L’acqua a mia disposizione
è finita, quindi ho dovuto mio malgrado avvicinarmi di nuovo all’unica fonte
che ho trovato da quando siamo qui; Shinchan ne aveva bisogno a sua volta,
abbiamo pensato che tanto valeva andare in due coprendoci le spalle a vicenda.
Abbiamo appena finito di aggiungere entrambi la tintura di iodio, tenendo a
mente che ci vorrà un po’ perché sia bevibile, che si sente un boato in
direzione della Cornucopia e non ha nulla a che fare con il segnale della morte
di un tributo, che lo segue a pochi minuti di distanza mentre io e Shinchan
stiamo cercando di capire se qualcuno non sia per caso incappato nelle mine
vicino alle pedane.
Lo sguardo di Midorima va in quella direzione, sebbene da dove siamo non sia
possibile vedere chissà cosa; mentre sto per imitarlo, lo vedo e lo sforzo di
non fare movimenti bruschi è maggiore di quanto si possa credere.
«Shinchan, rimani girato e non ti muovere.» dico con il tono più calmo e
sommesso che mi riesce di tirare fuori; lo vedo irrigidirsi suo malgrado, ma
rimane fermo. Una delle prime cose che abbiamo concordato è il livello di
fiducia che possiamo avere l’uno nell’altro e il compromesso è accettabile:
possiamo anche cercare di ammazzarci fra di noi, e quindi essere guardinghi
l’uno verso l’altro, ma se siamo “fuori” – ossia, come in questo momento, alla
mercé degli altri tributi in egual misura – l’alleanza va rispettata.
Penso che abbia capito che ho interesse nel fatto che rimanga vivo almeno per
un po’, e che mi stia a sentire ne è la dimostrazione.
Ai suoi piedi, si muove lentamente un serpente lungo almeno due metri che non
sono minimamente in grado di riconoscere, non essendo esperto della fauna di un
territorio come questo; so che ci sono anche tipi che vivono vicino e
nell’acqua, ma non ho idea di quanto siano letali e vorrei non doverlo scoprire
a spese mie o di Shinchan.
«Cosa c’è?» mi domanda in un soffio, e con movimenti più silenziosi possibili
porto una mano vicino al fianco e ai pugnali che ho fissato in vita grazie alla
cinghia che li teneva insieme alla Cornucopia.
«Serpente.» sussurro solamente; prima che per istinto lui possa muoversi o che
il rettile gli si avviluppi alla gamba, un pugnale gli ha trafitto la testa
uccidendolo e immobilizzandolo lì dov’era. A quel punto Shinchan porta lo
sguardo verso il basso, poi su di me.
«Non hai nemmeno guardato. O sei fortunato, o sei pericoloso.» dice solamente,
senza ringraziamenti, portando la mano a sistemare gli occhiali in quello che –
ormai è chiaro – è un gesto meccanico, come l’inflessione con cui finisce le
frasi che mi farebbe ridere, se la situazione fosse diversa.
Scrollo le spalle e abbozzo un sorriso; non è che non ho guardato, ma è meglio
se – per il momento – evito di dirgli tutto.
È il tramonto quando
arrivo in prossimità del punto d’incontro con Shinchan.
Nell’arco della giornata, dopo il primo colpo della mattina, ne è seguito un
altro, motivo per cui a metà giornata una seconda comunicazione del capo degli
Strateghi ha revocato l’obbligo di prendere parte ad almeno uno scontro; è
sembrato come se volesse dire che ci risparmiava perché eravamo stati bravi a
procurare loro almeno un paio di morti su cui speculare fino al giorno dopo.
Ma che nulla gli impedisce di rendere di nuovo valida quella regola tutte le
volte che vuole, se non gli assicuriamo un degno spettacolo. È stato
rivoltante.
Senza poi considerare il fatto che, per quanto ne so, il secondo colpo potrebbe
essere Shinchan, dal quale mi sono diviso poco dopo l’incidente del serpente.
Sto per aggirare dei cespugli alti quando un rumore e dei movimenti che noto
con la coda dell’occhio colgono la mia attenzione; mi volto di scatto – so che
non è una mossa intelligente, forse, ma dargli il tempo di prendere la mira
sarebbe un suicidio, letteralmente – in cerca di una traiettoria che mi dia una
sicurezza quasi totale di colpire il bersaglio quando inquadro Kasamatsu,
l’unico tributo rimasto del 7.
