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Autore: Dira_    16/06/2013    15 recensioni
Sono trascorsi cinque anni da quando Al, Tom e Lily hanno messo fine alla vicenda terribile che ha segnato la loro adolescenza. Grazie al mondo fuori da Hogwarts sembrano essersi lasciato tutto alle spalle. Chi è un promettente tirocinante, chi si è dedicato alla ricerca e chi, incredibilmente, studia.
Un'indagine trans-continentale, il ritorno di un vecchio, complicato amico e una nuova minaccia per il Mondo Magico li porteranno ad affrontare questioni irrisolte.
"Perchè quando succede qualcosa ci siete sempre di mezzo voi tre?"
Crescere, per un Potter-Weasley, vuol dire anche questo.
[Seguito di Ab Umbra Lumen]
Genere: Azione, Introspettivo, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Albus Severus Potter, James Sirius Potter, Lily Luna Potter, Nuovo personaggio, Scorpius Malfoy
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nuova generazione
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Doppelgaenger's Saga'
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Say it's true
Or everything that matters breaks in two
(Another Hearts Call, The All American Rejects)
 
8 Luglio 2028
Devonshire, Il Mulino.
Mattina.

 
Svegliarsi stordita, quasi un Battitore avesse deciso nottetempo che la sua testa era un ottimo Bolide, non era mai un modo glorioso per salutare il nuovo giorno e Lily lo sapeva, ma cosa poteva farci?
Togliendosi le coperte estive di dosso ciabattò fino in bagno senza avere il coraggio di guardarsi allo specchio, non prima di essersi gettata una manata piena di acqua gelida sul viso.
Ugh. No, sembro ancora un orchetto tolkeniano.
Dal piano di sotto sentì i genitori muoversi, far colazione e chiacchierare nel modo rilassato e complice di sempre e questo la rimise un po’ in pace con l’universo.
Un altro incubo. Come diavolo si fa ad avere due incubi in due giorni? Cos’è, un trend?
Per questo aveva ripreso a vedere la Patil non solo per motivi strettamente professionali. La strega le aveva fatto sviscerare il problema, ne avevano parlato ed erano giunte ad una serie di conclusioni.
È l’effetto rimbalzo dell’attacco al San Mungo. È il periodo di stress che sto attraversando nella mia vita personale. È anche l’arrivo di Ren. Per farla semplice.
La materia era sempre la stessa: lei che veniva immobilizzata da John Doe, afferrata e gettata attraverso lo specchio. Razionalmente sapeva che era improbabile che l’uomo, per quanto redivivo e calcante il suolo britannico, si interessasse di nuovo a lei …
Ma questo non mi impedisce di avere i nervi a fior di pelle ogni volta che sono sola e qualcuno mi arriva alle spalle. Yay.
Non se la sentiva però di biasimare Ren per averglielo confidato la sera del compleanno di Sy.
Aveva bisogno di parlarne … e quel bastardo ha fatto più danni a lui che a me. In confronto con la sottoscritta è stato un simpaticone, tentativo di omicidio a parte.
“Buongiorno tesoro.” La salutò sua madre quando entrò in cucina. “Dormito bene?”
“Sissignora.” Mentì con disinvoltura, scivolando sulla sedia e rubando l’ultima frittella di mele al padre che le zuccherò il caffè per poi passarglielo: quando non doveva trangugiare la colazione per scappare in ufficio era un piccolo rito che non le faceva mancare. Lo ringraziò con un sorriso, perché quel giorno le era più necessario che mai.
“Hai sentito Jamie?” Le chiese quest’ultimo. “Come se la stanno cavando lui e Teddy con la faccenda di Ben?”
Si strinse nelle spalle: quasi a voler dimostrare come le disgrazie non arrivavano mai sole, in quei giorni avevano scoperto che Ted, tramite una serie improbabile di circostanze coinvolgenti Mannari e Centauri, si era trovato ad avere una famiglia … salvo per poi perderla quasi tutta.
Ed io che mi lamento per due incubi…
Scosse la testa. “Non ne ho idea. Jam mi ha chiesto di girare a largo per il momento … Teddy è ancora piuttosto fuori fase e non vuole gente attorno.”
“Sì, lo ha detto anche a me.” Suo padre annuì con aria dispiaciuta, ma non aggiunse altro, riprendendo a fissare pensieroso le siepi oltre la finestra: se c’era qualcuno che poteva capire Teddy era proprio lui.

“Se avranno bisogno di noi sapranno dove trovarci.” Argomentò tranquilla sua madre, stringendo la mano del marito oltre la tavola. Lily li vide scambiarsi uno sguardo e subito dopo la linea tesa delle spalle di suo padre si sciolse visibilmente.
Eccolo qua, l’amore.
Lo pensò con un sorriso e fu quel pensiero positivo che le diede la forza di fare una domanda la cui risposta, era certa, non le sarebbe piaciuta. “Come va il caso dei ragazzi?”
Suo padre esitò un momento prima di rispondere ma poi, sotto lo sguardo congiunto suo e di sua madre, fu costretto a capitolare. “Sono ad un punto di stallo, di nuovo. Hanno trovato un posto dove sembra essere stato John Doe … ma era pulito come una sala chirurgica.”
Ah. E allora Ren perché mi ha detto di essere occupatissimo? Non lo è!

Le aveva mentito. “Capito.” Si controllò, salvo poi scappare in bagno e sbattersi la porta dietro per scrollarsi il nervoso di dosso.
Brutto deficiente!
Era ufficiale: la stava evitando.
Ma perché? Che gli ho fatto?  
Era dalla serata del San Mungo che qualcosa non andava.  
Quale diavolo è il problema? Viene qui e dice che vuole vedermi, che vuole portare la nostra amicizia ad un nuovo livello e poi … mi molla?
L’unico modo per avere delle risposte, decise, era lanciare un sasso e vedere cosa colpiva. Digitò un messaggio sul cellulare mentre metteva piede nel camino masticando a mezza bocca un saluto ai genitori. “Stasera non ci sono per cena.” Li avvertì.
“Esci con Scott?” Chiese sua madre mentre obbligava il marito a rimaner per cucirgli un bottone dell’uniforme.
Li perde sempre. Come diavolo fa?
“No, stasera ha la sua uscita settimanale con i ragazzi della squadra di rugby. Adora fare il Babbano.” Scrollò le spalle. “Esco con Ren.”
Anche se ancora il suddetto non lo sa.

 
‘Buongiorno Ren! Stasera sono libera … ti va di goderti un po’ di Londra notturna?’
 
****
 
Londra, Diagon Alley. Il Paiolo Magico.
 
“Buongiorno principino, c’è posta per te!”
Sören fu accolto dalla voce strascicata del proprio compagno di stanza, straordinariamente in piedi vista l’ora. Stava giocherellando con il suo smartphone – chissà perché poi li chiamavano intelligenti, se erano complicati in maniera infernale – mentre fumava droga altrettanto poco magica.

Son giorni che questo posto puzza di quella roba.
“Ridammelo. La posta è privata per antonomasia.” Argomentò asciugandosi il sudore con l’asciugamano che l’altro gli lanciò dopo averlo recuperato da un cassetto. L’attività fisica, come sempre, era il rifugio perfetto per i pensieri nefasti e infatti, ogni mattina che Merlino metteva in terra, indossava una maglietta lisa dei tempi dell’Accademia e si gettava sull’asfalto londinese.
Così riesco a dormire.
La crisi non era rientrata, ma poteva esser gestita. Stancarsi, dormire e concentrarsi sul lavoro era il metodo migliore di allontanare ogni fonte di stress. Non il più efficace, ma l’unico che al momento a cui riuscisse a pensare.
Notò poi come l’altro si aggirasse per la stanza a piedi nudi e con addosso solo un paio di pantaloni slacciati. “Sai bene che non gradisco che tu porti persone qua dentro…”
“Non mi sono scopato nessuno sul tuo letto, rilassati.” Gli rispose lanciandoglielo. “Ho solo caldo e ah … sì, sono fatto.”
“Anche sulla droga…”
“Ehi, io ti dico come devi rilassarti? No, non mi pare.” Ribatté con insolita asprezza. “Non sei l’unico ad avere problemi al mondo.”
“ … Lo so.” Convenne sentendosi improvvisamente di troppo in una stanza che, ad onor del vero, pagava lui. L’altro aveva serrato le braccia al petto tendendo le labbra in una linea dura, ostile.  

Che cos’ha?
In quei giorni l’aveva incrociato a malapena, con il caso che continuava a girare a vuoto e la sua routine di allenamenti massacranti.
E l’unica volta in cui abbiamo parlato gli ho chiesto di Johannes e me la sono presa perché non ha saputo darmi informazioni utili.
“Milo…” Iniziò incerto. Non si era mai interessato dei problemi delle persone alle sue dipendenze, e anche con il Magonò che aveva davanti si era sempre limitato a dare più che ricevere confessioni.
Però Milo era tutto fuorché dipendente qualunque; non gli obbediva mai, faceva di testa sua e continuava ad impicciarsi della sua vita privata, specialmente quando non era richiesto.
Come fa Lily. Come fa Dionis, ed Estevez. Come farebbe un amico.
“Va tutto…”
“Non vuoi leggere il messaggio?” Lo interruppe mentre l’espressione tesa veniva cancellata dal consueto sogghigno sornione. “Perché credo dovresti.”
Sören, troppo sorpreso per quel repentino cambio d’umore, obbedì schiacciando l’icona colorata che gli ricordava la busta di una lettera sullo schermo. Ed inspirò. “È Lily.” Fece una pausa mentre l’altro spegneva lo spinello strisciandolo lungo il davanzale della finestra. “Vuole uscire, stasera.”
“Grandioso!”
“No, non direi.” Mormorò posando il cellulare sul comodino. “Vado a farmi una doccia. Devo passare al San Mungo.”

