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Autore: wolfstar    13/05/2013    1 recensioni
Bellatrix era portata, di natura, ad odiare la bontà, la semplicità, la purezza. Fin da bambina, le sue piccole dita strappavano margherite e camelie dai prati di fiori.
Così, come aveva sempre rubato la vita alle camelie, pure e graziose, e alle margherite, semplici e genuine, avrebbe strappato l’anima dal corpo di Remus Lupin.
Genere: Dark, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bellatrix Lestrange, Nimphadora Tonks, Remus Lupin
Note: nessuna | Avvertimenti: Non-con | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7
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Bellatrix Lestrange non avrebbe mai pensato che quel giorno, al Ministero della Magia, ci sarebbe stata un’inaspettata riunione di famiglia. Il peggiore traditore del suo sangue, Sirius Black, e una nipote Mezzosangue più goffa di quanto potesse mai desiderare. Avrebbe voluto uccidere il cugino Sirius con le sue mani, avrebbe voluto trovarsi faccia a faccia con quel traditore del suo sangue per infliggergli la morte che meritava, ma l’ostacolo che le si parava di fronte era tanto strambo quanto fastidioso.
Nonostante la sua goffaggine, quella ragazzina dai capelli rosa cicca sembrava molto più in gamba di quanto tenesse a dimostrare. Le stava dando troppi crucci, la mocciosa, doveva ammetterlo, ma attribuì il merito della sua bravura alla parte non contaminata del suo sangue, quella in cui scorreva la nobiltà dei Black.
 
Non male per essere una ragazzina. Non male per essere una sporca Mezzosangue.
 
Bellatrix ghignò del suo colpo di fortuna, quando un movimento troppo repentino dell’avversaria per schivare un lampo verde le fece perdere l’equilibrio. Il tallone sinistro della ragazza aveva accidentalmente urtato un’insenatura un po’ troppo accentuata della piattaforma rocciosa sulla quale stavano duellando.
Ma Bellatrix non ebbe neppure il tempo di esultare, che uno Schiantesimo la colpì in pieno e una luce bianca e accecante la costrinse a chiudere gli occhi. Si ritrovò a terra e non pensò al dolore che stava provando, ormai le brutalità erano per lei all’ordine del giorno, ma cercò di aguzzare la vista e di non lasciarsi vincere dalla nebbiolina che le appannava la vista. La figura di Ninfadora Tonks era riversa a terra, con le braccia spalancate e gli occhi chiusi, e un uomo era chino su di lei, una mano premuta con gentile preoccupazione sul viso della ragazza, per controllare che stesse bene.
Come non riconoscerlo? Non avrebbe mai potuto dimenticare quella sensazione di disgusto che le si espandeva in corpo quando lo vedeva o quando sentiva nominare il suo nome.
Era sicuramente una delle cose più deplorevoli che Sirius Black avesse mai fatto, e dire che ce n’erano tante. Ma frequentare un lupo mannaro. Era sicuramente quella che più faceva rizzare i capelli in testa ai dignitosi e rispettabili membri della famiglia Black.
Avanzò per qualche tratto a tentoni e poi si alzò senza sforzo, impugnando la bacchetta con la stretta salda delle sue dita. Un nuovo ghigno le attraversò il volto. La scena che si svolgeva davanti a lei era una delle più patetiche che avesse mai visto.
Quel Lupin tentava invano di rianimare la ragazza, e non si era più curato di lei.
 
Grosso errore, lupo mannaro.
 
Bellatrix sapeva che l’incantesimo che stava per lanciargli era pericoloso per gli esseri umani, perché andava usato per infrangere gli oggetti mediamente resistenti.
 
Ma d’altronde quello non è un essere umano. È solo uno sporco ibrido.
 