Un primo sguardo mi convince che ha diverse priorità, ma tra queste non c’è il
tentare di uccidermi: è troppo occupato a tenersi in piedi reggendosi ad uno
degli arbusti. Ha il respiro velocizzato e ad una prima occhiata mi sembra
quasi che sia appena uscito dalla palude.
Se mi ricredo è per ragioni che diventano ovvie nel momento stesso in cui,
fermandosi, mi concede l’opportunità di guardarlo meglio: innanzitutto, se
fosse finito davvero in acqua con ogni probabilità qualche animale gli avrebbe
impedito di uscirne. In secondo luogo, quello che ha addosso non è acqua ma
sudore e diventa evidente quando il suo respiro si fa persino più affannato; è
chiaro che non sta bene.
O ha corso per chilometri fuggendo da chissà cosa o c’è dell’altro, qualcosa
che non sono ferite.
Non azzardo ancora ad avvicinarlo, perché non importa se abbiamo scambiato
qualche parola tutto sommato amichevole durante l’addestramento, nulla mi dice
che non abbia ancora forza sufficiente ad uccidermi… o almeno, questo sarebbe
il pensiero iniziale.
Scuoto appena la testa: non si regge in piedi, ma soprattutto so una cosa che
non ha nulla a che fare con i giochi, le armi, le strategie o con la paura.
Ed è che non è questo il tipo di persona che mio padre e mia madre hanno
cresciuto.
Muovo un passo verso di lui, Kasamatsu alza lo sguardo con decisione su di me e
capisco che se solo avessi intenzione di ucciderlo, non me lo renderebbe un
compito facile. Mi fermo, perché capisco che è come un animale ferito: non sta
ragionando, se invado il suo territorio, lui lo difenderà.
Poi la noto. Non me ne ero accorto prima perché era sul lato sinistro che, da
dove sono, non vedevo completamente perché la gamba è anche coperta dai
pantaloni: lungo un lato – visibile nel momento in cui mi fronteggia – un
taglio non troppo profondo ferisce l’arto. È proprio il fatto che non sembri
una ferita grave, però, a farmi storcere il naso… e lo sento. Un odore che non
avevo colto prima, forse perché l’adrenalina mi aveva portato a fare attenzione
a non perdere di vista la possibile minaccia; ora che però la mia attenzione è
su di esso, sembra diventare ogni secondo più forte.
Infezione. La realtà mi colpisce in faccia come uno schiaffo: nessuno di noi ha
pensato alle infezioni, che in un posto del genere e con tutti i tipi di
insetti che potrebbero esserci, avrebbe dovuto essere la prima cosa di cui
preoccuparsi. Poi mi rendo conto che era così che doveva essere: troppo presi
dai serpenti, dagli alligatori, dalle piante potenzialmente velenose e dalla
necessità di trovare acqua per pensare a cosa ci svolazzava intorno,
all’apparenza innocuo.
La ferita di Kasamatsu emana un odore che, se si facesse più vicino – per
uccidermi o per una disperata ricerca di aiuto – sarebbe insopportabile forse.
Ma lui non lo fa; mi guarda, quasi aspettando che io me ne vada per crollare a
terra.
«…Da quanto è infetta?» domando schietto, perché non ha senso girarci intorno.
Lui sembra capire che nascondermelo è inutile e poggia di peso la schiena
contro il tronco, si lascia scivolare a terra. Inspira più aria che può, a
pieni polmoni e quasi ringhia quando mi risponde: «Abbastanza perché stia per
marcire.»
Lo dice con una crudezza tale che, più che spaventato dalla morte, sembra
animato solo dalla voglia di uccidere in massa tutti quelli che ci hanno
portato qui.
Inutile chiedergli perché non la cura, è evidente che nessuno sponsor gliene ha
dato la possibilità.
Nessuno lo vuole vivo, ed è una consapevolezza che avrebbe potuto ucciderlo
prima di quanto non stia facendo l’infezione.
