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Autore: chi_lamed    09/06/2013    1 recensioni
"Davanti a lui la libertà di una strada vuota che si diramava in altre vie, altri percorsi di vita. E per quelle strade avrebbe dovuto risanare ciò che le cure magiche non avevano potuto: la sua anima ancora ferita in cerca di un posto nel mondo."
Tre quadri, tre racconti di un unico momento: quello dell'inizio di un nuovo cammino per Severus Piton.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Severus Piton
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
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Attenzione: questo capitolo, nonostante non contenga le parole della canzone come parte della trama, può di striscio definirsi una song-fic, perchè in gran parte è stato ispirato dalla musica e dal testo in questione, così come il titolo.

La vita che mi aspetta, di Renato Zero.
 

A Chiara,
con tanto affetto
e con tutto il cuore.



 

*** La vita che mi aspetta ***


 

 
Pantaloni, foulard di seta, giacca, mantello.
Neri, ovviamente. Tutti.
E camicia candida che bisognava far intravedere appena, poco sotto il mento e fuori dalle maniche della giacca.
Non mancava nulla all’appello.
Tuttavia egli indugiava, immobile al centro della camera d’ospedale riservata a lui solo – i vestiti accuratamente stesi sul bordo del letto spiccavano sulle bianche lenzuola – respirando appena percettibilmente. La mano era lì, vicina al tessuto senza toccarlo, ne percepiva la consistenza lasciando che fosse il ricordo a colmare ogni distanza.
Quei vestiti erano più che semplici trame di stoffa.
Erano parte di sé, scelti accuratamente per mostrare al mondo solo ciò che egli avrebbe voluto e per celare tutto il resto. In un certo senso si poteva dire che racchiudessero la sua essenza.
Quando infine la mano s’era poggiata sul ruvido nero della giacca aveva compreso davvero che quello non era un sogno ad occhi aperti.
Era la realtà.
Era finalmente libero di andarsene da lì.
Aveva così rotto ogni indugio con un profondo respiro, iniziando quella vestizione che per anni era stata quasi una cerimonia, un appuntamento mattutino da rispettare in ordine scrupoloso ed attento. Ogni bottone che le dita incontravano erano un pensiero ed un ricordo intrecciati saldamente insieme, erano memoria di una vita passata ed incertezza di un futuro davanti a sé. Entrambi, pensiero e ricordo, diventavano infine promessa solenne per una nuova vita sbucata inaspettata quanto una Fenice dai riflessi dorati, simbolo di una fedeltà che egli aveva saputo mantenere fino alla morte.
Lo specchio ai lati del letto, un vero e proprio lusso che Minerva gli aveva portato insieme ai propri vestiti – il tocco femminile e materno di quella strega non si smentiva mai – gli aveva restituito un’immagine che doveva ancora imparare a conoscere: quella di un uomo che non aveva più bisogno di nascondersi dietro ad una maschera. Lui di quell’uomo ne conosceva le fattezze, ne conosceva ogni ruga che lacrime di rimorso avevano scavato nel tempo, o che smorfie di puro dolore avevano tracciato durante le Cruciatus dell’Oscuro che traeva piacere dalla sofferenza altrui. Di quell’uomo lui conosceva anche le espressioni, da quelle di sarcasmo a quelle di assoluta impassibilità, le seconde più frequenti delle prime, arma necessaria per nascondere al mondo il vero se stesso.
Di quel volto però non ne conosceva, se non poco o nulla, i sorrisi, le manifestazioni di gioia disinteressata, la semplicità di un sentimento effimero quale la serenità. Forse un giorno gli sarebbe stato dato di conoscerli tutti, pian piano, senza fretta.
Era certo che, quando fosse arrivato quel momento, il riflesso che lo specchio gli avrebbe restituito si sarebbe potuto dire che davvero fosse il suo.
Ma non era ancora tempo.
Le mani intrecciavano intanto il foulard con movimenti lenti e tranquilli. Adagio, lasciando che la familiare seta scorresse tra le dita.
Ogni sensazione, ogni gesto abitudinario della sua vita passata aveva assunto un nuovo significato, come se fosse la prima volta. No, l’uomo non aveva perso il cinismo, né la disillusione, né tantomeno l’esperienza. Non era mai stato ridotto così male da pensare che, siccome era vivo per miracolo, tutto fosse improvvisamente diventato bello ed importante, anche la routine quotidiana. Lui aveva sempre saputo che la vita era cosa preziosa a prescindere, soprattutto quella altrui, da difendere a tutti i costi nel tentativo di riparare ad una colpa commessa. In quel momento, dunque, stava solamente cercando di venire a patti con una realtà in cui non aveva mai creduto, di cui inizialmente non aveva voluto far parte, tanto si era preparato al proprio necessario sacrificio. Più che rassegnato, lo aveva atteso come un intrepido amante attende impaziente l’arrivo dell’amata, ma anziché la nera morte armata di falce era arrivata la vita, nuova e senza vincoli.
Gli rimaneva solo il mantello.
Mettere anche quello?
Fuori il sole si stava avviando lentamente al tramonto, trascinando con sé verso ovest un alone rosso ed aranciato, che via via si striava di rosa e violetta. Presto sarebbe giunto il buio, accompagnato da una temperatura stranamente mite e piacevole per una città come Londra.
Aveva piegato con cura l’indumento, poggiandolo poi sul braccio sinistro, incredulo ancora una volta di come non provasse più il minimo dolore nel punto in cui prima c’era stato un Marchio Nero.
La vestizione era giunta a compimento.
Un ultimo sguardo allo specchio e poi aveva voltato per sempre le spalle a quel letto d’ospedale.
 