“Tastiamo un po’ la resistenza di un lupo mannaro…” sibilò sottovoce, non smettendo mai di giocare con la bacchetta tra le dita. “Bombarda!”.
Un orribile tonfo, come se una pesante sfera di acciaio fosse stata lanciata contro il petto di Lupin, echeggiò brevemente nell’ampia stanza, e l’uomo venne letteralmente scaraventato quasi dall’altra parte della camera. Il pensiero di quanto dolore gli avesse causato fece scintillare di eccitazione gli occhi neri della donna.
Bellatrix cominciò a salterellare canticchiando verso di lui, come Cappuccetto Rosso che salta qua e là per il bosco durante il tragitto per raggiungere la casa della nonna. E poi incontra il lupo.
Lupin sembrava aver perso i sensi per qualche secondo e aveva braccia e gambe immobilizzate dal dolore. Percepiva le ossa della gabbia toracica sgretolarsi lentamente, e anche lui si sentiva il suo corpo sbriciolarsi dal dolore lancinante. Quando il suono dei passi saltellanti di Cappuccetto Rosso si spense improvvisamente, lui alzò lo sguardo inorridito.
Oh, povero Lupin. Povero piccolo mocciosetto Lupin” cantilenò la Lestrange, china su di lui con le mani sulle ginocchia. “Non dovevi abbassare la guardia, Lupin. È stato un errore” ridacchiò con voce stridula, come una mamma che spiega al figlio dove ha sbagliato. Ma Lupin, che non aveva mai avuto una visione materna più inappropriata, cercò di rimettere insieme le sue ossa e di alzarsi, ma tutto quello che riuscì a fare era puntellarsi a fatica sui gomiti e ringhiare: “Stai lontana da me!”.
Ma cancellare il ghigno di Bellatrix Lestrange dal suo volto sembrava impossibile, anzi, il sorriso maligno si allargò ancora di più nel pronunciare le parole: “Non ti scaldare, piccolo sudicio ibrido. Voglio solo divertirmi un po’ con te. Come ai vecchi tempi, ricordi?”. L’immagine di un bambino dal volto pallido e i folti capelli castani riaffiorò vivida nella mente della donna. Poteva avere al massimo undici anni, con il viso troppo segnato e gli occhi troppo scavati per la sua giovane età, ma era solo un moccioso. Bellatrix aveva finito gli studi a Hogwarts da qualche anno, ormai, ma non finiva mai di stupirsi davanti alla pateticità dei bambini del primo anno. Il ragazzino era amico di suo cugino, Sirius Black, e le poche volte che aveva avuto il dispiacere di incontrarlo era per rimproverarlo di non essere attratto dal Signore Oscuro. E amava schernire anche il piccolo Remus Lupin, innocente come non mai e privo di difese.
Come se il ricordo lo avesse scottato, la mano di Remus Lupin si strinse impulsivamente sulla bacchetta, e l’incantesimo che ne fuoriuscì fece nuovamente finire la donna a terra. Lo Schiantesimo e la luce bianca che l’avevano colpita erano gli stessi di qualche minuto fa, ma il dolore era facilmente sopprimibile per una come Bellatrix. Evitò facilmente di svenire mantenendo la mente lucida e pensando a una cosa sola: torturare Remus Lupin. Si mette a sghignazzare senza pudore a terra, una risata che riecheggiava nelle orecchie di Lupin e che lo innervosiva. Avrebbe voluto soffocarla, perché Remus aveva sempre pensato che ridere fosse una cura molto efficace e piacevole alle disgrazie della vita, mentre la risata della donna era così crudele, disumana.
“Oh…”. Nell’alzarsi in piedi, Bellatrix provò una fitta al fianco.
“Mi hai fatto male, ibrido. Perciò ora sarò io a fare male a te, molto male. Crucio!
A Remus Lupin, ancora a terra, pareva di essere stato infilzato da mille lame, e percorso da violente scariche elettriche in tutto il corpo. Tutti i muscoli del suo corpo erano completamente il balìa degli spasmi, e lui si sentiva come se non avesse mai più potuto usare braccia e gambe. Solo quando respirare non gli provocò più dolore le sue urla cessarono. Improvvisamente sentì che il sangue era tornato a scorrergli nelle vene, e la mente gli pareva svuotata da ogni pensiero per qualche secondo. Fino a quando il suo sguardo blu cupo si posò sulla donna davanti a sé, e le energie tornarono ad appropriarsi del suo corpo, la mente tornava a riempirsi di pensieri d’odio verso Bellatrix Lestrange. Quando si alzò repentinamente in piedi (troppo velocemente per uno che è stato steso da due terribili incantesimi in meno di cinque minuti) sentì le fitte di dolore pregarlo di tornare nella posizione più comoda. Si rese conto che non aveva la benché minima forza di restare in piedi, e che era molto vulnerabile ridotto in quella maniera pietosa. Ma l’odio e la repulsione che prova per la donna di fronte a lui impedivano alle gambe magre di cedere sotto il suo peso.
Ma quando tentò di Schiantarla con maggior forza, percepisce l’unica cosa che i polpastrelli tastavano erano i palmi vuoti delle sue mani. Pur capendo con orrore che non l’avrebbe trovata lì, abbassò lo sguardo per cercare la bacchetta in entrambe le sue mani.
“Oh… hai perso la bacchetta. Adesso come farai a difenderti, piccolo Lupin? Ricorrerai alle mani, alla forza bruta, come è stato insegnato a voi mostri?” cantilena Bellatrix con finto tono premuroso e preoccupato, e la più falsa maschera di dolcezza che Lupin avesse mai visto indossare da qualcuno, ma dentro di sé ghignava oscenamente, trionfante.
 
