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Autore: Yoko Hogawa    23/05/2013    45 recensioni
In un mondo in cui le persone nascono con il nome della propria Anima Gemella "tatuato" sul dito anulare della mano sinistra, John e Sherlock vivono due situazioni particolari ed opposte. Mentre il primo è costretto a nascondere il proprio nome per non essere discriminato, il secondo ne è totalmente privo.
In modi diversi, entrambi crederanno di essere destinati a rimanere soli.
Finché non si incontrano.
[SoulBond!AU]
Genere: Azione, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Beh, ultimo capitolo.
Cosa si scrive, di solito, nelle note di testa dell’ultimo capitolo? Non mi capita spesso, diciamo. Ho la fobia dei finali.
Devo dire che quando ho cominciato questa fanfic non mi aspettavo di certo tutto questo... caos. In senso buono, ovviamente. L’avevo cominciata per svago.
Ha avuto una risonanza incredibile. Più di quello che ci si aspetta quando si scrive per passione e/o passatempo. E per questo devo davvero ringraziare tutti voi che leggete, preferitate e recensite questa fanfic. Mi avete messo addosso l’ansia da prestazione già dal primo capitolo, ma devo dire che è stato proprio un bel viaggio XD
 
Per l’ultima volta – almeno su questi lidi – vi auguro una buona lettura ♥
 
(P.S.: Inoltrate pure qualsiasi lamentela, soprattutto sull’OOC finale, all’ambasciata italiana a Nuova Delhi. Sarò emigrata lì ;D).

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5. Allegro

 
 
 
 
 
Aveva pensato di non andarci.
Nessuno lo avrebbe fatto. Nessuno, che avesse almeno un po’ di buon senso e un briciolo di amor proprio.
Forse questo concetto non si applicava a lui, allora. Dopotutto non aveva niente da perdere.
Bethnal Green era una fermata della Central line, piccola ma famigerata a causa di una strage civile avvenuta durante la Seconda Guerra Mondiale. Non era molto trafficata, solitamente, ma lo diventava (come tutto il resto della linea) durante gli orari di punta.
Come le 18:15.
Più rimaneva fermo in piedi alla banchina in direzione Stratford, più si rendeva conto che tutto ciò che lo circondava non era casuale.
C’era molta gente lungo i binari, ferma in piedi ad aspettare i treni. Tutte persone con abiti eleganti e ventiquattrore, studenti nelle loro divise scolastiche che tornavano a casa dal rientro pomeridiano o adolescenti in tuta da ginnastica che si dirigevano sul campo da rugby.
Per un momento pensò a quando era lui, a giocare a rugby. A quando si riempiva di fango e si rompeva le ossa in mischia solo per scaricare il quantitativo spropositato di rabbia e delusione adolescenziale che si portava dentro. Aveva passato l’adolescenza sempre sul punto di esplodere, sempre sul punto di urlare al mondo quanto fosse ingiusto e schifoso.
Un po’ come si sentiva in quel periodo.
Implodeva ogni giorno. Silenziosamente e sempre da solo, ma arrivava ad un certo punto della giornata in cui doveva fare due profondi respiri e trattenersi dallo spaccarsi le nocche delle mani prendendo a pugni un muro.
Forse era quello in motivo per cui ora si trovava in mezzo a tutta quella gente senza sapere cosa – o chi – aspettarsi. Perché i lividi sulle mani e un nome ormai sbiadito sul dito erano diventati meglio che ricordarsi quei 18 mesi con Sherlock e pensare a quanto fosse stato vicino alla vera felicità.
Deglutì, guardandosi intorno per distrarsi da certi pensieri. Proprio in quel momento, l’altoparlante della stazione annunciò la temporanea interruzione delle corse a causa di un intralcio sui binari, nelle gallerie. Un mormorio di disappunto si levò dalla folla, che si faceva sempre più fitta e numerosa.
Si ritrovò ben presto con la schiena appoggiata al muro. Le lancette dell’orologio da polso che indossava segnavano esattamente le 18:20.
Avrebbe dovuto andarsene. No, non sarebbe nemmeno dovuto andare lì. Tutta l’intera storia puzzava di marcio da ogni punto di vista. Cosa ci faceva lì? Cosa sperava di trovare?
Stava per incamminarsi verso l’uscita quando un uomo lo affiancò in silenzio, entrando con un gruppetto di pendolari.
« Sono sorpreso che abbia accettato l’invito, Capitano Watson ».
John si irrigidì, staccandosi dal muro e squadrando di riflesso le spalle. Istintivamente cercò il rassicurante peso della pistola, dimentico che essa era chiusa a chiave ormai da anni nel cassetto del suo comodino.
Indeciso sul da farsi, optò per stare al gioco.
« Le premesse erano invitanti » ribatté. « Con chi ho il piacere? » domandò subito dopo.
L’uomo, a differenza sua, si mise tranquillamente le mani in tasca e si appoggiò con la schiena alla parete. Guardandolo con la coda dell’occhio, John vide un uomo alto e ben piazzato, capelli biondi dall’aria dismessa e occhi marroni; aveva mani dalle dita robuste e l’inconfondibile aria da esercito.
Riusciva a sentirne quasi l’odore.
« Sebastian Moran » rispose quello, guardando dritto davanti a sé.
« Moran... » John assaggiò il nome con la lingua. « Mi ricordo. Un disertore. Credevo fossi a marcire in un qualche carcere militare » aggiunse poi, restio a dargli troppa confidenza o ad ammorbidire il tono.
Moran ridacchiò, divertito.
« Ricordami, Colonnello, quanti civili hai ucciso? » continuò poi Watson senza nemmeno sforzarsi di essere rispettoso.
« Ventiquattro. Più dodici di noi in alcune azioni insospettabili » precisò: « mi piacciono i numeri pari ».1
John storse il naso. Se c’era stato qualcosa di azzeccato, nella sua vita, quella era stato l’Esercito nonostante fosse formato quasi nella sua interezza da Bondless e BCE, ovvero da persone che difficilmente avevano altro posto al mondo. La gente – quella “normale” – credeva che l’aiutare la difesa del Paese e dei suoi ideali fosse un passo avanti, per Bondless e BCE, ma non si esimeva dal chiamarli comunque “feccia” a bassa voce, senza farsi sentire.
Se loro erano feccia, i traditori come Moran erano la crosta di sporco sul fondo del barile.
« Si può sapere cosa vuoi da me? » chiese – sputò – seccato.
« Rilassati, Capitano. Sono qui perché abbiamo una conoscenza in comune » gli rispose. Si tolse le mani dalle tasche, poi, per sfilarsi l’anello d’oro che portava all’anulare sinistro.
John trasalì, a disagio. Togliersi l’anello in pubblico era semplicemente qualcosa che non si faceva, una convenzione sociale legata alla privacy dei SIN; ma nessuna delle persone che li circondavano sembrava badarci e, chi se ne accorse, distolse lo sguardo.
Moran sogghignò alla sua reazione, ma gli mostrò comunque la mano sinistra.
E John lo vide.  Sul dorso dell’anulare non vi era alcun nome, solo una cicatrice traslucida più chiara della pelle che, guardandola meglio, era formata da tre lettere incise sulla pelle in modo maldestro (e sicuramente doloroso).
J I M.
Realizzò quasi immediatamente con chi aveva a che fare e si girò di scatto, allontanandosi di un passo (per quanto la folla glielo permettesse) e mettendosi sulla difensiva.
Ma Sebastian Moran sembrava la persona più tranquilla dell’universo mentre si rimetteva al dito la fede come se il fatto nemmeno fosse suo.
« Sono un Bondless » cominciò poi: « ...il Bondless di James. Così come lui era un Ribbon. Mi ritrovò nella prigione militare di Kabul e, per usare le sue parole, mi “reclamò”. Ha usato un cutter, per fare questo » disse, muovendo il dito con l’anello dorato.
John non fece una piega, teso e pronto a tutto. Moran non faceva altro che osservarlo e non sembrava avere in mente una qualsivoglia azione offensiva.
« Penso che tu sappia perché ho voluto incontrarti, Capitano » disse poi.
« Non sono più “Capitano” ».
« Non si smette mai di essere un soldato » rispose però Moran, esprimendo a parole ciò che anche John pensava: « Le tue medaglie e menzioni in dispaccio meritano almeno il rispetto del grado » disse, serio.
John rimase in silenzio, pensieroso. Poteva fidarsi?
Aveva scelta?
« La fotografia... » cominciò allora: « ...è autentica? ».
« Affermativo » rispose l’altro: « scattata a Montpellier, in Francia, circa un mese fa ».
John prese due profondi respiri. « Lui è morto ».
« Per te, » rispose Moran: « per l’opinione pubblica. Ma non lo è mai stato davvero ».
Il cuore di John accelerò. « Menti » lo accusò.
« Sei tu che non vuoi accettare la possibilità che io abbia ragione ».
John scosse il capo, distogliendo lo sguardo e fissandolo sulla punta rovinata delle proprie scarpe. « No... » mormorò, incredulo: « l’ho visto cadere... ero lì quando... quando... » borbottò a bassa voce.
« Non so come ha fatto » intervenne Moran, il tono franco che i soldati usano con i propri commilitoni: « l’ho rintracciato per caso parlando con un falsario di Birmingham. Se ne andava in giro a cercare gli uomini che avevano collaborato con Jim tre anni fa... ho avuto conferma che si trattava di Sherlock Holmes solo cinque mesi fa » spiegò.
Watson non sapeva cosa dire. Continuava a scuotere la testa ad inerzia, come se quel movimento dovesse aiutarlo a rendere tutto meno possibile e dunque a mantenere una calma composta, rifiutandosi di credere a ciò che sentiva e a ciò che aveva visto. Nella mente aveva solo gli eterni fotogrammi di quel volo giù dal tetto del Barts e del sangue sull’asfalto.
Come poteva essere tutto una menzogna?
Come poteva?
Ma la domanda che alla fine fece fu un’altra.
« Perché io? Perché adesso? Perché qui? ».
Moran distolse di nuovo lo sguardo da lui, tornando a guardare qualcosa davanti a sé. « Perché i mocciosi, intendi? » domandò retoricamente: « non so se l’hai notato, ma hai praticamente mezza città alle costole » disse, quasi candidamente.
John alzò lo sguardo, aggrottando le sopracciglia. « In che senso? » chiese.
« Sorveglianza. È diventato difficile avvicinarti, ho rischiato di farmi scoprire, la prima volta. I bambini erano il modo meno pericoloso per contattarti. Nessuno si preoccupa di un gruppo di orfani scapestrati che girano per Londra, soprattutto se sono Ribbons » spiegò.
La prima immagine che gli passò per la mente fu il volto irritante di Mycroft Holmes e seppe subito che, nonostante non lo vedesse o sentisse da quasi tre anni, questo non valeva per entrambi ed in entrambi i sensi.
Trattenne un fiotto di fastidio. « Perché dovrebbe sorvegliarmi? » domandò poi, anche se cominciava ad intuire la risposta.
« Sicurezza » rispose subito Moran: « a causa mia. Perché sono a piede libero e sono io quello che doveva ammazzarti, se Holmes non si fosse buttato dal tetto ».
Watson, se possibile, si fece ancora più teso. Il corpo era completamente rigido e i muscoli del collo potevano tranquillamente essere paragonati a corde di violino. Se non fosse stato pressato in mezzo alla folla di pendolari sarebbe indietreggiato fino a raggiungere una distanza di sicurezza maggiore dei trenta centimetri che attualmente li separavano. Ma non poteva, ed ora era sufficientemente cosciente che anche il ritardo dei treni fosse opera del Colonnello Moran.
Confusione, pensò. Gente. Tante teste che avrebbero facilmente reso inutile un sistema CCTV, o impedito a delle invisibile guardie del corpo di fare il loro lavoro. Si immaginava gli uomini di Mycroft bloccati nella folla, o del tutto assenti dato che quello era un tragitto che lui faceva abitualmente almeno un paio di giorni a settimana. Era tutto volto ad allontanare la morsa di sorveglianza che Mycroft  doveva aver stretto intorno a lui senza che lui se ne accorgesse.
Proprio quando pensava di essersi tolto per sempre dai piedi la stirpe Holmes.
Quasi non voleva sapere la risposta alla sua prossima domanda.
« È vivo? » domandò, il tono duro e venato d’ira.
« Sì » rispose Moran.
« Come posso esserne sicuro? ».
« Hai la fotografia, tutti i suoi alias che sono riuscito a scoprire e persino i luoghi in cui è stato ».
John soffiò fuori una breve risata scettica. « E dovrei fidarmi sulla base di una fotografia e di un paio di nomi? ».
« Eppure sei qui » rispose franco l’altro.
John si ammutolì.
Non sapeva più distinguere cosa lo facesse arrabbiare di più, in tutta quella storia. Credere a Moran – credere alla fotografia di colui che pensava essere un fantasma fino al giorno prima – significava rendere reali una serie di implicazioni.
Menzogna. Tradimento. Quasi tre anni di vuoto e desolazione e rabbia, tanta rabbia... tre anni di rimpianti in cui non si era sentito all’altezza di niente, in cui aveva smontato il proprio orgoglio pezzo dopo pezzo facendo finta che esistesse ancora, negando di averlo distrutto con le proprie mani.
Quasi tre anni di sigarette fumate alla memoria di un traditore.
Traditore, traditore, traditore, traditore, traditore!
Perché non mi hai detto niente? Perché non mi hai coinvolto? Sarebbe bastata una parola e ti avrei seguito in capo al mondo. Ero già tuo da usare come volevi.
Ti amavo già così tanto e tu nemmeno lo meritavi.
Non si accorse nemmeno di stare stringendo i pugni fino a far sbiancare le nocche e conficcarsi le unghie nella carne dei palmi. Non si accorse dei muscoli tremanti per la tensione e dei denti serrati fino a farsi dolere le gengive. Guardava il volto noncurante di Moran con l’espressione furente di un uomo che nasconde dentro di sé una bestia pronta a saltarti al collo.
E forse lo era.
Forse lo era sempre stato.
Forse era nella sua natura di BCE.
Forse suo padre aveva sempre avuto ragione.
Soffiò fuori uno sbuffo d’aria dal naso, chiudendo gli occhi alla ricerca non di uno stato di calma (non poteva) ma almeno di autocontrollo.
« Cosa vuoi da me? » chiese poi, con un tono che sembrava rassegnato ma lo era solo in apparenza.
Se si fosse tolto l’anello, John ne era sicuro, il nome di Sherlock probabilmente sarebbe stato a malapena visibile.
Forse anche il SIN era una prova. Lo spezzarsi definitivo di un Legame già a senso unico che aveva fatto guarire la sua perenne ferita e fatto scomparire quel nome che era sempre stato più disperazione che speranza.
Moran rimase in silenzio per un istante, guardandolo dritto negli occhi senza la minima emozione.
« Voglio Sherlock Holmes » disse poi.
John ricambiò lo sguardo. « Vuoi ucciderlo? » chiese.
« Sì » ammise il Colonnello.
« Vendetta? ».
« Sì » rispose di nuovo.
« E perché dovrei aiutarti? » chiese allora John.
« Perché siamo simili, in fondo » disse Sebastian: « abbiamo entrambi tentato di ricavare del buono dalla nostra vita e guarda come siamo stati ripagati. Spendibili in guerra, da scartare non appena diventati inutilizzabili, ributtati in una società che ci ha sempre considerati come una sottocategoria dell’essere umano, qualcosa di simile alle bestie. Tu sei stato ottimista e lo sei stato più a lungo, io l’ho capito prima ».
John non rispose, cercando di rifiutare la verità che filtrava da quelle parole. Una verità che era già penetrata dentro le sue ossa con tutta la sua forza.
« E questo dovrebbe giustificare un mio tradimento nei confronti di... Sherlock? » non riusciva nemmeno a pronunciare il suo nome senza interrompersi.
« Lui non si è fatto di questi problemi, mi sembra » rispose però Moran.
Come poteva ribattere ora? Come poteva dirgli “no”, quando persino lui stesso non credeva più in niente?
Tutto il tempo passato con Sherlock sembrava un’inezia, qualcosa che solo lui era stato idiota abbastanza da considerare importante. Aveva tanti bei ricordi di lui – non ultimo quel bacio, quella notte sempre più lontana e sfocata – ma ai suoi occhi si erano trasformati in momenti incongruenti, attimi che solo lui aveva ancora il coraggio di conservare con cura.
Scommetteva che Sherlock se ne era già dimenticato. Anzi, probabilmente per lui era stata tutta una prova, una sorta di gioco, di esperimento. E lui, John Watson, un cagnolino fedele con cui giocare per un po’ e che poi aveva abbandonato.
Abbandono, sì. Aveva convissuto con l’abbandono. Lo aveva respirato con l’aria e ingerito con l’acqua.
Per lui Sherlock Holmes era importante.
O meglio, lo era stato.
Non si ricordava più quando aveva smesso di esserlo.
Cosa lo obbligava a proteggere Sherlock Holmes? Cosa lo spingeva a rispondere “vaffanculo” col rischio di venire ucciso a sangue freddo esattamente lì, su quella banchina? Lo avrebbe fatto se avesse saputo.
Lo avrebbe fatto, se il nome sul proprio dito non stesse inesorabilmente scomparendo.
Cosa si ha da perdere quando non si possiede più niente ed il futuro non ha in serbo nulla se non l’incertezza? A cosa dovrebbe aggrapparsi una persona se tutto ciò che ha di più caro si scopre essere frutto di una menzogna?
Perché non assecondare le aspettative della società, allora?
Perché non scegliere la strada più semplice?
« Quale sarebbe la mia parte in tutto questo? » domandò dopo qualche istante di pensoso – e rassegnato – silenzio. Le persone attorno a loro cominciavano a muoversi sul posto, irritate per il ritardo del treno.
« L’esca » rispose semplicemente Moran.
John ridacchiò amaramente. « Chi ti dice che gli importi così tanto di me? ».
« Ti ha salvato la vita. Vi ha salvato la vita. A te, a quel Detective di Scotland Yard e alla vostra padrona di casa. Eravate dei bersagli tutti e tre » gli spiegò: « verrà anche questa volta. Non si sarebbe impegnato così tanto a darci la caccia, altrimenti ».
Era consapevole che quella rivelazione avrebbe dovuto rabbonirlo, fargli provare orgoglio o, quantomeno, un positivo senso di comprensione nei confronti di Sherlock... ma non fu così. Non sentì niente, nemmeno dispiacere, tantomeno responsabilità.
« Intuirà tutto » rispose John.
Il Colonnello fece spallucce: « ci proverà comunque » assicurò.
« Come fai ad esserne sicuro? » continuò John.
Moran, distrattamente, si toccò la fede con le dita. « Ci conto » rispose solamente.
Anni prima non avrebbe mai accettato. Sarebbe stato persino nauseato dal pensiero di lavorare al fianco del braccio destro di Moriarty, l’uomo che aveva fatto passare loro l’inferno.
Ma non in quel momento. Non più. Non sentiva niente. I suoi sentimenti erano addormentati, rinchiusi in un angolo buio del suo subconscio, inermi. Forse era quella la cosa davvero spaventosa.
Nel suo silenzio, Moran osservò l’orologio. « Tempo scaduto, Capitano » disse, staccandosi dal muro e raddrizzando la schiena. « Due giorni, Watson. Sai come contattarmi ».
John aggrottò minacciosamente le sopracciglia. « Credi davvero che userò gli Irregolari? » chiese.
« E tu credi davvero che me la prenderò con dei bambini? » chiese di rimando Moran, come se il fatto che avesse un briciolo di coscienziosità fosse scontato.
John non rispose, limitandosi a guardare le spalle del Colonnello mentre si allontanava in direzione dell’uscita.
 
