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Autore: millyray    11/06/2013    2 recensioni
"Papà, tu hai una scatola blu?"
"No, perché?"
"Così".
Stella, occhi azzurri come il cielo, treccine spettinate, piccolina, magrolina.
Stella.
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Stella

Ianto Jones quella mattina si svegliò disturbato da un rumore squillante che si era insinuato nei suoi sogni, facendolo ritornare bruscamente alla realtà. E no, non era il rumore della sveglia, quello che lo svegliava tutte le mattine ricordandogli che lo aspettava un’altra dura e pericolosa giornata di lavoro.
Inizialmente non capì bene di che cosa si trattasse, il suo cervello era ancora troppo obnubilato e confuso. Ma dopo qualche secondo, quando ebbe inquadrato bene la sua camera da letto, le pareti bianche, l’armadio imponente di fronte al letto e la finestra grande accanto, si rese conto che quel rumore che gli aveva trapanato il cervello era lo squillare del telefono.
Non si alzò subito, sperava che non fosse niente di importante e che, pertanto, avrebbe smesso dopo qualche squillo. Di solito non era così pigro, però la sveglia non era ancora suonata e non gli andava di rinunciare alle sue già poche ore di sonno.

Si girò su un fianco, godendosi almeno un’altra mezz’ora di sonno. Ma a quanto pareva non sarebbe stato accontentato.
Il telefono squillò di nuovo, danneggiando un’altra volta i suoi timpani.
Questa volta il buonsenso vinse sulla pigrizia del corpo. Infondo, nessuno chiamava a quell’ora del mattino. Perciò poteva essere solo Jack. Doveva esserci qualche emergenza.

Si alzò pigramente e, con molta calma, raggiunse il telefono.
Alzò la cornetta e rimase in ascolto per qualche attimo.
Poi rimase raggelato sul posto, con gli occhi spalancati e il cuore che aveva preso a battere a mille all’ora.

 

Aveva deciso di rinunciare al solito completo elegante, camicia, giacca e cravatta, limitandosi a indossare un paio di jeans e una T-shirt che addirittura, si accorse solo in un secondo momento, gli stava un po’ piccola. Dopotutto era piuttosto di fretta e aveva indossato le prime cose che gli erano capitate a tiro.
Così vestito, poi, era uscito nella fredda mattinata di un giorno qualunque, inoltrandosi nel folto traffico che riempiva tutti i giorni la città di Cardiff, e in poco tempo aveva raggiunto l’ospedale centrale. Poco lontano dalla porta, aveva parcheggiato l’auto, una Volkswagen vecchio stile color sabbia.

Raggiunse le porte ad apertura automatica e, appena arrivato la reception, chiese all’infermiera cicciona che stava dall’altra parte del bancone. “Scusi, sto cercando Catherina Delsby”.

Non fu da lei, però, che ottenne la risposta che desiderava.
Un mano gli toccò il braccio piuttosto delicatamente, ma ciò non impedì a Ianto di fare uno scatto e di voltarsi bruscamente, preso completamente alla sprovvista. I suoi nervi erano parecchio tesi.
Una signora che non arrivava al metro e sessanta nemmeno coi tacchi, vestita con un tailleur scuro e una crocchia di capelli ricci ben fissa sul capo, lo guardava con un paio di occhi verde bosco e un’espressione tranquilla e gentile. Doveva avere su una quarantina d’anni, ma il trucco nascondeva perfettamente eventuali rughe o altri segni che potessero far capire la sua età.

“Lei è il signor Ianto Jones?” chiese con marcato accento gallese.

Ianto semplicemente annuì confuso.

“Io sono Amelie Stevenson, assistente sociale”, si presentò lei, facendo comparire magicamente il biglietto da visita. “Potrei parlarle un momento?”

 

“Quando è arrivata in ospedale?”

“L’altra sera. Alcune persone l’hanno trovata svenuta su una panchina, non sappiamo bene dove stesse andando, forse a casa. Era in condizioni piuttosto critiche, ma i medici per ora sono riusciti a stabilizzarla”.

Ianto spostò lo sguardo al pavimento, come se tutto d’un tratto quella piccola macchia marrone fosse diventata molto interessante, come un’opera d’arte.
Lui e la signora Stevenson erano seduti nella sala d’aspetto al piano terra, lui con un bicchiere di caffè in mano e lei la borsetta nera stretta al petto.

“Cosa le è successo?” chiese Ianto dopo un po’.

“I medici hanno trovato un’alta concentrazione di droga nel suo organismo, di vari tipi. Doveva farne uso da molto tempo. Inoltre, sul corpo sono stati riscontrati dei lividi e segni di… molestie”.
Ianto spalancò gli occhi scioccato, ma non interruppe l’assistente. “Quando l’hanno trovata indossava dei vestiti molto succinti. La polizia deduce che si sia prostituita”.

“Ma come avete fatto ad avere il mio numero?” Era questo che gli interessava tanto sapere. Quando aveva risposto al telefono e la voce dell’infermiera gli aveva detto che Catherina era finita in ospedale, era rimasto molto, molto incredulo. Non ci aveva creduto, era convinto che si fossero sbagliati e che quella Catherina dovesse essere un’altra.
Ma era corso in ospedale lo stesso, spinto dalla curiosità e da un certo senso di responsabilità. Perché, dopotutto, se avevano trovato il suo numero un motivo doveva esserci. E a quanto pareva non c’era stato alcuno sbaglio.

