stretta al cuore, impedendosi di vivere.
Storia di un'amicizia sincera.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altro personaggio, Minerva McGranitt, Severus Piton
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
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- Questa storia fa parte della serie 'Le stelle brillano di più, quanto più fonda è la notte'
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Silenzi

 


C’è silenzio e silenzio.
C’è quello di chi non sa cosa dire ed allora il mutismo regna sovrano, assieme agli occhi che si posano dovunque tranne che sull’interlocutore, mentre le mani impacciate non sono capaci di trovare un loro posto e sembrano quasi un elemento in più, per giunta parecchio ingombrante.
C’è il silenzio dell’imbarazzo, quello che secca la gola nell’attimo in cui meno servirebbe e blocca ogni pensiero coerente sul nascere. Brutta cosa, soprattutto perché il più delle volte non compare da solo ma quasi sempre assieme alla sua compagna, la coltre di gelo che intirizzisce l’atmosfera e fa desiderare di essere dovunque, anche al centro della Terra.
E poi c’è il silenzio dell’attesa.
Colmo di speranza e di parole trattenute che non hanno bisogno alcuno di essere pronunciate. Colmo di ascolto, carico di significato, traboccante d’accoglienza.
È il silenzio dell’amicizia.
È il silenzio che non mette fretta, che incoraggia l’altro a parlare con sguardo d’affetto. Che consola senza fare rumore.
Che dice “eccomi, sono qui per te”.
 
Questo era il silenzio di Aberforth, giunto da poco accanto ad una lapide bianca e ad un eroe dal nero mantello.
Attendeva, posando gli occhi sul Lago Nero completamente immoto e coperto da una spessa lastra di ghiaccio. Il cielo bianco di nubi vi si rifletteva specchiandosi placido e senza far intravedere il minimo sprazzo di azzurro. Tutt’attorno, dovunque si posasse lo sguardo, regnava il candore della coltre nevosa.
Tutto sembrava in attesa, anche la natura che li circondava. Né vento, né cinguettio di uccelli, nulla di nulla. Solo qualche tonfo in lontananza, nella Foresta Proibita: era la neve che cadeva dai rami degli alberi.
Attese, Aberforth, senza stancarsi.
L’anima ha i suoi tempi per cicatrizzare le ferite ed i fardelli da posare sono infinitamente più faticosi di quelli da porsi sulle spalle. Lui lo sapeva fin troppo bene.
Attese e si rivestì di pazienza.
 
Severus non sembrava avere alcuna intenzione di voltarsi in direzione del nuovo arrivato.
Non voleva mostrare quanto si sentisse debole in quel momento.
Debole e solo.
Incapace di rassegnarsi alla vita.
Intrappolato nella propria roccaforte di ghiaccio.
Voleva uscirne, veramente, ma il passato con i suoi errori ed il futuro della sua seconda vita erano intenti a giocare al tiro alla fune con il suo animo. Ed era doloroso.
Merlino se faceva male.
Nessuno dei due sembrava voler mollare per lasciar vincere l’avversario e lui era lì, nel mezzo, come in bilico su un baratro.
I rimorsi gli ripetevano in continuazione “non ti meriti alcuna speranza, il tuo errore è stato troppo grande”.
La rinascita gli sussurrava teneramente “spera e coglimi per davvero. È passato, Severus, hai saldato il tuo debito”.
Solo il presente taceva. Lasciava la scelta nelle sue mani, senza imporsi, rimanendo immoto come il Lago Nero completamente ghiacciato.
Immobile ed in silenzio.
Lo era stato anche lui, un giorno lontano di alcuni mesi prima, quando avrebbe potuto parlare e non lo aveva fatto.
 