 
 
 
Pensò a quella possibilità tutta la notte. E tutto il giorno seguente. E persino la notte successiva.
Senza dormire, senza mangiare. Immobile con lo sguardo fisso in un punto.
Aveva contato i propri pensieri uno ad uno, considerato le possibilità e le conseguenze, le prospettive. Si era lasciato affogare nell’idea alla ricerca di un qualcosa che lo fermasse o che, almeno, gli facesse nascere il dubbio.
Ma non trovò niente.
Riusciva solo a pensare che Sherlock era vivo, lo era sempre stato, e lui non lo aveva mai saputo.
Qualcuno sapeva? Quasi sicuramente sì. Qualcuno doveva averlo aiutato a fuggire, a nascondersi, a fingere.
Chi? Qualcuno che conosceva? Qualcuno di cui si fidava?
Più ci pensava e più si sentiva tradito, patetico... inutile.
Rimpiazzabile.
La mattina del terzo giorno mandò Agatha a cercare Rick e strappò un foglietto dal blocco delle ricette. Afferrò una penna e, senza esitare, scrisse la sua risposta.
 

Ci sto.

 
 
 
 

.o0o.

 
 
 
 
Londra, Regno Unito.
Due anni e dieci mesi.
Fra tutto quello che il Detective Inspector Lestrade avrebbe potuto trovare ritornando a casa dal lavoro – vivendo con un Holmes non si può mai dire – ciò che effettivamente trovò lo lascio esterrefatto.
Seduti sulle due poltrone del salotto, uno di fronte all’altro, i fratelli Holmes lo stavano guardando  in silenzio.
O meglio, si erano zittiti non appena avevano sentito la porta d’ingresso aprirsi e chiudersi, Greg ne era sicuro. Non li aveva sentiti parlare, né sospettava della loro presenza finché non li aveva visti, ma quei due avevano dipinta in faccia quell’espressione a tratti tesa di quando si sta parlando di qualcosa di privato al tavolo del ristorante e il cameriere arriva con l’ordine.
D’altro canto, probabilmente gli stavano dando il tempo di ammortizzare il trauma.
Cosa che Greg non stava assolutamente facendo. Ci vollero cinque minuti buoni  prima che riuscisse a smettere di fissare Sherlock e chiudesse la bocca, tra l’altro senza nemmeno ricordarsi quando l’avesse spalancata.
« Non è vero » balbettò dopo quattro tentativi a vuoto: « tu sei morto ».
« Vedo che non hai ancora perso il vizio di sottolineare l’ovvio, seppur errato » commentò Sherlock, guadagnandosi un’occhiata di sbieco da parte del fratello.
Lo stesso che, subito dopo, si rivolse a Lestrade. « Greg, possiamo spiegarti tutto se manterrai la calma necessaria ad ascoltare senza farne una tragedia » premise.
« Farne una tragedia? » ripeté l’Ispettore, risentito: « farne una tragedia?! Io non ne sto facendo una tragedia, questo è un fottuto complotto! » sbottò, lanciando il trench sul divano di fronte alle due poltrone. Greg Lestrade era sempre stato molto schietto nell’esprimere i suoi stati d’animo, ma ciò che indicava davvero un suo stato d’alterazione era il numero di imprecazioni che usava in una frase.
Nessuno dei due Holmes osò pronunciare parola.
Lestrade continuava a guardarli con un’espressione incredula e le sopracciglia contratte in un cipiglio aggressivo. Aveva voglia di dargli un pugno, Sherlock poteva facilmente dedurlo. Stava stringendo la mano lungo il fianco fino a far sbiancare le nocche nello sforzo di trattenersi. Forse non lo aveva ancora aggredito senza riserve per “merito” della presenza di Mycroft. Non si sarebbe sorpreso se il poliziotto avesse cominciato a limitare le le zuffe da basso borgo, quando era in compagnia del suo compagno.
Gli ci vollero ancora alcuni minuti prima che realizzasse completamente la situazione e capisse anche ciò che non era rivelato, ma ampiamente sottointeso. Girò lentamente il capo e il suo sguardo si posò proprio su Mycroft.
« Tu lo sapevi... » mormorò, incredulo. Per la prima volta, Sherlock vide un accenno evidente d’ansia sul volto del fratello.
« Sì, ma– ».
« Lo sapevi! » lo interruppe Lestrade, alzando la voce: « tre fottuti anni e l’hai sempre saputo! » continuò, a dir poco agitato.
L’ansia fece posto alla fermezza, sul volto del politico. « C’era più di un buon motivo per non metterti al corrente del piano, Gregory. Ora calmati » disse, il tono normale ma profondo, adamantino.
Peccato non servisse proprio a niente.
« Non dirmi di calmarmi, Mycroft, maledizione! » rispose l’Ispettore, alzando la voce quel tanto che bastava ad imporsi sull’altro (una cosa che solo a lui sembrava essere permessa): « fra tutte le cose che potresti dire in questo momento, “calmati” è la più sbagliata! » esclamò.
Mycroft mantenne il contegno. « Stai esagerando » disse.
« Non credo proprio » ribatté però Lestrade: « voi Holmes non avete filtro, siete geneticamente programmati per essere dei cazzoni, dunque non avete la fottuta idea di cosa voglia dire “esagerare” » disse tutto d’un fiato, guardando Mycroft ma riferendosi ad entrambi: « perché sì, signor Governo, fare finta di suicidarsi e sparire dalla circolazione per tre anni, lasciando indietro tutte le persone che a lui tenevano e che tuttora lo credono morto, si chiama “esagerare”. Anzi, si chiama “oltrepassare il limite della decenza”! » si sfogò.
In tutto questo, Mycroft rimase seduto e calmo, come se ciò che l’altro stava declamando non fosse nemmeno di suo interesse. Ma era una facciata: in realtà aveva assorbito ogni parola e la prova tangibile che lo stesse ascoltando attentamente era il fatto che avesse tenuto le mani ancorate sui braccioli della poltrona dal momento in cui Lestrade aveva messo piede nella stanza.
Suo fratello era cambiato, considerò Sherlock. E non pensava fosse solo merito del Legame, se era arrivato ad avere una così alta considerazione per Lestrade da subire una ramanzina – anche se non rivolta direttamente a lui – in silenzio. Mycroft Holmes non era rimasto zitto nemmeno l’unica volta in cui sua madre aveva messo in discussione l’alimentazione poco salutare a base di carboidrati e zuccheri che lo rendeva un ragazzino sovrappeso con la faccia rotonda. Era entrato in politica non solo per merito della sua intelligenza, ma anche grazie alla sua particolare caratteristica di potersi rigirare le persone sul dito utilizzando un quantitativo effettivo di sole 50 parole, congiunzioni comprese.
Potere a cui Lestrade sembrava essere completamente immune.
Dopo lunghi minuti di esclamazioni furiose e sguardi infuocati d’ira, nella stanza calò il silenzio. Greg aveva la mascella contratta e il fiato corto, ma alla fine si arrese all’evidenza di non ricevere alcun tipo di risposta da parte del compagno e, irritato, sbuffò. Si strofinò gli occhi con le dita, riflettendo sul da farsi e trovando finalmente la calma necessaria per ascoltare. Poi, per la prima volta dall’inizio di quella discussione, posò lo sguardo su Sherlock.
Sembrava che stesse guardando un poltergeist, o qualcosa di molto simile ad uno spettro. Anche solo vederlo respirare, notò Sherlock, lo agitava. Pensò che fosse una reazione tutto sommato normale, dato che per tre anni in molti lo avevano creduto sepolto in una bara sotto svariati metri di terreno e un prato ben curato.
Greg prese un respiro profondo, prima di tirare fuori la voce.
« Dammi un buon motivo per non prenderti a pugni seduta stante, perché giuro che non ho mai avuto così tanta voglia di vedere qualcuno sputare i denti uno per uno a furia di calci in bocca »  disse.
Sherlock sostenne il suo sguardo ma non rispose.
« Cosa... cosa ti è venuto in mente di fare? Perché? Io non... non mi sento nemmeno in grado di commentare in modo intelligente ».
« Ho notato » ribatté Sherlock; Lestrade gli scoccò un’occhiataccia.
« Dovrei pestarti a sangue » ripeté poi l’Ispettore.
Il minore degli Holmes annuì ma non ruppe il silenzio.
« Cristo santo... » borbottò poi il poliziotto, strofinandosi ancora gli occhi con la mano destra e lasciandosi cadere sul divano: « tre anni... il funerale, i fiori, i processi... John è finito in galera, lo sai questo? Anche sui giornali. Gli hanno rovinato la vita pubblicamente mentre ti piangeva e tu stavi... facendo cosa, di preciso? Ti nascondevi? Ovvio che ti nascondevi... » continuò a parlare con la mano sugli occhi. « Spero che tu abbia intenzione di dirglielo. Tipo, adesso » aggiunse poi, tornando a guardare il detective.
Sherlock scosse il capo. « No. Per John è ancora troppo presto » disse.
Lestrade lo guardò come se dovesse azzannarlo al collo, ma vide qualcosa negli occhi di Sherlock che lo fece desistere. Persino Sherlock era ormai consapevole di cosa avesse visto l’altro – quell’istante in cui non aveva potuto impedirsi di abbassare gli occhi al ricordo di John, del nome che ora l’anello d’argento aveva scopo di nascondere – e cercare di nasconderlo era più un dolore che una necessità.
Ci volle un altro minuto, prima che l’Ispettore cedesse. « Va bene... » concesse poi: « spiegatemi tutto ».
Mycroft incrinò le labbra nell’ombra di un sorriso. « Grazie, Greg » gli offrì.
« Aspetta prima di ringraziare, Myc » rispose però Lestrade: « ho deciso di ascoltarlo, non di perdonarlo ».
 