“Grazie a questa”, rispose la signora Stevenson, tirando fuori una lettera, così come aveva tirato fuori il biglietto da visita. La fece ondeggiare davanti al volto confuso di Ianto. La busta era completamente bianca, eccetto due parole vergate con inchiostro nero. Un nome, il suo nome. Ianto Jones.
“L’abbiamo trovata nella borsa che aveva con sé. Poi abbiamo guardato nel suo cellulare e abbiamo trovato di nuovo il suo nome con il numero. Non c’erano né messaggi né numeri recenti che poteva aver chiamato e nemmeno quelli di un eventuale genitore”.

Ianto emise un sospiro e scrollò le spalle. Non si stupiva che Catherina non avesse il numero dei suoi genitori non essendoci mai andata d’accordo. E probabilmente, in quegli ultimi anni che non l’aveva più sentita, il rapporto doveva essersi raggelato ancora di più.

Prese la lettera che Amelie ancora stringeva in mano e fece per aprirla. Ma, improvvisamente, il suo cellulare squillò e ciò lo riportò indietro dal tunnel dei ricordi malinconici nel quale si era avventurato.
Lo tirò fuori dalla tasca dei jeans e guardò il numero. Jack. Accidenti! Si era completamente dimenticato di Torchwood.

Si scusò con l’assistente sociale e si alzò dalla sedia per andare a rispondere.

“Ianto!” sentì esclamare all’altro capo della cornetta. “Ma dove sei finito?” In sottofondo alcune risatine e la voce di Owen che faceva una delle sue solite battutine che però Ianto non riuscì a capire.

“Ehm… Jack, ecco… io ho avuto… un piccolo contrattempo”, balbettò, sperando che Jack non si impicciasse troppo.

“Che tipo di contrattempo? Tu stai bene?”

“Sì, io sto benissimo. Senti, ti spiego tutto in un altro momento, adesso non posso parlare. Non so se oggi vengo al lavoro”.

“D’accordo, non ti preoccupare”.

La voce del suo capo suonò calma e comprensiva. Ianto esalò un sospiro di sollievo e sentì quell’affetto che nutriva per Jack crescere ancora di più. In quel momento avrebbe voluto che lo abbracciasse.

“Se c’è un’emergenza, però, chiamami”.

“Certo. Be’, al momento non è successo niente di che, solo un paio di Weevil”.

“Ok”.

“Ci vediamo?”

“Sì, ciao”.

Ianto chiuse la comunicazione prima che gli scappasse qualcos’altro.
In fretta ritornò da Amelie, riponendo la lettera nella tasca interna della giacca. L’avrebbe letta in un secondo momento.

“Eccomi, scusi tanto, era una chiamata di lavoro”.

“Le sto facendo fare tardi? Spero non ci siano problemi…”.

“Oh no, nient’affatto, non si preoccupi”. Quella donna gli piaceva sempre di più. Era gentile, parlava con chiarezza e sembrava sapesse fare bene il suo lavoro. “Comunque, non le ho ancora detto tutto”, continuò la signora Stevenson. “Catherina non è qui da sola”.

Ianto si trovò a spalancare gli occhi per l’ennesima volta quella mattina. Quale altra sorpresa avrebbe ricevuto?

“Lei sa che ha una figlia?”

Ok, no, questa proprio non se l’aspettava. Però… però, effettivamente, per quale altro motivo si sarebbe potuto trovare a parlare con un’assistente sociale?

“Chi?”

“Catherina. Non mi ha chiesto niente della bambina perciò deduco che non lo sapesse”.

“No, non ne avevo idea”.

“Lei e Catherina non vi parlate da un po’, immagino”.

Ianto annuì.

“Si chiama Stella e ha sette anni”.

“Stella?”

“Sì”.

Già, c’era da aspettarselo da Catherina.

“Dall’età di Stella e da quella della madre deduco che l’ha avuta da adolescente. Lei sa chi potrebbe essere il padre, signor Jones?”

Ianto ci mise qualche secondo ad afferrare la domanda. Guardò la donna senza in realtà vederla.

“Io… io non… non lo so… io”. Ma in realtà un dubbio gli era sorto, un dubbio terribile e atroce. Il suo cuore aveva decisamente accelerato i battiti, il suo stomaco si era contratto e per fortuna che non aveva fatto colazione, le mani avevano preso a tremargli nervosamente. 

“Senta”, sbottò poi, puntando gli occhi dritto in quelli di Amelie. “Posso vederla? Catherina, intendo”.

“Sì, ma lei non le parlerà. Non si è ancora svegliata da quando è qui”.

L’assistente sociale accompagnò Ianto alla stanza di Catherina e lì si congedò, dicendo che andava al bar.
Il ragazzo esitò un attimo prima di entrare, ma poi, con passo più silenzioso di una piuma che cade, varcò la soglia e camminò dentro la stanza trattenendo quasi il fiato.
Catherina giaceva nel letto, la flebo attaccata al braccio e altri tubicini a deturpare il suo corpo. I capelli scuri erano sparsi sul cuscino a incorniciare il volto cinereo dove spiccavano le borse viola sotto gli occhi e le labbra screpolate. Non era di certo al massimo della sua forma, eppure a Ianto pareva ancora quella bella ragazza di tanti anni fa, quella che per un bel po’ gli aveva rubato il cuore. Anche se… anche se tutta la fanciullezza e la vitalità che sempre l’avevano contraddistinta sembravano completamente andate via, l’avevano abbandonata e ora era rimasto solo un debole ricordo di ciò che era stata in quel corpo martoriato, affaticato, dal respiro pesante.