Il lupo è finalmente in trappola.
 
Lupin digrignava i denti infuriato, perché si rese finalmente conto che non aveva più via di scampo. Non c’era più alcuna speranza per un lupo senza artigli, e senza bacchetta. Tanto valeva provare il tutto per tutto, ormai non aveva più nulla da perdere.
Avanzò barcollando verso di lei, sentendo il pugno alzato troppo pesante per il suo braccio dolorante, il cranio troppo fragile per contenere così tanti pensieri. Il cuore lo sentiva di piombo, pesante, sprofondare sempre più giù, fin dentro il suo stomaco, carico di troppe emozioni, troppe sofferenze. Le gambe parevano troppo fragili per sostenere il peso di una vita così pesante.
Bellatrix non trovò alcuna difficoltà nello schivare il penoso tentativo offensivo di quello straccio di uomo. Lupin aveva tirato un pugno a vuoto. Si sentiva sfinito.
“È questo il meglio che sai fare?” lo schernì prontamente la donna. “E io che mi aspettavo ben altro da un animale… da una bestia come te”. Rise, cercando di caricare la sua voce del più profondo disprezzo.
Il respiro di Lupin si faceva sempre più pesante, le ginocchia sembravano sul punto di cedere da un momento all’altro sotto il peso delle braccia stanche che le stringevano, ma lui sembrava non arrendersi, come se stesse raccogliendo le sue ultime forze rimaste per fare qualcosa di decisivo.
“No” riuscì finalmente a sussurrare, e Bellatrix dovette disporre di tutte le sue capacità uditive per sentire quel bisbiglio. “La bestia sei tu. E non potrebbe essere altrimenti, dopo tutti gli innocenti che hai ucciso, tutte le famiglie che hai distrutto…” il giovane gemette di rabbia, come se ogni parola fosse una lama di dolore che lo trafiggeva.
Un lampo di rabbia attraversò le iridi scure di Bellatrix.
 
Io, una bestia? Gli uomini soccombono sotto la mia bellezza e la mia eleganza, e lui… osa chiamarmi bestia?
 
Era decisamente un affronto troppo grande perché Bellatrix Lestrange potesse passarci sopra. Lei era sempre stata disegnata come una rosa nera piena di spine, come una bevanda inebriante e velenosa; come qualcosa di bello ma di crudele.
E invece quell’essere insignificante non si era curato di quanto una rosa potesse essere bella, ma ne aveva semplicemente valutato l’essenza. E non lo aveva fatto nel modo in cui lei era abituata.
E così, invece che passare per bellezza proibita, ai suoi occhi era una bestia orribile.
“Non osare chiamarmi così” ringhiò con disprezzo. “Non osare chiamarmi con lo stesso appellativo con cui vengono chiamati i lupi mannari come te! Incarceramus!
 