 
Il racconto di Sherlock durò più di un’ora. La cena era stata presto sostituita da tre bicchieri di Whiskey e ghiaccio, che nel caso dello Yarder si erano trasformati in tre bicchieri di Whiskey liscio.
Raccontò tutto. Dalla caduta alla fuga a Firenze, dall’anno passato sotto copertura a Lhasa alla caccia attraverso tutto il Medio Oriente fino in Francia. Del ruolo di Molly, e di Victor, e di Mycroft. Di come avesse dovuto rimanere solo e nascosto, mantenendo il segreto, accontentandosi di alcuni brandelli d’informazione che non sempre riusciva ad avere. Raccontò tutto con il tono fermo ma senza mai staccare gli occhi dal tappeto. Si interrompeva ogni tanto per bere un sorso d’alcool dal bicchiere ma riprendeva subito dopo, senza altre interruzioni, che comunque non arrivarono mai.
Quando arrivò alla fine, il silenzio scioccato di Lestrade e quello carico d’aspettativa dei due fratelli si fusero in una coltre pesante che li avvolse.
Il poliziotto sbatté le palpebre un paio di volte, con le labbra socchiuse e gli occhi fissi su un punto qualsiasi fra le poltrone di Sherlock e Mycroft. Teneva in mano il bicchiere vuoto da più di venti minuti, a mezz’aria, e più volte aveva preso fiato come se dovesse parlare ma non aveva pronunciato parola.
Infine sospirò, massaggiandosi la radice del naso con pollice ed indice della mano libera.
« Mi serve una sigaretta... » borbottò, parlando più a se stesso che con le altre due persone presenti.
« Mi sembrava che avessi smesso » intervenne Mycroft, più che altro per cercare di alleggerire la tensione che il silenzio contribuiva solo ad appesantire ancora di più.
« Quelle d’emergenza non valgono » ribatté lo Yarder, appoggiando finalmente il bicchiere vuoto sul tavolino e chinandosi in direzione di Sherlock, i gomiti puntellati sulle ginocchia. « Credo di doverti ringraziare » disse con un mezzo sorriso strano.
Sherlock scosse il capo. « Non l’ho fatto per te ».
« L’hai fatto anche per me. Dunque grazie » ripeté Greg, apparentemente più tranquillo e padrone di sé. Si alzò, poi, stiracchiandosi e adocchiando l’orologio: « è tardi, ma ho fame. E tu hai bisogno di mangiare qualcosa, sembri trasparente. Se ti mettessi controluce potrei vederti le ossa » disse rivolto a Sherlock.
« No, io– » cercò di rispondere il consulting detective, ma ribattere fu inutile.
« Non era una domanda » tagliò corto Lestrade, incamminandosi verso la cucina.
Mycroft si alzò, seguendo il compagno in cucina come se fosse semplicemente abitudine (e forse lo era). Sherlock esitò un istante, adocchiando il proprio anello d’argento come per riflesso condizionato, pensando per lo stesso principio a John, che ancora non sapeva nulla.
Smise di osservare la piccola striscia di metallo – e di immaginarsi il nome sottostante – prima che nella sua mente apparisse per troppo tempo il volto di John; si alzò a sua volta e seguì il fratello in cucina.
In quel momento, il telefono di casa Holmes trillò.
 
 
 
 

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L’automobile grigia procedeva a velocità sostenuta sulla A400 diretta verso nord. Il blu indaco della sera colorava un cielo stranamente sereno sopra lo skyline degli edifici in centro, che sfilavano velocemente fuori dal finestrino posteriore da cui John li stava guardando. Non distolse lo sguardo finché, dal sedile davanti a lui, non arrivò il segnale acustico di un SMS ricevuto.
« È stato avvistato a Heathrow due ore fa » disse Moran. Era sottointeso che parlasse con John e non con i due scagnozzi silenziosi che erano rientrati nel piano come fantocci di contingenza.
John chiuse le dita intorno al proprio anello d’argento – che ormai non copriva più alcun nome visibile – e strinse forte.
« Sei sicuro che sia lui? » chiese poi.
Non poteva vedere il volto del Colonnello ma riuscì ad immaginarsi comunque la sua espressione accigliata. « Hai ancora dei dubbi, Capitano? » domandò infatti quello.
Watson non rispose.
« Lo sospettavo » continuò Moran: « è difficile convincere il fedele Watson del torto subito per mano del suo Holmes » ironizzò.
« Non è il mio Holmes » ribatté però John con rabbia, dando retta più all’istinto che alla ragione (ancora indecisa, dubbiosa, piena di paure). La mano era stretta attorno all’anello così forte da premere dolorosamente il metallo contro la pelle dell’anulare. « Non lo è... » soffiò fra le labbra.
Non lo è mai stato.
 
 
 
 

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Lo studio di suo fratello non era cambiato di una virgola rispetto all’ultima volta che lo aveva visto (molto prima di andare a vivere a Baker Street); file ordinate di libri rilegati in pelle riempivano le librerie a parete e gli schermi piatti di due computer facevano sembrare la scrivania uno spaccato di qualche ufficio dell’MI6.
Mycroft li precedette all’interno della stanza a passo svelto, accendendo uno dei due monitor nel sedersi sulla poltrona di pelle. Inserì velocemente una password di sicurezza e, senza esitare, aprì l’allegato di una mail privata arrivatagli giusto qualche minuto prima, contemporaneamente alla telefonata che aveva interrotto qualsiasi loro tentativo di mettere qualcosa sotto i denti.
Il file era un video.
« Una telecamera su Northumberland Avenue ha registrato questo » disse il maggiore degli Holmes, facendo partire un filmato lungo solo quattro minuti e ripreso in bianco e nero senza audio.
Sherlock e Lestrade , in piedi ai lati della sedia di Mycroft, osservarono sconcertati le immagini di un cupo e apparentemente ignaro John Watson che veniva affiancato da un’auto argentata, preso di spalle dalle due persone che camminavano sul marciapiede dietro di lui e costretto a salire contro la sua volontà.
Un sequestro di persona in piena regola.
« Cristo santo... » borbottò fra i denti Greg, tappandosi la bocca con la mano destra in segno di completa incredulità. Sherlock si limitò a sgranare gli occhi, allungandosi per far ripartire il filmato e guardarlo più da vicino.
« L’auto risulta rubata » continuò Mycroft: « i due uomini che hanno preso il dottor Watson alle spalle sono entrambi pregiudicati e BCE, si chiamano Ivan Stanislav e Mika Kojinskij, figli di immigrati ucraini. Precedentemente incriminati per furto aggravato e sequestro di persona ».
« Sono rintracciabili? » domandò Lestrade, mentre Sherlock era ancora concentrato sul video e lo riguardava ossessivamente ancora e ancora.
« Li stiamo attualmente seguendo » confermò Mycroft: « sembra che non facciano nulla per evitare le telecamere CCTV, anzi. Si ha quasi l’impressione che vogliano rimanere in vista » disse.
« Una trappola? » domandò Greg.
« Un invito » intervenne però Sherlock.
Mycroft annuì. « Immagino che non ci sia bisogno che ti suggerisca chi penso ci sia, dietro a tutto questo » disse poi, intrecciando le dita delle mani e posandole sul legno scuro della scrivania.
« Moran » confermò Sherlock senza nemmeno guardarlo: « è palese. Ma questo video non mi convince. C’è qualcosa che non va. C’è qualcosa che non va? Cosa c’è che non va? Deve esserci qualcosa che non va » cominciò a borbottare velocemente, guardando il filmato per l’ennesima volta.
« A me sembra abbastanza chiaro » commentò Greg.
« Per fortuna che non ci sei solo tu, allora » rispose Sherlock piccato, guadagnandosi (ancora) un’occhiataccia da parte di Mycroft (che ignorò).
Doveva per forza esserci qualcosa di sbagliato. Per quanto fosse capitato in passato che John venisse rapito – da Moriarty, in primis – era stato differente. Era un soldato, dopotutto, poteva essere preso alla sprovvista ma non trattenuto per troppo tempo... non lo avevano addormentato. Non lo avevano addormentato. Si erano limitati a caricarlo in macchina con la forza... che senso aveva? John avrebbe potuto lottare, ribellarsi... magari c’era qualcun altro in macchina? Qualcuno pronto a puntargli una pistola alla tempia ordinandogli di non reagire? Lo stesso Moran? Quante probabilità c’erano?
Arricciò il naso in una smorfia, non riuscendo a seguire i propri pensieri. Strinse i denti fino a sentire dolore alle gengive e, con uno scatto d’ira, sbatté violentemente le mani sulla scrivania.
Lestrade sobbalzò mentre Mycroft si limitò ad osservarlo. « Che cosa vuoi fare? » chiese poi il politico.
Sherlock ispirò profondamente, osservando un fermo immagine del momento in cui John stava per essere trascinato in macchina. « Vado » disse poi.
« È una trappola » ribatté Mycroft.
« Lo so » rispose Sherlock: « ma è John ».
Gli occhi di Mycroft si assottigliarono. « Ed è importante? » domandò.
« Myc! » esclamò Greg scandalizzato, ma Holmes alzò la mano come per fargli cenno di aspettare la fine del discorso.
Sherlock non rispose, continuando a guardare fisso gli uomini incisi in quel fotogramma.
Mycroft continuò. « Lo hai tradito prima tu. In buona fede ma nella consapevolezza di avere poche, se non rare, chance di perdono. Sapevi e sai benissimo che saresti potuto tornare e non trovarlo più, dato che non ti stava di certo aspettando. Sarà anche tuo amico ma, oggettivamente, lo ritengo una persona inutile se non rimpiazzabile » lo stuzzicò. « Cosa ti ha fatto cambiare idea? ».
Sherlock non diede segno di voler rispondere.
Ma il fratello non si arrese. « Sherlock? » incalzò.
« Vuoi farla finita?! » sbottò allora il più giovane, ringhiando in direzione dell’altro: « è John, è ovvio che voglio salvarlo! È stato lo scopo degli ultimi tre anni della mia vita! » esclamò.
Ma Mycroft scosse il capo. « Non è solo questo. C’è qualcos’altro » disse.
« Oh, da quando sei diventato così intuitivo, Mycroft? » sfotté il detective.
Gli occhi di Mycroft si posarono su Lestrade per un istante. « Non si finisce mai di imparare » disse criptico, tornando a guardare Sherlock con lo sguardo di chi si aspetta di sentire la risposta che vuole.
Sherlock roteò gli occhi, esasperato. Facciamola finita. Si tolse senza grazia l’anello d’argento dal dito e allungò la mano in direzione dei due uomini.
Sull’anulare c’era, inciso in un rosso vermiglio, il nome “John”.
Le sopracciglia di Mycroft si alzarono per la sorpresa mentre Lestrade, spalancando la bocca, soffiò fuori un ennesimo: « Cristo santo! ».
Aspettò qualche istante, Sherlock, prima di prendere la di nuovo la parola. « Come vedi, c’è un motivo valido » disse.
« Potrebbe non essere lui » intervenne Mycroft, ostinato.
« Non potrebbe essere nessun altro » rispose però Sherlock, e per la prima volta nei suoi occhi grigi si leggeva molto più della logica razionalità a cui aveva dedicato la propria vita.
« John ha il tuo nome sul dito » intervenne poi Lestrade: « lo sapevi? ».
Sherlock annuì.
Lo yarder lo guardò dritto negli occhi per un po’, salvo socchiuderli nello sbuffare poco dopo. « Ora non posso di certo lasciarti andare da solo » disse.
Mycroft, nella poltrona, sussultò appena. Lestrade, notandolo, gli appoggiò una mano sulla spalla e la strinse piano. Sotto quel tocco, Holmes sembrò rilassarsi.
« Fai attenzione » disse poi a Greg, il tono basso e intimo.
« Come sempre » gli rispose Lestrade nel medesimo tono.
« Anche tu » aggiunse poi rivolto a Sherlock, che annuì semplicemente.
Bastò uno sguardo perché Sherlock e Lestrade uscissero di fretta dalla stanza, diretti verso quello che, piuttosto che una trappola, sembrava un formale invito all’ultimo giro di carte di una partita durata tre anni.
 