Stringo i pugni: nessuno vuole vivo uno come Kasamatsu, proprio come nessuno
vorrebbe vivo me. Probabilmente l’unico motivo per cui non sono ancora sepolto
– sempre che i tributi gli risultino degni di una sepoltura, e ne dubito – è
che sono sopravvissuto per conto mio, evitando di incappare in qualcosa di così
pericoloso da far sì che avessi bisogno di aiuto esterno.
Siamo troppo puliti per un gioco sporco e persone sudice come quelle di Capitol
City.
«Vuoi darmi il colpo di grazia?» mi chiede, crudo. Non so cosa faccia più male:
pensare che sia rassegnato ad un’idea del genere, o che me lo stia chiedendo
per farmi un favore – quest’ultima possibilità significherebbe che persino in
un momento simile riesce ad essere altruista. Qui, in questo luogo, mentre si
muore, qualcuno riesce ancora a mantenere la sua integrità morale, quale che
sia.
Non potrei mai fargli il torto di credere che sia perché ormai è prossimo alla
morte.
Muovo qualche passo verso di lui, fino ad essere distante di sì e no un paio di
passi; mi siedo a terra, e Kasamatsu mi guarda.
«Allora?» mi incalza, perché sono certo che aspettare la morte senza sapere
quando il tuo boia colpirà sia più spaventoso della morte stessa. Scuoto la
testa.
«Allora non ti lascio morire da solo. Nessuno se lo merita, e tu forse meno di
tutti.»
Quasi un’ora dopo, Kasamatsu ha chiuso gli occhi e so che non li riaprirà.
Non sono pratico di come si onorano i morti, conosco solo un gesto che ho visto
fare da bambino, ma non so nemmeno se sia vecchia usanza ormai perduta del 5 o
solo quella di qualcuno di passaggio, all’epoca.
Mi alzo in piedi e guardandolo sfioro in sequenza la mia fronte, chiudo la mano
in un pugno che poso all’altezza del cuore; sebbene non lo abbia mai chiesto,
il significato è intuibile: “nella memoria, nel cuore”. Qualunque sia l’origine
di questo addio, è un segno di rispetto.
Mi volto e raggiungo il punto d’incontro; quando il colpo che segnala la morte
di Kasamatsu riempie l’aria, di fronte a me Shinchan mi ha appena raggiunto.
Nel cielo quella sera svettano i volti di tre persone: Kagami del 9, Kuroko
dell’8 e Kasamatsu del 7.
Siamo rimasti in cinque: Wakamatsu del 4, Reo dell’1, io, Shinchan e Aomine
dell’11.
Forse è il momento di concludere l’alleanza, prima di ritrovarci ad ucciderci a
vicenda per costrizione.
A risvegliarmi è un «Ohi,
Takao.» di Shinchan. Basta e avanza visto che qui appisolarsi è l’equivalente
di dormire profondamente nella sicurezza della propria casa, ed è un lusso che
non sono nemmeno così certo di potermi permettere più ormai, anche se Midorima
non ha dato cenno di volermi uccidere nel sonno, non ancora almeno; immagino
che reputi ancora in corso l’alleanza, in attesa che sia io stesso a suggerire
di revocarla.
Apro gli occhi immediatamente, individuandolo senza difficoltà.
«Cambiamo turno…?» domando, ma lui scuote la testa e non si muove dalla sua
posizione: «Rumori. Vado di là.» spiega sbrigativamente e prima ancora che io
registri effettivamente la direzione a cui si riferisce, è già sparito oltre un
lato di erba alta poco distante.
Nel silenzio del punto in cui ci stavamo riposando – probabilmente l’ultima
occasione di riposarci e di mangiare qualche mirtillo e un poco di tifa
rimediati, nonostante il primo sia acido e faccia particolarmente schifo – tendo
l’orecchio per captare anche il minimo rumore; siamo arrivati ad essere nella
condizione in cui anche sentire un solo fruscio in più può salvarti la vita.
Recupero velocemente un pugnale e mi posiziono in modo da essere pronto a
scattare in avanti se necessario; una manciata secondi e sento partire un colpo
che mi fa sussultare: non è un’arma, ma il segnale che ora siamo in quattro… e
non so se tra questi c’è il mio alleato.