“Perché?”
“Indagini.” Mentì. I Guaritori inglesi avevano avuto il via libera da parte del Ministero Americano a prelevare campioni di sangue e tessuto dal suo braccio: cercare di non sentirsi una cavia da laboratorio era stato piuttosto difficile.

“Allora potresti approfittarne per far colazione con Zenzero! Non studia là?”
“Non è il ca…”

Ehi.” Lo bloccò spazientito. “Ti rendi conto, sì, che prima o poi realizzerà che la stai evitando?” Fece una pausa drammatica e mimò l’uso di un paio di forbici. “Ti taglierà le palle. Zac zac.”
Suo malgrado deglutì. “Le ho detto che sono occupato.”
“Lavori con suo fratello, genio, e l’orario di ufficio è uguale per tutti. Comunque, il tempo per un caffè si trova sempre. Se le rifili un bidone devi avere una scusa valida.”  

Non posso uscire con lei.” Perché diavolo l’altro non capiva? Eppure credeva di esser stato chiaro quando una settimana prima si erano ritrovati a dividere una bottiglia alla locanda.  
“Non farla tanto lunga.” Milo lo guardò quasi con simpatia. O divertimento sadico. Non riusciva a mai a distinguere le due emozioni se erano dipinte sulla sua faccia. “Non sei il primo caso di due di picche della storia.”

“Non usare parole incomprensibili.”
“Sto solo dicendo che se vuoi rimanergli amico…”
“Lo voglio.”
Almeno questo.

“ … ecco, se vuoi continuare ad averla attorno, sai … devi permetterle di starti attorno.”
Aveva ragione. Era questa, forse, la cosa peggiore.
Voglio vederla, ma non in queste condizioni. Non con il rischio di aggrapparmi a lei perché non so dove altro andare.   
Lily, con la sua amicizia pura e disinteressata, lo aveva liberato dalla schiavitù mentale che gli aveva imposto suo zio ed era proprio quello il problema; se c’era qualcosa che la terapia magica gli aveva insegnato, era che scivolare da una dipendenza emotiva all’altra era facilissimo nella sua condizione, specie quando il terreno gli cedeva sotto i piedi come in quel momento. Non poteva rischiare di trasformare l’amore che provava per Lily nel desiderio di renderla la sua personale Salvatrice.
Assolutamente no.
Si sedette sul letto, guardandosi le mani e sentendosi come al solito lento, confuso e arrabbiato. Perché per gli altri era tutto così naturale, semplice mentre per lui assumeva le dimensioni di una montagna insormontabile?
Sei sempre in difetto. Sempre.
Si strofinò le palpebre mentre sentiva l’altro muoversi per la stanza e dal rumore intuì che gli stava preparando il the. Doveva tenere le mani occupate, perché sentiva il braccio formicolargli e non era mai un buon segno. Prese quindi a giocherellare con l’anello di famiglia, passandoselo tra le dita e pulendolo con un veloce incantesimo dalla patina dovuta all’ossidazione.
“Non è scomodo portarlo sempre al dito?” Lo sorprese Milo, accovacciato davanti al fuoco mentre gettava una manciata di foglie di the nel bollitore. “Io lo detestavo, non lo portavo mai.”
Sören non fu sorpreso alla notizia che l’altro proveniva da una famiglia nobile. Lo aveva sempre sospettato. “È una tradizione…” Rispose, grato per quella interruzione. “Come tutte le tradizioni, finisce per diventare un’abitudine. E l’abitudine spesso è fonte di conforto.” Strinse tra le dita l’argento caldo, familiare. “A chi altri l’hai visto fare?”

Non credo frequenti altri maghi in possesso di un sigillo nobiliare, a parte me.
Milo scosse la testa. “A nessuno.” Si alzò, stiracchiandosi. “Allora … Zenzero.” Tornò in riga, spietato. “Cosa le risponderai?”
“È complicato.” Mormorò. “Non so cosa fare…”
“Già.” Gli porse la tazza fumante con un sorriso storto. Aveva imparato come quello fosse il suo sorriso più autentico e in qualche modo lo faceva sempre sembrare … rassegnato.  “Benvenuto nel magico mondo delle persone normali.”


****
 
Londra, San Mungo. Mattina.
 
Ted varcò l’ingresso del San Mungo per la quinta volta in quei cinque giorni e come ogni volta venne aggredito dal forte odore di erba medica e Pozioni Disinfettanti.
Mentre le porte dell’ascensore si chiudeva dietro di lui non poté fare a meno di controllare lo Specchio Magico: nessun messaggio. Flynn non era ancora riuscita a trovare notizie sulla famiglia di Lunastorta.
(Faceva meno male se non ricordava come l’uomo che gli era morto tra le braccia avesse diritto al titolo di ‘fratello’. Solo un po’.)
Si staccò dalla parete dell’ascensore quando le porte si aprirono sul Reparto Ferite da Creature Magiche.
Che ipocrisia …
Era il reparto in cui avevano ritenuto opportuno portare Ben e Ted, in quella notte febbrile, non aveva avuto la forza di combattere contro quell’ennesimo, sciocco pregiudizio magico.
Se è un Mannaro, va’ dove vengono trattati i Mannari.
Arrivò alla stanza che per quei cinque giorni era diventata una seconda casa e salutò con cenno della testa la magi-infermiera che vi era stata assegnata; a giudicare da come stava uscendo con un carrello ricco di bricchi e da cui si spandeva un delizioso odore di pane caldo doveva aver appena consegnato la colazione.
Ted sperò che quel giorno fosse partito con un piede diverso.
“Ha mangiato qualcosa?”  
Quella scosse la testa dispiaciuta. “Mi dispiace Signor Lupin, non che non abbia provato, ma temo … temo che non capisca neppure ciò che dico.”
“Lo capisce.” Le assicurò d’istinto, anche se da quel che ne sapeva poteva benissimo esser vero il contrario. “È solo…”

“Spaventata.” Terminò per lui con un sorriso simpatetico e Ted, ancora una volta, si trovò nell’imbarazzante posizione di doversi ricordare che Ben era sì un nome da maschietto, ma apparentemente era stato dato …
Ad una bambina.
Scoprirlo era stata un fulmine a ciel sereno: quando l’aveva presa in braccio nella grotta, sentendo tra le dita i capelli corti, sporchi e arruffati aveva fatto due più due … deducendo tre.
Solo dopo un viaggio a rotta di collo verso il San Mungo e dopo una mezz’ora angosciante in sala d’attesa, dove James aveva dovuto minacciarlo un paio di volte di Impastoiarlo se non si fosse seduto, avevano scoperto la sconcertante verità.
 
“ … con le dovute cure si riprenderà nel giro di una settimana. La luna piena non ha reso le cose semplici … è stata una fortuna, siete arrivati in tempo.” Aveva spiegato il Guaritore.
“Completamente?” Aveva chiesto sentendo la mano di James posarsi sulla spalla. Avrebbe dovuto fargli una statua d’oro come cianciava nei suoi deliri d’onnipotenza, finita quella storia. Sul serio. “Completamente.” Gli era stato assicurato. “Al di là della Licantropia è una bambina sana.”
… eh?
James aveva fatto un suono a metà tra l’esclamazione e il pronunciare un’oscenità. Poi aveva parlato lentamente, come faceva quando pensava di non afferrar bene un concetto. “Non abbiamo capito bene … cioè, io non ho capito bene … Ha detto bambina?”
Il Guaritore era sembrato confuso. “Sì…?”
“Ne è sicuro?” Gli aveva dato manforte e agli occhi dell’uomo erano dovuti sembrare due idioti, tutti occhi, bocche spalancate e nel suo caso, anche capelli arancioni. “Si chiama … si
chiamerebbe Ben.”
Il mago aveva realizzato di colpo il punto della faccenda, perché aveva sorriso divertito. “Sarà anche … ma ragazzi, sono sicuro, quella che ho curato è una bambina.”
 