Funi di acciaio iniziarono ad avvolgere il corpo del licantropo, che urlò di dolore.
Come ogni notte di luna piena, Remus Lupin pensò che mai in vita sua aveva provato un dolore tanto atroce. Più si dimenava più le corde gli stringevano il petto, le gambe, le braccia, e lentamente sentiva le sue ossa corrodersi e sbriciolarsi inesorabilmente. Sentì gli angoli degli occhi pizzicargli, e ormai le urla riempivano la stanza senza che lui se ne accorgesse. Ma niente avrebbe mai potuto sovrastare la voce velenosa di Bellatrix.
“Perché per quanto tu cerchi di apparire come un essere umano sarà sempre inutile, Lupin” parlò quasi con voce materna, falsamente dolce e comprensiva. “Verrai sempre disprezzato dalla società. Non ci sarà luogo dal quale non verrai bandito, tranne i boschi, perché è lì che dovete stare tu e i tuoi simili. Non ci sarà bambino che non tremerà nel sentire il tuo nome. Già me la immagino, la scena” ghignò sonoramente. “Mamma e papà che raccontano al figlioletto la storia di Remus Lupin, il lupo cattivo, e il bambino che si spaventa. Ma poi mamma e papà gli dicono che se farà il bravo il lupo cattivo lo lascerà in pace, e il bambino si tranquillizza. Fai i compiti, e vedrai che il mostro cattivo ti lascerà in pace” cantilenò ridendo, e ferendo nuovamente il cuore a brandelli del licantropo.
“E quell’altra mocciosa…” con un sussulto da parte di Lupin, indicò con profondo disgusto il corpo inerme e privo di sensi della nipote Ninfadora Tonks. “Finirete per ammazzarvi a vicenda. Se non sarà lei a farti cadere qualcosa addosso con la sua goffaggine, sarai tu a sbranarla e a bere il suo sangue brindando alla luna”.
Il cuore di Remus Lupin non poteva sentire altro. Le lacrime premevano per uscire agli angoli degli occhi, e lui si sentiva così stupido. Sapeva che le parole di Bellatrix Lestrange erano vere, ma non voleva ascoltarle. Provò ad urlare, mentre le corde di acciaio gli mozzavano il respiro, cercando di sovrastare quella cruda verità che usciva dalla bocca di Bellatrix e che faceva troppo male per la sua anima a brandelli.
Lui non avrebbe mai potuto stare con Ninfadora, sapere che era un pericolo per lei lo faceva stare molto peggio del solito.
“Non puoi farci niente, Remus Lupin; sei un mostro, e mostro rimani”. Bellatrix lo liberò finalmente dall’incantesimo.
Era così semplice cedere alle lacrime, per Remus John Lupin.
Lui non avrebbe mai potuto stare con Ninfadora, ma viveva di questo sentimento.
“Sarò un mostro” farfugliò dopo un singhiozzo trattenuto a stento. “Ma ho un cuore che batte, dentro questo petto, per le persone che amo” posò lo sguardo sul pavimento di roccia, sull’unica lacrima che non era riuscito a trattenere, poi, con uno sforzo enorme, riprese a parlare, con più convinzione. “Nonostante io sia un lupo mannaro la mia anima è rimasta intatta, al contrario della tua…” gemette di dolore. Anche se era da poco stato slegato, sentiva ancora i segni delle corde sulla pelle. “Il mio cuore continua a battere, ma non per sete di sangue, non per sete di distruzione, o di vendetta…”. Poi sembrò ripensare alle sue parole, e parlò come se fossero state accuratamente studiate per ferire la donna il più possibile, nel profondo, nell’orgoglio.
 
Anche tu sei un mostro, Bellatrix. Esattamente come me
 
Detto ciò non aveva tempo di scrutare vittorioso l’espressione inorridita e infervorata di Bellatrix Lestrange. Doveva cercare la sua bacchetta, quella era la sua unica possibilità di spuntarla vivo, e non poteva di certo sperare in un’incontro a mani nude, dopo i danni fisici degli ultimi minuti sarebbe stato impossibile anche solo alzare un braccio.
Doveva ucciderla. Per salvare Ninfadora.
Tentò di alzarsi (pur sapendo che era praticamente impossibile) e di andare a cercare la bacchetta, ma era troppo sfinito e dolorante anche solo per scostarsi il ciuffo di capelli castani dalla fronte, aveva un urgente bisogno di aiuto. E lo ricevette dalla persona da lui meno aspettata.
 
