Stella
Ianto
Jones quella mattina si svegliò disturbato da
un rumore squillante che si era insinuato nei suoi sogni, facendolo
ritornare
bruscamente alla realtà. E no, non era il rumore della
sveglia, quello che lo
svegliava tutte le mattine ricordandogli che lo aspettava
un’altra dura e
pericolosa giornata di lavoro.
Inizialmente non capì bene di che cosa si trattasse, il suo
cervello era ancora
troppo obnubilato e confuso. Ma dopo qualche secondo, quando ebbe
inquadrato
bene la sua camera da letto, le pareti bianche, l’armadio
imponente di fronte
al letto e la finestra grande accanto, si rese conto che quel rumore
che gli
aveva trapanato il cervello era lo squillare del telefono.
Non si alzò subito, sperava che non fosse niente di
importante e che, pertanto,
avrebbe smesso dopo qualche squillo. Di solito non era così
pigro, però la
sveglia non era ancora suonata e non gli andava di rinunciare alle sue
già
poche ore di sonno.
Si
girò su un fianco, godendosi almeno un’altra
mezz’ora di sonno. Ma a quanto pareva non sarebbe stato
accontentato.
Il telefono squillò di nuovo, danneggiando
un’altra volta i suoi timpani.
Questa volta il buonsenso vinse sulla pigrizia del corpo. Infondo,
nessuno
chiamava a quell’ora del mattino. Perciò poteva
essere solo Jack. Doveva esserci
qualche emergenza.
Si
alzò pigramente e, con molta calma, raggiunse il
telefono.
Alzò la cornetta e rimase in ascolto per qualche attimo.
Poi rimase raggelato sul posto, con gli occhi spalancati e il cuore che
aveva
preso a battere a mille all’ora.
Aveva
deciso di rinunciare al solito completo
elegante, camicia, giacca e cravatta, limitandosi a indossare un paio
di jeans
e una T-shirt che addirittura, si accorse solo in un secondo momento,
gli stava
un po’ piccola. Dopotutto era piuttosto di fretta e aveva
indossato le prime
cose che gli erano capitate a tiro.
Così vestito, poi, era uscito nella fredda mattinata di un
giorno qualunque,
inoltrandosi nel folto traffico che riempiva tutti i giorni la
città di Cardiff,
e in poco tempo aveva raggiunto l’ospedale centrale. Poco
lontano dalla porta,
aveva parcheggiato l’auto, una Volkswagen vecchio stile color
sabbia.
Raggiunse
le porte ad apertura automatica e, appena arrivato
la reception, chiese all’infermiera cicciona che stava
dall’altra parte del bancone.
“Scusi, sto cercando Catherina Delsby”.
Non
fu da lei, però, che ottenne la risposta che
desiderava.
Un mano gli toccò il braccio piuttosto delicatamente, ma
ciò non impedì a Ianto
di fare uno scatto e di voltarsi bruscamente, preso completamente alla
sprovvista. I suoi nervi erano parecchio tesi.
Una signora che non arrivava al metro e sessanta nemmeno coi tacchi,
vestita
con un tailleur scuro e una crocchia di capelli ricci ben fissa sul
capo, lo
guardava con un paio di occhi verde bosco e un’espressione
tranquilla e
gentile. Doveva avere su una quarantina d’anni, ma il trucco
nascondeva
perfettamente eventuali rughe o altri segni che potessero far capire la
sua
età.
“Lei
è il signor Ianto Jones?” chiese con marcato
accento gallese.
Ianto
semplicemente annuì confuso.
“Io
sono Amelie Stevenson, assistente sociale”, si
presentò lei, facendo comparire magicamente il biglietto da
visita. “Potrei
parlarle un momento?”
“Quando
è arrivata in ospedale?”
“L’altra
sera. Alcune persone l’hanno trovata svenuta
su una panchina, non sappiamo bene dove stesse andando, forse a casa.
Era in
condizioni piuttosto critiche, ma i medici per ora sono riusciti a
stabilizzarla”.
Ianto
spostò lo sguardo al pavimento, come se tutto
d’un tratto quella piccola macchia marrone fosse diventata
molto interessante,
come un’opera d’arte.
Lui e la signora Stevenson erano seduti nella sala d’aspetto
al piano terra,
lui con un bicchiere di caffè in mano e lei la borsetta nera
stretta al petto.
“Cosa
le è successo?” chiese Ianto dopo un po’.
“I
medici hanno trovato un’alta concentrazione di
droga nel suo organismo, di vari tipi. Doveva farne uso da molto tempo.
Inoltre, sul corpo sono stati riscontrati dei lividi e segni
di… molestie”.
Ianto spalancò gli occhi scioccato, ma non interruppe
l’assistente. “Quando
l’hanno trovata indossava dei vestiti molto succinti. La
polizia deduce che si
sia prostituita”.
“Ma
come avete fatto ad avere il mio numero?” Era
questo che gli interessava tanto sapere. Quando aveva risposto al
telefono e la
voce dell’infermiera gli aveva detto che Catherina era finita
in ospedale, era
rimasto molto, molto incredulo. Non ci aveva creduto, era convinto che
si
fossero sbagliati e che quella Catherina dovesse essere
un’altra.
Ma era corso in ospedale lo stesso, spinto dalla curiosità e
da un certo senso
di responsabilità. Perché, dopotutto, se avevano
trovato il suo numero un
motivo doveva esserci. E a quanto pareva non c’era stato
alcuno sbaglio.