 
 
 
Camden Town era uno dei quartieri di Londra più adatto per lo shopping eccentrico. Pieno di negozi d’ogni tipo e dimensione, da buchi di qualche metro quadro a veri e propri edifici su tre piani, era il posto giusto per tutte quelle persone che nel vestire e nell’arredamento avevano gusti particolari. Botteghe di tatuatori si alternavano a negozi con abiti stile goth e dark, magliette a mezze maniche con stampe di ogni tipo, cappellini a visiera e deer stalkers, scarpe, bigiotteria, erbe orientali e molto altro.
Centro nevralgico del quartiere era però il mercato vero e proprio: il Camden Lock Market. Costruito sulle sponde del Regent’s Canal, non poteva essere descritto se non come un vero e proprio concentrato di vita e persone, merci accatastate una sull’altra in bancarelle all’aperto o al chiuso, un potpourri infinito di decorazioni etniche, vestiario, bigiotteria, libri, oggetti vintage, antiquariato, modernità e cibi di ogni nazionalità. I prezzi tutto sommato accessibili e qualche vendita sottobanco facevano del posto il luogo ideale per i giovani.
John non ci andava da molto, ma ci era stato qualche volta con alcuni compagni di università quando si era appena iscritto a Medicina. Ricordava dettagliatamente l’atmosfera calorosa e piena di vita di quel luogo, ricco di persone e risuonante di musica e delle urla dei commercianti, e nonostante fosse un luogo perennemente affollato non aveva potuto fare a meno di girarlo in lungo e in largo con la classica curiosità della gioventù.
Tuttavia, in quel momento il Camden Lock non era niente di ciò che ricordava.
Il buio della mezzanotte aveva fatto cadere sulle bancarelle di legno tutte in fila un velo di silenzio inquietante, mentre il cielo coperto di nubi non aiutava la luce della città a riflettersi abbastanza per illuminare la strada. Il lieve lucore che gli consentiva di vedere almeno un po’ davanti a sé proveniva dalle luci della vicina Chalk Farm Road e dai lampioni rotondi in ferro battuto installati sui marciapiedi in riva al canale.
Anche così, però, il luogo era silenzioso e deserto e John poteva sentire solo l’eco dei propri respiri riempire l’aria.
Solitudine. Era esattamente la parola adatta per descrivere quello che aveva in quel momento davanti agli occhi – e dentro al cuore. Incredibile come un luogo come quello, pullulante di vita al mattino, la notte divenisse un posto così freddo e desolato.
Un rumore di passi lo distrasse. Da una curva del sentiero alla sua destra spuntò Sebastian Moran con il volto illuminato dall’accendino con cui si stava accendendo una sigaretta.
« Hanno abboccato all’amo » disse, avvicinandosi e appoggiandosi con le natiche alla stessa balaustra di ferro a cui era appoggiato John.
Watson lo guardò con la coda dell’occhio ma non rispose. Moran sbuffò una voluta di fumo bianco che diffuse nell’aria l’odore acre della nicotina, subito spazzato via dalla leggera brezza notturna.
« Lo ucciderai? » domandò poi, lo sguardo fisso davanti a sé.
Il Colonnello prese un’altra boccata di fumo. « Sì » rispose l’ex militare senza esitazione: « tu riuscirai a fare lo stesso? » domandò poi.
John, ancora una volta, non rispose.
« Non è importante » riprese Moran: « la tua funzione principale è l’esca ».
John inspirò una grossa boccata d’aria, soffiandola poi fuori dal naso.
Non era sicuro che sarebbe stato in grado di uccidere Sherlock, o se la rabbia avrebbe semplicemente preso il sopravvento e avrebbe lasciato che il fato facesse il suo corso. Non era convinto di potersi trasformare in un criminale ma era sicuro di avere la forza di farlo, di poterlo oggettivamente diventare. Si sentiva come in piedi al centro di quel fantomatico incrocio con più direzioni, solo che le strade che si dipanavano davanti a lui erano tutte oscure e scoscese. Era in grado di uccidere, lo aveva già fatto. La differenza dai tempi di guerra esiste solo socialmente, solo agli occhi degli altri, perché un soldato che preme un grilletto, che mette in atto l’azione semplice del piegare un dito su di un pezzo di metallo, rimane la stessa. Ciò che differenzia un criminale da un eroe è solo la presenza di un nemico che persone più in alto di te ti danno il permesso di uccidere.
Ma cosa succede quando non esistono persone “più in alto”? Quando si è padroni solo di se stessi?
Uccidere per se stessi... perché è sbagliato?
Non riusciva più a discernere fra buono e cattivo, fra eroe e criminale, e più ci pensava più si rendeva conto che era questo, questo, che lo avrebbe trasformato in un assassino.
Che l’obbiettivo fosse Sherlock, alla fine, faceva ben poca differenza.
 
 
 