 
 
Giallo, rosa, bianco, tanto verde e qualche spruzzata di rosso.
Aveva costretto le palpebre ad aprirsi del tutto, ma con estrema fatica. Le pozioni curative gli provocavano una sonnolenza diffusa quasi impossibile da contrastare, ritrovare la lucidità forzatamente senza attendere che il loro effetto diminuisse era come combattere contro qualcosa di invincibile, come scalare il monte più alto del mondo a mani nude. Solitamente si lasciava andare, aveva rinunciato quasi subito a bloccare gli effetti della spossatezza, anche perché non sarebbe servito a nulla. Tanto valeva scivolare nell’oblio che lo accoglieva con il suo mare nero di seta e di morbido velluto senza sogni.
Ancora un batter di ciglia, ancora uno sforzo per rimanere sveglio. Non c’erano orologi nella stanza, né tantomeno la luce che filtrava dall’ampia finestra davanti al letto gli poteva suggerire quanto tempo fosse trascorso dall’ultima somministrazione del farmaco magico. C’era solo azzurro, senza aggiunta di altro. Azzurro e basta, niente nubi, nemmeno il più piccolo sbuffo candido di vapore.
L’oblio lo chiamava con voce calda e suadente. Lui aveva provato ad ignorarlo per concentrare l’attenzione sull’arcobaleno di colori che gli era passato dinanzi qualche attimo prima.
Ed aveva fallito.
L’ultimo pensiero lucido che era riuscito a formulare erano i nomi dei fiori di campo che Minerva stava solertemente mettendo in un vaso panciuto.
 
Margherite, ranuncoli, fiori di achillea e qualche papavero.
Un’anta della finestra era aperta a metà e faceva entrare una piacevole brezza leggera che non infastidiva. Severus aveva osservato, questa volta ben desto, uno dei papaveri che si dondolava ritmicamente sullo stelo, come se annuisse contento per essere stato posizionato proprio lì. La tenda bianca ai lati della finestra gli rispondeva con un altrettanto leggero svolazzo, in una perfetta sincronia di movimenti.
E fuori, ancora, solamente azzurro a perdita d’occhio.
Voltò la testa verso la sua destra senza produrre il minimo fruscio sul cuscino. Minerva leggeva un libro, completamente concentrata, gli occhi che correvano avanti ed indietro a seguire il flusso di pensieri d’inchiostro. Non si era accorta del suo risveglio.
Benedetta donna. I Guaritori gli avevano raccontato che durante i primi tempi non erano rare le volte in cui arrivava la sera quasi di soppiatto e gli stava accanto per tutta la notte. Così, senza dormire.
Vegliava.
Su di lui.
Ed al mattino, in altrettanto silenzio, se ne tornava al castello, ad assistere ad una ricostruzione lenta ma inarrestabile.
Erano stati sufficienti pochi ed attenti sguardi per far capire in seguito a Severus che la ricostruzione a cui la strega teneva di più in quei momenti non interessava antiche pietre, bensì un’amicizia che s’era strappata, lacerando anche il cuore di entrambi.
No, lui non la biasimava, non l’aveva mai fatto. Le staffilate che lei non aveva mai mancato di regalargli durante l’ultimo anno erano la riprova che stava recitando alla perfezione la propria parte di assassino. Magra, magrissima consolazione, ma pur sempre necessaria per la salvezza di molte vite.
A quel pensiero non era riuscito a trattenere un sospiro amaro.
«Oh…» esclamare la propria sorpresa, poggiare il libro sul comodino ed alzarsi premurosa: solo Minerva poteva compiere azioni del genere in modo così fulmineo, che in men che non si dica Severus s’era ritrovato un bicchiere d’acqua che gli fluttuava davanti al naso quasi senza accorgersene.
Merlino, da quando la strega aveva cominciato ad andarlo a trovare solo di giorno lo ricopriva di attenzioni di ogni genere. Il cuscino da sprimacciare, le tende da lasciare aperte o chiuse, il vassoio del cibo controllato accuratamente perché non avanzasse nulla.
Si sentiva trattato come se fosse un infante.
E lui lo aveva comunicato, senza mezze misure.
La piuma – rigorosamente verde – aveva scritto la sua lapidaria frase sul block notes sotto lo sguardo incuriosito di Minerva. Il cipiglio con cui il foglio era stato fatto leggere non lasciava adito a dubbi sul suo stato d’animo.
“Ora arriva”, aveva pensato lui, pronto a scommettere qualsiasi cosa.
Ed era arrivata, infatti: un’espressione a metà tra la rassegnazione e la finta condiscendenza.
Era stato il turno della maga sospirare, mentre il bicchiere tornava a posarsi con grazia sul comodino accanto alla brocca in vetro trasparente.
Siparietti del genere erano diventati sempre più frequenti, segno di un rinsaldamento che a lui non sarebbe dispiaciuto – ma di cui si riteneva ancora immeritevole – e che alla strega sembrava donare nuova vita.
La lacrime trattenute a stento, i singhiozzi che risuonavano tra quelle bianche pareti intervallati a richieste di perdono, la mano, con più rughe di quanto lui ricordasse, che si stringeva – quasi aggrappandosi – alla sua: era tutto alle loro spalle, trascorso da almeno un mese, memoria di un primo vero incontro dopo la grande battaglia.
Per smettere di ricordare ancora Severus aveva indirizzato la propria attenzione al vaso di fiori sul tavolino accanto alla finestra.
«Quelli sono da parte di Hagrid.» aveva risposto lei, intercettando il suo sguardo. «Li ha raccolti personalmente questa mattina.» E lui non aveva fatto alcuna fatica ad immaginare quel gigante dall'anima candida che si chinava sui prati di Hogwarts e componeva il mazzo di fiori. Magari piangendo commosso e soffiandosi il naso nel suo fazzoletto a scacchi grande quanto una tovaglia.
Quel pensiero gli aveva fatto incurvare le labbra all’insù, mentre il papavero rosso continuava ad annuire pacifico. Quel debole sorriso era stato interpretato dalla strega come un fugace ringraziamento. Lui non lo aveva smentito.
Ma era inquieta, Minerva, Severus lo aveva notato fin troppo bene.
Le mani che continuavano a tormentarsi a vicenda, la postura fin troppo rigida, gli occhi che non sapevano bene dove posarsi e trovare quiete. Un’occhiata interrogativa e lei era sembrata avvampare dal disagio per poi sbiancare a vista d’occhio.
La piuma già in mano, pronta per dare voce ad una domanda di cui quasi temeva la risposta, era stata fermata da un singhiozzo sommesso.
 