Bellatrix Lestrange lo trascinò verso l’alto strattonandolo per il colletto della camicia. Non ebbe neppure il tempo di rendersi conto di essere in piedi, che venne sbattuto violentemente contro la fredda superficie di pietra della parete più vicina.
Il terrore s’impossessò di lui quando gli si parò davanti la scena di una Bellatrix Lestrange piuttosto adirata che gli fiatava sul collo e che gli puntava la bacchetta premuta contro la gola.
Lupin avrebbe voluto reagire, ma nelle sue condizioni era impensabile. Tanto più quando sentì le unghie spietate della donna affondare nel suo collo e nel suo petto.
Si morse la lingua tra i denti per non gemere dal dolore.
La donna puntò gli occhi, due infinite pozze di petrolio, nei due pezzi di cielo incastonati nel volto di Lupin al posto degli occhi. I suoi occhi blu erano umidi del pianto silenzioso di poco prima, e Bellatrix parve accorgersene con immenso piacere.
“Oh… le mie parole ti hanno ferito? Povero cucciolo di ibrido” cantilenò la prima parte della frase in tono falsamente dolce, e poi gli sferrò con rabbia un pugno dritto in pancia.
Bellatrix storse la bocca nell’osservare il giovane, come se non vi trovasse nulla di umanamente apprezzabile.
Odiava i suoi occhi blu, solitamente calmi e tranquilli, senza mai un pizzico di malizia o cattiveria che li accendesse. Odiava quelle labbra dolci e sottili, delicate, che si curvavano in un sorriso gentile per tutti, tranne che per lei naturalmente. Bellatrix doveva constatare a malincuore che la purezza del sorriso di Remus era rimasta intatta negli anni in cui aveva avuto il dispiacere di conoscerlo; solo, ultimamente era un sorriso infinitamente malinconico.
Era così sbagliato essere buono, per un lupo mannaro. Lui era una bestia.
Perché non si comportava da bestia? Qual’era il suo posto?
Bellatrix era portata, di natura, ad odiare la bontà, la semplicità, la purezza. Fin da bambina, le sue piccole dita strappavano margherite e camelie dai prati di fiori.
Così, come aveva sempre rubato la vita alle camelie, pure e graziose, e alle margherite, semplici e genuine, avrebbe strappato l’anima dal corpo di Remus Lupin.
Cominciando dal macchiare quelle labbra.
Quando lo stomaco di Lupin fu costretto a piegarsi dal dolore, Bellatrix artigliò con forza la sua nuca, strinse i capelli castani e si intrufolò con una prepotenza inaudita nella sua bocca.
Lupin, sorpreso quanto inorridito, si dimenò con le poche forze rimaste, col solo risultato di venir spinto contro la parete con maggior insistenza. La lingua di Bellatrix lo esplorava con forza, mentre quella di Remus cercava di ritrarsi il più possibile, ma senza risultato.
Le labbra di Lupin erano sempre state incredibilmente invitanti per Bellatrix. Erano di un rosso fragola, e sapevano di purezza.
La purezza delle sue labbra era come una tela bianca, Bellatrix le trovava irresistibili perché aveva sempre voluto violare quella tela, infrangere la sua dolcezza, sporcarla e dipingerla di un rosso impuro. E così fece.
Quelle labbra di un innocenza così genuina,patetica, come se non si fossero mai distorte in un sorriso crudele, come se non appartenessero affatto ad un lupo mannaro assetato di sangue e carne umana.
Bellatrix sentiva il corpo del licantropo tremare contro il suo e provò l’indomabile istinto di spezzare, frantumare in mille pezzi la bontà della sua anima, la dolcezza delle sue labbra.
E così macchiò la candida tela di rosso.
Mentre la sua lingua si intrufolava in lui con foga, i suoi denti affondarono nella carne sottile rosso fragola.
Lupin gemette di dolore nella sua bocca, e il sangue macchiò la sua pelle candida. Bellatrix leccò anche i rivoli che gli avevano lambito il mento, decisa a non sprecare neanche una goccia di quel liquido paradisiaco.
 