Sorpresa…
I Mannari erano una società a base patriarcale, dove la nascita di un maschio era tenuta in maggiore considerazione rispetto a quella di una femmina; forse Lunastorta le aveva tagliato i capelli e l’aveva vestita da maschietto nel tentativo di farla accettare dal branco.
Qualunque fosse il motivo per cui l’uomo aveva camuffato sua figlia ormai non aveva più importanza.
L’importante è cercare di farla parlare, di aiutarla a farci capire da dove viene e se ha un posto in cui tornare.
… È proprio questo il problema.
Perché Ben non parlava.
Sentì un nodo allo stomaco quando entrò nella stanza, vuota di persone ad eccezione del fagottino di coperte nell’ultimo letto.  
“Ciao Ben.” Salutò gentilmente avvicinandosi e prendendo la sedia su cui ormai aveva messo radici. “Ho incrociato l’infermiera e mi ha detto che non hai voluto far colazione. È vero?”
Nessuna risposta, ma non si diede per vinto. Posò invece  i gomiti sulle ginocchia per avvicinarsi al letto. “Quella colazione aveva un ottimo profumo e scommetto anche un buon sapore … Sei proprio sicura di non volerne mangiare un boccone?”
Niente.
Sospirò, passandosi una mano trai capelli: la bambina, oltre lo shock e lo spaesamento, non si fidava di loro.
Non si fida di me.
Faceva male, ma poteva capirlo. Ben doveva aver vissuto sin dall’infanzia ai margini di una società che la discriminava, e che doveva aver trattato con disprezzo il padre o entrambi i genitori. Per quanto fosse piccola non poteva non essersi già fatta un’idea di come girava il mondo.
E quell’idea non depone a favore di noi maghi…
“Lo so che questo posto non ti piace… ma ancora non stai bene e dovrai star qui per un po’.” Le spiegò perché sapeva che lo stava ascoltando e lo capiva. Doveva. “C’è qualcuno che vorresti con te? La tua mamma?”
Ormai ripeteva sempre le stesse cose. Levò la mano per toccarle i capelli, un ammasso arruffato che nessuno era riuscito a toccare: l’unica volta in cui la magi-infermiera aveva provato a portarla a fare il bagno c’erano stati strilli e pianti talmente acuti che a detta della povera donna si erano sentiti fino al Quinto Piano.
Hanno dovuto farla addormentare per le spugnature…
Vedendo le spalle della bambina irrigidirsi si ritrasse; come tutti i Mannari, percepiva l’ambiente attorno a sé con estrema precisione.
E non vuole che la tocchi.
Si sentiva frustrato e impotente. Neppure tutta la sua gentilezza e le sue parole rassicuranti servivano a penetrare il bozzolo in cui si era rinchiusa la creaturina che gli stava affianco.
Si alzò in piedi non riuscendo a rimanere oltre senza aver voglia di prendere a calci qualcosa. Qualcuno. Chiunque. Se stesso. “Facciamo così… Vado a prenderti un po’ di latte e biscotti.” Propose. “Deciderai tu quando mangiarli, okay?”
Allontanandosi lungo il corridoio quasi non si accorse che qualcuno lo stava chiamando. Poi si sentì afferrare per il retro della camicia senza troppe cerimonie.
Ma che…
“Buongiorno! Perso nei tuoi pensieri?”
Vedere la piccola e pestifera Lily, che aveva passato sette anni a sopportare l’uniforme, indossare un camice e un paio di zoccoli ortopedici come se fossero una seconda pelle era sempre un po’ straniante. “Ciao.” Salutò impacciato. “Non ti avevo sentita arrivare.”
La ragazza, che teneva per mano una donna che realizzò essere la madre di Neville, scosse la testa con aria dolente. “Fa sempre piacere essere invisibile ai propri amici d’infanzia ed ex-babysitter.”
“Scusami.” Sorrise capendo che la battuta voleva esser distensiva. “Come mai al Primo piano?”

“Io e Alice ci stiamo facendo una passeggiata.” Spiegò sorridendo alla donna, occupatissima a giocherellare con i lacci della propria vestaglia. “Siamo andate a prenderci una fetta di torta al quinto piano, ma poi non avevamo voglia di tornare subito, vero?” Si rivolse alla strega, che con sua sorpresa fissò lo sguardo in quello della ragazza e annuì.
Credevo fosse catatonica …
“Sì, quando la Gazzetta parla di progressi nella Psicomagia per una volta non esagera.” Lo lesse Lily, sorridendo del suo palpabile impaccio. “Mi ritengo offesa, professore … dovrebbe interessarsi della carriera di una tua vecchia studentessa!”
“Lo sai che sono bravo solo con cose che strisciano negli anfratti più oscuri della foresta.”

“Mmh … sexy.” Chiocciò allegra. Poi occhieggiò alle sue spalle, verso la stanza di Ben. “Come sta?”
“Stabile…”
“ … sì, molto chiaro. Sarebbe?”
Ovviamente, una volta calmate le acque, era stato doveroso mettere a parte Il Clan degli sviluppi di quella faccenda.
In realtà è bastato che James dicesse a Ron il motivo per cui si era assentato dal lavoro.
Dopo l’iniziale chiasso dovuto alla notizia, li aveva pregati di aspettare dato che la situazione familiare della bambina non era ancora chiara: l’ultima cosa che voleva per Ben, al momento, era una massa di teste più o meno rosse pronta ad intervenire con pareri, consigli, idee e cibo.
E fin’ora son stati bravissimi…
Ma data la presenza di Lily e il fatto che si fosse inventata una bugia poco credibile sulla sua presenza al piano, sembrava che la tregua fosse finita.
“Sarebbe che non ci sono novità.”
“Sai… potrei darti una mano.”

Ecco, appunto.
Non che non apprezzasse l’offerta, ma si sentiva in dovere di proteggere Ben dalla curiosità altrui; persino da quella ben intenzionata del clan che gli aveva fatto da seconda famiglia.
“Grazie, ma…”
Teddy.” Lo fermò guardandolo come un ragazzino un po’ tardo. Era stranamente convincente. “Non mi voglio impicciare nei tuoi affari … cioè, in realtà sì.” Si corresse allegramente. “Ma lo faccio perché sono … o diventerò, comunque … una Psicomaga. Posso aiutarti sul serio.”

Capitolò perché aveva davvero bisogno di una mano. Come zio di Ben poteva tener lontani i servizi sociali del Ministero, ma non a lungo, e se non si fossero trovati altri congiunti le cose si sarebbe complicate.
“Non so cosa fare.” Confessò passandosi le dita trai capelli. “Non parla … Ci vuole un incantesimo che la sedi per farla mangiare.” Doveva evitare assolutamente che il groppo alla gola avesse la meglio, soprattutto davanti ad una ragazza che considerava come una sorellina minore. “Non si fida di nessuno, e non riusciamo a trovare sua madre.”
“Wow.” Mormorò Lily, e le fu grato per non cercare di rassicurarlo. “Okay. Devo chiedere un parere, ma …” Parve riflettere per qualche instante poi annuì. “Penso di poterti aiutare.”
 
****
 
America, Boston. Ufficio SAGITTA.
 
Gli mancava Sören.
Non era una cosa virile da ammettere, Rico se ne rendeva conto, tuttavia pensarlo non era piagnucolarlo di fronte ad birra, quindi supponeva andasse bene.
La scrivania di fronte a lui era vuota e non vedere il collega riordinarla ogni giorno e guardare la sua con indignazione era straniante. Sì, gli mancava quel rigoroso rompiscatole che mangiava solo insalata e non capiva una battuta di spirito manco se gli ballava nuda davanti.
Era preoccupato; Prince gli aveva scritto solo una volta da quando era partito, una cartolina, e solo perché gli aveva fatto promettere di spedirla.
Il giorno della partenza sembrava aver voglia di vomitarsi la colazione sulle scarpe.
Non era l’unico a chiedersi come se la stesse passando, però. Era accaduto più di una volta che il Sergente Gillespie – che sembrava detestare il crucco più di chiunque altro in ufficio, eccetto forse Murphy – venisse alla sua scrivania a chiedergli notizie con la scusa di strigliarlo per qualche infrazione.
Secondo Milo, Ama lo detesta come una bambina di cinque anni spingerebbe giù dall’altalena il ragazzino che le piace.
Pensavo fosse una cavolata, ma…
Dalla sera in cui aveva visto il collega riaccompagnare la ragazza a casa aveva cominciato a chiedersi se il biondo non avesse invece ragione.
Quando udì dei passi avvicinarsi si chinò rapido sulla macchina da scrivere, dove stava finendo di redigere un rapporto. Con sua enorme sorpresa vide il Capitano Gillespie incedere tra le scrivanie, seguita da nientemeno che Ethan Scott.
Non è il bastardo che ha incastrato Prince nell’intera faccenda inglese?
Era lui e aveva la solita, insopportabile, aria compiaciuta stampata in faccia.
Perché è qui?
… Ovvio. Per parlare di Prince.  
E a giudicare dall’aria tempestosa del proprio capo le notizie non dovevano essere buone.
Rico non ci mise che qualche attimo per decidere il da farsi. Fu così che due minuti d’orologio dopo aveva l’orecchio incollato alla porta dell’ufficio del proprio capitano con un incantesimo SuperSensore in corso. Non poteva vedere attraverso le veneziane tirate ma poteva ascoltare. Tentò di concentrarsi e per poco non strozzò quando sentì una mano afferrarlo per il retro dell’uniforme.
“Cosa diavolo credi di fare, Estevez?” Lo apostrofò la voce polare di Ama Gillespie.

