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Autore: Aching heart    23/05/2013    4 recensioni
"Malefica non sa nulla dell'amore, della gentilezza, della gioia di aiutare il prossimo. Sapete, a volte penso che in fondo non sia molto felice." [citazione dal film Disney "La Bella Addormentata nel Bosco"]
Carabosse è una principessa, e ha solo dieci anni quando il cavaliere Uberto ed il figlio Stefano cambiano completamente la sua vita e quella dei suoi genitori, rubando loro il trono e relegandoli sulla Montagna Proibita. Come se non bastasse, un altro tragico evento segnerà la vita della bambina, un evento che la porterà, quattordici anni dopo, a ritornare nella sua città ed intrecciare uno strano rapporto di amore/odio con Stefano. Ma le loro strade si divideranno, portando ciascuno verso il proprio destino: Stefano a diventare re, Carabosse a diventare la strega Malefica. Da lì, la nascita della principessa Aurora sarà l'inizio del conto alla rovescia per il compimento della vendetta della strega: saranno le sue forze oscure a prevalere alla fine, o quelle "benefiche" delle sette fate madrine della principessa?
Genere: Fantasy, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Otherverse | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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3. Alone in the Forbidden Mountain Castle

I piedi  avevano smesso di sanguinare da un po’ grazie alle fasciature che aveva fatto sua madre, ma Carabosse era comunque preoccupata. Per sua madre. Per curare sua figlia, se stessa e il marito, Elsa aveva strappato dei brandelli di stoffa dalla sua camicia da notte, accorciandola notevolmente, e ora tremava visibilmente dal freddo. Si erano stretti tutti e tre assieme in un abbraccio per cercare di scaldarsi un po’, ma senza grossi risultati.
Si trovavano nel castello in cima alla Montagna Proibita; i due uomini li avevano lasciati nel grande atrio vuoto senza una parola, nonostante i tentativi di Thomas di cavare loro qualche informazione, e ora erano tutti e tre rannicchiati in un angolo della sala di pietra scura e cupa. Sebbene Carabosse fosse abituata alle linee gotiche degli edifici, esse avevano un’aria molto più inquietante in quel contesto, considerati il grigiore e il vuoto che dominavano nel castello e il desolato panorama che si vedeva dalle finestre a sesto acuto. Faceva un gran freddo e tanto Elsa quanto Thomas non aveva neanche la forza di muoversi per esplorare il maniero. Entrambi erano sfiancati dalla marcia e dalla scarsità del cibo, che avevano per la maggior parte ceduto alla figlia, e non tardarono ad addormentarsi. La principessina invece non sapeva cosa fare, l’aiuto e il cibo che i genitori le avevano dato durante la salita verso la cima della Montagna Proibita le avevano fatto risparmiare energia, e in ogni caso non sarebbe riuscita a dormire, attanagliata com’era dalla paura: tutte le fobie che aveva avuto in precedenza – quella del buio, degli Orchi o quella degli insetti – erano niente se paragonate alla paura di non farcela, di non sopravvivere fino al giorno successivo. Così addormentati i suoi stessi genitori sembravano morti, nonostante l’impercettibile rumore dei loro respiri, e lei non ce la faceva proprio a star loro vicino. Oltretutto stare sdraiata sulla nuda pietra avrebbe solo contribuito a farle sentire di più il freddo: doveva muoversi per riscaldarsi un po’ e allontanare almeno momentaneamente le preoccupazioni, perciò si mise cautamente in piedi. Le piccole ferite ai piedi le davano delle fitte ma il dolore era sopportabile, in più il bendaggio improvvisato impediva ai suoi piedi di congelare a contatto con la pietra scura. Per fortuna dalle finestre non entravano spifferi. Non aveva però idea di cosa fare per riscaldarsi: di girare in tondo per la stanza, come una pazza, con i suoi genitori lì sdraiati come cadaveri non le andava proprio… il suo sguardo si posò sull’enorme scalone che si diramava in due gradinate, una delle quali andava a destra e l’altra a sinistra, e la tentazione di andare in esplorazione fu grande. L’ignoto la spaventava, ma suo padre era