Ianto prese una sedia e la mise vicino al letto. Vi si sedette e prese una mano della ragazza. La prima cosa che notò erano le unghie mangiucchiate, segno che non aveva mai perso quel vizio. Solo che aveva troppa paura di romperla, quella mano, così fragile, così magra, come il resto del corpo. Gli pareva che avrebbe potuto spezzarla con un dito.

Aprì bocca per dirle qualcosa, ma non sapeva cosa. E poi non era nemmeno sicuro che lei lo potesse sentire. Che cosa si poteva dire ad una persona giacente nel letto di un ospedale che non vedi da circa sette anni? E non era una persona qualsiasi.

Si ricordò improvvisamente della lettera e, automaticamente, infilò una mano nella giacca per prenderla.
Forse se la leggeva avrebbe trovato qualcosa da dire.

Lesse di nuovo il nome sulla busta per essere certo, assolutamente certo, che fosse destinata a lui e poi, con mani tremanti, l’aprì.

Caro Ianto,

ti sorprende che ti scriva, vero?
Chissà che cosa avrai pensato di me in tutti questi anni. Chissà se mi hai almeno pensata. Io ti ho pensato spesso, sai? Quasi tutti i giorni. E mi sei mancato molto.
Quando questa lettera ti arriverà tra le mani io probabilmente sarò già morta o, quantomeno, sarò in punto di morte. Vorrei potermi vantare nell’aldilà, sempre che ci sia un aldilà, di aver avuto una morte eroica o perlomeno una morte che non verrà scordata. E invece eccomi qua, uccisa anch’io da delle scelte sbagliate, da una vita sregolata. Eccomi qua, mi sono uccisa con le mie stesse mani. Ma non voglio parlare di questo, non voglio farti piangere.
Ti scrivo per dirti una cosa molto importante perciò, spero che questa lettera riesca a raggiungerti. Non ho più nessuno, non ho amici, né famigliari e nemmeno dei genitori ormai. Sono sola, completamente sola. Io, che ho sempre disprezzato la solitudine.  
Vorrei che le cose tra di noi fossero andate in maniera diversa, vorrei che la mia intera vita fosse andata in maniera diversa. Ma, purtroppo, il destino non te lo scegli tu.
Innanzitutto non avrei voluto dirti quelle cose, erano cattiverie, lo so. Non è stata colpa tua quello che è successo, non l’ho mai pensato. Purtroppo, però, mi sono lasciata cogliere dalla rabbia e dalla disperazione del momento, sai com’è in quelle situazioni. Ma ormai era troppo tardi per chiederti scusa e il mio orgoglio mi diceva che, infondo, non era importante che ricevessi il tuo perdono, me la sarei potuta cavare benissimo.
Dannata ragazza cocciuta!
In secondo luogo, non avrei voluto mentirti. Anzi, non avrei dovuto. Tu avevi tutto il diritto di saperlo, ma credo di aver inconsciamente pensato al tuo bene anche. Perché so cosa significa avere un figlio a soli diciassette anni, adesso lo so benissimo, l’ho sempre saputo, i miei ci hanno tenuto a precisarmelo tutti i santi giorni.
E tu non eri pronto per prenderti questo incarico, non lo ero nemmeno io, dopotutto, e non lo sono mai stata.
Ma non sono riuscita ad abortire, sapevo che poi me ne sarei pentita per il resto della mia vita. C’era una vita che cresceva dentro di me e non potevo ucciderla.
Però io ti dissi che l’avevo fatto. Non so esattamente il perché, forse era paura, paura che tu mi rifiutassi, che negassi tutto, o peggio. Ma lo so che le mie erano solo paure infondate, tu non eri certo un ragazzo di quel tipo. Tu sai assumerti le tue responsabilità. Io no.
E poi mi stavo comunque per trasferire ed ero convinta che tu ti saresti dimenticato ben presto di me e di tutta quella storia. Ho detto ai miei genitori che non sapevo chi era il padre, che ero rimasta incinta ad una festa, facendolo da ubriaca con uno sconosciuto, il che era fattibile per una come me.
Inutile descrivere la loro reazione. Mio padre è sempre stato troppo fissato col suo lavoro e i suoi soldi e mia madre coi suoi capelli e le unghie da potersi preoccupare per un altro bambino piccolo. La responsabilità era tutta mia e io me ne sarei dovuta occupare. Non che mi aspettassi il contrario, ma almeno avrei voluto avere un minimo di sostegno.
Mi hanno tenuta rinchiusa in casa per tutto il tempo della gravidanza, facendomi studiare da privatista. Mio padre aveva un onore da difendere e mia madre si preoccupava troppo di quello che pensava la gente, non potevano certo mandare in giro una figlia incinta come se nulla fosse. Quella era una città piccola, dove i pettegolezzi volavano.
Ma quando è nata Stella la mia vita non è di certo migliorata. Lei, senza ombra di dubbio, è una delle cose più fantastiche che mi siano capitate. Mi basta guardarla dormire per sorridere e ritrovare un po’ di speranza nei recessi del mio cuore.
Alla fine ho finito per sboccare però e forse ho commesso l’errore più madornale della mia vita. Ho preso Stella e tutte le nostre cose e me ne sono andata di casa, lontano. Sono tornata a Cardiff. Ho il tuo numero ma non so se l’hai cambiato. E in ogni caso non ho il coraggio di mettermi in contatto. A differenza di ciò che pensavano tutti, non ho mai avuto le palle. E ho sempre pensato di potercela fare da sola. Come vedi il mio smisurato orgoglio non mi ha mai abbandonata.
Ho subito trovato lavoro in un supermercato, ma le spese da affrontare sono diventate troppe. La casa, le bollette, il mangiare, le cose per la bambina. Inoltre, c’è la droga, la droga che non sono mai riuscita ad abbandonare. Ormai è diventata parte di me, mi serve per andare avanti, per vivere. E non posso avere due lavori part-time. Ai miei di certo non chiederei mai aiuto.
Così ho iniziato a fare quel vecchio lavoro, quello che conoscono tutti, il lavoro di una prostituta, con una figlia che, ignara di tutto, dorme tranquillamente in una casa vuota, fredda e sudicia.
Ma almeno, se c’è un pregio di cui posso vantarmi, è quello di essere previdente.
Perciò ora ti scrivo in quel piccolo bar che eravamo soliti frequentare io e te quando ancora ci crogiolavamo tra le soffici braccia dell’amore, dopo essere scappata da un cliente che mi ha quasi violentata e dopo aver comprato un po’ di coca dal mio venditore abituale. Ti scrivo perché non so a chi altri rivolgermi, ti scrivo perché sei la mia unica speranza. So che mi sto mandando alla tomba da sola, so che non durerò a lungo.
Il mio unico pensiero è Stella, la sua felicità e il suo futuro. Non m’interessa altro. Non voglio che torni dai miei genitori, la tratterebbero come hanno trattato me o forse la spedirebbero in orfanotrofio.
Io ti chiedo, ti supplico, per favore, prenditene cura tu. So che ti sto chiedendo una cosa enorme, so che prendersi cura di un bambino non è facile. Ma è anche tua figlia e tu non ti sei mai sottratto alle tue responsabilità, hai sempre cercato di aiutare gli altri. Spero che la cosa non sia cambiata.
Sono certa che con te si troverà benissimo, avrai un ottimo lavoro e magari una famiglia.
Le darai tutto quello che io non sono riuscita a darle, nonostante mi fossi sempre promessa di essere una madre migliore della mia. E invece sono stata persino peggio.
Stella è una bambina buonissima, non ti darà alcun fastidio. Ed è anche bellissima, meravigliosa. Ha i tuoi stessi occhi, forse lo avrai già notato. Per la verità somiglia di più a te.
Pare che il bar stia per chiudere, ormai ci sono solo io.
Quindi ecco, questo è quello che ti chiedo. In nome del nostro vecchio amore, in nome dell’amore che io provo ancora per te (perché sì, in fondo al mio cuore non ho mai smesso di amarti) ti chiedo di esaudire questo mio ultimo desiderio.
Prenditi cura di Stella, rendila felice.
Io cercherò di vegliare su di voi dalla Luna.