Rico si sarebbe Maledetto da solo: avrebbe dovuto controllare di non esser stato seguito prima di attuare il suo proposito. “Ehm…” Cercò di radunare le idee e alla fine optò per la brutale verità, sperando che Milo non si fosse sbagliato. “Origlio il Capitano mentre parla con l’uomo che ha spedito l’agente Prince in Inghilterra?”
La ragazza lo fissò anodina, prima di spintonarlo di lato senza troppe cerimonie. Rico nascose un sorriso e si mise in ascolto.

 
“… autorizzare un mio agente ad essere trattato come una cavia!”
“Calmati Nora, non è quello che faranno al San Mungo.”
“Leggo oltre i giri di parole sulla carta stampata, Ethan. Sei stato tu ad autorizzare la ‘messa a disposizione della bacchetta in possesso dell’agente Prince’. La bacchetta è parte di lui. Dovranno operarlo. Sarà invasivo, e non gli è stato neppure chiesto …”
“Cosa, il permesso? Sembra che tu sia scordata che Sören è proprietà del Ministero americano.”

Cosa?

Rico sgranò gli occhi ed intercettò lo sguardo di Ama che a sua differenza non appariva sorpresa dalla rivelazione.
Lo sa? Beh, è il nostro sergente, ma…
“Che significa?” Chiese sottovoce, ma l’altra gli fece cenno di far silenzio.
 
“L’agente Prince è una persona, non un oggetto!”
“Certo.” La voce del funzionario ricordò a Rico un serpente che danzava attorno alla preda prima di colpirla a morte. “Peccato che ai fini della sua riabilitazione non faccia testo. Conosci gli accordi … non può disporre di se stesso come ogni onesto mago americano.”
“Non ancora.” Il tono del Capitano era sferzante e Rico, oltre la confusione, si trovò orgoglioso di servire una strega che non si tirava indietro quando doveva difendere i propri sottoposti. “Questo caso proverà al Dipartimento che ha il diritto ad esser considerato un membro della nostra società.”
“Mi sembra ovvio, dunque … è nel suo interesse assecondare le richieste del San Mungo.” Il tono prese una sfumatura divertita. “Eseguiranno una banale biopsia e un prelievo del sangue … Non lasciare che il tuo istinto materno abbia la meglio sulla ragione.”

Rico sentì un tonfo provenire dalla stanza ed immaginò che la strega si fosse alzata di scatto dalla sedia. Si scambiò un’occhiata sorpresa con il sergente; il Capitano poteva essere una donna  passionale, ma non impulsiva.
L’ha fatta proprio uscire fuori dai gangheri!
“Scoprirò cos’hai in mente, Scott.” Stava mormorando ma Rico percepì quelle parole come il ruggito di una fiera. “Ma sappi questo. Se stai cercando di infangare uno dei miei ragazzi dovrai prima passare sul mio cadavere.”
“Nora, stai esagerando. Al di là delle nostre schermaglie dovrai riconoscere che  serviamo la stessa causa e gli stessi ideali.”
“No, non credo.” Si sentì scostare una sedia. “Fuori di qui.”

 
Credo di essermi un po’ innamorato.
Si sentì di nuovo afferrare per il colletto dell’uniforme e tirare indietro; Ama lo fece nascondere appena in tempo, perché Ethan Scott aprì la porta e uscì fuori. Neppure un momento dopo udirono la voce della donna. “Sergente Gillespie, agente Estevez … una parola.”
Ma come cavolo ha fatto?!

Ama assunse un’aria tra l’irritato e il bastonato che fece ricordare a Rico come, in effetti, fossero coetanei. Sembrava una bambina colta a divorare una torta di mele non destinata a lei.
Entrarono dentro con il passo di due scolari indisciplinati e furono accolti da un’aria esasperata, ma non furiosa.
Buon segno?
“Prima che possiate chiedermelo, non occupo questo posto solo perché ho quasi il doppio dei vostri anni. I vostri incantesimi sono rumorosi come spari.”
“Capitano…” Doveva chiederlo. Sapeva che non erano affari suoi – anche se certo, si stava parlando del ragazzo che divideva la scrivania con lui - ma doveva togliersi quella pulce dall’orecchio. “… che significa che l’agente Prince non è un mago libero?”
La strega fece un sospiro, accomodandosi di nuovo dietro la scrivania. “È un’informazione riservata, agente … no, Rico.” L’uso del suo nome di battesimo lo stralunò. Gli venne sorriso. “Ma immagino che questo non vi fermerebbe dal farvi ulteriori domande.”
“Perché quel funzionario ce l’ha con l’agente Prince?” Domandò Ama. “È evidente che ha un risentimento personale nei suoi confronti.”
“Non verso Sören, ma verso di me. Si può dire che glielo abbia soffiato sotto il naso. Ed Ethan Scott non ha mai saputo perdere.”
“Prince è stato incriminato?” La cosa era sconcertante su un sacco di livelli ma aveva senso: la riservatezza che lo contraddistingueva, il non parlare mai della sua vita nel vecchio continente e la mancanza totale di informazioni o di spiragli sul suo passato. Sören aveva fatto qualcosa in Europa per cui ne pagava tutt’ora le conseguenze.

Come restrizioni alla libertà … Non può manco decidere cosa fare del proprio corpo e della propria bacchetta. Gente come Scott decide per lui.
Il capitano gli scoccò un’occhiata. “Finito questo caso l’agente Prince tornerà.” Esordì pacata. “E tornerete a lavorare assieme. Siete una buona squadra e mi rincrescerebbe se le cose dovessero cambiare…” Lo fermò prima che potesse obbiettare. “Voglio solo essere sicura che tu sia in grado di giudicarlo per chi è adesso, e non per chi è stato in passato. Perché, come avete potuto ascoltare, non tutti ci riescono.”
Rico notò come Ama si era tesa alla frase, ma decise di glissare. Del resto gli era appena stata fatta una domanda. “Per me non cambia niente Capitano. Sören è e rimane il mio partner.” Rispose senza esitazioni.  

Il capitano gli sorrise. “Bene. Perché nel SAGITTA non abbandoniamo i nostri compagni.”
“Mai.” Le fece eco Ama e fu certo di non esserselo immaginato; negli occhi del sergente si era appena formata una decisione.
 
****
 
Londra, Diagon Alley.
Laboratorio di Bacchette Stevens.

 
“Campione di nucleo di bacchetta per voi, Signor Apprendista!”
La voce di Albus lo sorprese quanto la manata leggera che diede al filo delle sue cuffie. Tom alzò lo sguardo e si trovò davanti una boccetta delle dimensioni di un mignolo con dentro un filo argentato che si avvolgeva a spirale attorno a sé stesso.

Eccola.
“Proviene dalla bacchetta…”
“ … di Sören, sì.” Confermò Al, che a quanto pare quel giorno provava diletto nel finire le frasi al posto suo.
Stevens, che doveva averlo fatto entrare, abbandonò il lavoro per avvicinarsi. “È il ragazzo la cui bacchetta dobbiamo studiare, giusto?”

“Prince, sì.” Confermò: qualche giorno prima lui e l’Artigiano erano andati al San Mungo di persona, per quanto l’uomo poco gradisse avventurarsi fuori dal suo laboratorio. La curiosità verso quella faccenda era stata però maggiore.
Quello Smethwyck è sgradevole come racconta Al. Pareva quasi ci facesse un favore, a chiederci un consulto.
Al passò la provetta all’artigiano e poi si sedette sul ciglio del tavolo da lavoro, mordicchiandosi il labbro. “Le analisi del sangue non hanno evidenziato nulla …  Così stamattina l’abbiamo fatto tornare per una biopsia al braccio. Bisogna capire in cosa è diversa la sua bacchetta. Perché le altre non hanno protetto i loro padroni.” Ricordò qualcosa di colpo. “Ah, e poi nei prossimi giorni dovrebbe arrivarvi un bel po’ di pergamena dall’America…” Si voltò verso di lui. “Riguarda il braccialetto di controllo magico che ha al polso.”  
Fantastico. Nuove invenzioni che avrò tutto il tempo di studiare senza ficcanaso a chiedermi cosa sto facendo e perché ritardo nelle consegne.
È per il bene comune, dopotutto.
Il suo entusiasmo si rifletteva sul volto di Stevens. “Faremo il possibile.”
E non vediamo l’ora.
“Ricordatevi anche di lavorare, tra una ricerca ed un’altra … Non vorrei davvero che Brooke vi soffiasse tutti i clienti.” Sospirò Al lanciando loro un’occhiata paziente.

Stevens, come lui, non parve turbato dalla prospettiva. Non a caso era il suo mentore. “Vado a prepararti un the, Al.”
“Ti ringrazio Rupert, ma sto andando via.” Lo fermò alzandosi. “Sono passato solo per fare la consegna.”

Quando l’uomo se ne fu andato però non diede cenno di voler prendere la porta, scivolandogli invece sulle ginocchia e passandogli le braccia attorno al collo. “Cosa?” Gli chiese perplesso. “Avevi detto che dovevi andartene.”
“Sempre carino.” Mugugnò strofinandogli il naso sulla guancia. “Forse ho cinque minuti di margine e li voglio passare con te?” Quando Al cercava il contatto fisico a quell’ora, di fronte ad altri e senza dar avvisaglie, di solito era sintomo di qualche malessere interiore. Chiederglielo però senza un’adeguata mediazione l’avrebbe solo fatto irritare.