solito ripeterle che il modo migliore per superare le proprie paure era affrontarle, e in fondo era una bambina molto curiosa. Ogni nuovo “mistero” era una sfida, il richiamo dell’esplorazione era più forte della paura, e alla fine Carabosse cedette. Salì piano le scale, senza produrre alcun rumore, come uno spettro, e mano a mano che andava avanti riusciva a scorgere qualche dettaglio  in più del castello. Arrivata al bivio, prese la scala di sinistra. Continuò a salire impavida, finché sbucò in un corridoio infinito disseminato di inquietanti armature lucide e pesanti. Vincendo la sensazione di essere osservata, la principessa proseguì lentamente ed ebbe percorso appena un paio di metri quando alle armature cominciarono ad alternarsi porte di quercia. Carabosse ne aprì una col cuore in gola, come se sapesse già che dentro avrebbe trovato ad attenderla qualcosa di spaventoso, ma quando entrò provò la prima vera sensazione positiva da quando era stata portata a forza su quel carro. Quella stanza era una biblioteca: era enorme, immensa; forse un po’ inquietante a causa dei gargoyle di pietra che sembravano stare per spiccare il volo dai capitelli delle colonne che sostenevano i numerosi archi, ma anche uno spettacolo rassicurante grazie agli innumerevoli scaffali in quercia ricolmi di tomi antichi e preziosi che dovevano valere una fortuna. C’erano anche un ampio tavolo e panche intorno ad esso e, affissa ad una parete, una carta geografica di tutti i regni delle Terre d’Oltreoceano incredibilmente vasta e dettagliata.
Appese qua e là sulle pareti c’erano delle torce accese, a distanza di sicurezza dai libri, e nel grande camino si sarebbe potuto accendere un fuoco, dato che c’era un cumulo di legna che aspettava solo di prendere fuoco. Carabosse decise a malincuore di andare avanti nella sua esplorazione e, dopo aver gettato un’ultima occhiata alla biblioteca, passò di porta in porta, scoprendo stanze più piccole con collezioni di vario genere. Una in particolare attirò la sua attenzione, perché conteneva il più vasto assortimento di armi e strumenti bellici che avesse mai visto in vita sua. Ciò che le interessava, comunque, erano le camere da letto, dove forse avrebbe trovato qualcosa con cui riscaldarsi, e lì non sembravano esserci, perciò decise di cambiare ala da esplorare. Ritornò indietro, allo scalone nell’atrio, e stavolta prese la gradinata di destra che la portò proprio dove voleva arrivare. Trovò varie camere da letto e si scelse quella che le piaceva di più, con un letto singolo dal baldacchino sontuoso. Vi entrava più luce che nelle altre stanze, e fu quello il motivo della sua scelta. Il camino sembrava la bocca di un enorme mostro ma ormai Carabosse non aveva più paura di quelle idiozie. La principessa aprì le ante dell’armadio, speranzosa, e trovò dei vestiti, tutti sulle tonalità del grigio ma molto caldi. Senza perdere troppo tempo ne infilò uno tenendo la camicia da notte come sottoveste, poi prese tutte le coperte che erano ripiegate sul fondo dell’armadio e si precipitò giù dai genitori. Stavano ancora dormendo, così scaricò le coperte a terra e li scosse energicamente. La prima a svegliarsi fu Elsa, seguita subito dopo dal marito. Erano ancora intontiti dal sonno e più infreddoliti di prima.
- Madre, padre, svegliatevi, guardate! – esclamò. Visto che i suoi genitori sembravano non stare capendo nulla, li avvolse lei con le coperte calde che aveva trovato.
- Carabosse, ma dove le hai trovate?  – fu la stupita domanda di suo padre.
- Sono andata in esplorazione. C’è un’infinità di camere, ci sono delle torce accese, legna nel caminetto, coperte, letti, vestiti, perfino libri! La situazione non è così disperata!
- Cosa? Tu sei andata in giro per il castello da sola?! Ti rendi conto che potevi farti male, potevi perderti, poteva succederti qualsiasi cosa? E…
Carabosse interruppe sua madre afferrandola per mano e invitando lei e suo padre a seguirla, a vedere cosa aveva scoperto. Li trascinò in giro per il castello, così i suoi genitori poterono vedere tutto con i loro occhi, e non se la sentirono più di rimproverare la piccola, anzi.