“Grazie
a questa”, rispose la signora Stevenson,
tirando fuori una lettera, così come aveva tirato fuori il
biglietto da visita.
La fece ondeggiare davanti al volto confuso di Ianto. La busta era
completamente bianca, eccetto due parole vergate con inchiostro nero.
Un nome,
il suo nome. Ianto Jones.
“L’abbiamo trovata nella borsa che aveva
con sé. Poi abbiamo guardato nel
suo cellulare e abbiamo trovato di nuovo il suo nome con il numero. Non
c’erano
né messaggi né numeri recenti che poteva aver
chiamato e nemmeno quelli di un
eventuale genitore”.
Ianto
emise un sospiro e scrollò le spalle. Non si
stupiva che Catherina non avesse il numero dei suoi genitori non
essendoci mai
andata d’accordo. E probabilmente, in quegli ultimi anni che
non l’aveva più
sentita, il rapporto doveva essersi raggelato ancora di più.
Prese
la lettera che Amelie ancora stringeva in mano
e fece per aprirla. Ma, improvvisamente, il suo cellulare
squillò e ciò lo
riportò indietro dal tunnel dei ricordi malinconici nel
quale si era
avventurato.
Lo tirò fuori dalla tasca dei jeans e guardò il
numero. Jack. Accidenti! Si era
completamente dimenticato di Torchwood.
Si
scusò con l’assistente sociale e si
alzò dalla
sedia per andare a rispondere.
“Ianto!”
sentì esclamare all’altro capo della
cornetta. “Ma dove sei finito?” In sottofondo
alcune risatine e la voce di Owen
che faceva una delle sue solite battutine che però Ianto non
riuscì a capire.
“Ehm…
Jack, ecco… io ho avuto… un piccolo
contrattempo”, balbettò, sperando che Jack non si
impicciasse troppo.
“Che
tipo di contrattempo? Tu stai bene?”
“Sì,
io sto benissimo. Senti, ti spiego tutto in un
altro momento, adesso non posso parlare. Non so se oggi vengo al
lavoro”.
“D’accordo,
non ti preoccupare”.
La
voce del suo capo suonò calma e comprensiva.
Ianto esalò un sospiro di sollievo e sentì
quell’affetto che nutriva per Jack
crescere ancora di più. In quel momento avrebbe voluto che
lo abbracciasse.
“Se
c’è un’emergenza, però,
chiamami”.
“Certo.
Be’, al momento non è successo niente di
che, solo un paio di Weevil”.
“Ok”.
“Ci
vediamo?”
“Sì,
ciao”.
Ianto
chiuse la comunicazione prima che gli
scappasse qualcos’altro.
In fretta ritornò da Amelie, riponendo la lettera nella
tasca interna della
giacca. L’avrebbe letta in un secondo momento.
“Eccomi,
scusi tanto, era una chiamata di lavoro”.
“Le
sto facendo fare tardi? Spero non ci siano
problemi…”.
“Oh
no, nient’affatto, non si preoccupi”. Quella
donna gli piaceva sempre di più. Era gentile, parlava con
chiarezza e sembrava
sapesse fare bene il suo lavoro. “Comunque, non le ho ancora
detto tutto”,
continuò la signora Stevenson. “Catherina non
è qui da sola”.
Ianto
si trovò a spalancare gli occhi per l’ennesima
volta quella mattina. Quale altra sorpresa avrebbe ricevuto?
“Lei
sa che ha una figlia?”
Ok,
no, questa proprio non se l’aspettava.
Però…
però, effettivamente, per quale altro motivo si sarebbe
potuto trovare a
parlare con un’assistente sociale?
“Chi?”
“Catherina.
Non mi ha chiesto niente della bambina
perciò deduco che non lo sapesse”.
“No,
non ne avevo idea”.
“Lei
e Catherina non vi parlate da un po’, immagino”.
Ianto
annuì.
“Si
chiama Stella e ha sette anni”.
“Stella?”
“Sì”.
Già,
c’era da aspettarselo da Catherina.
“Dall’età
di Stella e da quella della madre deduco
che l’ha avuta da adolescente. Lei sa chi potrebbe essere il
padre, signor
Jones?”
Ianto
ci mise qualche secondo ad afferrare la
domanda. Guardò la donna senza in realtà vederla.
“Io…
io non… non lo so… io”. Ma in
realtà un dubbio
gli era sorto, un dubbio terribile e atroce. Il suo cuore aveva
decisamente
accelerato i battiti, il suo stomaco si era contratto e per fortuna che
non
aveva fatto colazione, le mani avevano preso a tremargli nervosamente.
“Senta”,
sbottò poi, puntando gli occhi dritto in
quelli di Amelie. “Posso vederla? Catherina,
intendo”.
“Sì,
ma lei non le parlerà. Non si è ancora
svegliata da quando è qui”.
L’assistente
sociale accompagnò Ianto alla stanza di
Catherina e lì si congedò, dicendo che andava al
bar.
Il ragazzo esitò un attimo prima di entrare, ma poi, con
passo più silenzioso
di una piuma che cade, varcò la soglia e camminò
dentro la stanza trattenendo
quasi il fiato.
Catherina giaceva nel letto, la flebo attaccata al braccio e altri
tubicini a
deturpare il suo corpo. I capelli scuri erano sparsi sul cuscino a
incorniciare
il volto cinereo dove spiccavano le borse viola sotto gli occhi e le
labbra
screpolate. Non era di certo al massimo della sua forma, eppure a Ianto
pareva
ancora quella bella ragazza di tanti anni fa, quella che per un bel
po’ gli
aveva rubato il cuore. Anche se… anche se tutta la
fanciullezza e la vitalità
che sempre l’avevano contraddistinta sembravano completamente
andate via,
l’avevano abbandonata e ora era rimasto solo un debole
ricordo di ciò che era
stata in quel corpo martoriato, affaticato, dal respiro pesante.