Non posso non aver secondo fini Tom?
No.
Se lo strinse contro per baciarlo a lungo, disciplinando la libido per non far sfociare la cosa in altro, che comunque avevano spettatori, per quanto con sensi offuscati.
Ed io ho del lavoro da fare.
Lottando contro l’impazienza si sforzò di essere gentile. “Al, che succede?”
L’altro fece un mugugno poco contento. “È Sören … L’ho incrociato quando hanno terminato gli esami. Non ti preoccupa?”
“Dovrebbe?” Strinse la presa passandogli le dita lungo la spina dorsale finché non lo sentì sciogliersi contro rilassato. “Cos’ha fatto?”
“Niente in realtà. È solo che ha l’aria di una persona … beh, che non sta bene. Credo che tutta questa faccenda lo stia logorando.” Fece una pausa. “E Lils non sapeva che sarebbe venuto in ospedale.”
“O ve la sareste trovata trai piedi.”
“Già. Mi sa che hai ragione, la sta evitando.”

E questi sono affari nostri perché …?
Non lo disse però. L’ultima cosa di cui aveva voglia era di litigare con l’altro per via di Prince. Avrebbe avuto del ridicolo. “Avresti dato un braccio per questa eventualità … e adesso vuoi che interagiscano?” Obbiettò razionale. “Non capisco.”
“Non voglio che interagiscano.” Lo corresse poco convinto. “È che mi dispiace.”
“Per lui?” Domandò sorpreso. Albus era una persona empatica, capace di soffrire terribilmente se le persone che amava avevano qualche cruccio.
Ma per le persone che non considera non perde notti di sonno. Da quanto si è affezionato a Prince?
“È che siete più simili di quanto pensi.” Disse staccandosi per guardarlo speculativo. Non c’era niente da fare, quando gli piantava addosso quei suoi enormi occhi verdi si sentiva sempre in dovere di provargli qualcosa.
Che me lo merito, forse.
Patetico.
“In che senso?” Capitolò. “A parte avere i capelli neri.”
“Scemo…” Sorrise. Gli premette un dito sullo sterno, nel punto che molti dei suoi detrattori pensavano avesse vuoto. “Vi tenete dentro tutto quello e pensate che non si noti. Invece si nota, eccome.”
Tu lo noti. Non presupporre che l’intero universo sia in grado di decifrarmi.” Borbottò infastidito. “Altro?”

“Non avete un briciolo di auto-ironia e vi credete culturalmente migliori di metà della popolazione magica.”
“Ma io lo sono. E si dice culturalmente superiori.
Al roteò gli occhi al cielo. “Giusto. Anche lui ha il tuo stesso brutto vizio … corregge le persone. Ha quasi mandato ai pazzi Jamie.”

“James è una capra. Il desiderio di correggere le bestialità che gli escono dalla bocca è comprensibile.”
Al gli rifilò uno schiaffo sulla spalla. “Sören rimane comunque più educato e gentile di te.” Soggiunse tentando di non ridere.
“Questa rivelazione non mi farà dormire la notte.” Lo pizzicò di rimando sul fianco, facendolo sussultare oltraggiato. “Non mi ami perché sono educato e gentile.”
“No, proprio per niente.” Convenne massaggiandosi il punto dolorante. “Lo so, abbiamo già fatto questo discorso … ma vorrei che ci provassi sul serio, a parlargli. A parte Lily, che evita, e quel Magonò, non credo abbia degli amici qui.”
Tom non poté fare a meno di guardarlo perplesso. “E dovrebbe considerare me suo amico? Solo perché siamo cugini?” Sospirò. “Al, renditi conto che…”
“Va bene.” Lo fermò spazientito alzandosi dalle sue ginocchia. Era ridicolo, stavano litigando per Sören Prince. “Sto solo dicendo che ormai questa faccenda ci ha collegati tutti … nel bene e nel male. Forse … forse ho pensato che fosse un’opportunità per avvicinarvi. Nessuno di voi due brilla per avere una cerchia sociale ampia.”
“E quindi? A me va benissimo così.” Replicò stizzito. Non riusciva a capire perché Al si fosse tanto impuntato sul far diventare lui e Prince amici per la pelle.

Non quando non vuole che si avvicini a sua sorella.
Perché due pesi e due misure?
Al si morse un labbro, afferrando la tracolla e passandosela sopra la testa. “Ti ricordi quando mi hai detto che avresti potuto essere tu?” Chiosò sibillino.
No, non se lo ricordava. “Essere io cosa?”
“Sören. Avresti potuto essere come lui. Se Coleridge non ti avesse rapito e portato qui in Inghilterra … se papà non ti avesse trovato…” Buttò fuori e quella rivelazione sembrava nuova anche alle sue stesse orecchie perché lo guardò incerto. “Avresti…”
“Sarei stato io il suo braccio destro.” Realizzò e la rivelazione lo colpì come uno Schiantesimo infuriato.

Prince ha preso il posto che avrebbe dovuto essere mio. Von Hohenheim ha ripiegato su di lui perché credeva di avermi perso. La bacchetta avrebbe potuto essere nel mio braccio.
Al esitò, forse intuendo cosa gli passava per la mente. “Non sto dicendo…”
“Lo so che non è colpa mia quello che mio padre gli ha fatto.” Tagliò corto, frustrato. Non lo era, ma ormai una serie di obblighi irritanti si stavano formando nella sua testa. Non sarebbe servito a niente scacciarli o tentare di razionalizzarli. Sarebbero rimasti. “Comunque io non sarei stato così manipolabile … A ruoli invertiti, Lily non avrebbe potuto fare granché per tirarmi dalla parte giusta.”
“Che c’entra Lily?” Sorrise l’altro, dandogli un calcetto sulla gamba. “Ci avrei pensato io.”  

Tom gli passò un braccio attorno alla vita e premette il viso contro la stoffa della sua discutibile maglietta dei Chudleys. “Certo che ci avresti pensato tu…”
Il cuore di Al batteva calmo e regolare, metronomo stesso di ogni sua notte, mentre gli passava le dita trai capelli.

Metronomo della mia vita.
“Ti ricordi dove alloggia?” Se ne sarebbe pentito, ne era sicuro. Non avrebbe saputo cosa dire e avrebbe finito per rinunciarvi.
Ciononostante, doveva almeno provare.
 
We'd never know what's wrong without the pain
Sometimes the hardest thing and the right thing are just the same
 
 
****
 
San Mungo, Pomeriggio.
 
James entrò nel padiglione Thickey con la speranza di trovarci sua sorella, ma a dirla tutta fu sorpreso quando ce la trovò davvero.
Non dovrebbe avere delle vacanze?
Albie quando era una matricola a Luglio se ne stava in giro per il mondo a studiare robe puzzolenti, non certo qui.

La sorella minore invece stava chiacchierando amabile con un tizio biondo con una vezzosa vestaglia a fiori e non sembrava aver voglia di partire per nessun luogo esotico. Avvicinandosi notò come stessero passandosi delle carte della grandezza di tarocchi per Divinazione, solo con figure come fiori o oggetti.
Lily sentendolo arrivare si voltò e gli sorrise. “Ehi Jamie!” Si rivolse poi al paziente. “Gilderoy, questo è mio fratello James … mi pare di avertene parlato qualche volta.”
Qualche volta?

“Ohi, guarda che hai solo due frate…” Iniziò ma fu tacitato da un’occhiataccia dell’altra.
Cosa?
Capì il sottointeso quando il mago aggrottò la fronte pensieroso. “Temo, mia cara … di non rico…” Balbettò incerto, una persona opposta a quella che gli era sembrato all’entrata.
“Rosso.” Disse apparentemente senza senso Lily, ma l’uomo parve trovarci qualcosa di sensato perché si illuminò.
Rosso, leone, Pluffa e alba!” Recitò come una filastrocca. “Tuo fratello James, è stato a Grifondoro, giocava come Cercatore ed è un Auror!”  Concluse trionfante.
Lily applaudì. “Ottimo Gilderoy!” Gli comunicò allegra, tendendosi oltre il tavolo per stringergli le mani. “Oltre Ogni Previsione!”
“Uh … interrompo qualcosa?” Si sentì in dovere di inserirsi. Dopotutto stavano parlando di lui!
“No, abbiamo finito … Gilderoy, ti dispiace mettere a posto le carte e aspettarmi? James deve parlarmi.”
Aagh, odio quando fa la LeNa!