Un morsa mi chiude lo stomaco, e per quanto irrazionale possa essere mi ritrovo
a seguire la stessa direzione presa da Shinchan. So da me che è stupido, che a
conti fatti non abbiamo legami, che un’alleanza in un’arena in cui rischi di
essere ucciso da un momento all’altro non può considerarsi tale o qualcosa che
ci si avvicini. Penso soltanto che sia diventato tutto troppo, all’improvviso.
L’unico che si avvicinasse al concetto di “amicizia”, Shun, è morto nella prima
mezza giornata e non so nemmeno come.
I due che dall’inizio hanno mostrato apertamente che non si sarebbero piegati a
Capitol e avrebbero tenuto fede al legame – qualunque esso fosse – che li
univa, sono stati separati dalla follia violenta di Hanamiya.
Kasamatsu, a cui forse mi sentivo più affine, è morto abbandonato dalle persone che stiamo intrattenendo.
Ed ora Midorima, che potrà non essere un vero alleato né un amico, ma che è
abbastanza leale da mantenere fede ad un patto anche solo temporaneo, potrebbe
essere stato ucciso senza che io sappia neppure come.
Mentre aggiro incautamente un arbusto, mi ritrovo a finire contro qualcosa in
movimento che capisco essere una persona e che a guidarmi sono le uniche cose
che non avrebbero mai dovuto prendere il sopravvento: panico e paura, causati
dalla consapevolezza totale e schiacciante che se uscirò vivo da qui avrò visto
così tante cose che non ci sarà mai modo di raccontarle senza chiedersi se non
sarebbe stato meglio morire qui. Capisco, ancora una volta, che non c’è
speranza per chi ne esce di non divenire come Miyaji: è un destino già scritto
dal quale non c’è scampo.
Finalmente il mio quadro è completo, mentre mi costringo a fare almeno un passo
indietro per non essere completamente alla mercé di chiunque sia davanti a me
nel buio quasi totale a cui i miei occhi non si sono ancora del tutto abituati.
La risposta è sempre stata lì: nel modo in cui Miyaji allontanava le persone,
in come le guardava, in come gli parlava – aveva un peso sulle spalle
impossibile da raccontare, e nei vivi che incrociavano il suo cammino deve
sempre aver visto un costante, opprimente senso di colpa che rende difficile
respirare e ti fa solo venir voglia di gridare, arrabbiarti e forse anche
piangere.
Finché non ne puoi più.
Sto per colpire con il pugnale, quando finalmente mi rendo conto che di fronte
a me c’è Midorima e mi blocco di scatto all’ultimo secondo; lui era comunque in
guardia per difendersi, e capisco che per quanto possiamo fingere di fidarci
l’uno dell’altro, non possiamo farlo davvero. Dobbiamo necessariamente essere
pronti l’uno ad un tiro mancino dell’altro.
Abbasso l’arma, guardo oltre la sua spalla, poi torno su di lui: devo avere una
faccia fin troppo sconvolta perché mi guarda perplesso, capendo che sto
pensando a molte cose tranne cercare di ucciderlo.
«Ohi—»
«Cos’era? Chi…?» lascio in sospeso la domanda perché è chiaro a cosa mi sto
riferendo; lo intuisce anche lui e sospira leggermente, portando la mano a
sistemare appena gli occhiali in un gesto che ho ormai capito essere meccanico
ed inconscio.
«Aomine. Avevo piazzato una trappola poco distante da qui.»
Non lo dice, ma è chiaro che la trappola ha funzionato. Questo dovrebbe
rallegrarmi, ma è come un cappio che ti si stringe attorno al collo, sempre più
stretto fino a che non ti rende impossibile anche solo boccheggiare.
Sento i muscoli del mio viso stendersi in un sorriso che non ha nulla di felice
o soddisfatto. Devo sembrare piuttosto tra il rassegnato e il disperato.
«Dobbiamo spostarci.» propongo, ma Midorima non sembra della stessa idea: «Direi
di no, almeno finché non fa giorno. Con il buio nessuno si avventurerà qui a
cercare chi può aver ucciso chi. Tra l’altro, per quanto ne sanno potrebbero
essere stati animali o chissà che altro. Troppe incognite per rischiare, specie
ora che siamo solo in quattro.» spiega, e capisco che finché il panico continua
ad avere la meglio su di me non posso permettermi nemmeno di formulare ipotesi,
né prendere decisioni drastiche.