Con immenso affetto,
Cathie.

Ianto alzò lo sguardo dalla lettera, gli occhi spalancati, la bocca aperta dallo shock. Perché sì, aveva appena subito uno shock. Il suo stomaco, il suo intestino e tutti gli altri organi si erano attorcigliati in un unico nodo e gli occhi gli si erano riempiti di lacrime che non aveva intenzione di versare. La lettera era ancora tra le sue mani, ma la teneva così stretta che quasi la strappava.
Rilesse la lettera altre due volte, più velocemente, così da non avere dubbi. Ma non ce n’erano, di dubbi, la lettera era chiara, precisa.

Spostò lo sguardo su Cathie, osservandola dormire tranquilla. Chissà cosa provava, chissà se percepiva la sua presenza.

“Perché l’hai fatto, Cathie, perché?” sussurrò, a se stesso più che alla donna nel letto. Com’era logico, non ottenne nessuna risposta.

Uscì dalla stanza e raggiunse la signora Stevenson che stava parlando con un infermiere, teneva una tazzina di plastica in mano.

“Oh, Signor Jones, proprio lei volevo”, esclamò questa senza neanche lasciare il tempo all’altro di dire qualcosa. “Mi chiedevo se lei conoscesse qualcuno a cui possiamo affidare la bambina. Di solito, in queste situazioni, diamo i bambini in adozione o agli orfanotrofi. Ma se si potesse evitare…”.

“Stella viene a casa con me”.

 

Ma come gli era venuto in mente? Come gli era saltato alla mente di portarsela a casa? Non che si stesse seriamente pentendo, solo che… questo significava che aveva accettato il fatto che lei fosse sua figlia.  Ma che stava dicendo? Lei era sua figlia.