 
Lestrade frenò bruscamente sotto il ponte della ferrovia del Camden Lock Market, accostando il più possibile l’auto al bordo della strada e spegnendo il motore. Il fatto che fosse un punto particolarmente coperto alla vista di chiunque li aiutò a sgattaiolare in silenzio fuori dalla vettura e dirigersi, mantenendo lo stesso silenzio, verso la cerchia di fitte bancarelle di legno scuro.
« Ho chiamato i rinforzi » mormorò Lestrade, estraendo dalla fondina la sua 9mm d’ordinanza mentre seguiva Sherlock verso il mercato: « rimarranno appostati all’esterno del perimetro fino a nuovo ordine. Non voglio rischiare la vita di John, qualunque sia la situazione » disse.
Sherlock annuì, percorrendo alla chetichella la stradina in discesa che costeggiava una sponda del Regent’s Canal e si buttava nell’area centrale della zona mercantile. Proseguirono con passi leggeri, coperti dalle ombre, camminando affiancati alle lunghe file di banchetti ben chiusi.
Non riusciva a togliersi dalla mente l’idea che ci fosse qualcosa di sbagliato, in tutta quella situazione; un po’ come ascoltare una sinfonia nel pieno d’orchestra e notare comunque il suono distorto dell’unico violino male accordato.
Era strano, ma non avrebbe saputo spiegare perché. Se glielo avessero chiesto, non sarebbe riuscito a puntare il dito sul fotogramma esatto di quel filmato in bianco e nero che gli aveva fatto nascere il dubbio, perché era una sensazione d’insieme, un’invisibile filo spezzato nell’intreccio di un intero tappeto. Nascosto talmente bene che gli occhi da soli non sarebbero riusciti ad individuarlo.
Non c’era niente, nel filmato, che fosse oscuro, o poco chiaro. Il suo era un vero e proprio presentimento, qualcosa di così illogico e astratto che il suo primo istinto fu di rifiutarlo. Forse era per quello che non riusciva a capire.
Ma il presentimento restava, appoggiato sulle sue spalle come una colpa, ancorato al suo stomaco sottoforma di fastidio.
Forse non voleva trovare la pecca, il segno sbagliato che invalidava l’intera equazione. Forse era perché riguardava John, il rapimento di John; ciò che aveva voluto evitare e per cui aveva sacrificato 3 anni della propria vita (senza alcun rimpianto), l’unico obiettivo per cui aveva inseguito una manciata di uomini per tutta l’Asia: tenere John al sicuro. Si trattava di Moran che era riuscito a mettere le mani su John e questo non era concepibile.
Si chiese se non fosse colpa del nome. Se non fosse la nuova consapevolezza di avere qualcuno, qualche lettera sul dito che ormai aveva disperato dal possedere. Essere diventato, almeno sotto quel frangente, come gli altri: la metà di qualcos’altro, qualcosa all’infuori di sé, oltre sé. Si chiese se non era solo suggestione, preoccupazione inutile.
Eppure.
Cos’era quel sentore? Quel dubbio di aver fatto un errore di considerazione? L’ultima volta che l’aveva provata era seduto in un pub di Dartmoor e cercava di convincersi di non aver visto un enorme mastino idrofobo con gli occhi rossi. (Oppure due giorni dopo, in un mattino dalla luce grigia, quando aveva applicato lo stesso procedimento mentale per chiudere dentro di sé una notte intera di languidi baci).
Obbligando se stesso a rimanere concentrato, fece cenno a Lestrade di accovacciarsi e nascondersi nell’angolo in ombra dell’ultima bancarella della via. Allungando il collo oltre la svolta gettarono una prima occhiata alla piazzetta centrale interna.
Lì, in piedi accanto ad una delle prima panchine sotto i gazebo in ferro battuto al centro della piazza, Sebastian Moran era in attesa. La sagoma dell’ex soldato era visibile nonostante la luce fioca, e se non fosse bastato vi era comunque il punti arancione della sigaretta che stava fumando.
Lestrade gli toccò brevemente la spalla con le dita e Sherlock annuì senza scostare gli occhi da Moran. Il detective sentì chiaramente il “click” della sicura della 9mm che veniva rimossa.
Moran sembrava essere solo. Che tenesse John in un altro posto? No, secondo le informazioni raccolte da Mycroft erano stati visti arrivare a Camden insieme. Era stato lasciato da qualche altra parte di quel luogo? Dopotutto il Market era esteso. Magari lo aveva legato, immobilizzato, imbavagliato... era incosciente? Lo aveva... picchiato?
Sentì nascere dentro di sé una rabbia tanto irrazionale quanto lo erano i suoi stessi pensieri.
Aveva ragione a pensare che John lo rendesse un uomo peggiore. Lo rendeva debole.
Sospirò, decidendo di fare la sua mossa. Fece segno a Lestrade di mantenere la posizione e, prima che lo yarder riuscisse ad impedirglielo (che ci provasse, per lo meno), si alzò e camminò in direzione di Moran, un passo dietro l’altro senza una specifica cadenza o forza.
L’ex Colonnello non sembrava armato ma Sherlock non ci avrebbe giurato. Dopotutto era famoso per essere stato un tiratore scelto dell’esercito prima di venire congedato con disonore per diserzione, e imprigionato per omicidio plurimo.
Moran, a vederlo comparire, alzò il capo e lo guardò avvicinarsi. La sua espressione non variò dalla maschera di freddezza che stava indossando; si limitò a prendere la sigaretta fra pollice ed indice, gettarla a terra e spegnerla con la punta della scarpa.
Sherlock si fermò ad una decina di metri di distanza, braccia lungo i fianchi e occhi puntati sull’ex soldato. A sua volta, Moran incrociò il suo sguardo.
« Mi hai cercato a lungo » disse poi il braccio destro di Moriarty: « eccomi ».
« Dov’è John? » domandò subito Sherlock, scoprendo le sue carte senza nemmeno prendere in considerazione che, così facendo, avrebbe potuto mettere in evidenza una sua debolezza. Dopotutto era lì, e il motivo reale per cui si era precipitato in una trappola fin troppo ovvia era più che palese.
Sebastian Moran non rispose subito. « Puoi dire al poliziotto che ti accompagna di uscire allo scoperto » disse però quando decise di farlo.
Holmes non provò nemmeno a fingere che così non fosse. Non aveva notato alcuna sentinella all’interno del Market ma non era escluso che ne avesse qualcuna all’esterno. I due uomini che lo avevano aiutato a rapire John erano mercenari, uomini che finché avevano un guadagno garantito potevano fare qualsiasi cosa per chiunque la richiedesse, senza fiducia né obblighi verso niente e nessuno se non il denaro.
Alzò una mano e fece cenno a Greg di avvicinarsi. Avrebbe giocato a carte completamente scoperte. Se Moran era davvero l’uomo che i suoi informatori avevano descritto, allora avrebbe fatto di tutto per condurre una partita ad armi pari. Gli avrebbe mostrato John.
Lestrade orbottò qualche insulto a denti stretti, uscendo dall’ombra con la pistola bassa ma ben ferma fra le mani. Si fermò qualche metro dietro Sherlock, sottolineando con la posa e lo sguardo che era pronto ad aprire il fuoco a qualsiasi movimento sospetto.
Ma Moran era tranquillo. John aveva detto, una volta, che la guerra cambiava la percezione del pericolo di un uomo, e di conseguenza anche la soglia di tensione e stress necessari per spezzare lo stato di concentrazione delle persone abituate ad essere sempre all’erta.
Come i soldati.
Come si era aspettato, non fu necessario che Sherlock ripetesse la domanda. Moran fece un cenno con la mano a qualcuno nell’ombra dietro di lui, che cominciò ad avanzare fino ad affiancare l’ex soldato e farsi vedere da Holmes e Lestrade. Fu così che accanto a Moran, decisamente sano e salvo e senza armi puntate minacciosamente alla tempia, comparve John Watson.
Greg non arrivò subito a realizzare cosa stava succedendo, ma Sherlock sì. Sherlock notò la postura tesa ma non agitata, la pistola (non sua) impugnata con la mancina e premuta contro la gamba, ma più di tutto lo sguardo, quegli occhi stanchi e rassegnati cerchiati da occhiaie violacee, ombre scure che oscuravano qualsiasi cosa bella si ricordasse di poter vedere, dentro quelle iridi blu, e che adesso non risiedevano in nessuno dei suoi sguardi. Era arrabbiato, anzi, era furioso, e Sherlock poteva percepire quell’ira come un’estensione del corpo di John, un’onda che irradiava da lui e si espandeva fino ad investirli.
Holmes capì senza esitazione che John non era affatto stato rapito.
John Watson era lì di sua spontanea volontà.
« John! » esclamò Lestrade, il tono sollevato. « John, stai bene? » domandò, preda di un’ingenuità (o di una fiducia) cieca.
Ma John non gli rispose. In realtà, non scostò mai lo sguardo da quello di Sherlock.
Alla mancata risposta, anche della voce di Lestrade si insinuò il dubbio. « John...? » chiamò ancora, questa volta interdetto, spostando lo sguardo dall’amico all’ex Colonnello.
« Lestrade, basta così. Ormai dovresti aver capito » gli disse Holmes, occhi ancora fissi in quelli di John – ancora alla ricerca di un’eco dell’uomo che aveva conosciuto.
Dell’uomo il cui nome era apparso sul suo dito.
Ma non lo vedeva. C’era solo uno sguardo che era come un muro, una fortezza solida cementata con il risentimento; la sua sola presenza tradiva un orgoglio che si reggeva in piedi a stento, più volte distrutto e rimesso insieme alla bene e meglio, incrinato da profonde crepe e smussato agli angoli.
Si chiese per un istante se tutto quello fosse colpa sua, ma scoprì che preferiva di gran lunga non trovare risposta a quella domanda.
Dietro di lui, Lestrade trattenne il fiato quando finalmente realizzò. « Non è possibile... » mormorò incredulo, occhi sgranati fissi su Watson: « non lo faresti mai... » balbettò poi.
« Cuciti la bocca, Greg. Tu sei l’ultima persona a porte dire con certezza cosa farei o cosa non farei » gli rispose John, tirando finalmente fuori la voce, rivolgendosi al poliziotto nonostante continuasse a tenere gli occhi fissi in quelli di Sherlock.
Moran non intervenne, né si mosse in alcun modo. Rimaneva semplicemente in attesa del momento adatto, lasciando a John uno spazio tutto suo come se fosse frutto di un accordo, o di una sorta di contorto rispetto che l’ex Colonnello sembrava provare per l’ex Capitano.
E Greg non demorse.
« John, possiamo spiegarti. Sherlock può spiegarti. Lo ha fatto per– ».
« Salvarmi » lo interruppe però il medico: « per evitare che ci uccidessero. Un proiettile a testa. Lo so. Cosa me ne faccio? Credi che sia una giustificazione? » domandò, freddo, come se non gliene importasse niente (quando in realtà era semplicemente troppo, troppo, da sopportare).
Lestrade rimase senza parole per lo stupore.
Lo sguardo fra loro non si interruppe mai. Sembrava che John stesse ancora decidendo cosa fare con la pistola, se puntargliela finalmente contro o no, e cercava quella risposta nello sguardo di Sherlock, che dal canto suo non sapeva cosa pensare.
Si era aspettato di tutto. Che lo rifiutasse, che se ne andasse, che addirittura non fosse più lì, il giorno in cui sarebbe andato a cercarlo. Si era immaginato le urla e i pugni così come le lacrime e i baci (quando decideva di fantasticare un po’ di più). Tutto... tutto tranne quello.
Tutto, tranne vederlo al fianco dell’uomo che era stato il braccio destro di Moriarty, colui che aveva puntato la canna di un fucile e il relativo mirino su di lui nell’intenzione di ucciderlo, indeciso a sua volta se ucciderlo o meno.
« Cosa ti aspettavi, John? » domandò allora Sherlock: « delle scuse? ».
Watson soffiò fuori una risatina scettica. « Me le faresti? ».
« No » rispose secco Holmes: « non mi pento di ciò che ho fatto ».
« Certo che no... » lo sfotté John, facendo scomparire il sorriso amaro dalle labbra così com’era comparso. Prese un respiro profondo e continuò, il tono duro e sterile: « sai cos’ho detto al poliziotto che mi ha interrogato alla centrale di polizia, subito dopo aver visto il mio migliore amico... ma chi vogliamo prendere in giro, la persona che amavo, buttarsi giù da un tetto e atterrare di faccia sul marciapiede? Mi ricordo le parole esatte: “nessuno mi convincerà mai che mi abbia mentito” » citò a memoria.
Sia Sherlock che Lestrade rimasero in silenzio di fronte a quelle parole, finché John non continuò: « mai mi sarei aspettato che mi avesse mentito davvero » disse con amarezza, arricciando il naso in una smorfia risentita.
Sherlock assorbì ogni parola, sebbene contro la sua volontà, sentendone nello stomaco ogni sillaba. Non poteva impedirselo se era la voce di John che le pronunciava, lo stesso tono che aveva ascoltato per mesi in ogni sfumatura, che aveva ricordato nei momenti difficili accompagnato al suo viso, all’espressione stupita e sorridente che accompagnava ogni “fantastico” che John immancabilmente pronunciava dopo una sua deduzione particolarmente brillante. Giorno dopo giorno quella voce era stata la compagna che lo guidava durante le poche ore di sonno che si concedeva, echeggiando fra le volte imponenti del suo palazzo mentale nelle vesti di un invisibile custode.
Per questo scosse il capo. « Non capisci. Perché non capisci? » borbottò a mezza voce. E ringhiò, frustrato. E rispose.
« Avresti fatto la stessa cosa » affermò, e suonò molto simile ad un’accusa.
« È vero » annuì John.
« E allora perché?! » sbottò il consulting detective facendo un passo avanti; John sussultò al tono improvvisamente alto mentre Moran ebbe un fremito alla mano, che però non mosse dal proprio fianco.
« Per il dopo » rispose John, ora decisamente arrabbiato, ma non aggiunse altro. Aveva molto da dire, Sherlock riusciva a capirlo da come stringeva le labbra, ma non aveva intenzione di farlo. Forse non in quel momento.
Forse mai più.