Le labbra gli bruciavano, bruciavano terribilmente. Era confuso. Se non fosse stato per il corpo della Lestrange che lo teneva incollato al muro sarebbe caduto a terra, come un fantoccio. Non riusciva più a formulare un pensiero sensato nella sua mente. Gli faceva male dappertutto. Quella tortura lo stava uccidendo. Lui era sfinito, riusciva a malapena a tenere gli occhi aperti.
Nonostante fosse più forte di quando solitamente tenesse a dimostrare, la battaglia, gli incantesimi, le urla, il dolore, il sangue, la sofferenza, le lacrime, lo avevano stremato.
 
Bellatrix assaporò a fondo e si inebriò del sapore del sangue. Inutile dire che il debole tentativo di protesta da parte di Lupin fallì miseramente, perché le mani della strega gli attanagliavano in una morsa crudele la nuca, costringendolo a rimanere chino su di lei.
Quegli attimi parvero infiniti, a Remus Lupin.
Raccolse l’ultimo briciolo di voce che gli rimaneva.
“Perché, Bellatrix?” chiese debolmente. “Perché non mi uccidi e basta?”.
La morte avrebbe posto fine a quella sadica tortura, pensava Lupin, che provava dolore anche al solo ricordo delle corde che lo stritolavano come un serpente d’acciaio. Ninfadora sarebbe stata molto meglio senza di lui. Avrebbe ricostruito la sua vita attorno a un’altra persona, magari più giovane, meno povera, meno pericolosa.
Perché lui era sempre stato troppo vecchio, per lei. Troppo povero. Troppo pericoloso.
Ninfadora si ostinava a non capire. Ma così avrebbe finalmente capito, così sarebbe stato molto meglio per tutti loro.
Almeno così nessuno più correva il rischio di essere sbranato da un mostro pazzo una volta al mese.
 
A Lupin parve di riacquistare improvvisamente la capacità di respirare quando Bellatrix scostò di qualche centimetro il viso dal suo, per studiarlo con serietà.
E aveva già trovato un’altra cosa che odiava di Remus Lupin, ma che, allo stesso tempo, la tentava.
I lineamenti del suo viso erano schifosamente dolci, nonostante le cicatrici e i segni prematuri sul suo volto. Troppo dolci per un lupo mannaro, troppo sbagliati.
 
Qual è il tuo posto, Remus Lupin?
 
Un'altra volta Bellatrix Lestrange moriva dal desiderio di eliminare quella dolcezza ripugnante, ingiusta, indecente.
 
“Ma non è ovvio?” a Lupin parvero secoli quelli che la donna ci aveva messo per rispondere alla sua domanda. “Voglio solo giocare con te, Remus Lupin”.
 
E si fiondò ora sulla sua mascella, sui tratti dolci del suo viso, sul mento, sul collo, mordendo e lasciando segni rossi e sangue dappertutto, deturpando l’immagine innocente di quell’uomo. E lui si sentì solo un fantoccio, una bambola, con gambe e braccia ricuciti malamente. Gemette di dolore, ancora una volta, ma non era più in grado di opporsi. Il suo labbro sanguinava copiosamente, nonostante tutte le volte che Bellatrix ci passasse le lingua.
 
Ormai era finita. Una volta che il fantoccio era stato usato, maltrattato, scucito e ricucito, sarebbe morto. Non serviva più a niente. Era questo il destino di Remus Lupin.
 
Il licantropo gemeva forte mentre i denti della donna sembravano dilaniare ogni centimetro di quella pelle candida. Persino i suoi simpatici baffetti castani erano insanguinati. La poca barbetta incolta tratteneva le gocce di sangue dello scivolare giù dal volto. I morsi sul suo collo latteo bruciavano, come se fosse stato marchiato a vita. E in effetti Remus Lupin non sarebbe mai riuscito a dimenticare quell’esperienza, se fosse sopravvissuto.
La lingua di Bellatrix arrivò a lambire le cicatrici non ancora arginate sugli zigomi, che cominciarono a bruciare. Il sapore del sangue misto a quello del metallo aveva sempre fatto impazzire la strega. Inferire contro la propria vittima, dilaniare i contorni di quel volto dolce, era terribilmente eccitante; la sensazione migliore che avesse mai provato. Sentire Remus Lupin gemere e dimenarsi stancamente contro il muro le dava una sensazione di spietato potere.
Le sue unghie artigliavano il collo del licantropo, lasciando nuovi tagli, come se non ve ne fossero abbastanza su quel giovane corpo.
 