Ianto
prese una sedia e la mise vicino al letto. Vi
si sedette e prese una mano della ragazza. La prima cosa che
notò erano le
unghie mangiucchiate, segno che non aveva mai perso quel vizio. Solo
che aveva
troppa paura di romperla, quella mano, così fragile,
così magra, come il resto
del corpo. Gli pareva che avrebbe potuto spezzarla con un dito.
Aprì
bocca per dirle qualcosa, ma non sapeva cosa. E
poi non era nemmeno sicuro che lei lo potesse sentire. Che cosa si
poteva dire
ad una persona giacente nel letto di un ospedale che non vedi da circa
sette
anni? E non era una persona qualsiasi.
Si
ricordò improvvisamente della lettera e,
automaticamente, infilò una mano nella giacca per prenderla.
Forse se la leggeva avrebbe trovato qualcosa da dire.
Lesse
di nuovo il nome sulla busta per essere certo,
assolutamente certo, che fosse destinata a lui e poi, con mani
tremanti,
l’aprì.
Caro
Ianto,
ti
sorprende che ti scriva, vero?
Chissà che cosa avrai pensato di me in tutti questi anni.
Chissà se mi hai
almeno pensata. Io ti ho pensato spesso, sai? Quasi tutti i giorni. E
mi sei
mancato molto.
Quando questa lettera ti arriverà tra le mani io
probabilmente sarò già morta
o, quantomeno, sarò in punto di morte. Vorrei potermi
vantare nell’aldilà,
sempre che ci sia un aldilà, di aver avuto una morte eroica
o perlomeno una
morte che non verrà scordata. E invece eccomi qua, uccisa
anch’io da delle
scelte sbagliate, da una vita sregolata. Eccomi qua, mi sono uccisa con
le mie
stesse mani. Ma non voglio parlare di questo, non voglio farti
piangere.
Ti scrivo per dirti una cosa molto importante perciò, spero
che questa lettera
riesca a raggiungerti. Non ho più nessuno, non ho amici,
né famigliari e
nemmeno dei genitori ormai. Sono sola, completamente sola. Io, che ho
sempre
disprezzato la solitudine.
Vorrei che le cose tra di noi fossero andate in maniera diversa, vorrei
che la
mia intera vita fosse andata in maniera diversa. Ma, purtroppo, il
destino non
te lo scegli tu.
Innanzitutto non avrei voluto dirti quelle cose, erano cattiverie, lo
so. Non è
stata colpa tua quello che è successo, non l’ho
mai pensato. Purtroppo, però,
mi sono lasciata cogliere dalla rabbia e dalla disperazione del
momento, sai
com’è in quelle situazioni. Ma ormai era troppo
tardi per chiederti scusa e il
mio orgoglio mi diceva che, infondo, non era importante che ricevessi
il tuo
perdono, me la sarei potuta cavare benissimo.
Dannata ragazza cocciuta!
In secondo luogo, non avrei voluto mentirti. Anzi, non avrei dovuto. Tu
avevi
tutto il diritto di saperlo, ma credo di aver inconsciamente pensato al
tuo
bene anche. Perché so cosa significa avere un figlio a soli
diciassette anni,
adesso lo so benissimo, l’ho sempre saputo, i miei ci hanno
tenuto a
precisarmelo tutti i santi giorni.
E tu non eri pronto per prenderti questo incarico, non lo ero nemmeno
io,
dopotutto, e non lo sono mai stata.
Ma non sono riuscita ad abortire, sapevo che poi me ne sarei pentita
per il
resto della mia vita. C’era una vita che cresceva dentro di
me e non potevo
ucciderla.
Però io ti dissi che l’avevo fatto. Non so
esattamente il perché, forse era
paura, paura che tu mi rifiutassi, che negassi tutto, o peggio. Ma lo
so che le
mie erano solo paure infondate, tu non eri certo un ragazzo di quel
tipo. Tu
sai assumerti le tue responsabilità. Io no.
E poi mi stavo comunque per trasferire ed ero convinta che tu ti
saresti
dimenticato ben presto di me e di tutta quella storia. Ho detto ai miei
genitori che non sapevo chi era il padre, che ero rimasta incinta ad
una festa,
facendolo da ubriaca con uno sconosciuto, il che era fattibile per una
come me.
Inutile descrivere la loro reazione. Mio padre è sempre
stato troppo fissato
col suo lavoro e i suoi soldi e mia madre coi suoi capelli e le unghie
da
potersi preoccupare per un altro bambino piccolo. La
responsabilità era tutta
mia e io me ne sarei dovuta occupare. Non che mi aspettassi il
contrario, ma
almeno avrei voluto avere un minimo di sostegno.
Mi hanno tenuta rinchiusa in casa per tutto il tempo della gravidanza,
facendomi studiare da privatista. Mio padre aveva un onore da difendere
e mia
madre si preoccupava troppo di quello che pensava la gente, non
potevano certo
mandare in giro una figlia incinta come se nulla fosse. Quella era una
città
piccola, dove i pettegolezzi volavano.
Ma quando è nata Stella la mia vita non è di
certo migliorata. Lei, senza ombra
di dubbio, è una delle cose più fantastiche che
mi siano capitate. Mi basta
guardarla dormire per sorridere e ritrovare un po’ di
speranza nei recessi del
mio cuore.