Il legno della panchina scricchiolò lievemente sotto il peso dell’uomo, come gemendo per l’ora insolita in cui era stato destato.
Dopo tanto camminare aveva finalmente deciso di fermarsi e non solo per riprendere le forze. La decisione andava presa, era un impegno verso se stesso ma soprattutto verso colei che attendeva con ansia una risposta.
Testarda, determinata, adorabilmente materna.
Minerva.
Che aveva implorato a mani giunte affinché lui non sparisse, supplicando quasi perché tornasse ad Hogwarts e terminasse gli ultimi giorni di convalescenza là, assistito da lei e dagli elfi domestici. Mute lacrime le erano scivolate sulle guance e lui era stato tentato più volte di alzare la mano su quel volto non più giovane e di accarezzargliele per donarle un po’ di sollievo.
Lei non aveva nulla di cui farsi perdonare, nulla.
Ma lui non aveva compiuto alcun gesto, troppo timoroso di sfiorare quel dolore che a provocare era stato lui stesso.
La brezza notturna spirò più intensa, facendo oscillare piano le finestrelle di una graziosa casetta in miniatura, mèta sicura di chissà quante bambine intente a scambiarsi giochi di sogni infantili e leggiadri come nuvole di zucchero filato. Rimase affascinato ad osservare l’anta che si spalancava pian piano, rivelando un tavolino in miniatura e alcune piccole sedie di plastica. Probabilmente il tutto era dipinto con colori sgargianti, ma ad est l’alba era solo una striscia appena più chiara del blu notte che avvolgeva ancora gran parte del cielo e che si stendeva su ogni cosa presente colorandola di toni scuri con infinite varietà di grigio.
Aveva vagato per tutta la notte, camminando nel labirinto delle strade di Londra ed al tempo stesso percorrendo gli intricati sentieri del proprio io. E alla fine aveva scoperto che tutto quello di cui aveva bisogno non andava cercato altrove.
Un lieve sorriso gli increspò le labbra.
Benedì mentalmente due anziani che certo in quel momento riposavano sereni, ignari di aver donato un aiuto tanto prezioso quanto inaspettato.
La città dormiva ancora, o almeno quella parte in cui era finito vagando a caso. Molto probabilmente altrove v’erano Babbani ancora svegli che si divertivano a scambiare la notte per il giorno.
Lasciò che il vento carezzasse i suoi capelli corvini. Si riempì le iridi delle stelle del cielo, cosicché la nera ossidiana si screziò di bagliori impalpabili, tenui e pulsanti, vibranti di luce come quegli astri lontani. Ad oriente alcuni di loro avevano già cominciato a spegnersi in silenzio, vinti dall’azzurro che, minuto dopo minuto, cedeva il passo ad un rosa sempre più acceso. Non fece alcuna fatica ad immaginare il perché nei secoli passati un’antica civiltà avesse dato il nome di dea a quel fenomeno sempre suggestivo.
Rimase così, assorto, rapito nella contemplazione dell’alba.
Fu quando il rosa si tramutò in un principio di arancio che la udì. Non ebbe bisogno di voltarsi alla sua destra per osservare lo schienale della panchina su cui si era posata, avrebbe riconosciuto quel frullare d’ali in qualsiasi tempo, luogo e momento. Era stato l’ultimo suono prima di sprofondare nel nero oblio dell’incoscienza, steso sul pavimento vecchio e sporco della Stamberga Strillante, privo di forze e quasi del tutto privo di vita. Non avrebbe mai dimenticato quel fruscio, di questo ne era certo.