Inspiro ed espiro, muovendo qualche passo indietro, facendomi di lato perché
Shinchan possa affiancarmi anziché camminarmi dietro o essere costretto a
superarmi dandomi le spalle.
Capisco da me che nessuno dei due muore dalla voglia di farlo, a questo punto.
Torniamo sui nostri passi fino al punto in cui eravamo e ci sediamo entrambi;
tra noi regna il silenzio per diverso tempo, e il respiro di Midorima è così
regolare che mi convinco che si sia appisolato quando parla: «Non ti serviva
davvero un alleato, vero?»
Mi spiazza questa domanda, e al tempo stesso mi ricorda che non posso ancora
dare di matto e vanificare tutto; manca poco, ma devo resistere. Questo
pensiero ha la capacità di calmare quell’agitazione che il panico aveva
scatenato.
«Non per quello che pensi. Voglio dire, ha fatto comodo dovermi guardare le
spalle da una persona di meno, ovvio.» ammetto con un sospiro leggero,
riuscendo a concedermi anche un sorriso lieve, sebbene invisibile sia per il
buio, sia perché non ci guardiamo nella posizione in cui siamo.
Ci sfioriamo solo le spalle.
«Siamo in quattro. Sbrigati, perché l’alleanza non durerà a lungo.»
«Eddai Shinchan, così mi fai tristezza!» rimbrotto –
insomma, potrebbe dirlo in modo più carino e gentile.
«Non c’era nulla di allegro fin dall’inizio.» obietta lui con il realismo che
sarebbe forse giusto avere, a questo punto; che avrei dovuto avere dall’inizio:
«E basta con quel nomignolo. Se stai davvero pensando a me come un alleato o un
amico, smettila. Perché non ti aiuterà quando dovrai provare ad uccidermi.»
dice, schietto.
Potrebbe sembrare un arrogante modo di dirmi che ci posso anche provare, ma lui
non morirà certamente per mano mia; invece io ci leggo altro, e mi chiedo a
questo punto se non sarebbe meglio cercare ognuno uno dei due rimasti, nella
speranza che – se è destino non arrivare in “finale” – sia qualcun altro ad
ucciderci.
«Non aiuterà nemmeno te, eh?» gli faccio presente e il suo silenzio basta come
risposta.
«Rimani ad osservare anziché attaccare, salvi gli altri tributi, non dai loro
il colpo di grazia» inizia, e dall’ultima parte della frase capisco che mi ha
visto aspettare che Kasamatsu morisse «hai davvero capito che alla prima
possibilità qui cercano di ucciderti?» mi fa notare, il tono brusco.
Penso di capire cos’è che lo infastidisca tanto.
«Shinchan, domani mattina non ci dividiamo.» inizio, come se mi avesse chiesto
tutt’altra cosa: «Un’ultima alleanza fino a che non mi uccidono. O se rimaniamo
soltanto noi, ovviamente. Ho bisogno di te fino alla fine.» ammetto e lo sento
voltare il viso per cercare probabilmente di scorgere il mio.
Inspiro piano, abbozzo un sorriso, mi giro a mia volta: è come quando fa freddo
e sei a pochi metri da casa ma il gelo ti è penetrato fin nelle ossa.
Devi solo resistere un altro po’ e sarai arrivato.
«Mi parli di te, Shinchan?»
Perché potrà sembrare assurdo, ma morire sapendo che tutto ciò che ho visto
negli altri o che un’alleanza anche solo di convenienza siano stati
completamente falsi e niente di più è peggiore dell’idea stessa di morire.
Passiamo il tempo che
manca all’alba parlando, anche se penso non saprò mai cos’abbia spinto Midorima
ad accettare l’idea folle di parlare, così come sono abbastanza certo che non
mi abbia detto tutto naturalmente.
È del Distretto 3, dove meccanica ed elettronica sono la specialità di tutti,
chi più e chi meno; lui stesso se ne intende ed è così abituato a fare i
calcoli e ad analizzare e riparare macchinari che le trappole sono la sua
specialità, migliorata ancora di più nella settimana di addestramento. È figlio
unico e non ha mai digerito Hanamiya più di tanto: una conoscenza superficiale
il cui modo di agire lo aveva convinto da subito a non accettare un’alleanza se
anche lui gliel’avesse proposta.