Gli parve, per un momento, che il nome sotto l’anello bruciasse. Un dolore sordo gli partì dalla mano sinistra, da quel “John” color ciliegia matura, e risalì il braccio lungo i nervi come una piccola scossa. I muscoli del suo braccio si tesero impercettibilmente, ma lui fece finta di nulla.
Stava per ribattere di nuovo – per tentare di capire il perché – ma fu anticipato ed interrotto dallo stesso Moran, che con un movimento veloce si portò la mano dietro la schiena ed estrasse una pistola dalla cintola, puntandola su Sherlock.
Come se fosse stato punto da un’ape, Lestrade rispose a quella mossa puntando l’arma d’ordinanza contro Moran e John, a sua volta, la sollevò su Lestrade. L’unico disarmato era Sherlock così come Moran era l’unico a sapere cosa stesse davvero facendo.
L’ex Colonnello stirò le labbra in un sorrisetto strafottente. « Non ho tutta la notte, Capitano » disse, rivolto a Watson anche se non lo guardava direttamente. John si limitò ad un cenno del capo che non era né una scusa né un riconoscimento. Gli si poteva leggere il dubbio negli occhi ma ora lo stesso dubbio giaceva nelle membra di Sherlock, silenziosamente incapace di ragionare con la solita coerenza.
Watson aveva già ucciso. Possedeva un’ottima mira e aveva dimostrato più volte di avere i nervi saldi. Se fosse giunto alla conclusione che la morte di Sherlock Holmes fosse il giusto prezzo per risolvere almeno in parte i suoi propri problemi, lo avrebbe ucciso e non se ne sarebbe pentito.
Quello era il suo John.
« Abbassa la pistola, Moran! » esclamò Lestrade, il tono del poliziotto ad indurire la sua voce.
« Mi fermerai tu, Lestrade? Insieme agli uomini che sicuramente hanno già circondato questo posto? » domandò retorico il soldato.
« È il mio lavoro » rispose Greg, in modo da far bastare quell’affermazione.
Sebastian ridacchiò. « Non farmi ridere ».
« Sei in errore, Lestrade, se pensi che a loro interessi uscire vivi da qui » intervenne Sherlock, ora con gli occhi puntati su Moran: « è vendetta pura, sopravvivere non era parte del piano. Non è difficile immaginare di chi sia l’anello d’oro che porti al dito, ignorando il lutto che invece dovresti indossare, e che non ti sforzi di nascondere. James Morirarty portava un anello uguale a quello. Non ti interessa uscire vivo da qui, altrimenti avresti fatto lo sforzo di cercarti qualche alleato, magari vecchi commilitoni, ma comunque più fedeli del mio amico, che ancora non sa esattamente cosa sta facendo e perché. No... se uccidi me vivere non sarà più così importante, vero? » terminò il detective.
L’ex soldato non fece scomparire il sorrisetto dalle labbra, dimostrando senza parole che ciò che Holmes aveva appena detto corrispondeva a verità.
L’aria si fece più tesa.
Con gli occhi, Greg cercò John. Sul volto dell’uomo che gli stava puntando addosso una pistola carica con il dito già sul grilletto vi era solo una fredda maschera di pietra sotto cui era impossibile leggere qualsiasi cosa.
« John! » esclamò il poliziotto, cercando di farlo ragionare in un qualche modo.
Ma Watson non ebbe alcuna reazione.
« Lo sa anche lui » intervenne ancora Sherlock, questa volta con una note greve nella voce.
« Non puoi essere d’accordo! John! » continuò imperterrito Lestrade, rifiutandosi di credere che l’uomo in piedi davanti a loro era lo stesso John Watson suo amico da anni, ma il medico sembrava non ascoltarlo nemmeno.
Sherlock si guardò intorno con circospezione, cercando di individuare tutte le possibili vie d’uscita.
Aveva poche possibilità, ma non riguardava solamente lui. Moran era un tipo furbo anche se non geniale, possedeva quella scaltrezza tipica degli ufficiali, per questo la presenza di John al suo fianco aveva, in realtà, due scopi: primo, fare da esca; secondo, dimostrargli apertamente che avrebbe perso in ogni caso.
Anche se fosse riuscito a fuggire, Moran non doveva far altro che uccidere John.
Probabilmente sarebbe stata una vendetta efficace anche quella. Colpire la Mente trafiggendo il Cuore. Sicuramente aveva tratto un’ottima lezione dalle parole di Moriarty – “ti brucerò il cuore” – e dal fatto che fosse innegabile, ormai, che il cuore di Sherlock Holmes risiedeva in John Watson. Era John Watson.
Chissà se John aveva preso in considerazione quella possibilità... chissà se aveva rinunciato a tutto ciò di buono che aveva per... cosa? Per ucciderlo? Per vendicarsi a sua volta di una menzogna?
No. John non era così. L’uomo che aveva imparato a conoscere, ad accettare e ad... amare... non era un criminale.
Era solo un ex medico militare malato d’adrenalina con il suo nome sul dito.
Il pensiero che John avesse preso la decisione di aiutare il nemico sapendo perfettamente che non ne sarebbe, verosimilmente, uscito vivo lo colpì come uno schiaffo. Una realizzazione coerente, tutto sommato, con il John Watson che Mycroft gli aveva dipinto nell’ultimo periodo: quello pubblicamente diffamato dai giornali, con un lavoro a malapena sufficiente a mantenersi e con una vita alla deriva. Troppo orgoglioso per suicidarsi, per sopportare il pensiero di essere così debole da mettersi in bocca la canna della pistola e farla finita, ma morire con la soddisfazione di avergliela fatta pagare, anche solo simbolicamente, anche solo per un secondo, anche se non aveva il coraggio di ucciderlo per davvero e premere quel grilletto (e lo sapeva), era una cosa diversa. Era sufficiente.
Come aveva fatto a non capirlo prima?
Come aveva fatto a non capire che John non era cattivo, non si era lasciato travolgere dalla rabbia e dalla disperazione, non del tutto. Era solo... perso. Smarrito.
Doveva fare qualcosa. Il dito di Moran, sul grilletto, cominciava già a piegarsi e a fare pressione.
Prese la decisione di fare l’unica cosa possibile.
Confidando nel fatto che John non avrebbe sparato – che non volesse sparare, tantomeno a Lestrade – si piegò sulle ginocchia quel tanto necessario a posare le mani a terra e, spostando il peso su una gamba sola, lanciò un calcio basso sulla gamba debole di John, che effettivamente non sparò e perse l’equilibrio. Poté vedere con la coda dell’occhio Moran spostare l’arma verso il basso seguendo il suo movimento, a presa ferma di un cecchino professionista solo marginalmente preso alla sprovvista, ma fortunatamente Lestrade ebbe i riflessi buoni e gli si gettò addosso, buttandolo a terra; il colpo che partì dall’arma di Moran spezzò il silenzio della notte e gli fece fischiare le orecchie. Gli agenti di polizia all’esterno del mercato, sicuramente all’ertati dallo sparo, accesero le sirene delle volanti come avvertimento.
Non ci fu molto tempo per pensare. John era caduto ma non aveva perso la pistola, che gli puntò contro seguendo una sorta di istinto primitivo all’autodifesa con l’offesa – sicuramente un ricordo indelebile della guerra. Il colpo non partì solo perché Lestrade, impegnato in un corpo a corpo con Moran, cercando in tutti i modo di disarmare il Colonnello urtò invece Watson, che perse la stretta sulla nove millimetri. L’arma scivolò lontano di qualche metro, volteggiando sul cemento.
John e Sherlock si scambiarono un’occhiata. Poi scattarono.
Holmes era sicuramente in vantaggio, essendo solo chinato e non inginocchiato, ed infatti arrivò per primo alla pistola che però non riuscì a prendere; John gli aveva saldamente afferrato la caviglia e gli aveva impedito così di mantenere l’equilibrio. Cadde sul cemento con le mani e le ginocchia ma si trovò totalmente disteso a terra quando il medico afferrò meglio le sue gambe e tirò, allontanandolo dall’arma.
John fece per rialzarsi ed allungarsi verso la pistola ma questa volta fu il turno di Sherlock di strattonarlo per il giubbotto, impedendogli di appropriarsene.
Erano a terra entrambi ma nessuno dei due sembrava davvero intenzionato a ferire l’altro. Sherlock conosceva il baritsu e John era stato un soldato, dunque sapevano tutti e due come combattere corpo a corpo... ma ciò non accadde. Continuavano semplicemente a strattonarsi per i vestiti, ad impedirsi l’un l’altro di raggiungere la pistola, come se essa fosse veramente il punto di svolta dell’impasse in cui si erano ritrovati, l’ostentazione di potere necessaria ad uno dei due per impedire all’altro di perseguire i suoi sforzi.
Sherlock aveva solo una vaga consapevolezza del secondo combattimento in corso alle loro spalle fra Moran e Lestrade, i cui colpi sordi di carne contro carne gli arrivavano alle orecchie, ma non poteva colpire John per andare ad aiutare il poliziotto. Non ci sarebbe riuscito, così come John sembrava incapace di fare la stessa cosa.
Fu quando il pensiero di colpirlo, di dargli un pugno o un calcio sufficiente ad intontirlo qualche secondo, che successe.
Nello stesso istante, sia John che Sherlock allungarono la mano sull’impugnatura dell’arma e quella del detective si posò su quella del medico.
La gente aveva ragione, le descrizioni dei libri non gli rendevano giustizia.
Fu come risalire in superficie dopo una lunga apnea e sentire l’aria fresca sulla pelle e nei polmoni. Ogni muscolo del suo corpo vibrò come colpito da una scarica elettrica, una di quelle piccole scosse elettrostatiche che a volte si prendono toccando oggetti di metallo, e percepì un calore dolce irradiarsi dal punto esatto in cui le loro pelli erano entrate in contatto.
Il cuore perse un battito, poi accelerò. Poteva già sentire l’istinto di protezione e l’impulso, molto simile ad un imperativo categorico, di prendere la sua mano e non lasciarla andare mai più. Se qualche istante prima John Watson era solo l’oggetto di un irrazionale attaccamento emotivo, ora era il centro di gravità del suo universo.
Capì dall’espressione a dir poco scioccata del medico che gli era appena accaduta la stessa cosa, che aveva provato le sue medesime sensazioni ed era giunto ad un’identica conclusione.
Il Legame.
Una cosa che fra loro non sarebbe nemmeno dovuta esistere. Non a due persone nate per essere sole e destinate a rimanere tali.
Sherlock riusciva a sentire nel retro della sua mente una presenza che non era la sua farsi spazio con cautela, lentamente, fino a reclamare il suo posto in punta di piedi e gradualmente. Fino a che non poté sentirlo.
Paura. Sorpresa. Inquietudine. Incredulità. Tristezza. Una consapevolezza, dietro la facciata, una frase ripetuta: “lo sapevo”. Sentimenti che non erano suoi.
Era John.
L’uomo che ora lo guardava come se capisse. Come se gli avesse letto dentro le emozioni che lui stesso non riusciva a catalogare e a riconoscere come proprie. Lo stesso uomo che lasciò completamente perdere la pistola e la lotta e gli afferrò la mano sinistra, tenendola ferma e sfilandogli con forza l’anello d’argento.
Quando John vide il proprio nome sul dito di Sherlock, trattenne il fiato e serrò strette le labbra. Lo sguardo che alzò poi sul detective era confuso e colpevole, così come lo erano i suoi sentimenti (Sherlock poteva sentirlo).
Si guardarono in silenzio. La situazione in cui erano coinvolti non era più così importante, il rumore della colluttazione di Moran e Lestrade sfumato in una sorta di rumore ovattato e lontano, le sirene della polizia del tutto sparite.
Watson prese fiato per parlare, finalmente, ma dalle sue labbra non uscì alcun suono. Sherlock fece lo stesso ma si accorse di non sapere cosa dire. Continuavano semplicemente a tenere gli occhi uno su quelli dell’altro, sapendo di essere idealmente nemici ma consapevoli di non potersi fare del male, non più. Erano l’uno parte dell’altro così profondamente da non riuscire più a distinguere dove finiva l’esistenza dell’uno e cominciava quella dell’altro. Un legame appena formatosi, ma già così potente che se John ne era semplicemente confuso Sherlock cominciava ad averne paura.
Eppure sembrava la cosa più strana, travolgente e... bella... che avesse mai provato.
Di nuovo cercò di parlare ma uno sparo lo interruppe prima che potesse pronunciare il nome di John. Si girarono entrambi di scatto, un fischio alle orecchie a causa del colpo, e tutto si consumò troppo in fretta perché Sherlock si rendesse davvero conto di ciò che stava succedendo.
Vide Lestrade a terra che si teneva il braccio gemendo di dolore e Moran in piedi che puntava la pistola verso di lui. I suoi riflessi furono di un secondo troppo lenti e già si stava preparando inconsapevolmente a sentire il dolore del proiettile che penetrava la sua carne – o a morire con il medesimo proiettile nel cervello – quando la sua mente fu invasa da una voce che non era la sua, che rimbombò come una eco in una stanza vuota.
« NO! ».
John.
Si voltò verso di lui nell’istante stesso in cui il medico raggiungeva la pistola e, girandosi verso Moran, premeva il grilletto. Lo sparo fu ancora più assordante di quello precedente a causa della prossimità ma la mira di John si rivelò, ancora una volta, impeccabile.
Sebastian Moran cadde, morendo ancora prima di toccare terra.
Riuscirono a malapena a riprendere a respirare prima che i poliziotti arrivassero, squarciando la penombra con la luce delle torce. Furono su di loro al grido di “fermi dove siete” e mentre alcuni uomini urlavano alla ricetrasmittente di mandare un’ambulanza, altri due si avventarono su John, disarmandolo e bloccandolo a terra con il volto premuto contro il cemento.
Sherlock cercò i chiamarlo, ma non fu sicuro di esserci riuscito a causa del continuo ronzio che aveva ancora nelle orecchie. L’ultima cosa che vide prima di essere sollevato da terra e allontanato di forza furono le labbra di John muoversi a formare il suo nome – “Sherlock” – e i suoi polsi chiusi in un paio di manette.
 