Osservò, appoggiato al tavolo da lavoro della cucina, la bambina seduta sul divano, gli occhi fissi sullo schermo della televisione a guardare un cartone e le manine intente a frugare nel sacchetto dei biscotti senza neanche guardarlo.
Quando l’aveva vista, in ospedale, gli era sembrato di vedere la creatura più bella dell’universo. Non che così fosse, era una semplice bambina come tutte le altre, era persino bassa e magrolina per la sua età, i capelli scuri erano legati in due trecce disordinate e aveva un nasino all’insù. Ma ciò che veramente lo aveva lasciato di stucco e che gli aveva fatto precipitare il mondo addosso erano stati gli occhi di quella bambina. Azzurri come il cielo. Identici ai suoi.

E ora? Che cosa avrebbe fatto? Da dove avrebbe iniziato?
Non ne aveva la più pallida idea. Questa cosa gli metteva più paura di una qualsiasi delle missioni che aveva svolto per Torchwood.

Il suo cellulare squillò facendogli quasi fare un salto per lo spavento. Quando lo prese, le sue mani tremavano.

“Pronto?” quasi gridò, senza neanche guardare il numero.

“Ianto!” Era di nuovo Jack. “Volevo sapere se stavi bene”.

“Sì, sto bene. Lì come va?”

“Tranquillo come acqua stagnante. Ti chiamo dal Nucleo. E Gwen ti saluta”.

Ianto sorrise. “Salutamela anche tu”. Sentire Jack, una voce calma e rassicurante, lo tranquillizzava. E in quella situazione ne aveva bisogno.

“D’accordo. Ma tu sei sicuro di stare bene? Ti sento strano”.

“Sì, sto bene. Ti racconterò tutto in un altro momento. Ora devo andare”. Richiuse la comunicazione senza neanche lasciare il tempo all’altro di salutarlo.

Ti racconterò tutto in un altro momento. Già, come avrebbe fatto? Come avrebbe fatto a raccontare tutto agli altri? Che aveva avuto una figlia a diciassette anni e che lo aveva scoperto solo sette anni dopo? E a Stella? Come avrebbe fatto a dirlo a Stella?

 

Alla fine era andato al Nucleo. Doveva prendere il suo portatile e aveva approfittato dell’occasione in cui i suoi amici erano fuori per fare una scappatina senza essere visto. Tanto lo sapeva che, quando era tutto tranquillo, loro andavano a mangiare fuori.
E stava per ritornare alla propria macchina quando, Jack, Gwen, Tosh e Owen ebbero la brillante idea di tornare proprio in quel momento. La prima a vederlo fu Gwen.

Ianto si maledisse per la sua lentezza.

“Ciao, Ianto! Credevo che non venissi”, lo salutò Gwen non appena lo ebbero raggiunto.

“Be’, ecco, mi serviva il mio portatile”, rispose lui mostrando l’oggetto in questione.

“Come stai? Hai risolto l’emergenza?” gli chiese Tosh in tono apprensivo.

“Doveva essere un’emergenza grave se hai indossato dei jeans e non i tuoi soliti vestiti”, commentò Jack, mostrandogli un sorriso malizioso. “Sei sexy lo stesso, però”.

Ianto non rispose alla provocazione. “Ehm sì… dovrei appunto ritornare…”. Non riuscì a concludere la frase perché si sentì strattonare per i pantaloni. Abbassò lo sguardo trovandosi il faccino dolce di Stella che lo guardava dal basso.
Accidenti, le aveva detto di restare in macchina!
Anche gli altri la videro e restarono piuttosto sorpresi.

“Oh, ciao!” esclamò Gwen, abbassandosi per essere all’altezza della bimba. “Ma tu chi sei?” le chiese con la voce più zuccherosa che riuscì a tirare fuori.

“Io sono Stella. E tu?”

“Ma che bel nome, Stella. Io mi chiamo Gwen”.

“Ma la conosci?” chiese Tosh rivolgendosi a Ianto.

Ianto rimase a boccheggiare un attimo. “Le avevo detto di restare in macchina… comunque è… è la figlia di… una mia amica. Lei è in ospedale così me ne sto prendendo cura. Non ha nessun’altro”.

“Oh, povera piccola. Sua madre si riprenderà?”

“Lo spero. Lo spero davvero”.

“Perché non entrate dentro?” propose Jack, allora. “Così la bambina magari non si annoia. E tu ci aiuti a mettere un po’ d’ordine”.

“No, io…”.

“Dai, su. La tua amica potrai trovarla dopo”, insistette Owen.

Ianto alla fine fu costretto ad accettare. Infondo, gli avrebbe fatto bene stare un po’ con i suoi amici. E magari riusciva a trovare il modo per dire loro la verità.

Quando entrarono dentro, la bambina rimase a guardarsi attorno meravigliata. Chiese se quella fosse una nave spaziale e Jack le rispose che, se voleva, poteva esserlo, poteva essere ogni cosa. E la bimba si accontentò di quella risposta facendosi portare in giro da Gwen che le mostrava alcune cose presenti nel Nucleo.

Intanto, Jack, Tosh, Owen e Ianto si erano accomodati nella sala riunioni. La giapponese stava spiegando loro alcune anomalie che aveva rilevato nella Fessura.
Improvvisamente, Gwen entrò dalla porta, ma aveva un’espressione strana.

“Dov’è Stella?” le chiese Ianto.