Dopo che si furono congedati, Lily gli rifilò un sorrisetto saputello: era la sua adorata sorellina, ma quando faceva quella faccetta si sarebbe meritata uno scappellotto. “Guarda che non sto usando i miei poteri …” Cinguettò compiaciuta. “Ti fai vedere qua, dopo orario di lavoro e hai l’aria di uno che ha un gran bisogno di una chiacchierata. È semplice buonsenso.”
“Sei insopportabile lo stesso.” Sbuffò facendola ridacchiare. Era la prima volta che metteva piede nella sala ricreativa del padiglione e doveva ammettere che era accogliente, con tutti quei disegni infantili, fiori disposti ovunque e arredamento allegro e colorato. “C’è un macello di roba.” Osservò prendendo in mano quello che aveva tutta l’aria di essere un’innaffiatoio, infilato in uno scaffale insieme ad una serie di bambole e un vecchio giradischi.
“Beh, è un po’ il punto della faccenda. Dovevi vedere com’era prima che arrivasse la Patil, era tutto bianco. Queste persone hanno bisogno di stimoli, non di una specie di limbo.” Lily gli fece cenno di seguirla, accomodandosi su un divano giallo canarino dall’aria sfondata e comodissima. “Hanno tutti aiutato a decorare.”
“I disegni li hanno fatti loro?” James staccò dal muro un foglio con una buona dose di tempere e dita. “Non dei bambini?”

Lily scosse la testa. “Alcuni di loro praticamente lo sono.”
“Tipo i genitori di Nev?”
“Tipo.” Il volto si aprì in un sorriso entusiasta, come capitava quando parlava dei suoi pazienti. “C’è questa terapia, che viene usata interpretando delle terapie neuro-cognitive Babbane … e funziona. Sai, il cervello è diviso in aree, e incantesimi come la Cruciatus nella maggior parte dei casi danneggiano solo il lobo frontale, ma lasciano intatti i restanti. Se si esercita…”
“Lils, non ci capisco un accidente … ma sembra grandioso, sul serio.” Replicò divertito: era strano sentirla parlare con tanta competenza di qualcosa che non fossero vestiti o scarpe.

Sarebbe stato strano cinque anni fa.
Cioè, è sempre stata un sacco sveglia, ma della roba da cervelloni se n’è sempre fregata.
Sua sorella era una persona diversa adesso. Era bello e insieme un po’ triste constatarlo.
“Certo che è grandioso.” Constatò calciando via gli zoccoli ortopedici e raggomitolandosi sul bracciolo; quel posto la metteva a suo agio, lo si capiva da come ci si muoveva dentro.
Come se si sentisse … al sicuro. 
Forse è per questo che non vuole andare in vacanza?
Qualunque fosse il motivo purtroppo non aveva il tempo di indagare. “Volevo parlarti di quel che hai detto a Teddy oggi…”
Lily annuì. “Che posso darvi una mano con Ben, sì.” Prese una pausa, afferrando un cuscino dietro la schiena e cominciando a sgranarne le frange. Gli lanciò un’occhiata e sbuffò. “Non io, ovvio … sono una studentessa. Pensavo alla Patil.”
“Ma lei si occupa…” Si morse il labbro appena in tempo. “… di persone con danni al cervello, no?”

“Non si occupa solo dei matti.” Lo freddò irritata. Assieme alla McGrannit, la tizia era l’unica strega con cui Lily non andasse in conflitto, guai quindi ad insultarla. “È una Psicomaga, e gli Psicomaghi lavorano anche con chi ha subito traumi emotivi.”
“Okay, scusa.” Borbottò velocemente. “È vero, non parla e non mangia.”

Ed era la cosa peggiore di tutte, forse, perché significava che non voleva neanche provare a stabilire un contatto con loro.
Teddy ci sta da cani. Tonto com’è, penserà che è colpa sua …  
“Pensi che non abbia mai imparato? Dico, a parlare.” Chiese, perché voleva disperatamente avere qualcosa su cui intervenire, da combattere invece che fissare impotente un piccolo bozzolo di coperte ostile.
Lily esitò, poi scosse la testa. “Non lo so, Jamie … Però presupponiamo che sia vissuta nella società magica, anche se ai suoi margini. E suo padre sapeva parlare. I bambini imparano dall’ambiente che li circonda … a meno che non sia stata davvero cresciuta dai lupi, credo proprio ne sia capace.”
James tirò un sospiro di sollievo. Quella era una buona notizia. “Quando pensi che la Patil possa venire a darle un’occhiata?”
“Le parlerò domani.” Rispose. “Tiene un ciclo di seminari in Svizzera in questo periodo e oggi non era a Londra…” Fece un gesto vago della mano. “Ha lasciato a noi studenti il solito giro di visite.”
“Anche le terapie?” Spiò con naturalezza e l’altra ci cascò con tutte le scarpe.
“No, le terapie oggi non erano previ…” Si bloccò, guardandolo male. “… Cosa?”
“Perché sei qui Lils? Il giro di visite è la mattina.” Indicò Gilderoy che stava finendo di mettere via le carte. “Scommetto che stasera non dovevi aiutarlo.”

L’altra si strinse le braccia al petto, in  posa difensiva. “E quindi? Sono comunque cose che devo tenermi a mente anche se sono finiti gli esami. La Patil mi riempie di domande ogni giorno che Merlino mette in terra!”
“Ehi, stavo solo chiedendo!” Si difese. “È carino qui, non fraintendermi … ma passare tutto il giorno a lavorare?” Le tirò una ciocca di capelli dispettoso. “Che ne hai fatto di mia sorella?”

Lily ridacchiò, schiaffeggiandogli via la mano. “Mi piace stare qui.” Gli assicurò. “Non è lo stesso per te quando indossi l’uniforme?”
“Quando non devo seguire dei casi del cazzo come quello di adesso, sicuro.”  

Ma io non ci pianto le tende nell’ufficio Auror.
Non glielo fece notare però: sua sorella sapeva che se avesse avuto bisogno di un orecchio avrebbe sempre avuto il suo.  Si alzò in piedi. “Okay.” Disse in tono definitivo. “È tutto … grazie per avermi fatto approfittare di te.”
“Ehi, sfruttare le rispettive conoscenze è retaggio Potter.” Ghignò facendolo ridere. “Senti…” Il sorriso le si spense sulle labbra intuì che era una domanda seria. “ … come sta Ren?”

Eccerto. Non è una vera chiacchierata con Lils se quel Prince non spunta fuori.
“Come vuoi che stia? È il solito rompicoglioni.” Mentì con una scrollata di spalle. Il pipistrello poteva non andargli a genio, ma non avrebbe spifferato i suoi problemi. “Non siete culo e camicia? Perché non glielo chiedi di persona?”
Lily lo guardò a lungo, sembrò accorgersi di qualcosa – che aveva mentito? Diavolo, era sicuro – e sospirò. “Sì.” Aveva l’aria un filino inquietante quando serrò le labbra e fissò il cuscino che aveva in grembo. Con uno sguardo simile avrebbe potuto tranquillamente fargli prendere fuoco. Erano maghi: non era scontato che non succedesse. “Lo farò.”
 
****
 
Diagon Alley, Paiolo Magico.
Ora di Cena.

 
Prendere in prestito Sally da Albus, indossare uno dei suoi vestiti più carini e appuntarsi i capelli per non farli svolazzare ovunque erano tre cose in apparenza banali, ma sommate assieme davano il piano perfetto; Lily parcheggiò il motorino di fronte all’entrata del Paiolo Magico e dopo essersi sfilata il casco senza che i capelli accusassero il colpo – adorava l’incantesimo PiegaPerfetta – premette i giusti mattoni ed aspettò che l’entrata le si palesasse davanti.
Vengo a prenderti, Ren.
All’interno intercettò Milo, seduto al bancone mentre chiacchierava con il proprietario. “Zenzero!” La salutò. Da come stava mettendo dell’arrosto e un boccale di birra su un vassoio doveva stare per servire la cena a Sören. “Qual buon vento ti porta in questo angusto quarto di mondo?”
“Indovina.” Ironizzò. “Il tuo amico si è scordato come si usa un cellulare Babbano?”
“Non ha mai imparato, è negato.” Si strinse nelle spalle. “Dai, che ha combinato?”
“A parte inventarsi scuse patetiche su improbabili impegni serali?” Replicò facendolo ridacchiare: come si aspettava, il biondo era perfettamente a conoscenza dell’intera faccenda.
E a quanto pare, tifa per me.
“È di sopra. La cena gliela porti tu?” Chiese infatti porgendogliela. “Sei una cameriera molto più carina del sottoscritto.” Si guardò e sbuffò. “Nah, scherzavo. Sono più bello io.”
“No, non credo.” Gli rispose per le rime e si sorrisero.