È mio coetaneo, anche se avrei scommesso fosse più dell’età di Shun; a suo modo
è persino divertente, in alcune reazioni che ha oltre che nell’inflessione con
cui finisce le frasi.
«Hai proprio l’aria del fratello maggiore stupido e iperprotettivo.» o «Ti
hanno mai detto che sei fastidioso?» sono tipiche risposte che mi ha dato
quando ho accennato a mia sorella, o in generale alla vita nel mio Distretto.
Su di lei, però, si è soffermato con un picco di sensibilità di cui forse non
si è reso conto nemmeno lui e di cui molti, di certo, non lo credevano capace –
me compreso: «Dovresti voler provare a tornare. Per lei.»
«Non è che io non voglia tornare a casa vivo, sai? O almeno provarci.» gli ho
fatto notare, restando qualche momento in silenzio.
Domani saremo comunque o morti, o come tali: qualsiasi provvedimento di Capitol
City per quanto sto per dire non riesce a preoccuparmi più di Reo o Wakamatsu.
«Ma se torno vivo sarò un possibile Mentore. Potrei persino dover fare la
caccia allo sponsor per mia sorella, un giorno. Vivrei per i prossimi anni con
l’angoscia ad ogni Mietitura, sapendo cosa l’aspetterebbe se venisse scelta. Mi
fa quasi sembrare piacevole l’idea di non tornare a casa, a volte.» ammetto,
con un poco di vergogna all’idea che forse queste saranno le parole che mia
madre e mio padre sentiranno mentre mandano chissà quale riepilogo di questa
giornata. È come se li stessi pugnalando alle spalle, come se gli avessi dato
la speranza di vedermi tornare per poi troncarla di netto.
«Questa Mietitura è andata bene perché in quest’Edizione Speciale hanno voluto
solo tributi maschi. Di sicuro cercano di diminuire la forza lavoro che
potrebbe potenzialmente ribellarsi… ma dall’anno prossimo toccherà di nuovo a
maschi e femmine, indistintamente.» ho concluso, senza aggiungere altro.
In questi giochi io non ho ancora ucciso nessuno.
Figurarsi se mia sorella sarebbe mai in grado di prendere la vita di una
persona così.
L’alba arriva che non
abbiamo chiuso occhio, ma penso che valga lo stesso anche per gli altri due
rimasti.
Abbiamo mangiato tutte le provviste rimaste, tenendo da parte solo un poco di
acqua che potrebbe servire dopo una fuga o qualcosa del genere; dubitiamo
entrambi che a fine giornata saremo ancora nell’arena, in un modo o nell’altro.
Ci muoviamo con attenzione, in silenzio: non è più tempo di parlare, ormai.
Siamo in marcia da almeno un’ora quando, verso ovest, sentiamo un grido
lancinante che somiglia a quello di un animale ferito. Ci basta uno sguardo e
un cenno d’intesa per iniziare a muoverci in quella direzione dove, è
praticamente certo, si stanno scontrando Reo e Wakamatsu.
Sarebbe totalmente inutile non andargli incontro, perché significherebbe dar
loro le spalle e non hanno bisogno di un ulteriore vantaggio.
Quando siamo ormai vicini – arrivano voci e questo basta a farci capire che è
meglio iniziare a tenere seriamente qualsiasi possibile arma a portata di mano
– un pensiero mi passa per la testa: se non fossi io a vincere, chi vorrei
vincesse gli Hunger Games?
Reo non me l’ha raccontata giusta fin dall’inizio, nel bene o nel male non si è
mai capito cosa gli passasse per la testa, quanto fosse disposto a giocare
sporco, quanto potesse o volesse sacrificare; per motivi che non saprei
spiegare, mi dà la sensazione di essere più simile ad Hanamiya che a Kasamatsu.
Se penso a Wakamatsu penso a Sakurai, a come lo ha visto morire, a come ha
ucciso per vendicarlo senza esitare un solo istante e mi chiedo se lui voglia
davvero sopravvivere; se pensi che sia suo dovere tornare vivo per rispetto al
suo compagno o se preferisca l’idea di morire e raggiungerlo, se c’è qualcosa
dopo la morte.