Si coprirono subito con indumenti caldi e utilizzarono quel che restava della camicia da notte di Elsa per fasciarsi ulteriormente i piedi, a mo’ di scarpe, decisero poi di fare economia spegnendo le torce nella maggior parte delle stanze e accendendone alcune nei corridoi. Dopodiché ne presero una per ciascuno ed andarono alla ricerca delle cucine, dove forse avrebbero trovato qualcosa da mangiare, tanto miracolosamente quanto avevano trovato tutto il resto. Il Re non sapeva ancora se quel castello fosse l’opera di un amico o di un nemico, c’erano troppe cose che non si spiegavano. Più di ogni altra cosa voleva sapere chi era l’artefice del complotto, chi poteva aver fatto una cosa simile. Guardò sua moglie e sua figlia e si sentì invadere dalla rabbia. Era lui il Re, era lui quello da eliminare per salire al trono, che senso aveva prendersela con una donna e una bambina? Quali problemi avrebbero mai potuto dare ad un usurpatore?
Con la mano libera cercò quella di Elsa, che si voltò verso di lui. Aveva uno sguardo incerto: come lui, non sapeva se sperare o meno. Tuttavia avvertì la tristezza e la rabbia di suo marito e per consolarlo si aprì in un debole sorriso e strinse la sua mano, poi entrambi guardarono la figura della loro bambina che avanzava sicura davanti a loro, la loro bambina che aveva una forza interiore pari solo all’amore che i suoi genitori nutrivano per lei.
Quel giorno la loro bambina era diventata grande.

***

- Dunque sarò Re? Anche se non appartengo alla famiglia reale? Anche se il Re e la Regina hanno già un figlio maschio?
La sorpresa, la gioia, l’ambizione nella voce di Uberto sono ben riconoscibili. I suoi sogni più grandi, le sue ambizioni più segrete e oscure potrebbero diventare realtà, se la profezia non sbaglia. Diventeranno realtà, perché non c’è profezia al mondo che non si avveri. 
- Voi sarete Re, ma…
- Ma cosa? Cosa devo fare per diventarlo?
La fata chiude gli occhi. E’ consapevole del fatto che si pentirà sempre di quello che sta dicendo, ma non può tirarsi indietro.
- E’ ancora lontano il momento in cui potrete sedere sul trono, dovranno passare anni prima che ciò accada. Voi non otterrete la corona con onore, la prenderete con l’inganno e col tradimento. Non ucciderete coloro ai quali essa appartiene di diritto, non verserete sangue. Se lo farete, il vostro regno sarà maledetto, e quel sangue ricadrà su voi e vi condurrà alla pazzia.
Uberto lo sa già questo. L’inganno è sempre stato il suo mezzo migliore. Lui non ha onore.
- Cosa dovrò fare allora? Se ruberò il trono al principe Thomas vorrà sempre vendicarsi, ucciderlo è l’unica soluzione.
- Voi non ucciderete! – l’urlo della fata riecheggia sulle pareti di pietra. – Non sarà il principe il vostro nemico! La sua discendenza, la discendenza del Drago costituirà sempre un pericolo per la vostra famiglia, e non c’è modo di evitarlo!
Céibhionn aprì gli occhi scacciando i ricordi. Arrotolò la pergamena che aveva in mano e la ripose insieme alle altre nella raccolta delle profezie. Era da molto tempo che non aveva premonizioni, cosa che apprezzava enormemente. Il fardello di essere la maggiore fra le sette fate, di fare da tramite fra il presente e il futuro, di essere a conoscenza di segreti che non potevano essere rivelati a nessun altro si faceva più pesante giorno per giorno: ben triste prospettiva, dal momento che aveva l’eternità davanti a sé.
Aveva appena riletto la sua ultima profezia, quella che le aveva causato il flashback, che risaliva a undici anni prima. Riguardava la successione al trono. Tempi bui erano in arrivo: il felice regno di Re Thomas era ormai finito e stava lasciando posto a quello di Uberto, il cavaliere traditore, troppo simile ai tirannici genitori del Re spodestato. La maggiore delle fate sospirò. Uberto aveva già provveduto tempo addietro a ingraziarsi le sue sorelle con ricchi doni, che esse avevano apprezzato maggiormente sapendo che era tutto ciò che il cavaliere aveva. I gioielli che tutte e sette avevano ricevuto erano di squisita fattura e sei di loro si erano subito dichiarate grate al cavaliere e disposte ad aiutarlo per qualunque cosa avesse avuto bisogno. Lei, la settima, aveva fatto lo stesso perché sapeva che quello era ciò che riservava il futuro, anche se a malincuore. Conoscere il futuro non voleva dire combatterlo; più e più volte aveva visto persone infelici cercare disperatamente di evitare che le profezie si avverassero e cadere vittime delle stesse precauzioni. Era proprio quello che era successo a lei.