Alla fine ho finito per sboccare però e forse ho commesso
l’errore più
madornale della mia vita. Ho preso Stella e tutte le nostre cose e me
ne sono
andata di casa, lontano. Sono tornata a Cardiff. Ho il tuo numero ma
non so se
l’hai cambiato. E in ogni caso non ho il coraggio di mettermi
in contatto. A
differenza di ciò che pensavano tutti, non ho mai avuto le
palle. E ho sempre
pensato di potercela fare da sola. Come vedi il mio smisurato orgoglio
non mi
ha mai abbandonata.
Ho subito trovato lavoro in un supermercato, ma le spese da affrontare
sono
diventate troppe. La casa, le bollette, il mangiare, le cose per la
bambina.
Inoltre, c’è la droga, la droga che non sono mai
riuscita ad abbandonare. Ormai
è diventata parte di me, mi serve per andare avanti, per
vivere. E non posso
avere due lavori part-time. Ai miei di certo non chiederei mai aiuto.
Così ho iniziato a fare quel vecchio lavoro, quello che
conoscono tutti, il
lavoro di una prostituta, con una figlia che, ignara di tutto, dorme
tranquillamente in una casa vuota, fredda e sudicia.
Ma almeno, se c’è un pregio di cui posso vantarmi,
è quello di essere
previdente.
Perciò ora ti scrivo in quel piccolo bar che eravamo soliti
frequentare io e te
quando ancora ci crogiolavamo tra le soffici braccia
dell’amore, dopo essere
scappata da un cliente che mi ha quasi violentata e dopo aver comprato
un po’
di coca dal mio venditore abituale. Ti scrivo perché non so
a chi altri
rivolgermi, ti scrivo perché sei la mia unica speranza. So
che mi sto mandando
alla tomba da sola, so che non durerò a lungo.
Il mio unico pensiero è Stella, la sua felicità e
il suo futuro. Non
m’interessa altro. Non voglio che torni dai miei genitori, la
tratterebbero
come hanno trattato me o forse la spedirebbero in orfanotrofio.
Io ti chiedo, ti supplico, per favore, prenditene cura tu. So che ti
sto
chiedendo una cosa enorme, so che prendersi cura di un bambino non
è facile. Ma
è anche tua figlia e tu non ti sei mai sottratto alle tue
responsabilità, hai
sempre cercato di aiutare gli altri. Spero che la cosa non sia
cambiata.
Sono certa che con te si troverà benissimo, avrai un ottimo
lavoro e magari una
famiglia.
Le darai tutto quello che io non sono riuscita a darle, nonostante mi
fossi
sempre promessa di essere una madre migliore della mia. E invece sono
stata
persino peggio.
Stella è una bambina buonissima, non ti darà
alcun fastidio. Ed è anche
bellissima, meravigliosa. Ha i tuoi stessi occhi, forse lo avrai
già notato.
Per la verità somiglia di più a te.
Pare che il bar stia per chiudere, ormai ci sono solo io.
Quindi ecco, questo è quello che ti chiedo. In nome del
nostro vecchio amore,
in nome dell’amore che io provo ancora per te
(perché sì, in fondo al mio cuore
non ho mai smesso di amarti) ti chiedo di esaudire questo mio ultimo
desiderio.
Prenditi cura di Stella, rendila felice.
Io cercherò di vegliare su di voi dalla Luna.
Con
immenso affetto,
Cathie.
Ianto
alzò lo sguardo dalla lettera, gli occhi
spalancati, la bocca aperta dallo shock. Perché
sì, aveva appena subito uno
shock. Il suo stomaco, il suo intestino e tutti gli altri organi si
erano
attorcigliati in un unico nodo e gli occhi gli si erano riempiti di
lacrime che
non aveva intenzione di versare. La lettera era ancora tra le sue mani,
ma la
teneva così stretta che quasi la strappava.
Rilesse la lettera altre due volte, più velocemente,
così da non avere dubbi.
Ma non ce n’erano, di dubbi, la lettera era chiara, precisa.
Spostò
lo sguardo su Cathie, osservandola dormire
tranquilla. Chissà cosa provava, chissà se
percepiva la sua presenza.
“Perché
l’hai fatto, Cathie, perché?”
sussurrò, a se
stesso più che alla donna nel letto. Com’era
logico, non ottenne nessuna
risposta.
Uscì
dalla stanza e raggiunse la signora Stevenson
che stava parlando con un infermiere, teneva una tazzina di plastica in
mano.
“Oh,
Signor Jones, proprio lei volevo”, esclamò
questa senza neanche lasciare il tempo all’altro di dire
qualcosa. “Mi chiedevo
se lei conoscesse qualcuno a cui possiamo affidare la bambina. Di
solito, in
queste situazioni, diamo i bambini in adozione o agli orfanotrofi. Ma
se si
potesse evitare…”.
“Stella
viene a casa con me”.
Ma
come gli era venuto in mente? Come gli era
saltato alla mente di portarsela a casa? Non che si stesse seriamente
pentendo,
solo che… questo significava che aveva accettato il fatto
che lei fosse sua
figlia. Ma che
stava dicendo? Lei era
sua figlia.
Osservò,
appoggiato al tavolo da lavoro della
cucina, la bambina seduta sul divano, gli occhi fissi sullo schermo
della
televisione a guardare un cartone e le manine intente a frugare nel
sacchetto
dei biscotti senza neanche guardarlo.