Tra simili ci si riconosce.
“Sicuro che non disturbo?” Chiese, perché un intervento forzato come quello aveva comunque bisogno di qualche rassicurazione.
Milo alzò le spalle. “Disturbi solo l’eterno rimuginare di un Goethe con la bacchetta. Ti prego, salvami dal trascorrerci una serata assieme!”
Lily sbuffò divertita, dandogli una pacchetta sul braccio solido. “Grazie.” Alla sua aria perplessa aggiunse. “Per prenderti cura di lui. Stai facendo un gran lavoro.”
Qualcuno dovrebbe riconoscerglielo.
Poté quasi calcolare la testardaggine con cui l’altro si impose di non arrossire. “È solo un lavoro.” Ribatté un po’ fiaccamente. Prima che potesse andarsene però la richiamò. “Zenzero, ehi.” E il tono era serio, come l’accento più denso segnalava disagio. “Vacci piano con lui, okay?”
Si sentì in dovere di rispondere con altrettanta serietà. “Sto facendo del mio meglio.”
Salì le scale sentendosi il cuore in gola e quando bussò era ormai convinta di aver fatto mortale cazzata.
Ma ehi, altrimenti non sarei io.
Non ebbe neanche il tempo di ripensarci, che Sören aprì la porta. Senza maglietta.
Oh, addominali.
Distogliendo riluttante lo sguardo dal fisico asciutto e definito che aveva davanti – e chiedendo perdono a Scott un paio di volte – gli rivolse un sorriso a trentadue denti. “Servizio in camera!” Trillò con tutta l’allegria di cui era capace. “Anche se lasciatelo dire, la cucina qui lascia piuttosto a desiderare.”
“Lilian…” Non stava aiutando il fatto che la stesse squadrando come un Babbano avrebbe guardato ad un fantasma.
Decise di andarci già pesante per scuoterlo dal torpore. “Apri sempre senza maglietta? Perché adesso capisco perché ho dovuto fare a botte con tre cameriere per prendere questo vassoio.”
Prevedibilmente, timido com’era, Sören avvampò fino alla radice dei capelli e incrociò le braccia al petto.

Come se avesse qualcosa da nascondere … Certo, dovrebbe mettere un po’ di carne, oltre che muscoli su quelle ossa, direbbe nonna…
Ma io
non sono mia nonna.
Non riusciva a prenderlo in giro quando aveva quell’aria così sconvolta. “Ren, rilassati, stavo scherzando.” Gli mise il vassoio in mano. “Volevo farti una sorpresa.”
“Ci sei riuscita.” Disse brusco, contemplando l’arrosto come se potesse contenervi la formula per l’Elisir di lunga vita. “Che ci fai qui?”

Wow. Complimenti per il tatto.
Si rifiutò di sentirsi ferita, perché sapeva che quando veniva preso all’angolo, si irrigidiva e diventava piuttosto antipatico. “Avevo voglia di vederti.” Si strinse nelle spalle. “E per inciso, sei un bugiardo.”
“Lily, non…”
“Straordinari al lavoro? Per favore.” Tenere la collera a bada non era facile quando molte delle ferite che l’altro gli aveva inflitto erano ancora in via di guarigione. “Se non ti va di vedermi basta dirlo.”
“Mi va di vederti!” Esclamò e sembrava arrabbiato quanto lei. “Non è questo!”

“Allora cos’è?”
Un muro di silenzio accolse la sua risposta. Poi Sören sospirò, facendole cenno di aspettare mentre andava a mettere via la cena. Quando ritornò aveva indossato una camicia ma sembrava ancora sulle spine. “Vuoi entrare?” Le chiese.
“No, voglio farti uscire.” Replicò. “Sei a Londra da quanto, un mese? Quanto hai visto della città … dell’Inghilterra? Quest’estate pare quasi vera, il tempo è decente! E tu non esci.” Non aspettò che ribattesse. “Rinchiuderti dentro una stanza polverosa non ti aiuterà a star meglio.”
“Non sto male.”
“Raccontalo a qualcun altro.” Magari stava calcando troppo la mano e stava esagerando. Ma non era la sua terapeuta.

Sono sua amica. Non sono tenuta ad attenermi alle regole.
“Mi hai detto che volevi che diventassimo amici non solo su carta.” Cercò il suo sguardo, ma non riuscì a trovarlo dato che lo teneva piantato a terra. “Lo intendevi sul serio o…” Cercò di mantenere il tono fermo, ma le uscì tremolante. “… o stavi soltanto cercando di spegnere i sensi di colpa?”
L’altro alzò gli occhi di scatto e fu il solito, discreto, pugno allo stomaco. Non si sarebbe mai abituata. “Non è senso di colpa, non è mai stato un senso di colpa.” C’erano così tante emozioni che stava trattenendo che per lei sarebbe stato semplicissimo entrare.
Non si sta neanche Occludendo.
… No.
Il suo potere non era qualcosa a cui potesse ricorrere ogni qual volta le cose si facevano confuse.  
“Parlami.” Gli afferrò una mano e gliela strinse. “Non posso e non voglio frugarti dentro la testa.” Alla sua espressione sorpresa, sorrise. “Non è così che funziona quando ci si fida di qualcuno. Ed io mi fido di te. Non tagliarmi fuori, per favore.”
Gioca la carta dell’onestà, Lily. Vediamo se non torna indietro a morderti il sedere.
Sören le strinse di colpo la mano, con forza, senza dosare. Le fece un po’ male, ma lo ignorò perché era una risposta. Era un .“Non usi il tuo potere su di me … per questo?”
Lo guardò sorpresa. “Per cos’altro? Non voglio scoprire cose di te che non vuoi dirmi. Di nessuno in realtà. Hai idea di che disastro sarebbe? È un po’ la regola aurea di ogni Legimante Naturale.”
Sören le sorrise. Avrebbe dovuto farlo di più, perché era la sua espressione migliore. “Non accetterai un no come risposta, immagino.”
“Immagini bene.”
“Mi dai un paio di minuti? Non credo di essere presentabile.”

“Con quest’aria stropicciata sei sexy, ma lungi da me darti consigli sul look.” Motteggiò godendosi l’ennesimo, tenerissimo, rossore. Forse era sbagliato, ma imbarazzarlo era terribilmente divertente. “Anche se quella giacca di pelle da cattivo ragazzo che hai indossato al compleanno di Sy…”
“Lily, vai.” E il fatto che stesse sbuffando era un segno distensivo. Lily si sarebbe battuta un cinque da sola, ma non aveva più quindici anni.

Però ho vinto. Ah!
“Ti aspetto giù!”
Scese le scale molto più leggera di quando le aveva salite.
 
Non aveva potuto dire di no. Non era riuscito a dire di no perché Lily era Lilian, la sua Lilian e non aveva mai tentato di leggerlo perché si fidava di lui. Si era fatto delle paranoie inutili: Lily non aveva scoperto niente su cosa provasse davvero perché voleva comportarsi semplicemente come una persona normale, una persona che a domanda riceveva risposta. Non lo aveva letto per riguardo, non perché non voleva saperne niente di lui.
Sei un idiota.
Un idiota perdutamente innamorato, gli ricordò la sua sadica coscienza mentre scendeva le scale con lo stupido giubbotto di pelle e con i capelli che gli finivano sugli occhi.
“Oh, guarda un po’ chi ha un appuntamento stasera.” Gli fece Milo, seduto al bancone con la consueta pinta di birra da un lato e uno spinello acceso tra le dita. “E mi hai dato finalmente retta su quella tua orrida leccata di mucca! Alziamo dunque i lieti calici e libiamo!”   
“Non ho un appuntamento.” Dovette ricordargli per ricordarsene lui stesso. “Lilian vuole solo farmi vedere Londra di notte.”  
“I capelli ti stanno bene, smettila di torturarli con le dita.” Fu la risposta. “Vedi amico mio?” Fece un cenno al barista che annuì comprensivo, come il ruolo imponeva. “Il bambino diventa grande.”
“Sei un idiota.” Lo salutò prima di imboccare l’uscita.

Lily lo stava aspettando ed era bellissima, con i capelli raccolti e le gambe affusolate racchiuse nella stoffa colorata di un vestito estivo. Era seduta sopra quello che riconobbe come essere il motorino di Albus: se lo ricordava da una foto. “Ren, ci metto meno tempo io a prepararmi!” Motteggiò porgendogli il casco. “Andiamo, che la notte è giovane!”
Lo indossò, scavalcando il sellino e sedendosi dietro obbediente quando gli venne fatto cenno.

“Hai la patente?”
“Mago di poca fede.” Replicò voltandosi per abbassargli la visiera. “Noi Potter abbiamo la guida sicura e spericolata nel sangue!”
“Sicura e spericolata non dovrebbero stare nella stessa frase, in teoria…”
“Tu dici?” Il sorriso maniacale con Lily lo inquietò un poco. Molto. Ma allo stesso tempo la testa leggera gli impediva di preoccuparsi.

Era proprio un cretino. Ma aveva sentito dire che gli stupidi vivevano felici e per ora gli bastava questo: non erano briciole quelle che gli dava Lily, mai. Era la sua amicizia. E bastava.
Almeno per una sera.
 
 
Aveva fatto bene a portar fuori Sören.
Il motorino di Al era sfrecciato ligio sull’asfalto della City, in un caos multicolore di suoni, luci e notte e l’amico vi si era rilassato: occhieggiando lo specchietto retrovisore l’aveva visto bersi ogni sua spiegazione sui luoghi che aveva visto, vissuto e visitato appena uscita da Hogwarts con la libertà che le scorreva nelle vene.