“E’ nell’ufficio di Jack che disegna. Ianto, c’è qualcosa che non ci hai detto?”

“No, perché?”

“Perché sono molto brava a notare certe somiglianze. E quella bambina ha i tuoi stessi identici occhi. Per non dire che ti somiglia troppo”.

Ora nessuno era più interessato alle anomalie della Fessura. Tutti avevano gli occhi puntati su Ianto, le bocche spalancate, le espressioni incuriosite.
Ianto spostò gli occhi da Gwen, a Tosh, a Owen e infine a Jack. Avevano capito.

“Stella è mia figlia”.

“Cosa? E non ce lo hai mai detto?” sbottò Toshiko, sedendosi.

“Perché l’ho scoperto solo stamattina”.

“Scusami, ma quanti anni ha Stella?” chiese Owen.

“Sette”. Il dottore fece un rapido calcolo mentale e poi esclamò: “Hai avuto una figlia a diciassette anni?”

“Senti, non giudicarmi!” ora anche Ianto aveva alzato la voce e stava guardando Owen in maniera per niente simpatica. “Ho fatto anche io i miei sbagli, ne ho fatti tanti. E sì, ho messo incinta una ragazza a diciassette anni. Ma era la mia ragazza e sapevamo quello che stavamo facendo. Solo che non avevamo messo in conto quel piccolo dettaglio e dopo lei ha incolpato me perché non ho usato quel cazzo di preservativo!” Si buttò sullo schienale della sedia, tremando. Aveva voglia di piangere, ma non poteva farlo davanti a loro, davanti a Jack.

“E come mai lo hai scoperto solo ora?” gli chiese Gwen calma.

“Perché pensavo che avesse abortito”, rispose il ragazzo, questa volta più tranquillo, ma senza guardare nessuno di loro. “L’avevo convinta a farlo. Non eravamo pronti ad avere un bambino. Lei mi disse di averlo fatto ma mi aveva mentito. Abbiamo litigato per questo, per tutto. Ci siamo lasciati e poco dopo lei si è trasferita in un’altra città, così abbiamo perso i contatti. Quando l’hanno trovata svenuta in un parco, l’altra sera, nel suo cellulare c’era solo il mio numero e una lettera indirizzata a me. Così mi hanno telefonato stamattina e sono venuto. In quella lettera mi spiegava ogni cosa”.

“Come mai è finita in ospedale?” chiese Tosh.

“Per la droga. Si drogava anche da adolescente. I suoi genitori, dopo che è rimasta incinta, l’hanno lasciata a se stessa e lei è scappata di casa. Ma l’unico modo che aveva trovato per mantenere sé e la bambina era prostituirsi. E ora la madre di quella bambina giace nel letto di un ospedale in fin di vita e io sono l’unico che le è rimasto”.

Cadde il silenzio, dopo il racconto di Ianto. Un silenzio carico di inquietudine, di malinconia.
Jack allungò una mano per prendere quella di Ianto e gli sorrise, un sorriso con cui gli diceva che lui lo capiva e che non lo avrebbe lasciato solo.

“Mi dispiace”, sussurrò Gwen, lo sguardo basso.

“Ma sei sicuro… insomma, sei sicuro che la tua ragazza ti abbia… sì, insomma, detto la verità?” fece Owen. “In questi casi una persona può anche mentire. Non sto dicendo che lei lo abbia fatto, però bisogna considerare tutte le opzioni”.

Ianto rimase un attimo pensieroso. “Catherina non mi mentiva mai. Nonostante tutto ci amavamo e abbiamo avuto una bella storia. Non credo mi mentirebbe su una cosa del genere. Però… però sì, si potrebbe sempre controllare”.

“Posso fare un test di paternità. Mi serve solo un tuo capello”.  Ianto glielo porse e il dottore lo prese, andando poi dalla bambina. Ma prima di lasciare la sala riunioni, si voltò di nuovo verso il collega. “Comunque non volevo giudicarti. Anche io da giovane non ero proprio un santo”. L’amico gli sorrise, facendogli capire che non ce l’aveva con lui.

Anche Tosh e Gwen se ne andarono e nella stanza rimasero solo Ianto e Jack.
Il Capitano si alzò, andando a sedersi accanto al ragazzo.
Poi gli prese entrambe le mani.

“Stai bene, Ianto?”

“No, non sto bene. La mia vita è appena stata sconvolta e io non sono pronto a tutto questo. Non sono pronto ad avere una figlia, non lo ero sette anni fa e non lo sono nemmeno adesso. Non sarò un bravo padre”.

Jack allungò una mano sotto al mento di Ianto e gli alzò la testa in modo da poterlo guardare negli occhi. “Non dire idiozie. Ti ho visto con i figli di tua sorella e sei fantastico con i bambini”.

“Perché loro li vedo tre volte all’anno! Come faccio con una figlia a casa? Come faccio a lavorare?”

“Puoi sempre lasciarlo, il lavoro, e cercarne un altro”.

“Mollare Torchwood? Non posso farlo. Jack, non credo di potercela fare. Non da solo”.

“Tu non sei solo”.
Il ragazzo puntò gli occhi dritto in quelli del Capitano. Una lacrima gli scivolò lungo la guancia e Jack provvide subito ad asciugarla con il pollice. “Hai me”.