Quando l’aveva vista, in ospedale, gli era sembrato di vedere
la creatura più
bella dell’universo. Non che così fosse, era una
semplice bambina come tutte le
altre, era persino bassa e magrolina per la sua età, i
capelli scuri erano legati
in due trecce disordinate e aveva un nasino
all’insù. Ma ciò che veramente lo
aveva lasciato di stucco e che gli aveva fatto precipitare il mondo
addosso
erano stati gli occhi di quella bambina. Azzurri come il cielo.
Identici ai
suoi.
E
ora? Che cosa avrebbe fatto? Da dove avrebbe
iniziato?
Non ne aveva la più pallida idea. Questa cosa gli metteva
più paura di una
qualsiasi delle missioni che aveva svolto per Torchwood.
Il
suo cellulare squillò facendogli quasi fare un
salto per lo spavento. Quando lo prese, le sue mani tremavano.
“Pronto?”
quasi gridò, senza neanche guardare il
numero.
“Ianto!”
Era di nuovo Jack. “Volevo sapere se stavi
bene”.
“Sì,
sto bene. Lì come va?”
“Tranquillo
come acqua stagnante. Ti chiamo dal
Nucleo. E Gwen ti saluta”.
Ianto
sorrise. “Salutamela anche tu”. Sentire Jack,
una voce calma e rassicurante, lo tranquillizzava. E in quella
situazione ne
aveva bisogno.
“D’accordo.
Ma tu sei sicuro di stare bene? Ti sento
strano”.
“Sì,
sto bene. Ti racconterò tutto in un altro
momento. Ora devo andare”. Richiuse la comunicazione senza
neanche lasciare il
tempo all’altro di salutarlo.
Ti
racconterò tutto in un altro momento. Già,
come avrebbe
fatto? Come avrebbe fatto a raccontare tutto agli altri? Che aveva
avuto una
figlia a diciassette anni e che lo aveva scoperto solo sette anni dopo?
E a
Stella? Come avrebbe fatto a dirlo a Stella?
Alla
fine era andato al Nucleo. Doveva prendere il
suo portatile e aveva approfittato dell’occasione in cui i
suoi amici erano
fuori per fare una scappatina senza essere visto. Tanto lo sapeva che,
quando
era tutto tranquillo, loro andavano a mangiare fuori.
E stava per ritornare alla propria macchina quando, Jack, Gwen, Tosh e
Owen ebbero
la brillante idea di tornare proprio in quel momento. La prima a
vederlo fu
Gwen.
Ianto
si maledisse per la sua lentezza.
“Ciao,
Ianto! Credevo che non venissi”, lo salutò
Gwen non appena lo ebbero raggiunto.
“Be’,
ecco, mi serviva il mio portatile”, rispose
lui mostrando l’oggetto in questione.
“Come
stai? Hai risolto l’emergenza?” gli chiese
Tosh in tono apprensivo.
“Doveva
essere un’emergenza grave se hai indossato
dei jeans e non i tuoi soliti vestiti”, commentò
Jack, mostrandogli un sorriso
malizioso. “Sei sexy lo stesso, però”.
Ianto
non rispose alla provocazione. “Ehm sì…
dovrei
appunto ritornare…”. Non riuscì a
concludere la frase perché si sentì
strattonare per i pantaloni. Abbassò lo sguardo trovandosi
il faccino dolce di
Stella che lo guardava dal basso.
Accidenti, le aveva detto di restare in macchina!
Anche gli altri la videro e restarono piuttosto sorpresi.
“Oh,
ciao!” esclamò Gwen, abbassandosi per essere
all’altezza della bimba. “Ma tu chi sei?”
le chiese con la voce più zuccherosa
che riuscì a tirare fuori.
“Io
sono Stella. E tu?”
“Ma
che bel nome, Stella. Io mi chiamo Gwen”.
“Ma
la conosci?” chiese Tosh rivolgendosi a Ianto.
Ianto
rimase a boccheggiare un attimo. “Le avevo
detto di restare in macchina… comunque
è… è la figlia di… una mia
amica. Lei è
in ospedale così me ne sto prendendo cura. Non ha
nessun’altro”.
“Oh,
povera piccola. Sua madre si riprenderà?”
“Lo
spero. Lo spero davvero”.
“Perché
non entrate dentro?” propose Jack, allora.
“Così la bambina magari non si annoia. E tu ci
aiuti a mettere un po’
d’ordine”.
“No,
io…”.
“Dai,
su. La tua amica potrai trovarla dopo”,
insistette Owen.
Ianto
alla fine fu costretto ad accettare. Infondo,
gli avrebbe fatto bene stare un po’ con i suoi amici. E
magari riusciva a
trovare il modo per dire loro la verità.
Quando
entrarono dentro, la bambina rimase a
guardarsi attorno meravigliata. Chiese se quella fosse una nave
spaziale e Jack
le rispose che, se voleva, poteva esserlo, poteva essere ogni cosa. E
la bimba
si accontentò di quella risposta facendosi portare in giro
da Gwen che le
mostrava alcune cose presenti nel Nucleo.
Intanto,
Jack, Tosh, Owen e Ianto si erano
accomodati nella sala riunioni. La giapponese stava spiegando loro
alcune
anomalie che aveva rilevato nella Fessura.
Improvvisamente, Gwen entrò dalla porta, ma aveva
un’espressione strana.
“Dov’è
Stella?” le chiese Ianto.
“E’
nell’ufficio di Jack che disegna. Ianto,
c’è
qualcosa che non ci hai detto?”