 
 
 

.o0o.

 
 
 
 
Questa volta la cella era silenziosa, con le pareti bianche e il pavimento in linoleum grigio, la porta dipinta di un verde pallido che richiamava alla mente gli ospedali psichiatrici. Sarebbe stata anche accogliente se l’unica illuminazione non fosse venuta da un neon ben fissato al soffitto e protetto da un reticolato stretto, la cui luce a tratti traballante si rifletteva sul bianco dei muri con un’intensità tale da ferire gli occhi. Se fosse stato epilettico, probabilmente gli sarebbe già venuto un attacco.
Come in tutte le celle, l’arredamento era essenziale: una branda, lenzuola (fortunatamente) pulite, una coperta di lana marrone e il minimo indispensabile dei sanitari. La guardia che gli portava i pasti due volte al giorno gli aveva allungato anche qualche libro e un paio di riviste – due polpettoni di Dan Brown che non valeva la pena rileggere e il Time del mese scorso – ma li aveva abbandonati in terra di fianco al letto senza nemmeno sfogliarli.
Starsene seduto a fissare il vuoto, questo faceva John Watson da quasi due giorni.
A gambe incrociate fra le coperte sfatte della brandina che doveva chiamare “letto”, ascoltando in alternanza i suoni della città fuori dalla piccola finestra che dava sul muro del palazzo di fronte e i passi nel corridoio oltre la porta chiusa. Senza aver voglia di fare nient’altro che quello: guardare un punto morto del pavimento e cercare il silenzio fra i rumori.
Aveva provato a sforzarsi di fare... qualcosa. Leggere, soprattutto, dato che sembrava l’unico passatempo possibile. Canticchiare, cercare di pensare al meglio, di essere ottimista.
Ma non ne aveva motivo, e l’ultima cosa che voleva davvero fare era pensare. Lo aveva già fatto anche troppo la prima notte che aveva passato lì dentro, quando gli avevano detto senza mezzi termini che avevano già ottenuto la proroga di fermo a 36 ore per direttissima e che probabilmente sarebbe finito davanti alla Corte, questa volta. E John sapeva benissimo cosa stava a significare.
Carcere.
L’idea di finire in prigione non lo spaventava. Aveva il vago sentore di cosa avrebbe trovato dentro quelle mura, delle cose a cui sarebbe andato incontro per potersi “adeguare” alla vita della comunità carceraria, e se doveva essere del tutto sincero aveva visto di peggio, in guerra e anche fuori. La sua reputazione era già sufficientemente rovinata, supponeva; sperava che lo fosse abbastanza da farsi un nome in certi ambienti, così da incutere almeno un po’ di timore per essere lasciato in pace e possibilmente solo.
Dopotutto, annegare nella vergogna era una pena sufficiente, per gente come lui.
Non riusciva a togliersi dalla testa l’espressione di Greg. Non delusa, ma ferita. E quella di Sherlock, che...
No, non poteva nemmeno descriverla. Quella notte era stata di confusione pura, paura e risentimento mescolati in un calderone esplosivo, rabbia e rimorso e voglia di chiudere a doppia mandata un capitolo della propria vita che aveva imboccato strade sconosciute e tutte apparentemente senza via d’uscita.
Anni di finzione e di menzogne crudeli. Chi sapeva? Chi lo aveva aiutato e nascosto? Si era posto quelle domande a ripetizione da quando aveva visto quella fotografia mandatagli da Moran, la prova che Sherlock era vivo e lontano da lui. Si era sentito circondato da nemici, da persone intente a ridere di lui nell’ombra, a compatirlo nell’ombra, come se la pietà che provavano tutti per lui – tutti, tutti, da Molly a Stamford a Lestrade alla signora Hudson – non bastasse a farlo sentire inadeguato e incredibilmente, immancabilmente, solo.
Credeva di poterlo uccidere. Aveva avuto la voglia di chiudere le sue mani attorno a quel suo collo lungo e pallido e stringere forte, serrare le dita fino a lasciare il livido e a togliere via il fiato e a vederlo chiudere gli occhi soffocato nella sua stessa ipocrisi; Sherlock Holmes il bugiardo, Sherlock Holmes il traditore... aveva stretto nel palmo della mano l’occasione di diventare assassino e morire a sua volta e mettere la parola “fine” a tutto...
Ma non lo aveva fatto.
Vederlo non gli aveva fatto quell’effetto. Non aveva aumentato la sua rabbia, non l’aveva trasformata nella furia che aspettava per decidersi finalmente a diventare assassino dei giusti.
Vedere quegli occhi, e quelle labbra, e quel viso senza tracce scarlatte di sangue, quel petto alzarsi e abbassarsi al ritmo del respiro, quelle mani muoversi piene di vita... sentire la sua voce, l’affanno della fatica, il calore della sua pelle... aveva scatenato in lui solo una profonda nostalgia, una malinconia quasi fastidiosa, e per un istante era stato... felice.
Non lo avrebbe ucciso. Lo aveva capito nel momento esatto in cui lo aveva visto camminare verso Moran. Non poteva farlo.
L’amore che provava per quell’uomo era semplicemente troppo profondo. Lui vi era annegato dentro mille volte e ne era riemerso mille volte, ne era assuefatto a tal punto da non riconoscerlo, scambiandolo per la follia di cui si ammalano gli ingenui (la venerazione).
Ma era sempre stato lì. Nella vita come nella morte, era sempre stato lì.
E ora...
Al solo pensiero John si strinse la mano sinistra con la destra, appoggiandovi sopra le labbra mentre si portava le gambe al petto, chiudendosi su se stesso. Gli avevano tolto l’anello insieme a tutti gli altri effetti personali dunque solo un particolare cerotto di plastica nera, usato nelle carceri e negli ospedali in sostituzione al metallo, copriva il nome che aveva avuto solo pochi istanti per vedere, prima che gli applicassero quella banda scura che non poteva togliersi da solo.
C’era. Era lì. “Sherlock”, in caratteri rossi, appena un po’ sbiaditi, ma c’era. Non era scomparso. Non del tutto. Mai del tutto.
Non era una ferita, non sanguinava, non faceva male. Non era più un perenne taglio aperto dolorante e discriminante, il ricordo indelebile di un legame già spezzato; anzi.
Tutto l’opposto. Il Legame c’era, ora, l’aveva sentito. Irruento come una tempesta ma dolce, delicato persino, caldo e rassicurante. La sensazione stranissima di risalire in superficie dopo una lunga apnea, respirare un’aria diversa, percepire fino all’ultimo dei propri nervi tremare nel primo, vero respiro fuori dall’acqua.
Sentire Sherlock come parte di sé, dentro e fuori di sé, altra metà di sé. I sentimenti che non si spiegava e le parole che non riusciva a dire.
Nessuno gli aveva mai descritto il Legame in quel modo. O forse, nessun altro aveva un Legame come il loro.
Forte, avrebbe osato dire. Disperato. Represso talmente tanto e talmente tanto sperato da esplodere, una volta innescato.
Anche lui, ora, era una persona normale. Anche lui aveva un’Anima Gemella, qualcuno che avrebbe sempre capito, e quel qualcuno era Sherlock Holmes: la persona che aveva tutti i motivi per odiare ma che non poteva smettere di amare.
Perché...? Perché con tutto il tempo, con tutte le possibilità che avevano avuto... doveva succedere proprio ora?
Il rumore delle chiavi nella porta lo distolse dai pensieri in cui era caduto senza volerlo. Una volta che si aprì, il Detective Inspector Aberline entrò all’interno e se la richiuse alle spalle.
« Dottor Watson » salutò, asciutto ma cordiale.
John distese le gambe, ma non parlò e non si alzò dalla branda.
Aberline sembrò non badare troppo ai convenevoli. « Ha una visita » disse schietto: « il regolamento lo vieterebbe ma mi è stato fatto capire di non andare troppo per il sottile. Lo lascio entrare, ma metterò un agente di guardia fuori dalla porta. Non faccia strani scherzi » avvertì, del tutto disinteressato alla possibile reazione di John, e ancora prima che potesse rispondere – prima che potesse dirgli che le visite se le risparmiava volentieri – Aberline uscì di nuovo. Lo sentì parlare nel corridoio con la sua “visita”, non distinguendo altro che un mormorio sommesso e senza senso, e quando la porta si riaprì Watson non seppe se credere ai suoi occhi o convincersi di stare solo sognando.
Da quella porta entrò Sherlock Holmes.
Era perfetto in uno dei suoi soliti completi scuri – camicia bianca – e di sicuro doveva aver lasciato fuori il cappotto, uno di quegli oggetti che lì dentro non erano ammessi. Gli avevano fatto togliere anche l’orologio e i lacci delle scarpe, notò, come nelle procedure standard di sicurezza.
Sentiva di avere molte cose da dirgli, altrettante da chiedergli, ma quando aprì la bocca e prese fiato per parlare, le parole non uscirono. Non sapeva da dove cominciare, se dalle scuse o dalle accuse, e la vergogna era troppa in tutto.
Fortunatamente, dopo lunghi istanti, il primo a parlare fu Holmes.
« Ho sentito la tua voce » disse: « quando hai sparato a Moran. Hai urlato “no” con la mente e io l’ho sentito, con la mia » aggiunse, picchiettandosi l’indice destro sulla tempia.
Sottintendeva una domanda, quella frase. Una domanda che John capì.
« L’ho pensato » affermò.
Sherlock annuì. « È stato un... beh, un bel... ».
« colpo » completò John.
Holmes annuì di nuovo.
« Grazie » disse Watson.
Silenzio. Incredibile come due persone che in passato non erano capaci di rimanere in silenzio se presenti contemporaneamente nella stessa stanza non riuscissero più a superare la quarta battuta di un dialogo.
Questa volta, fu John a spezzarlo. Prendendo il coraggio a due mani e deglutendo un boccone di vergogna.
« Sherlock, ti devo delle– ».
« Non serve » lo interruppe il detective.
« Sì che serve. Io– ».
« Ti ho già perdonato » tagliò ancora Sherlock. « Non avevi intenzione di uccidermi, comunque, dunque non c’è niente di cui chiedere perdono » disse.
« Niente? » domandò John con una risatina incredula e al contempo triste: « ti ho tradito. Ti ho voltato le spalle, ho... provato ad ucciderti! » esclamò.
Holmes roteò gli occhi e sbuffò. « Mi piacerebbe vederti provare » ironizzò.
« Sherlock, non sto scherzando! » disse John ad alta voce, serio, sull’orlo di un collasso nervoso.
Il detective si zittì, osservandolo in silenzio.
Parlò con tono calmo, quando riprese parola: « l’ho fatto io per primo, forse me lo meritavo. Era solo una brutta giornata » disse, e John ebbe qualche difficoltà a capire la battuta che vi si celava dietro, ma ci arrivò... e sorrise.2
« Ho avuto un paio di brutti anni, allora » gli rispose, sospirando e calmandosi. L’agente all’esterno, che al sentirlo alzare la voce si era affacciato per vedere cosa stesse succedendo, tornò in posizione.
Sherlock si avvicinò, coprendo in pochi passi la distanza che lo separava dalla branda, e si sedette al suo fianco. Subito John fu investito da un’ondata di tranquillità, una sorta di beatitudine simile a quella che si prova pochi secondi prima di addormentarsi, e capì che il Legame amplificava il senso di protezione dato dalla vicinanza di Sherlock. Non riuscì a trattenersi dall’inclinare la testa e appoggiarla sulla spalla del detective, che dal canto suo non solo non se ne lamentò, ma si mosse in modo da farlo avvicinare ancora di più; la testa di John si incastrò perfettamente nello spazio fra la spalla e il collo di Sherlock e il detective ne approfittò per appoggiarsi con il capo a quello del medico.
Il modo perfettamente naturale in cui si erano mossi, senza bisogno di parole né di permessi, li fece sorridere. Fu altrettanto naturale, a quel punto, cercare e unire le loro mani, intrecciando le dita.
John socchiuse gli occhi, godendosi quella vicinanza conosciuta ma al contempo nuova, a cui era abituato ma che costituiva un lato del tutto inesplorato del suo coinquilino.
« Sherlock? » chiamò poi il medico, la voce bassa data la vicinanza.
« Mh? » rispose il detective, gli occhi completamente chiusi.
« Tutto questo... questa... sicurezza, questo senso di protezione, questo... calore... è merito... è solo merito del Legame? » domandò, deglutendo.
Non era quella la vera domanda. Dietro di essa si nascondeva un altro quesito, un altro dubbio che doveva fugare a tutti i costi, una verità che doveva conoscere a costo di perdere tutto.
Sei tu ad amarmi o è solo la risonanza del Legame?
Non si stupì affatto quando Sherlock capì esattamente quale fosse il vero dilemma e rispose di conseguenza.
« Non per me » disse. « Sono io. Il Legame lo... » esitò.
« Amplifica » completò John per lui. « Anche quella strana... ».
« Empatia? » continuò Sherlock sulle sue parole: « non lo so. Ora mi sento calmo e tranquillo, direi quasi “protetto”, ma è la tua vicinanza, non sei tu » disse. « Quella notte ho sentito te. Potrebbe essere stato un caso, oppure... ».
« La situazione » intervenne John. « L’adrenalina? O altrimenti... ».
« L’intensità » riprese Holmes: « è corretto supporre che sotto stress si provino emozioni più forti. Fatto sta che rimane un Legame... ».
« Anomalo » continuò Watson. « Più forte » si corresse poi.
« Più profondo » aggiunse l’altro.
« Speciale » ribatté subito il medico, sorridendo appena. « Sherlock, ti rendi contro ci stiamo... ».
« Completando le frasi a vicenda. Sì » disse, piegando a sua volta le labbra in un lieve sorriso. « È una cosa... ».
« Strana » concordò Watson.
Ridacchiarono.
Cadde di nuovo il silenzio, ma questa volta fu una quiete serena. Passarono interi minuti ascoltando i rispettivi respiri, il frusciare della pelle dove John strofinava il pollice sulla mano di Sherlock, il battito lieve dei loro cuori asincroni.
Fu John, di nuovo, ad interrompere quel momento.
« Sherlock? » chiamò per la terza volta.
« Mh? ».
« Posso vederlo? » domandò in un sussurro, sottintendendo il cosa.
Ma Sherlock capì. Sherlock capiva sempre e avrebbe sempre capito, da quel momento in avanti.
Annuì brevemente prima di tendere la mano sinistra a John. Il medico sciolse l’intreccio delle loro dita per poter prendere quella di Sherlock fra le proprie e, con delicatezza, rimuovere l’anello d’argento che ricopriva l’anulare.
Quando vide, sotto di esso, il proprio nome scritto in un carminio scurissimo, dovette stringere i denti per non far uscire il gemito di commozione che gli era improvvisamente salito in gola.
Una vita intera. Lo aveva desiderato per una vita intera. Ci aveva sperato pur sapendo che non sarebbe mai accaduto e invece eccola, l’altra metà del filo, l’altra parte di sé. Sherlock Holmes, che aveva già stravolto la sua vita, era riuscito a stravolgere anche le leggi del destino.
Prese un respiro tremulo mentre sentiva gli occhi pericolosamente lucidi. Deglutì per tentare di fermarsi, perché andava bene tutto ma mettersi a piangere come un bambino no, quello no. Era un uomo, maledizione: aveva quasi trentacinque anni, non sei.
Sherlock, al suo fianco, soffiò fuori una lievissima risata. Si avvicinò a lui fino a sfiorare la sua guancia con la punta del naso, gli occhi azzurri nascosti sulla sua tempia e sotto le ciocche di ricci scuri.
« Non starai per piangere, dottor Watson? » ironizzò in un soffio, dipingendosi sulle labbra un sorrisetto.
John si voltò in sua direzione, lentamente, strofinando il naso su quello dell’altro. « Non ti darò questa soddisfazione » ribatté, e questa volta non aspettò prima di annullare la brevissima distanza che li divideva.
Unì le loro labbra in un bacio casto, uguale a quello che si erano scambiati anni prima a Dartmoore, nell’intimità di una camera d’albergo e di un letto fin troppo stretto. Ora erano in una stanza di tutt’altro tipo, sterile e squallida, ma la sensazione era la stessa di quella notte.
A dimostrazione che, Legame o non Legame, fra loro non c’era mai stato nient’altro che quello.
Si assaggiarono per una, due, tre volte. Giocando con le labbra in piccoli baci superficiali, respirando piano, socchiudendo gli occhi per guardare quelli dell’altro. Si sfiorarono con la punta delle lingue ma non approfondirono quel bacio più di così, limitandosi a toccarsi di tanto in tanto, come se stessero accarezzando le labbra con le labbra, la lingua con la lingua.
Ci sarebbe stato tempo, per altro. Per la passione, per i preliminari, per la dolcezza così come per la frenesia.
Ora avevano davvero tutto il tempo del mondo.
Si separarono giusto un istante prima che un paio di colpi secchi sulla porta rompessero l’atmosfera. « Due minuti! » avverti la voce di Aberline.
« No... » mormorò John, ancora a pochi millimetri dalle labbra di Sherlock, il quale emise un lieve sospiro.
« Uscirai presto » gli disse poi, allontanandosi per non ricadere in tentazione: « Mycroft si sta già occupando di tutto » specificò.
Il volto di Watson si indurì appena. « Non posso continuare a farmi salvare il culo da tuo fratello ».
« Oggettivamente, John, tu non hai fatto alcunché. Anzi, hai impedito che Moran mi uccidesse. Questo dimostreremo: i fatti. Niente sotterfugi » disse il detective, gli occhi nei suoi. « Poteva benissimo essere tutto un nostro piano per catturare Moran... no? » domandò retoricamente, un mezzo sorriso furbo ad illuminargli il volto.
John alzò l’angolo delle labbra. « E questo non lo chiami un sotterfugio? ».
« Il risultato non cambia » tagliò corto Sherlock, alzandosi dal letto e sistemandosi la giacca. Pochi istanti dopo, Aberline aprì la porta e fece cenno al detective di uscire.
John si alzò a sua volta, stranamente agitato. Non gli piaceva l’idea di essere separato di nuovo da Sherlock – uno degli effetti collaterali del Legame, suppose – e poteva vedere nella postura rigida di Holmes che anche per lui era così.
« Sherlock, come sta Lestrade? » gli chiese dunque, un po’ per interesse personale e un po’ per guadagnare ancora qualche istante in sua compagnia.
Sherlock sembrò leggergli nel pensiero, perché inarcò per un secondo l’angolo destro delle labbra. « Bene. Era solo un colpo di striscio, sono bastati cinque o sei punti » gli rispose, allungando poi una mano e appoggiandola sulla sua guancia. John inclinò il capo verso di essa.
« Ci vedremo presto, John » promise.
Il dottore chiuse gli occhi quando quella mano scivolò via e Sherlock, a passo veloce, uscì dalla porta che subito si richiuse alle sue spalle.
Preferiva non avere il ricordo della sua schiena come compagnia per i prossimi giorni, ma piuttosto quello delle sue labbra.
 
