Storie originali > Horror
Ricorda la storia  |      
Autore: hanabi    18/06/2013    2 recensioni
Niente sesso o romanticismi, ma una semplice storia "gotica" in un'ambientazione che conosco profondamente (Messico) e in una località che esiste realmente (Ixmiquilpan, nello stato di Hidalgo). Laggiù nei tardi anni 50 la scoperta di strani affreschi turba un restauratore, mettendolo di fronte agli inquietanti parallelismi che uniscono passato e presente di quella terra travagliata. Un mio piccolo e personale omaggio alla cultura nahua, colpevolmente trascurata da troppi "dias de la hispanidad". Ma gli antichi dei vivono ancora...
Genere: Mistero, Sovrannaturale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

 

 

 

 

 

13 Ottobre 1959.

Io, Juan Albornoz Villeda, restauratore per conto dell'INAH (Instituto Nacional Arte e Historia), ho cominciato il lavoro di pulizia dell'interno della chiesa e del convento della città di Ixmiquilpan, nella valle del Mezquital (stato di Hidalgo, a nord di Città del Messico).

L'interno della chiesa è stato imbiancato, chissà quando e chissà perché, con uno strato notevole di calce, che ora è sporco e affumicato. Su alcune di queste pareti una mano ottocentesca ha poi dipinto bruttissime scene bibliche, pessimo arredo di questo grande tempio. Ma lo strato di calce si interrompe a livello dell'entrata, dove una crepa provvidenziale ha scoperto degli affreschi sottostanti, molto più antichi. Si possono vedere almeno due metri quadri denudati in maniera maldestra: il parroco, don Alfonso Moreno, non ha saputo resistere alla tentazione di vedere cosa c'era sotto. Grazie a Dio però si è fermato, anche perché sotto la calce non c'erano altre figure bibliche, bensì un giaguaro armato, davanti alla bocca del quale c'era un glifo preispanico. 

Ho fatto montare le impalcature di legno dagli operai. Poi ho preso i miei strumenti ed ho provato la consistenza del decrepito strato di calce. Al primo colpetto si è staccata una porzione di quasi trenta centimetri.

Sotto c'era la figura di un'aquila impennacchiata di piume verdi di quetzal

Ho sentito il cuore battermi forte.

 

 

 

 


 

Il priore dello spartano convento agostiniano, Andrés de Mata, richiuse in silenzio il grande libro in carta amatl, pieno di figure dipinte. Poi studiò l'indio davanti a lui, impassibile come tutti i gli indigeni: una faccia che pareva scolpita nella stessa pietra rossa di cui era fatta la chiesa. Era un uomo di mezz'età, con un gran naso, gli zigomi sporgenti. Portava un mantello annodato sulla spalla, ed un paio di sdruciti calzoni di fibra d'agave: un segno di povertà. Eppure gli abitanti di Ixmiquilpan lo chiamavano con rispetto "Signore".

Chicome-Coatl Tezcatlanextzin, Signor Sette-Serpente (il suo giorno di nascita) Specchio-che-rivela-le-cose. Anche se adesso doveva portare per forza il nome cristiano, Miguel, datogli nel battesimo di massa effettuato nel giorno dedicato al santo.  

Padre Andrés di nuovo guardò il libro sulle sue ginocchia. Le pitture di quell'indio erano notevoli, e del resto non c'era da farsi illusioni, non c'erano artisti civili a disposizione, men che meno in quel paese dimenticato da Dio... doveva accontentarsi.

Annuì al suo intendente, si alzò e con un sorriso rassegnato se ne andò alla sua cella.

Frate Juan de Astorga si fece avanti. Era un uomo insignificante, dalla faccia scavata e l'aspetto malaticcio. Arrivato giovanissimo nella Nuova Spagna al seguito dei conquistadores, aveva appreso rapidamente le lingue locali: adesso era preziosissimo per il suo ordine, perché poteva predicare sia in nàhuatl (la lingua degli aztechi) che in otomì.

Sapeva perfettamente i desideri del suo priore, e sapeva che l'indio davanti a lui era ai suoi ordini: o avrebbe lavorato per i frati, o sarebbe finito nelle miniere d'argento dell'avido comandante locale... era meglio per lui fare il mestiere a cui era stato sempre abituato.

"Sai anche come si dipingono i muri?" gli chiese bruscamente.