E Shinchan, al mio fianco? Vuole vivere, certo che vuole vivere… ma dopo aver
parlato con lui mi chiedo se una persona così, rimanendo da sola, possa
sopportare tutto quello che verrà dopo.
Un tonfo che fa tremare un arbusto a nemmeno un metro da me ci fa fermare; vedo
Reo avventarsi su quello che è chiaramente Wakamatsu e nel tempo che impiego a
farli rientrare completamente nel mio campo visivo Reo lo ha trafitto con una
spada lunga. Non mi stupisce che ne abbia una: di sicuro è uno di quelli che
era riuscito ad andare a recuperare un’arma praticamente nella Cornucopia.
Gli vedo estrarre la lama insanguinata, segno che il colpo deve essere di certo
andato a segno e mi muovo ancor prima di ragionare davvero.
Mi torna in mente quanto la disperazione per la perdita di una persona possa
portarti a uccidere come se tu non avessi fatto altro nella tua vita, ma con
essa torna anche la figura di Wakamatsu ancora sporca del sangue di Hanamiya
che non si è curato di altri tributi che potevano essere lì intorno, di
possibili attacchi alle spalle. Si era preoccupato solo di prendere il corpo di
Sakurai e piangerne la morte – sembrava aver detto al diavolo le telecamere,
gli Strateghi, il pubblico e tutta Panem che permette
barbarie simili.
So che alla fine non si può vincere in tre, che non posso sperare di voler
salvare me stesso e anche gli altri.
Negli Hunger Games non esistono eroi.
So cos’ha detto Miyaji, ma il mio pugnale è già conficcato nella gamba di Reo
ed è troppo tardi per ogni ripensamento; lo vedo guardarmi con l’astio di chi è
stato interrotto ad un istante dalla fine di qualcosa e poi indietreggiare. Non
mollo il pugnale, lasciando che se vuole allontanarsi debba fare forza
abbastanza da causarsi dolore per l’estrazione della lama.
Contrariamente alle mie aspettative, lui approfitta della posizione: si piega
in avanti e sta per tranciarmi di netto un arto, quando un lamento istintivo
abbandona le sue labbra e noto che un secondo pugnale gli si è conficcato nella
spalla, costringendolo ad indietreggiare sul serio stavolta.
Shinchan mi sorpassa, una sciabola alla mano che fino a quel momento non aveva
mai estratto e che aveva forse recuperato dal corpo di Aomine, concedendomi un
solo sguardo che sembra darmi tacitamente dell’idiota.
«Con questo il debito è saldato!» si assicura di farsi sentire e capisco che
fino a quel momento ha mantenuto la parola con me, ma soprattutto con se
stesso.
Mi volto verso Wakamatsu, che mi ero lasciato alle spalle, ma in un primo
istante distinguo quasi solo sangue: è ovunque e si sta spargendo a macchia d’olio,
tanto che mi provoca un capogiro. È davvero troppo.
Tossisce e ne sputa anche dalla bocca, macchiandosi la mano.
Mi guarda. Forse sta soppesando se voglio ucciderlo e dargli il colpo di
grazia; poi, dal suo sospiro pesante, capisco che si è reso conto che morirà
comunque. Apre la bocca, muove le labbra, ma non afferro quello che dice.
Con la coda dell’occhio noto Shinchan in difficoltà, ma quando sto per scattare
verso loro due, una mano di Wakamatsu riesce ad afferrarmi; sono convinto che
sia per conficcarmi il tridente da qualche parte, quando finalmente quello che
aveva tentato di dirmi riesco a percepirlo.
Mi ritrovo addosso a lui, sporco del suo sangue e il tridente premuto contro il
petto dalla mano che non mi ha tirato con quelle che devono essere state le
ultime forze che aveva.
Uccidilo.
Non so se Reo si meriti una richiesta simile, ma ci sono due cose che sono
chiare per me a questo punto: Wakamatsu, che è degno del rispetto di tutti i distretti
e di cui il suo potrà essere eternamente orgoglioso, mi ha affidato un’ultima
volontà.
Shinchan, che ha avuto l’orgoglio e il coraggio di credere in un’alleanza che
avrebbe potuto essere una trappola, non può e non deve morire.