“Tu… tu mi aiuteresti?”

“Certo!” gli sorrise il Capitano. “Anche io ho avuto una figlia e sono bravo coi bambini. Possiamo crescerla insieme”.

“Crescerla insieme?” Il ragazzo non credeva alle proprie orecchie. “Che intendi?”

“Che possiamo stare insieme, se vuoi. Tu, io e Stella. Che dici?”

“Non mi stai prendendo in giro?”

“Certo che no”.

Ianto sorrise sentendo scemare una parte del peso che fino a quel momento gli era gravato addosso. Si protese verso Jack per dargli un bacio che questi contraccambiò con passione.

“Ahem, scusate!” esclamò Owen dalla porta. “Non volevo interrompervi ma… il test di paternità è pronto. Ed è positivo. Stella è decisamente tua figlia, Ianto”.

Jack guardò il ragazzo senza però lasciargli andare le mani. “Che vuoi fare?”

“Intanto devo dirlo a Stella”, iniziò alzandosi dalla sedia. “E poi andrò a fare testamento”.

Uscì in fretta dalla sala e raggiunse la sua macchina per il caffè.

 

“Ciao, Stella”, salutò non appena fu entrato nell’ufficio. La bambina era seduta alla scrivania di Jack, intenta a disegnare. “Ti va un po’ di cioccolata calda?” le chiese porgendole una tazza con del liquido scuro dentro e tanta schiuma bianca.

“Oh sì, grazie!” esclamò la bambina, trangugiando subito un sorso di bibita e sporcandosi il labbro superiore con la schiuma. Era tenerissima, la bimba più tenera che Ianto avesse mai visto.

Riprese a disegnare, così Ianto capì che doveva essere lui a catturare la sua attenzione.

“Ascolta, devo dirti una cosa”, cominciò lui e immediatamente Stella alzò la testa per guardarlo. Il ragazzo prese un sospiro e cominciò. “Tua madre ti hai mai detto qualcosa su chi è tuo padre?”

Con un’innocenza incredibile, lei gli rispose: “Una volta mi ha detto che era là fuori e che mi aspettava, che sarebbe tornato. Però che lui non sapeva di me, ma che quando lo avrebbe scoperto sarebbe stato contento”.

Certo, era logico che Catherina avesse raccontato a sua figlia una specie di favola.

“E ti sei mai domandata come fosse?”

“Be’, a volte mi capitava di sognarlo. Mamma mi ha detto che mi somiglia”.

Ianto le sorrise e le prese una mano che nella sua ci entrava perfettamente. “Ti svelo un segreto: tuo padre è tornato. Sono io, piccola”.

La bimba strabuzzò gli occhi e restò a guardarlo a bocca spalancata. “Tu non puoi essere mio padre!”

“Certo che sono io!”

“Ma tu sei troppo giovane”.

“Anche tua madre è giovane”.

“Oh”. Stella abbassò gli occhi sul suo disegno. Pareva quasi sconsolata, come se avesse ricevuto una brutta notizia. Ma Ianto non sapeva come interpretare quell’atteggiamento, se di sorpresa o di vero dispiacere. “Davvero sei mio padre?” chiese alla fine la bambina.

“Già”.

“Allora potresti lasciarmi un attimo da sola?” gli chiese, guardandolo con quei grandi occhi azzurri. “Devo pensare”.

Ianto rimase un po’ sbigottito da quella richiesta, però fece come lei gli aveva chiesto e uscì dall’ufficio. Subito fuori incontrò Jack, che lo prese per i fianchi e lo attirò a sé.

“Com’è andata?”

“Meglio del previsto. È una bambina intelligente. Forse anche troppo”.

“E’ tua figlia, dopotutto”. Ianto non poté non sorridere.

“Comunque, grazie, Jack”.

“E di che?” Il ragazzo scrollò le spalle e sorrise.

 

Ianto e Jack erano seduti sulle scalette di ferro del Nucleo, vicini l’un l’altro ma senza parlare né tenersi per mano. Semplicemente stavano seduti, il primo in attesa che la figlia uscisse dall’ufficio e il secondo in attesa con lui.

Dopo un po’, finalmente, la piccola Stella fece capolino dalla porta.

“Papà?” chiamò con voce timida. Ianto si voltò subito, sentendosi letteralmente sciogliere nel sentirsi chiamare così.

“Tu ce l’hai una scatola blu?” gli chiese lei.

“Una scatola blu?”

“Sì, una scatola blu”.

“No, perché?”

“Così, chiedevo”. Lei mollò la maniglia della porta e, con una breve corsetta, raggiunse il padre per abbracciarlo. Lui non si aspettava quel gesto, però ricambiò l’abbraccio stringendola forte. Dalla spalla della bimba, vide Jack che gli sorrideva e con la testa faceva un cenno di assenso.

 

Catherina aprì gli occhi incontrando quelli azzurri di Ianto, sopra di lei, che la guardavano. Immediatamente, la ragazza sorrise, anche se debolmente.

“Sapevo che prima o poi ti avrei rivisto”, mormorò con voce debole. Il ragazzo le prese una mano, stringendogliela. Era fredda. “Hai ricevuto la mia lettera?”

“Sì”.

“L’hai vista? Hai visto quanto è bella?”

“E’ bellissima”.

“Ha i tuoi occhi”.