Cèibhionn era tenuta a rispettare l’ordine delle cose, anche se ciò voleva dire andare contro le sue stesse idee, i suoi stessi sentimenti. Come la simpatia e la pietà per quella povera bambina, la principessa Carabosse. Le altre sei fate sapevano cosa Uberto aveva fatto per sbarazzarsi della famiglia reale ma non se ne curavano: ormai erano dalla sua parte. Le fate erano così: a ingraziarsele bastavano gioielli, oro, doni rari e ricercati, e rispetto.
Un profumo di brezza marina annunciò a Céibhionn l’arrivo nella stanza di Niamh, la minore delle sue sorelle.
- Ti disturbo, Céibhionn?
La fata si girò verso di lei. – Interrompi dei pensieri, Niamh.
La nuova arrivata non sembrò preoccuparsene. Probabilmente le era già capitato molte volte.
- Sei stata tu, vero? – chiese senza preamboli, sapendo che lei avrebbe capito.
 E infatti la domanda di Niamh non stupì Céibhionn. Lei sapeva molte più cose rispetto alle sue sorelle maggiori, era molto attiva e si curava più di tutte di ciò che accadeva nel mondo fuori dal loro palazzo, ed era anche molto intelligente.
- Sì, sono stata io.
Era stata lei, Cèibhionn, a trasformare il freddo castello di pietra che Uberto aveva fatto costruire per l’esilio della famiglia reale in un qualcosa di più simile ad una casa in cui vivere.
- Perché l’hai fatto? Gli accordi erano diversi.
- Sì, gli accordi erano diversi. Ma da quando, Niamh, noi fate dobbiamo sottostare ai voleri di un semplice essere umano? Lui ci ha mostrato rispetto e noi abbiamo deciso di aiutarlo, ma tu sai che io devo obbedire a forze più grandi di noi. Ciò che ho fatto era esattamente ciò che dovevo fare. Io non devo rendere conto né a te né tantomeno a Uberto delle mie azioni. Ora va’, e se qualcun’altra avrà delle obiezioni da fare, riferisci tu le mie parole, io non voglio essere disturbata.
Niamh annuì, non prima di averle gettato un’occhiata di amaro disprezzo,  poi la sua figura sfumò in un guizzo di bollicine e, fra l’aroma delle brezza marina, svanì.


*Angolo Autrice*
Salve a tutti, rieccomi qui con un nuovo noiosissimo capitolo. In mia discolpa posso dire che era parte dello scorso capitolo che ho dovuto necessariamente tagliare e per questo qui non succede praticamente nulla di interessante, eccezion fatta per l'entrata in scena delle fate (o almeno spero che sia stata interessante). Probabilmente quando avrete letto del fatto che nel castello c'erano: biblioteca, vestiti, coperte, torce e quant'altro avrete pensato che io sia rimasta completamente priva di buonsenso, ma spero che si sia capito dopo che era stata Céibhionn a fornire il castello di tutte quelle cose. A proposito di Céibhionn voglio spendere due paroline: quando ho concepito l'dea del suo personaggio ho pensato a lei come un personaggio odioso e detestabile; ora, non so quale impressione abbia dato a voi, ma io posso dire di aver fallito miseramente su quel fronte nel momento in cui ho concepito anche la sua storia. Mi sa che qui quella davvero antipatica è Niamh, eh?
E parlando della profezia, la scorsa volta vi avevo già detto che io e le composizioni in versi non andiamo molto d'accordo, perciò dopo aver fatto un paio di tentativi disastrosi ho lasciato perdere e ho inserito la profezia con la parte in corsivo, che mi pare molto meglio. Magari alla fine di questa storia vi pubblicherò quello che ero riuscita a fare così potrete deridermi pubblicamente.
Ringrazio tutti quelli che hanno letto e/o messo fra le preferite/seguite/ricordate questa storia, e ringrazio anche Dora93 per aver recensito.
Alla prossima!

   
 
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