 
 
 

Epilogo
.o0o.
Due mesi dopo

 
 
 
 
« È indecente » disse John fra un respiro e l’altro, steso supino sul materasso. Solo un drappo scomposto di lenzuolo recuperato chissà dove gli copriva il bacino e le cosce, fresco sulla pelle sudata.
Steso al suo fianco, in orizzontale sul letto e con la testa appoggiata sul suo petto, Sherlock ascoltava il battito del suo cuore ad occhi chiusi, girato sul fianco. Anche lui era a malapena coperto dall’angolo dello stesso lenzuolo, ma se fosse dipeso da John gli avrebbe proibito persino di vestirsi.
Le labbra di Sherlock si piegarono in un sorrisetto. « Se ti riferisci a ciò che mi hai fatto prima, sono d’accordo » ironizzò.
John sogghignò. « Non mi sembra che ti sia dispiaciuto » disse, riflettendo il medesimo sorriso.
« Mai detto questo » rispose infatti il detective. « A cosa ti riferisci, allora? » chiese poi, gli occhi chiusi e la labbra ancora arrossate dai baci.
Era bellissimo. Aveva sempre pensato che lo fosse, con quel corpo longilineo e quegli occhi chiarissimi, ma senza vestiti, sudato e con i capelli in disordine lo era ancora di più. Di tutte le cose che potevano piacergli del sesso con Sherlock Holmes – a parte l’atto in sé – una delle principali erano i momenti del “dopo” come quello, in cui rimanevano semplicemente sdraiati sul letto sfatto a riprendere fiato, senza vergogna nel guardare e lasciarsi guardare. John poteva passare ore a sfiorare con lo sguardo ogni centimetro del corpo nudo di Sherlock e, a dire il vero, era quello che faceva ogni volta. E non solo con gli occhi.
Sospirò. « A noi due che facciamo l’amore in pieno pomeriggio, con la possibilità che arrivi un cliente, o mrs Hudson, o Lestrade in ogni momento. Ecco a cosa mi riferisco. È indecente » ripeté scherzosamente, portano la mano fra i riccioli scuri in una carezza gentile.
Più lo guardava e più non poteva credere che fosse successo davvero. Che uno come lui, reietto per tutta la vita, potesse meritare qualcuno come Sherlock Holmes.
« Dipende molto dai punti di vista » disse il detective, sistemandosi meglio con la testa sul suo petto, occhi chiusi e respiro lieve. Aveva le braccia piegate davanti al petto e questo faceva in modo che il suo SIN, lasciato scoperto (come sempre quando erano soli), grazie all’angolazione delle dita affusolate fosse pienamente visibile.
John non poté fare a meno di allargare il sorriso, adocchiandolo.
Sherlock, evidentemente, se ne accorse. « Smettila di guardarmi così » lo rabbonì.
« Così come? ».
« Con quel sorrisetto perso. Sembri un idiota » lo stuzzicò.
Ma John era ormai troppo esperto per offendersi ancora, alle parole del compagno; ormai sapeva che nascondevano tutt’altro. « Mi dispiace, non posso » rispose però.
Sherlock sbuffò, fintamente seccato ma, sotto sotto, adulato.
Scene come quella si ripetevano da circa due mesi. Calma, tranquillità e pace che seguiva momenti di pura estasi e passione a dir poco travolgente – e non era un aggettivo di John usava con leggerezza, proprio no.
Perché sì, pian piano avevano scoperto che il loro Legame “atipico”, così forte, aveva le sue “regole” e le sue... sorprese.
Erano già consapevoli che l’empatia fosse una loro particolare prerogativa. In presenza di situazioni particolarmente stressanti o di sentimenti “puri” (come rabbia o paura), loro acquisivano la capacità di sentire le emozioni dell’altro e, a volte, persino un frammento dei rispettivi pensieri.
Non succedeva sempre, ovviamente, ma scoprirono ben presto, e con una certa sorpresa, che anche il sesso poteva essere annoverato fra le “situazioni scatenanti” di questo fenomeno.
John non faceva fatica a capire il perché. Il sesso era fisicità, concretezza, apertura; non era solo il corpo a cambiare, rilasciando una determinata serie di ormoni e sostanze chimiche che Sherlock sapeva a memoria, ma nel loro caso – come nel caso di tutte le persone che si amano – si trattava anche di cuore, e mente, e sentimenti, e fiducia reciproca.
Era condivisione. Totale e completo abbandono di se stessi all’altro, alle sue mani e alle sue labbra, mettendosi a nudo in tutti i significati del termine, esponendo vergogne e fierezze, intimità vera e propria. Già normalmente il sesso era una fusione per antonomasia, ma il loro Legame riusciva a fare ancora di più.
Non era più una questione di avvertire l’altro solo fisicamente. La consistenza della pelle, la morbidezza delle labbra, la durezza dell’eccitazione dentro di sé. Non si trattava più di assorbire i sospiri e le parole spezzate dall’affanno nel tentativo di strappare piccoli brandelli d’anima con l’intenzione di unirli alla propria.
Quella era una fusione nel senso più completo del termine. John poteva sentire Sherlock dentro di sé, non solo fisicamente tramite i loro corpi, ma anche, e soprattutto, mentalmente. E Sherlock... oh, Sherlock aveva la mania di abbandonarsi completamente al sesso e a John, lasciando perdere concentrazione e ragionamento, ricercando in modo puramente istintivo il piacere e l’eccitazione, amando John con tutto se stesso e, al contempo, venerandolo non meno di quanto John amasse e venerasse lui. Era la cosa più vicina esistente al contatto di due anime e questo, questo più di tutte le altre cose, rendeva la loro unione fisica indimenticabile. Che fosse attivo o passivo, calmo e gentile o impetuoso e furioso, post-risoluzione di un caso o culmine di ore di baci e carezze, il sesso fra loro aveva raggiunto il vero e proprio significato di unione e li aveva portati a conoscersi l’un l’altro talmente a fondo da averne quasi paura.
Ma ogni volta, ogni volta, quando insieme all’aumentare del desiderio sentiva l’ormai famigliare presenza della mente di Sherlock nella propria e vedeva letteralmente oltre quegli occhi chiari e quell’intelligenza spropositata, ciò che vi trovava era devozione pura e semplice ed era consapevole che Sherlock, nello stesso istante, trovava in lui la stessa cosa.
Il tono di voce fu dolce, nell’interrompere il tranquillo silenzio caduto fra loro. « Ti amo » disse.
Sherlock socchiuse gli occhi, osservandolo serenamente. « Lo so » rispose.
« So che non c’è davvero bisogno di dirlo... » Sherlock poteva sentirlo: « ma se penso a quello che stavo per... che avevo intenzione di... » cominciò.
Sherlock lo interruppe posandogli due dita sulle labbra. « Non importa » disse.
John sospirò. « Come puoi dire che non importa? » chiese poi, un accenno di malinconia nella voce.
Un pensiero che lo tormentava nella mente.
« Lo dico perché è vero » gli rispose Sherlock, senza muovere un singolo muscolo e rimanendo appoggiato con l’orecchio al petto di John: « capivo dai tuoi movimenti che non mi avresti sparato. Da come tenevi la pistola. Da come cercavi strenuamente di non colpirmi, quando sarebbe stato facile se non inevitabile farlo anche per errore. Dal tuo silenzio. Non mi avresti ucciso, lo sappiamo entrambi » disse.
« Avrei potuto » continuò però il medico.
« Potere e volere sono due cose diverse » tagliò corto Sherlock, per poi portare la mano sulla guancia del medico in una lieve carezza. « Ora basta chiedere scusa, John ».
Il medico chiuse gli occhi, lasciando che quelle parole si depositassero dentro di sé. Non avrebbe mai smesso di chiedergli scusa, così come Sherlock si scusava in silenzio per quei tre anni suonando il violino per lui e standogli vicino quando ne aveva più bisogno.
Non era tutto perfetto. Niente lo è mai del tutto. Il rientro di Sherlock in società, la scoperta che erano Legati, le continue richieste di ricercatori interessati al loro Legame unico, unico caso di un Bondless a cui è comparso il nome e di un Ribbon il cui nome è guarito. E poi c’erano gli incubi, che tormentavano entrambi; la difficoltà di Sherlock di rimettersi del tutto in forze, gli strascichi dei guai giudiziari di John, i piccoli e grandi problemi di ogni caso che accettavano e le loro scaramucce quotidiane che rientravano pian piano a far parte della loro vita.
Stavano tornando alla normalità. Ma John, per la prima volta da quando era piccolo, riusciva a vedere altro.
Riusciva a vedere oltre.
Il sapore dolce della parola “insieme”. La fede d’oro al loro dito. Un figlio, forse? Oh, sarebbe stato bello... ma gli bastava anche la consapevolezza di ogni mattino in cui si sarebbe svegliato con il viso addormentato di Sherlock accanto a lui, di ogni “buon giorno” con un bacio sulle labbra.
Si vedeva allo specchio a guardare con aria critica il biondo cedere il passo al grigio, e vedeva Sherlock mettere il muso alla comparsa del suo primo capello bianco, come se fosse una cospirazione contro di lui.
Vedeva il Ritiro. Una casa in campagna, un cane, delle api. Dolori alla schiena e smorfie infastidite nel notare quanto era diventato difficile chinarsi a raccogliere il tovagliolo.
Ci sarebbero state gioie e dolori, attimi di paura e momenti d’eccitazione, ferite fisiche e non ma tutto questo era niente, era normale, e sentiva che tutto si sarebbe risolto finché avesse stretto la mano di Sherlock sentendo il detective stringergliela in risposta.
Vedeva la vita che avevano davanti come se l’avessero già vissuta. E chi poteva dire che non fosse effettivamente così? Se le loro anime erano destinate a rinascere in eterno, a rivivere sempre le stesse vite in epoche diverse... se questo voleva dire incontrarsi ogni volta, stare al fianco di Sherlock ogni volta, allora John non poteva essere più felice di così.
Insieme. Nella vita come nella morte.
Vita dopo vita.
Sempre.
 
 
 
 
 
 
 
 

Fine.

 
 
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1- Un tributo a “Bleeding in Baker Street” di Fusterya.
2- Un riferimento alla battuta della 2x01 “A Scandal in Belgravia”. («I was a soldier Sherlock, I killed people! »«You were a doctor, John! »«I had bad days! »).
3- Piccolo tributo ad una delle scene più slash famose del Canone, da “L’Avventura dei Tre Garrideb”.
   
 
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