“No, Minerva, non piangere di nuovo, non ancora.”
 
Lei aveva ascoltato quella muta richiesta fatta da iridi d’ossidiana che l’avevano carezzata con sguardo commosso. Non aveva pianto. Ma s’era incurvata come sotto il peso di una montagna, le mani giunte così strette da tremare vistosamente, sulle labbra parole spezzate, le stesse dei loro primi incontri durante il ricovero.
 
Perdono.
 
Deglutire non gli aveva mai fatto così male e non era colpa delle ferite ormai quasi del tutto guarite.
 
Scusami.
 
La piuma verde giaceva abbandonata sulla candide lenzuola di cotone, accanto ai fogli di carta.
 
Ho sbagliato a non fidarmi di te.
 
Se c’era uno incapace di perdonarsi – e destinato a soffrire per questo - doveva essere soltanto lui. E nessun altro. Perché lei continuava a tormentarsi ancora? Non ne aveva alcun motivo, non era giusto, non…
 
«Ti voglio bene, Severus.»
 
I pensieri del mago s’erano improvvisamente congelati, imitando la posa rigida che aveva assunto lui stesso. Lo sguardo fisso su qualcosa di indistinto davanti a sé, le mani che avevano artigliato le lenzuola in modo così stretto da stropicciarle senza ritegno.
E sulle labbra la pronta risposta che lui aveva dovuto fermare con non poco sforzo.
Oh, poteva parlare, sì.
Era già da un paio di giorni che era riuscito ad esprimersi a voce, senza sentirsi esageratamente ridicolo per qualche suono ancora gracchiante che usciva dalla sua gola non più martoriata. Ma aveva voluto esercitarsi ancora in solitudine, nei vari momenti di veglia, perché le sue prime parole – non ai Guaritori, ma a Minerva – fossero pronunciate come si doveva.
 