Remus Lupin sentì l’ultimo fiotto di forza rimasto in corpo abbandonarlo definitivamente. Sentì il freddo mantello della morte avvolgerlo, le palpebre farsi sempre più pesanti. Sentì che respirare era una cosa non necessaria nel posto in cui la morte stava per portarlo. Quello era il posto giusto per lui, dove nessuno lo avrebbe giudicato per quello che era.
 
Il corpo di Bellatrix Lestrange si fece sempre meno concreto e più distante.
Remus Lupin cadde in avanti. Niente gli sembrava più morbido del pavimento roccioso sul quale stava lasciando la vita.
Vide, come ultima cosa, Bellatrix pulirsi le labbra dal sangue, lo stesso sangue che lui aveva in bocca, come se avessero bevuto entrambi dallo stesso calice.
 
Poi un immagine distorta di lui, sdraiato inerme su un letto bianco.
Seduta su uno sgabello lì vicino, Ninfadora Tonks stringeva le sue mani.
Una figura mediamente altra, accanto a Ninfadora, scrutava preoccupato il corpo sdraiato su quel letto. Aveva lunghi capelli neri, il volto scavato, due pezzi di ghiaccio incastonati al posto degli occhi. Remus riconobbe il volto come quello del suo migliore amico, l’unico amico che gli era rimasto in effetti, Sirius Black.
 
 
 
 
Dopo quelli che gli parvero mille anni, il corpo disteso su quel letto bianco, dalle lenzuola bianche, aprì gli occhi.
Molto prima di riuscire a mettere a fuoco l’ambiente in cui si trovava, provò un dolore estremamente familiare al viso. Poi sentì una voce altrettanto familiare che fece perdere un battito al suo cuore malandato.
“Remus… Remus… finalmente hai riaperto gli occhi”. Era Ninfadora. Giovane come sempre, bella, sorridente, concreta. Seduta sullo stesso sgabello di metallo che aveva visto mille anni prima per colpa di uno scherzo della mente. Aveva il capo fasciato, probabilmente a causa di quella brutta caduta di tanti anni fa, al Ministero della Magia…
Il suo cuore ricominciò a battere normalmente, i suoi respiri si regolarizzarono, ma appena provò a sorridere alla ragazza provò un dolore atroce alle labbra. Rabbrividì al ricordo di Bellatrix Lestrange che, molti anni prima, aveva lasciato dei lividi indelebili sul suo viso e nella sua memoria.
Poi alzò lo sguardo verso lo spazio dietro a Ninfadora in cui si doveva trovare Padfoot, il suo migliore amico, suo fratello.
Ma Sirius.
Sirius non c’era.




 
 
Non so come mi sia venuto in mente di scrivere un obbrobrio simile… ma Bellatrix e Remus sono così diversi che mi era venuta voglia di scrivere su di loro lol questo doveva essere un tentativo di Bellatrix/Remus, e temo che non sarà l'ultimo lol non chiedetemi il senso :’)
Comunque, per chi non lo avesse capito, l’obbrobrio è ambientato nel quinto libro, nella battaglia poco prima della morte di Sirius. E poi, ad esempio, nella frase “Aveva il capo fasciato, probabilmente a causa di quella brutta caduta di tanti anni fa, al Ministero della Magia…” quel di tanti anni fa non è ovviamente reale, è solo che a Remus sembrano essere passati mille anni, come se fosse rimasto in ibernazione lol povero.
Ah, un’ultima cosa, fate finta che i denti di Bellatrix siano puliti, un briciolo di pietà per il povero Lupin :’)
Prima di chiudere vorrei dire qualche parola. E cioè: imbecille, medusa, scampolo, pizzicotto! Grazie! –cit.
 
   
 
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