Mi volto e, quasi nello stesso momento, lancio un pugnale; colpisco la schiena
di Reo, che in quel momento mi sta dando le spalle mentre con un calcio
piazzato in pieno stomaco ha allontanato da sé Midorima facendolo boccheggiare.
Mi punta senza esitazioni, caricandomi con tutto il peso del corpo e lo
capisco: posso uscirne solo in un modo, perché un pugnale è troppo corto per
combattere una spada lunga. Anche se gliene lanciassi a raffica potrei finirli
prima di renderlo inoffensivo o prima che mi raggiunga.
Non ho il tempo di mirare, ma non ce ne è davvero bisogno: afferro il tridente
con entrambe le mani e mi abbasso leggermente quando è ormai ad un soffio da
me.
«Me ne occupo io. Grazie.» dice con tono grave Miyaji, posando una mano sulla
spalla di Midorima; la stringe appena, sembra voglia dire qualcosa ma non lo
fa.
Lascia la stanza, dandogli del tempo da solo; lui abbassa lo sguardo sul tavolo
di quella stanza dove, a dirla tutta, non ha idea di come il biondo sia potuto
entrare. Non pensa sia un classico che il Mentore di un altro distretto possa
far visita al vincitore.
Gli occhi inquadrano un marchingegno elettronico che è fra i più cari del Distretto
3: serve a leggere vari chip per la registrazione di dati. Alcuni, ormai in
disuso, se inseriti sotto pelle possono registrare mnemonicamente. Li usavano
le spie della Ribellione: non dovevi parlare, non venivi scoperto e quelli
registravano ciò che dicevi, sentivi o prendeva forma di azione nella tua
mente.
Non potevano essere ingannati.
Non gli si poteva mentire con una formulazione volontaria di un pensiero.
Erano stati un’arma troppo scomoda perché Capitol non se ne liberasse, ma
qualcosa era rimasto.
Takao l’aveva avuto addosso per tutti i giochi, consapevolmente; Miyaji non si
era perso in spiegazioni.
Quel che sapeva, Midorima lo aveva appreso dallo stesso Takao: colpito a morte
da Reo, si erano uccisi a vicenda.
Ehi, Shinchan., gli aveva detto,
arrivando persino ad estrarre da solo con un pugnale il chip – sotto pelle,
all’attaccatura dei capelli, Mi servi
proprio fino alla fine. Non lo perdere, mh?.
Lo aveva tenuto, consegnato a Miyaji.
Aveva capito solo allora. Del tempo di quell’alleanza… solo allora.
Stringe il congegno in una mano.
L’altra si abbatte sul tavolo, con forza, con rabbia.
Takao non aveva mai avuto intenzione di sopravvive davvero.
«Con questo avremmo una testimonianza, ma se
muori non la si potrà recuperare.»
«Formerò un’alleanza. Il vincitore, se non sarò io, l’avrà con sé. Vai da lui,
e fattela consegnare. E basta Hunger Games, Miyaji-san.»
Un sorriso leggero.
L’unica richiesta – non “fammi sopravvivere”.
L’unica scommessa – non su chi far sopravvivere, ma su chi far morire.
L’ultima scommessa, e un’altra vita sulla coscienza.
Ma ora basta.
Proprio due parole,
arrivata alla fine.
Come chi ha seguito la stesura da vicino e passo per passo sa, non sono mai
stata pienamente soddisfatta di questa long. Tuttavia ringrazio Rota per aver
indetto il contest e avermi dato la possibilità di scriverci su: mi è piaciuto
informarmi, cercare di far quadrare le cose soprattutto per quanto concerneva l’arena.
Se a qualcuno è piaciuta, la mia soddisfazione è ancora più grande di quanto
non fosse già per la posizione raggiunta nel contest. Un ringraziamento
(ulteriore e speciale) va a snowscene, per avermi sopportata tutto il tempo con le mie “ma
è ‘Distretto’ o ‘distretto’?”, le richieste sull’IC, le paturnie, l’esaltazione
mentre uccidevo Haizaki (…), la sofferenza mentre mandavo a morire il limite di
parole imposto dal contest dilungandomi sulle morti che ho deciso di
descrivere.
Sei stata preziosa nella stesura di tutto ciò (L)