“No,
perché?”
“Perché
sono molto brava a notare certe somiglianze.
E quella bambina ha i tuoi stessi identici occhi. Per non dire che ti
somiglia
troppo”.
Ora
nessuno era più interessato alle anomalie della
Fessura. Tutti avevano gli occhi puntati su Ianto, le bocche
spalancate, le
espressioni incuriosite.
Ianto spostò gli occhi da Gwen, a Tosh, a Owen e infine a
Jack. Avevano capito.
“Stella
è mia figlia”.
“Cosa?
E non ce lo hai mai detto?” sbottò Toshiko,
sedendosi.
“Perché
l’ho scoperto solo stamattina”.
“Scusami,
ma quanti anni ha Stella?” chiese Owen.
“Sette”.
Il dottore fece un rapido calcolo mentale e
poi esclamò: “Hai avuto una figlia a diciassette
anni?”
“Senti,
non giudicarmi!” ora anche Ianto aveva
alzato la voce e stava guardando Owen in maniera per niente simpatica.
“Ho
fatto anche io i miei sbagli, ne ho fatti tanti. E sì, ho
messo incinta una
ragazza a diciassette anni. Ma era la mia ragazza e sapevamo quello che
stavamo
facendo. Solo che non avevamo messo in conto quel piccolo dettaglio e
dopo lei
ha incolpato me perché non ho usato quel cazzo di
preservativo!” Si buttò sullo
schienale della sedia, tremando. Aveva voglia di piangere, ma non
poteva farlo
davanti a loro, davanti a Jack.
“E
come mai lo hai scoperto solo ora?” gli chiese
Gwen calma.
“Perché
pensavo che avesse abortito”, rispose il
ragazzo, questa volta più tranquillo, ma senza guardare
nessuno di loro.
“L’avevo convinta a farlo. Non eravamo pronti ad
avere un bambino. Lei mi disse
di averlo fatto ma mi aveva mentito. Abbiamo litigato per questo, per
tutto. Ci
siamo lasciati e poco dopo lei si è trasferita in
un’altra città, così abbiamo
perso i contatti. Quando l’hanno trovata svenuta in un parco,
l’altra sera, nel
suo cellulare c’era solo il mio numero e una lettera
indirizzata a me. Così mi
hanno telefonato stamattina e sono venuto. In quella lettera mi
spiegava ogni
cosa”.
“Come
mai è finita in ospedale?” chiese Tosh.
“Per
la droga. Si drogava anche da adolescente. I
suoi genitori, dopo che è rimasta incinta, l’hanno
lasciata a se stessa e lei è
scappata di casa. Ma l’unico modo che aveva trovato per
mantenere sé e la
bambina era prostituirsi. E ora la madre di quella bambina giace nel
letto di
un ospedale in fin di vita e io sono l’unico che le
è rimasto”.
Cadde
il silenzio, dopo il racconto di Ianto. Un
silenzio carico di inquietudine, di malinconia.
Jack allungò una mano per prendere quella di Ianto e gli
sorrise, un sorriso
con cui gli diceva che lui lo capiva e che non lo avrebbe lasciato
solo.
“Mi
dispiace”, sussurrò Gwen, lo sguardo basso.
“Ma
sei sicuro… insomma, sei sicuro che la tua
ragazza ti abbia… sì, insomma, detto la
verità?” fece Owen. “In questi casi una
persona può anche mentire. Non sto dicendo che lei lo abbia
fatto, però bisogna
considerare tutte le opzioni”.
Ianto
rimase un attimo pensieroso. “Catherina non mi
mentiva mai. Nonostante tutto ci amavamo e abbiamo avuto una bella
storia. Non
credo mi mentirebbe su una cosa del genere. Però…
però sì, si potrebbe sempre
controllare”.
“Posso
fare un test di paternità. Mi serve solo un
tuo capello”. Ianto
glielo porse e il
dottore lo prese, andando poi dalla bambina. Ma prima di lasciare la
sala
riunioni, si voltò di nuovo verso il collega.
“Comunque non volevo giudicarti.
Anche io da giovane non ero proprio un santo”.
L’amico gli sorrise, facendogli
capire che non ce l’aveva con lui.
Anche
Tosh e Gwen se ne andarono e nella stanza
rimasero solo Ianto e Jack.
Il Capitano si alzò, andando a sedersi accanto al ragazzo.
Poi gli prese entrambe le mani.
“Stai
bene, Ianto?”
“No,
non sto bene. La mia vita è appena stata
sconvolta e io non sono pronto a tutto questo. Non sono pronto ad avere
una
figlia, non lo ero sette anni fa e non lo sono nemmeno adesso. Non
sarò un
bravo padre”.
Jack
allungò una mano sotto al mento di Ianto e gli
alzò la testa in modo da poterlo guardare negli occhi.
“Non dire idiozie. Ti ho
visto con i figli di tua sorella e sei fantastico con i
bambini”.
“Perché
loro li vedo tre volte all’anno! Come faccio
con una figlia a casa? Come faccio a lavorare?”
“Puoi
sempre lasciarlo, il lavoro, e cercarne un
altro”.
“Mollare
Torchwood? Non posso farlo. Jack, non credo
di potercela fare. Non da solo”.
“Tu
non sei solo”.
Il ragazzo puntò gli occhi dritto in quelli del Capitano.
Una lacrima gli
scivolò lungo la guancia e Jack provvide subito ad
asciugarla con il pollice.
“Hai me”.
“Tu…
tu mi aiuteresti?”