Goditela un po’ anche tu, Ren.
La prova era il fatto che dall’afferrare distaccato le maniglie ai lati del sellino, aveva finito per tenerle le mani sui fianchi. Le aveva sempre calde.  
“Ehi, qua. Qui è perfetto!” Lily si sedette sul pontile di cemento e sassi del Camden’s Lock; da sotto il grande salice accanto alla chiusa si aveva una visuale suggestiva delle luci sul canale, mentre la marea vitale e rigurgitante del quartiere si muoveva senza per questo disturbare i pensieri. “Tagliava la vita come una lama e al tempo stesso ne rimaneva al di fuori, spettatrice.” Recitò indicando l’ambiente attorno a loro. “Camden mi fa sempre venire in mente questa frase, ma morissi se mi ricordo di chi è…”
“È di Virgina Woolf.” Le rispose pronto.
“Giusto! La Signora Dalloway!”
La Signora Dalloway disse che i fiori sarebbe andati a comprarli lei…” Recitò Sören divertito. Lui e Scott erano gli unici con cui potesse parlare di libri senza sentirsi un cagnetto che compiva un gioco di prestigio.    

Le si sedette poi accanto, stringendo tra le dita il bicchiere di plastica pieno di lager che aveva preso ad un vicino chiosco per non lasciarle bere da sola. In quel momento sembrava un ventenne qualunque, con la frangia spettinata dal vento e la sigaretta accesa tra le labbra.
Ho vinto. Di nuovo.
Era una bella vittoria, perché faceva vincere anche l’altro. “Allora … Londra di notte.” Esordì giocherellando con l’ombrellino che ornava il suo bicchiere. “Cosa ne pensi?”
“È bella.” Si voltò per guardarla. “Ti si addice.”
Immaginava che essere lusingata fosse del tutto naturale. Cercò di non darlo troppo a vedere. Quello, e il rossore che le era salito al viso. “Stupido perdersela per un mese, eh?”

“Molto.”
Lily avrebbe voluto fermarsi lì. Quella era la serata di Sören, non la sua o dei suoi problemi. Ma non ci riusciva. L’atmosfera rilassata le fece uscire le parole di bocca senza che potesse frenarle.
“Continuo ad avere quegli incubi.” 
L’amico distolse lo sguardo da una coppia al di là del fiume, intenta a chiacchierare e seduta sulle sponde come loro. “Quanto spesso?” Il tono era tranquillo, ma da come fece Evanescere la sigaretta capì che il momento distensivo era appena finito.
Scusami. Scusami tanto.
“Tutti i giorni? No, in realtà non sempre … ma spesso.” Si girò il bicchiere tra le dita, ascoltando distratta le note di una canzone provenire dalle porte aperte di un pub poco distante. “Sto vedendo la Patil, di nuovo … aiuta, però … non lo so.”
 
Well I woke up to the sound of silence and cries were cutting like knives in a fist fight
And I found you with a bottle of wine
Your head in the curtains and heart like the Fourth of July
 
 
Sono una stupida … Perché ho rovinato le cose?
Quella serata avrebbe dovuto essere priva di problemi, solo risate e compagnia, ma se Sören aveva bisogno di lei per staccare la spina …
Io ho bisogno di lui. Solo lui può capirmi.
“Pensavo di essere andata oltre.” Rivolse lo sguardo sotto di sé, alle acque scure e piene di riflessi di luci del Regent’s Canal. Sentendo freddo – era un estate quasi mediterranea ma erano comunque in Inghilterra – si strinse le braccia al petto.“A quanto pare mi sbagliavo.”
Sören non disse niente per un bel pezzo, poi lo sentì muoversi accanto a lei. Non fu sorpresa – era così da Ren - quando le fece scivolare il suo giubbotto sulle spalle. Conservava parte del suo calore e dovette frenare i lucciconi.
Queste cose mi commuovono a morte.
“Lilian, mi occuperò di questo. Te lo prometto.”
Aveva un’espressione determinata, come un soldato con un obbiettivo. La stessa espressione di suo padre nelle foto che lo ritraevano adolescente, quando ancora Voldemort era una minaccia.
Sorrise appena. “Lo so che lo farai … Sei un tipo tosto.”
“Non credo.”
“Lo sei.” Ribadì. “Guardati … Cinque anni fa ti saresti mai immaginato così?”

Qualcosa di indecifrabile – argh, lei e la sua stupida promessa di non guardargli dentro! – passò negli occhi dell’altro. “No.” Rispose piano. “No, non direi.”
Si stava chiudendo di nuovo in sé stesso. Era quindi il momento di mettere in atto l’ultima parte del suo piano. Magari era un’idea stupida, ingenua, ma se avesse funzionato…
Se funziona, se mi dà retta … Potremo davvero aiutarci a vicenda. Non saranno solo chiacchiere.
“Come fai a non avere paura?” Gli chiese. “Come fai a controllare questa cosa?”
Sören si strinse nelle spalle con un sorrisetto amaro. “Mi alleno. Mi stanco finché non ho più un filo di energia in corpo. Tengo la mente occupata.”

“Potresti insegnarmelo?”
Se un Ippogrifo si fosse messo a danzare il tip-tap di fronte a loro l’altro non sarebbe sembrato così sconvolto. “Cosa, ad allenarti?”
Lily frenò una risatina trai denti. “Non quella roba massacrante che fai tu … Penso non arriverei viva al giorno dopo. Vai spesso all’Accademia di Duello però. Me l’ha detto Dion.”
Aggrottò le sopracciglia. “Vuoi che ti insegni a duellare?”
Lily si strinse nelle spalle. “Forse.” Ammise. “A difendermi. Perché se qualcuno mi prendesse alle spalle…”
Come ha fatto John Doe.
“…  non saprei da che parte iniziare per salvarmi la vita. Anche con una bacchetta in mano. E ci ho pensato … questo mi spaventa.” Inspirò perché non era mai semplice dire la verità. “Quando ero al San Mungo e l’agente Flannery è entrato … se non foste arrivati voi ragazzi, se tu non l’avessi Schiantato via da me … Ero paralizzata, Ren. Avevo una bacchetta e potevo…”
“Avresti potuto esser contagiata.”
“Non è questo il punto, e lo sai.”
Sören annuì e gli fu grata quando non chiese altre spiegazioni. Era quello che avrebbero fatto molti, forse tutti. Non Ren, che rimase in silenzio per quasi un minuto intero, prima di parlare. “Va bene.” Sembrava essersi convinto perché l’intera postura si rilassò. “Posso insegnartelo.”

Lily sorrise: come aveva immaginato quello era il metodo migliore per prendere la Pluffa e trovarsi anche il Boccino tra le mani.
Se mi fossi offerta di aiutarlo non avrei risolto nulla. Deve essere lui ad aiutare me.  È questo che lo fa stare meglio. Non essere aiutato … ma aiutare.
Non era la prima ad averlo capito; Nora Gillespie le aveva dato l’idea. L’aveva reso un agente perché aveva capito il desiderio più intimo, profondo di un ragazzo che dopo aver visto e fatto tanto male voleva disperatamente fare del bene.
È com’è fatto Ren.
Gli posò la testa sulla spalla. “Grazie.”
Le lanciò un’occhiata di traverso e un lieve sorriso ironico gli increspò le labbra. “Aspetta a ringraziarmi. Sarò un insegnante inflessibile.”
“Persino con un’allieva carina come me?”
“Soprattutto.”
Finirono quello che restava delle loro consumazioni guardando in silenzio lo scorrere tumultuoso di vita e risate attorno a loro. Ma era un silenzio buono, di quelli che non andavano riempiti con le parole.
Non aveva mai avuto nessuno come Sören nella sua vita, e ora che stavano ingranando di nuovo non ci sarebbe voluto molto prima che qualcuno le chiedesse la definizione di quel rapporto. La sua famiglia, Scott, i suoi amici…
Io stessa finirò per chiederlo.
Ma per il momento andava bene così.
 
If you're lost and alone or you're sinking like a stone
May your past be the sound of your feet upon the ground
Carry on…
 
 
****
 
 
Note:

Devo far qualcosa per ridurre i capitoli. Me ne rendo conto. Argh.

(No, sul serio, diecimila parole a botta NO.)
Ren e Lily … beh, si muoveranno. Baby steps. Anche se nel loro caso sono i passi di una giraffa ubriaca.
Questa la canzone capitolo. Trovo questo gruppo esageratamente tenero.
Questa invece è tutta colpa della scena Al e Tom, perché i The Fray sono la loro colonna sonora – no, Tom, non metterò nessun gruppo deprimente e non i Joy Division, capisci i bisogni del tuo ragazzo.
Questa invece non può che essere la canzone finale. La volevo usare da eoni. Chiunque abbia tirato fino a tardi con un buon gruppo di amici sa che colonna sonora perfetta è.
 
Camden: si intende Camden Town, zona situata nel Nord di Londra. Spesso viene chiamata semplicemente "Camden", ma non per questo va confusa con l'intero quartiere. Camden Town famosa per l'affollato mercato e come centro di vita degli alternativi. L'area è popolare tra gli studenti, inclusi quelli che vengono da oltremare.
Camden Lock (foto)è una tradizionale doppia chiusa attivabile manualmente, che opera fra due livelli ben separati. Un buon numero di mercati del fine settimana si sono insediati lì attorno fin dagli anni '70. Il Regent’s Canal è invece una via d'acqua che origina dal Paddington Basin e si fa strada attraverso Regent’s Park e verso Camden, prima di piegare a sud per unirsi al Tamigi.
  
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