Tre semplici parole in quel momento lo stavano scuotendo più di un terremoto.
Minerva non era donna dai modi sdolcinati. Era una donna pratica. Nelle sue materne attenzioni dava sempre maggior risalto a gesti ed azioni che ai discorsi e spesso una semplice mano sulla spalla anche se fatta con il suo solito sguardo severo valeva più di mille frasi melense.
Non gliel’aveva mai detto, mai, nemmeno negli anni precedenti in cui erano stati colleghi. Come lui, anche lei possedeva parecchia ritrosia a mostrare agli altri i propri sentimenti, specialmente quelli in cui si apriva il proprio cuore al sincero slancio dell’amicizia.
 
Ti voglio bene.
 
Avrebbe voluto tanto dirlo ad Albus, soprattutto negli ultimi tempi, quando quella maledetta mano annerita era diventata il segno tangibile di una condanna a morte senza appello. Avrebbe voluto fargli sapere quanto lo considerasse un padre ed un amico, nonostante tutto, nonostante le folli richieste che negli anni gli erano state fatte in nome di un bene superiore.
Invece era stato costretto ad ucciderlo. E poi era stato costretto ad incrociare la bacchetta con un’amica, quasi una madre per lui, a combattere per difendersi da incantesimi colmi di risentimento, dolore e fiducia spezzata.
 
Ti voglio bene, continuava sommessamente a ripetere una vocina nella sua testa, come un eco infinito. Minerva invece aveva taciuto dopo quell’ultima frase.
 
No, a Severus Piton non si poteva voler bene, nemmeno dopo aver saputo la verità.
Aveva accettato il perdono di tanti – troppi – che avevano chiesto a loro volta di essere scusati per aver dubitato di lui. Aveva accettato di essere compreso, più o meno, dal momento che parte della sua maschera era stata gettata al vento dal discorso del Prescelto al Signore Oscuro e tanti saluti al suo passato che non era più così privato.
Ma no, non accettava che gli si volesse bene.
Nemmeno da parte di Minerva.
Soprattutto da parte di Minerva.
 
Voleva ancora crogiolarsi nel proprio dolore e forse, quando un giorno ne sarebbe stato sazio, sarebbe stato in grado di lasciarlo andare come barca lasciata alla deriva.
 
Non aveva risposto, Severus.
S’era limitato ad abbassare lo sguardo, ad osservarsi le mani che ancora erano saldamente aggrappate alle lenzuola e che si ostinavano a non raccogliere piuma e block notes per dire qualcosa, qualsiasi cosa.
Il silenzio che era sceso nella stanza faceva riecheggiare ancora di più le parole che erano state da poco pronunciate.
Minerva era ancora accanto a lui, muta ed immobile, aspettandosi una sequela di rimproveri che l’avrebbe autorizzata a star male e meritatamente. Non poteva credersi perdonata nemmeno lei, non ancora.
Il siparietto giocoso avvenuto prima tra le medesime pareti sembrava essersi dissolto come iridescente e fragile bolla di sapone.
Un istante, poi un altro ancora.
L’immobilità regnava sovrana, fino a che Minerva non l’aveva bruscamente interrotta. S’era infilata velocemente il mantello, aveva raccolto il libro ed era scomparsa alla sua vista. La porta della camera d’ospedale non s’era ancora chiusa e già il mago aveva percepito un singhiozzo accorato provenire dal corridoio.
Quando Severus aveva finalmente alzato gli occhi un petalo rosso sangue si stava giusto staccando dal papavero dondolante per planare placidamente sul pavimento lucido.
 