“Certo!”
gli sorrise il Capitano. “Anche io ho avuto
una figlia e sono bravo coi bambini. Possiamo crescerla
insieme”.
“Crescerla
insieme?” Il ragazzo non credeva alle
proprie orecchie. “Che intendi?”
“Che
possiamo stare insieme, se vuoi. Tu, io e
Stella. Che dici?”
“Non
mi stai prendendo in giro?”
“Certo
che no”.
Ianto
sorrise sentendo scemare una parte del peso
che fino a quel momento gli era gravato addosso. Si protese verso Jack
per
dargli un bacio che questi contraccambiò con passione.
“Ahem,
scusate!” esclamò Owen dalla porta. “Non
volevo interrompervi ma… il test di paternità
è pronto. Ed è positivo. Stella è
decisamente tua figlia, Ianto”.
Jack
guardò il ragazzo senza però lasciargli andare
le mani. “Che vuoi fare?”
“Intanto
devo dirlo a Stella”, iniziò alzandosi
dalla sedia. “E poi andrò a fare
testamento”.
Uscì
in fretta dalla sala e raggiunse la sua
macchina per il caffè.
“Ciao,
Stella”, salutò non appena fu entrato
nell’ufficio. La bambina era seduta alla scrivania di Jack,
intenta a
disegnare. “Ti va un po’ di cioccolata
calda?” le chiese porgendole una tazza
con del liquido scuro dentro e tanta schiuma bianca.
“Oh
sì, grazie!” esclamò la bambina,
trangugiando
subito un sorso di bibita e sporcandosi il labbro superiore con la
schiuma. Era
tenerissima, la bimba più tenera che Ianto avesse mai visto.
Riprese
a disegnare, così Ianto capì che doveva
essere lui a catturare la sua attenzione.
“Ascolta,
devo dirti una cosa”, cominciò lui e
immediatamente Stella alzò la testa per guardarlo. Il
ragazzo prese un sospiro
e cominciò. “Tua madre ti hai mai detto qualcosa
su chi è tuo padre?”
Con
un’innocenza incredibile, lei gli rispose: “Una
volta mi ha detto che era là fuori e che mi aspettava, che
sarebbe tornato.
Però che lui non sapeva di me, ma che quando lo avrebbe
scoperto sarebbe stato
contento”.
Certo,
era logico che Catherina avesse raccontato a
sua figlia una specie di favola.
“E
ti sei mai domandata come fosse?”
“Be’,
a volte mi capitava di sognarlo. Mamma mi ha
detto che mi somiglia”.
Ianto
le sorrise e le prese una mano che nella sua
ci entrava perfettamente. “Ti svelo un segreto: tuo padre
è tornato. Sono io,
piccola”.
La
bimba strabuzzò gli occhi e restò a guardarlo a
bocca spalancata. “Tu non puoi essere mio padre!”
“Certo
che sono io!”
“Ma
tu sei troppo giovane”.
“Anche
tua madre è giovane”.
“Oh”.
Stella abbassò gli occhi sul suo disegno.
Pareva quasi sconsolata, come se avesse ricevuto una brutta notizia. Ma
Ianto
non sapeva come interpretare quell’atteggiamento, se di
sorpresa o di vero
dispiacere. “Davvero sei mio padre?” chiese alla
fine la bambina.
“Già”.
“Allora
potresti lasciarmi un attimo da sola?” gli
chiese, guardandolo con quei grandi occhi azzurri. “Devo
pensare”.
Ianto
rimase un po’ sbigottito da quella richiesta,
però fece come lei gli aveva chiesto e uscì
dall’ufficio. Subito fuori incontrò
Jack, che lo prese per i fianchi e lo attirò a sé.
“Com’è
andata?”
“Meglio
del previsto. È una bambina intelligente.
Forse anche troppo”.
“E’
tua figlia, dopotutto”. Ianto non poté non
sorridere.
“Comunque,
grazie, Jack”.
“E
di che?” Il ragazzo scrollò le spalle e sorrise.
Ianto
e Jack erano seduti sulle scalette di ferro
del Nucleo, vicini l’un l’altro ma senza parlare
né tenersi per mano.
Semplicemente stavano seduti, il primo in attesa che la figlia uscisse
dall’ufficio e il secondo in attesa con lui.
Dopo
un po’, finalmente, la piccola Stella fece
capolino dalla porta.
“Papà?”
chiamò con voce timida. Ianto si voltò
subito, sentendosi letteralmente sciogliere nel sentirsi chiamare
così.
“Tu
ce l’hai una scatola blu?” gli chiese lei.
“Una
scatola blu?”
“Sì,
una scatola blu”.
“No,
perché?”
“Così,
chiedevo”. Lei mollò la maniglia della porta
e, con una breve corsetta, raggiunse il padre per abbracciarlo. Lui non
si
aspettava quel gesto, però ricambiò
l’abbraccio stringendola forte. Dalla
spalla della bimba, vide Jack che gli sorrideva e con la testa faceva
un cenno
di assenso.
Catherina
aprì gli occhi incontrando quelli azzurri
di Ianto, sopra di lei, che la guardavano. Immediatamente, la ragazza
sorrise, anche
se debolmente.
“Sapevo
che prima o poi ti avrei rivisto”, mormorò
con voce debole. Il ragazzo le prese una mano, stringendogliela. Era
fredda. “Hai
ricevuto la mia lettera?”
“Sì”.
“L’hai
vista? Hai visto quanto è bella?”
“E’
bellissima”.
“Ha
i tuoi occhi”.