“E il tuo sorriso”.

“Prenditi cura di lei”.

“Te lo prometto”.

Sembrava che Catherina stesse attendendo soltanto quella promessa perché, subito dopo, la sua mano scivolò da quella di Ianto e richiuse gli occhi lasciando ciondolare la testa. I macchinari attorno a lei cominciarono a suonare. In poco tempo la stanza si riempì di infermieri e Ianto venne cacciato fuori.

 

“Non so come farla mangiare!” sbottò Ianto non appena Jack ebbe varcato la soglia del suo appartamento.
Il Capitano guardò in direzione della bambina, seduta a tavola davanti a un piatto di pasta che non aveva ancora toccato. Teneva i gomiti puntati sul tavolo, lo sguardo basso. Era già denutrita di suo e rifiutarsi di mangiare non era proprio il massimo.

“Perché non vuoi mangiare, tesoro?” le chiese Jack sedendosi davanti a lei.

“Mangerò quando la mia mamma sarà qui”.

Il Capitano lanciò un’occhiata a Ianto che gli rispose con una scrollata di spalle.

“La tua mamma non tornerà più”.

“Certo che tornerà. Lei torna sempre”.

Era meglio usare un’altra tattica.

“Hai mai guardato le stelle?”

“Sì, io e la mamma certe notti ci distendevamo fuori e le guardavamo. Lei mi raccontava delle favole, sulle stelle e sugli altri pianeti”.

“E’ per questo che l’ha chiamata Stella, credo”, aggiunse Ianto rivolto a Jack. “A Catherina piaceva indagare sull’universo e osservare i pianeti”.

“Tu non avevi un telescopio?” chiese il Capitano al ragazzo.

Il ragazzo si chiese che cosa mai Jack volesse, ma poi capì. E non poté che sorridere a quella idea. Corse in camera sua e tornò con in mano un grosso oggetto a forma di cilindro, piuttosto lungo, e lo montò su un piedistallo, vicino alla finestra aperta.

“Vieni con me, Stella”, disse Jack, prendendo per mano la bambina. Lei lo seguì docile. La mise davanti al telescopio e le disse di guardare.
Lei poggiò l’occhio e rimase lì per qualche secondo. Poi si staccò e guardò i due uomini con gli occhi spalancati e la bocca aperta, come se avesse appena visto Babbo Natale con le renne.

“Che cos’è?” chiese.

“E’ la luna”, le spiegò Jack.

“Ma è così grande”.

“Certo, è grandissima. Anche se non come la Terra. E ora guarda qua”. Puntò il telescopio da un’altra parte e la bambina guardò di nuovo.

“Quella che stai guardando è Venere, il bellissimo pianeta di Venere. E ce ne sono tantissimi, di pianeti come quelli, anzi, anche più belli. E scommetto che la tua mamma è lassù da qualche parte. Forse sulla Luna o forse su Venere. O magari si sta nascondendo tra le stelle. Ma ti sta guardando e sta vegliando su di te e tra un po’ di tempo anche tu potrai raggiungerla. Devi solo avere pazienza e aspettare”.

Ora Stella stava piangendo. Aveva capito quello che Jack le voleva dire e non poteva più fermare le lacrime. “Ma io cosa faccio finché aspetto?” chiese tra i singhiozzi.

“Tu, intanto, potresti mangiare. Così diventi grande e forte e la tua mamma, quando ti vede, sarà contenta”.

Stella corse immediatamente al suo piatto di pasta e Jack la seguì.
Ianto, invece, rimase indietro, guardando i due che parlavano. Forse non sarebbe stata così dura come pensava. Anzi, forse sarebbe stato meraviglioso.

 

Aveva messo Stella a letto e ora si apprestava anche lui per andare a dormire. La bambina sarebbe stata triste per ancora un po’ di tempo, avrebbe sentito la mancanza della madre, era chiaro, però col tempo si sarebbe ripresa. Ne era certo. Era meravigliosa, piena di speranze, di sogni.

Andò in salotto per spegnere il televisore, quando vide, sul tavolino, un disegno che aveva fatto la sua bambina. Lo prese in mano e  lo guardò attentamente. C’era un uomo, un uomo alto, magro, con un completo marrone e la cravatta, i capelli spettinati. E accanto a lui una cabina, una cabina azzurra, con scritto sopra polizia.
Nient’altro, solo l’uomo e la cabina.
Era un disegno particolare, strano forse. Però carino.

Non rimase a pensarci molto. Spense la luce e raggiunse Jack in camera da letto.

Papà, tu ce l’hai una scatola blu?

 

 

MILLY’S SPACE

Non ho idea di come mi sia venuta questa Idea, però mi è venuta e non ho potuto fare a meno di condividerla con voi ^^
Spero vi piaccia.
Non è nulla di pretenzioso, semplicemente vuole essere malinconica e dolce, esattamente ciò che è… sono praticamente una fan di Torchwood così come lo sono del Doctor Who e se andate nella mia pagina troverete altre fanfic (su Doctor Who non ho ancora pubblicato niente, ma presto arriverà qualcosa).
Ora, ditemi che ne pensate. Può anche essere una critica, basta che mi diciate qualcosa : )

E ricordatevi: Geronimooooooooooo!!! XD

Bacioni,
millyray.

  
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