"Io sono un tlacuilo, il capo degli artisti."

C'era orgoglio in quella voce, e quasi un pizzico di derisione. Come se il frate gli avesse chiesto se era capace di respirare!

Juan non ci fece caso. Gli fece cenno di alzarsi, andò al leggìo posto accanto alla finestra, sul quale erano posati i tesori del convento: libri di recente fattura, italiani e spagnoli, impreziositi da grottesche ed arabeschi. L'indio gli andò al fianco, guardò la mano del frate che apriva le pesanti copertine, e cominciava a girare le pagine.

"Devi preparare degli affreschi per la chiesa. Dei disegni come questi, che parlino della Sacra Scrittura e del vero Dio. Che insegnino alla gente che il Cristianesimo è la Vera Fede."

L'indio fissava le righe regolari di parole, le figure colorate di un altro mondo: un'espressione stupita si dipinse sulle sue fattezze di pietra. Annuì, pensosamente. Poi, non potendo più resistere, tese una mano bruna verso quei libri così diversi dai suoi. 

Juan istintivamente gli afferrò il polso, fermandolo. 

"Non toccare, Miguel: sono cose troppo preziose per te."

Il tlacuilo spostò lo sguardo sul frate, i suoi occhi brillarono.

"Ti prego, tlamacatzin," disse, usando l'antica parola che indicava i sacerdoti. "Non farò niente di male. Ma devo imparare, altrimenti come posso poi insegnare agli altri?"

Frate Juan esitò, a lungo. Ed alla fine la sua mano lasciò il polso dell'indio.

 

 





 

Non sono riuscito a dormire bene, stanotte. Mi giravo e rigiravo nel letto dell'albergo, sognando la chiesa, gli affreschi, vedendoli coloratissimi, vedendoli animarsi.

Ixmiquilpan sta lasciando il segno dentro di me. E' qualcosa di eccezionale, incredibile, che non avrei mai immaginato di trovare.

Man mano che tolgo lo strato di calce, appare davanti ai miei occhi una scena di guerra, una battaglia cosmica ed eterea, combattuta da guerrieri aztechi armati di spade di ossidiana, vestiti di pelli di giaguaro, di coyote, con perizomi annodati, i lunghi capelli ornati di piume... e queste figure del passato messicano si muovono in un mondo alieno, assurdo per loro, fatto di volute rinascimentali, foglie di acanto, centauri, cariatidi, cornucopie colme di melagrane. In mezzo ai simboli del sogno europeo, i guerrieri del Nuovo Mondo battono i loro tamburi, si cingono la fronte del diadema sacro, portano il bianco stendardo di chi è destinato al sacrificio umano. Davanti alle loro bocche aperte il simbolo della parola si arriccia, quasi danza sull'intonaco: sembra di poter sentire il loro grido di guerra, il loro canto sacro... 

Mi sono svegliato rannicchiato tra le lenzuola, con le mani premute sulle orecchie.

 

 

 





 

"Padre, ha visto? Gli indios stanno dipingendo dei guerrieri della loro razza."

Andrés de Mata sospirò pesantemente, passeggiando assieme al suo interprete nella chiesa, mentre i silenziosi otomì al servizio del tlacuilo preparavano gli splendidi colori.

"Povere creature, non fanno altro che interpretare il nostro mondo attraverso i loro occhi. Non hanno scrittura, sanno solo guardare le figure; e questo che stanno disegnando è un catechismo per il nostro gregge... dobbiamo fare delle concessioni."

"Ma questa è una scena di guerra!"

"E con questo?" Il priore lo guardò in tralice. "Siamo in guerra, contro il male, contro l'eresia, contro Satana. Guarda come ho dovuto progettare la mia chiesa: come una fortezza. C'è sempre il rischio che qualche rivolta dei nativi... o qualche altro ordine religioso pieno d'invidia ci costringa alla difesa. I gesuiti, quegli intriganti, non si fanno chiamare i soldati di Dio?" Guardò i disegni, con un sorriso paterno. "Questo non è altro che il modo di qui di mostrare una guerra santa."