“E
il tuo sorriso”.
“Prenditi
cura di lei”.
“Te
lo prometto”.
Sembrava
che Catherina stesse attendendo soltanto
quella promessa perché, subito dopo, la sua mano
scivolò da quella di Ianto e
richiuse gli occhi lasciando ciondolare la testa. I macchinari attorno
a lei
cominciarono a suonare. In poco tempo la stanza si riempì di
infermieri e Ianto
venne cacciato fuori.
“Non
so come farla mangiare!” sbottò Ianto non
appena Jack ebbe varcato la soglia del suo appartamento.
Il Capitano guardò in direzione della bambina, seduta a
tavola davanti a un
piatto di pasta che non aveva ancora toccato. Teneva i gomiti puntati
sul
tavolo, lo sguardo basso. Era già denutrita di suo e
rifiutarsi di mangiare non
era proprio il massimo.
“Perché
non vuoi mangiare, tesoro?” le chiese Jack
sedendosi davanti a lei.
“Mangerò
quando la mia mamma sarà qui”.
Il
Capitano lanciò un’occhiata a Ianto che gli
rispose con una scrollata di spalle.
“La
tua mamma non tornerà più”.
“Certo
che tornerà. Lei torna sempre”.
Era
meglio usare un’altra tattica.
“Hai
mai guardato le stelle?”
“Sì,
io e la mamma certe notti ci distendevamo fuori
e le guardavamo. Lei mi raccontava delle favole, sulle stelle e sugli
altri
pianeti”.
“E’
per questo che l’ha chiamata Stella, credo”,
aggiunse Ianto rivolto a Jack. “A Catherina piaceva indagare
sull’universo e
osservare i pianeti”.
“Tu
non avevi un telescopio?” chiese il Capitano al
ragazzo.
Il
ragazzo si chiese che cosa mai Jack volesse, ma poi
capì. E non poté che sorridere a quella idea.
Corse in camera sua e tornò con
in mano un grosso oggetto a forma di cilindro, piuttosto lungo, e lo
montò su
un piedistallo, vicino alla finestra aperta.
“Vieni
con me, Stella”, disse Jack, prendendo per
mano la bambina. Lei lo seguì docile. La mise davanti al
telescopio e le disse
di guardare.
Lei poggiò l’occhio e rimase lì per
qualche secondo. Poi si staccò e guardò i
due uomini con gli occhi spalancati e la bocca aperta, come se avesse
appena
visto Babbo Natale con le renne.
“Che
cos’è?” chiese.
“E’
la luna”, le spiegò Jack.
“Ma
è così grande”.
“Certo,
è grandissima. Anche se non come la Terra. E
ora guarda qua”. Puntò il telescopio da
un’altra parte e la bambina guardò di
nuovo.
“Quella
che stai guardando è Venere, il bellissimo
pianeta di Venere. E ce ne sono tantissimi, di pianeti come quelli,
anzi, anche
più belli. E scommetto che la tua mamma è
lassù da qualche parte. Forse sulla
Luna o forse su Venere. O magari si sta nascondendo tra le stelle. Ma
ti sta
guardando e sta vegliando su di te e tra un po’ di tempo
anche tu potrai
raggiungerla. Devi solo avere pazienza e aspettare”.
Ora
Stella stava piangendo. Aveva capito quello che
Jack le voleva dire e non poteva più fermare le lacrime.
“Ma io cosa faccio finché
aspetto?” chiese tra i singhiozzi.
“Tu,
intanto, potresti mangiare. Così diventi grande
e forte e la tua mamma, quando ti vede, sarà
contenta”.
Stella
corse immediatamente al suo piatto di pasta e
Jack la seguì.
Ianto, invece, rimase indietro, guardando i due che parlavano. Forse
non
sarebbe stata così dura come pensava. Anzi, forse sarebbe
stato meraviglioso.
Aveva
messo Stella a letto e ora si apprestava anche
lui per andare a dormire. La bambina sarebbe stata triste per ancora un
po’ di
tempo, avrebbe sentito la mancanza della madre, era chiaro,
però col tempo si
sarebbe ripresa. Ne era certo. Era meravigliosa, piena di speranze, di
sogni.
Andò
in salotto per spegnere il televisore, quando
vide, sul tavolino, un disegno che aveva fatto la sua bambina. Lo prese
in mano
e lo
guardò attentamente. C’era un uomo,
un uomo alto, magro, con un completo marrone e la cravatta, i capelli
spettinati. E accanto a lui una cabina, una cabina azzurra, con scritto
sopra
polizia.
Nient’altro, solo l’uomo e la cabina.
Era un disegno particolare, strano forse. Però carino.
Non
rimase a pensarci molto. Spense la luce e
raggiunse Jack in camera da letto.
Papà,
tu ce l’hai una scatola blu?
MILLY’S
SPACE
Non
ho idea di come mi sia venuta questa Idea, però mi
è
venuta e non ho potuto fare a meno di condividerla con voi ^^
Spero vi piaccia.
Non è nulla di pretenzioso, semplicemente vuole essere
malinconica e dolce,
esattamente ciò che è… sono
praticamente una fan di Torchwood così come lo sono
del Doctor Who e se andate nella mia pagina troverete altre fanfic (su
Doctor
Who non ho ancora pubblicato niente, ma presto arriverà
qualcosa).
Ora, ditemi che ne pensate. Può anche essere una critica,
basta che mi diciate
qualcosa : )
E
ricordatevi: Geronimooooooooooo!!! XD
Bacioni,
millyray.