Fanny pigolò piano per attirare la sua attenzione, lisciandosi poi con il becco alcune lunghe piume della coda che l’atterraggio aveva scomposto.
Quando si voltò verso di lei la sensazione di deja-vu fu talmente prepotente che per poco smise di respirare e spalancò gli occhi. Fu un attimo, ma del tutto sufficiente.
Si rilassò meglio sullo schienale, tornando a guardare fisso davanti a sé. Quando chiuse le palpebre decise di abbandonarsi a quell’insolita immaginazione nata senza preavviso. Gli sembrò d’essere di nuovo assieme ad Albus, in chissà quale momento lontano nel tempo, in uno dei rari attimi di silenzio non interrotti dalle solite bizzarre uscite del vecchio mago o dalla sue consuete battute colme di sarcasmo pungente.
Quando riaprì gli occhi il blu intenso era retrocesso fino ad una buona metà del cielo ed il primo spicchio dorato faceva capolino in lontananza, giusto nello spazio libero tra due villette di quel quartiere residenziale Babbano.
La Fenice era ancora lì, in attesa di un suo cenno. Non v’era alcun dubbio su chi l’avesse inviata. Non aveva alcuna missiva da consegnare, era piuttosto un disperato tentativo di convincimento da parte di chi – ne era sicuro – stava vegliando dall’alto di una torre per attendere il suo ritorno. Il magico uccello piegò il capo di lato, per osservare meglio il suo protetto con i suoi occhi neri e lucenti come piccole perle. L’uomo allungò una mano, carezzandone in punta di dita il purpureo e morbido piumaggio.
Deglutì, assaporando senza rimpianti la punta di amarezza che sentiva spandersi in bocca ed ovunque. La decisione lui l’aveva già presa senza quasi nemmeno rendersene conto. Ed ora che avvertiva un leggero moto di dolore mischiato a nostalgia capì dove non sarebbe andato, comprese quale luogo non sarebbe stato scelto per l’immediato futuro che aveva davanti.
Gli si strinse il cuore al pensiero di Minerva che non lo avrebbe visto arrivare, che sicuramente ne sarebbe stata addolorata e che avrebbe pianto nuove lacrime di scuse.
Ma non era per lei che aveva fatto quella scelta.
Era per lui.
C’erano altri sentieri che aveva la possibilità di percorrere ed in tutta onestà ne sentiva il desiderio, come se l’unico modo per ritrovarsi pienamente fosse quello di allontanarsi da ciò a cui era sempre stato abituato. Senza più legame alcuno, gli sarebbe stato più agevole, anche se certamente non del tutto facile. Il suo passato sarebbe rimasto sempre dietro l’angolo come ombra oscura in attesa di regalargli nuovi e vecchi incubi, come ladro nella notte pronto a rubargli scampoli di quella serenità che forse sarebbe riuscito a tessere nonostante tutto.
Avrebbe fatto nuovi passi, si sarebbe fermato ed avrebbe atteso di analizzare il proprio percorso, poi si sarebbe di nuovo rimesso in cammino. Non s’aspettava di certo un futuro tutto rose, fiori e zuccherini, non era da lui.
Un’ultima carezza alla Fenice e l’uomo si era rimesso in piedi, il sole che lentamente iniziava il proprio viaggio e dava giusto il proprio buongiorno ad un altro viandante che s’apprestava a partire anch’egli. Lui che si era sempre ritenuto creatura della notte, fece una strana smorfia quando s’accorse di essersi per un attimo paragonato all’astro diurno.