 
 
Il freddo pungente lo costrinse a ritornare al presente per stringere i pugni nelle tasche del mantello. La settimana dopo quell’episodio lui era stato dimesso dall’ospedale ed Hogwarts aveva insistito per essere la sua vera casa.
No, Minerva aveva insistito, comportandosi come se quel pomeriggio non l’avesse minimamente turbata. Non le aveva più pronunciate quelle parole, ma i gesti di lei erano tornati a farsi eloquenti, sincere dichiarazioni di scuse e di materno affetto che non mancavano mai di farlo sentire disorientato e sempre immeritevole. Se la conosceva bene, lei non aveva ancora smesso di rimproverarsi per quegli attimi di umanissima debolezza che l'avevano sopraffatta.
E sì che non gli sarebbe dispiaciuto per nulla poter ricambiare quella frase con altrettanta sincerità. Risponderle, non aspettare ancora ed ancora, prima che fosse troppo tardi anche per lei. Ed avrebbe perso una madre per la seconda volta, senza averle fatto capire quanto le era legato.
Risponderle, per metterle l’animo in pace e forse per trovare pace egli stesso, far cadere definitivamente anche l’ultima maschera.
Ma i rimorsi e la rinascita intanto continuavano con il loro tiro alla fune ed i primi gridavano con voce più alta che nessuna maschera caduta avrebbe mai cancellato il suo passato di colpa.
 
Il presente gli si palesò in un sospiro rumoroso, in un corpo che sposta il proprio peso da una gamba all’altra facendo scricchiolare la neve sotto di sé e in un paio di occhi azzurri che lo squadravano senza fretta.
Aberforth attendeva senza proferire parola.
Associarlo al presente quasi gli fece venire un capogiro.
Non ci aveva mai pensato.
Aberforth che aveva abbandonato ogni rancore. Che aveva pianto il proprio dolore giusto lì, davanti a lui.
Che gli aveva chiesto di posare ogni fardello durante una luminosa notte estiva.
In due iridi così simili a quelle di un amico perduto per sempre Severus vi lesse solo tranquillità, senza alcuna ombra ad offuscarle.
Forse Aberforth sapeva come fare meglio di lui.
Forse lui poteva addirittura… farsi aiutare? Quell’idea gli suonò balzana e giusta nel medesimo tempo.
La verità era che, per quanto si sentisse ancora immeritevole di qualsiasi perdono e per quanta sopportazione potesse avere in sé, Severus Piton ne aveva sinceramente abbastanza di barricarsi dietro una coltre impenetrabile di dolore. La vita che gli era stata regalata reclamava a gran voce e scalpitava per essere vissuta, non sopportata di malavoglia.
La zattera di salvataggio era accanto a lui, così come lo era stata mesi prima.
Forse era davvero giunto il momento di issarsi per navigare verso lidi più tranquilli.
Fissò intensamente Aberforth, lasciando che fosse il suo sguardo a parlare per lui.
Il vecchio mago rispose, spezzando finalmente il silenzio e dando il primo colpo ad una catena che non aveva più motivo di esistere.
«Sai, c’è un proverbio Babbano che recita “non è mai troppo tardi”» bianche nuvolette di fiato gli uscirono dalla sciarpa e gli appannarono un po’ gli occhiali. «Se volevi testarne la validità ti avviso che hai quasi superato il limite di guardia.»
Burbero come sempre, Aberforth. In quello era una vera e propria garanzia.
Si scostò la sciarpa dal viso per non continuare ad avere gli occhiali appannati, lasciando intravedere una sorta di smorfia sotto la folta barba grigia.
«Ma credo che tu sia ancora in tempo, testardo Ippogrifo che non sei altro.»
 


*****

Angolino autrice: e secondo voi lo posso postare senza dire che forse - forse! - ci metterò mano per correggere qualche sinonimo o qualche frase? No, non lo posso fare. Ci sto lavorando da due mesi, roba da vergognarsi.
In realtà avrei voluto finire la storia già in questo capitolo, ma mi sono accorta che così rischiavo di far passare in sordina questo mutamento in Severus. Il punto di svolta qui è tutto suo, non lo posso affiancare ad altro.
Se avete crtiche negative, vi invito caldamente a non seguire il titolo del capitolo, ma ad esprimerle liberamente. :D Idem per qualche parola positiva che potreste aver voglia di spendere.
  
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