Riprese il mantello, ripiegandolo sul braccio ed osservò per un’ultima volta la Fenice che gli aveva donato nuova vita.
«Non verrò, Fanny.» sussurrò senza pentirsi. «Minerva saprà capire, un giorno.»
Chi parve capire subito fu il magico uccello, che emise un flebile pigolio di saluto, dolce e straziante a sentirsi. L’uomo la osservò librarsi in volo e dirigersi verso nord, il sole ormai sorto che si stagliava sul profilo austero e inondava di riflessi dorati i suoi lunghi capelli corvini.
Fu come se assieme alla Fenice avesse preso il volo anche uno stormo di preoccupazioni e riflessioni, come se anche l’ultimo legame fosse stato infranto, dissolto in modo definitivo.
Leggero come non s’era mai sentito, s’incamminò verso l’uscita.
Al di là del muretto di recinzione da una delle villette uscì un’anziana signora con un barboncino al guinzaglio per la sua prima passeggiata mattutina. Donna ed animale procedettero in direzione opposta a quella dell’uomo e non si avvidero di quell’insolito frequentatore del parco che s’era avvicinato alla grande vasca di pesci rossi vicino all’entrata sempre aperta.
L’uomo osservò il proprio riflesso nell’acqua tremolante, similmente a come aveva fatto più volte in quelle poche ore. Un pesciolino poco sotto il pelo dell’acqua guizzò rapido a rifugiarsi al riparo di un’alga sul fondale.
No, non era ancora il vero se stesso colui che lo guardò di rimando, tremolando nella superficie liquida e trasparente. Abbattuto ogni legame gli rimaneva da conoscere di sé la pacifica serenità, solo allora avrebbe concluso l’opera.
E solo allora sarebbe tornato da Minerva per mostrarle il proprio trionfo.
Fissò gli occhi nel sole che brillava senza la concorrenza sleale di alcuna nuvola nel cielo.
Non ebbe più alcuna paura del domani che lo aspettava, più alcun tentennamento dato dal sentirsi continuamente osservato dagli occhi indiscreti degli altri maghi che lo squadravano come fosse sempre sotto esame, come se di lui non ci fosse mai da fidarsi.
Da qualche parte là fuori v’era una parte di mondo che sapeva poco o nulla di lui.
Forse in sud America, la cui foresta rigogliosa da secoli aveva attirato maghi e pozionisti per le loro personali ricerche, ma che al tempo stesso era così vasta da lasciare ampi spazi di solitudine. Poteva permetterselo. Poteva permettersi di prendere quel che gli serviva e partire.
Come una sorta di lunga vacanza.
E non appena si fosse stabilito avrebbe potuto scrivere a Minerva, farle sapere che stava bene.
Che sarebbe stato bene.
Perché la vita che aspettava Severus Piton non gli avrebbe mai più fatto paura.


***

Angolino autrice: ebbene sì, finita.
Senza pretese, come potete vedere e leggere.
Questo è il finale che avevo deciso fin dal principio, mi spiace se qualcuno sarà rimasto deluso, ma tant'è.
Ma non era questa la modalità in cui avrei voluto scrivere, invece una solenne delusione mi ha talmente tanto scombussolata che ho dovuto cercare sfogo nel mettere qualcosa nero su bianco. Ed il capitolo è uscito così, nonostante avessi già deciso a pripri cosa gli avrei fatto o non fatto fare.
Commenti e recensioni sono graditi, anche critiche costruttive riguardo stile e metodo narrativo.
Chiara
  
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