"Ma, padre, le guerre sante di questa gente servivano solo a reperire le vittime per i loro dèi sanguinari!" Juan rabbrividì, ricordando i templi aztechi orribilmente imbrattati di sangue, con le rastrelliere di teschi impalati a sbiancarsi al sole. "Le chiamavano xochiyaòyotl, le Guerre Fiorite. Andavano in guerra per farsi catturare e squartare sugli altari dei loro templi. Noi siamo giunti a mettere fine a questa barbarie... e questi dipinti la glorificano!"

Il priore si fermò, "Fratello Juan, per favore!... Cerca di essere più accomodante." Si volse intorno, sorrise. "Guarda là: la nostra leggenda di Perseo con lo scudo di Medusa. Che importa che abbia in testa un copricapo indigeno, e sia armato con una di queste spade di legno e pietra? E' comunque l'eroe che conosciamo, il bene che trionfa sui mostri simboli del male..."

Juan sentì una strana sensazione, come un brivido. Era sicuro che gli indios li stessero osservando. Si voltò di scatto.

Vide solo teste debitamente chine nel silenzio del lavoro. Cercò con lo sguardo il tlacuilo, Miguel, e lo trovò in un angolo, intento a disegnare. Il priore seguì il suo sguardo, sorrise appena, si diresse verso l'artista e con fare conciliante lo salutò. L'indio si inchinò, in evidente atteggiamento umile.

"Bravo, bravo, continua così," disse il priore in spagnolo, battendogli una mano sulla spalla. L'indio si inchinò ancora, e Andrés de Mata si voltò per andarsene.

Ma Juan esitò a farlo; e quando incontrò di nuovo lo sguardo dell'indio, vide quello strano fuoco nei suoi occhi di ossidiana, quel vaghissimo sorriso sulle sue fattezze di pietra. 

 

 

 




 

 

Il mio amico Jorge Gutierrez è arrivato da Pachuca per scattare alcune fotografie. Ha guardato il lavoro che sto facendo ed ha mandato un fischio, incurante di essere in una chiesa.

"Ma guarda che strano! Motivi rinascimentali europei copiati dai locali! Questo sì che è un bell'ibrido." Mi ha poi presentato un tipo vestito come un ranchero, ma troppo lisciato per esserlo davvero. "Il dottor Evaristo Luviàn Vega, dell'Università Autonoma dell'Hidalgo." E dopo, quando il giovanotto se n'è andato, mi ha sussurrato, ammiccando: "E' un parente del Governatore, non so se mi spiego. Tutte le porte sono aperte per lui. Così non c'è da stupirsi se è il miglior documentarista di questo stato!"

Abbiamo lavorato per tutto il giorno, io con gli affreschi, Jorge con la sua macchina fotografica, l'aitante studioso di Pachuca a prender note e frugare nelle cantine municipali.

Poi siamo andati a mangiare insieme, dalle parti del mercato. Tra un taco e l'altro, Evaristo mi ha raccontato di aver già indagato anche negli archivi della capitale, trovando dei documenti sulla fondazione di questo convento agostiniano. 

"L'hanno costruito sicuramente dopo il 1551, perché il priore, lo stesso Andrés de Mata che ha progettato anche la chiesa di Actopan, è giunto qui in quella data; o almeno così è scritto nella Historia de la Provincia Agustiniana." Ha indicato col pollice alle sue spalle. "Un bel lavoro, vero? Certo, a quei tempi costava poco tirar su un convento così. Non mancava certo la manodopera... ed era anche gratis. In quanto al materiale, non hanno fatto altro che smontare il tempio locale, il teocalli, al posto del quale poi hanno costruito la chiesa."

"Più o meno come hanno fatto a Cholula," ha aggiunto Jorge, con la bocca piena. "Laggiù hanno addirittura costruito la chiesa sopra il vecchio tempio, tanto per ribadire la vittoria del Cristianesimo sulle antiche divinità locali."

"Ed il tempio di qui a quale dio era dedicato?" ho chiesto, stranamente emozionato.

Evaristo ha finito la sua birra ed ha risposto: "Beh, penso che fosse un dio degli aztechi, anche se questa è una zona otomì: la loro dominazione era storia vecchia, come si vede dal fatto che il nome Ixmiquilpan è chiaramente nàhuatl. Nel glifo di questa parola appare un coltello di selce, il tecpatl. E secondo la cosmogonia azteca, questo è il simbolo del dio più misterioso ed intrigante del loro pantheon... l'onnipotente Tezcatlipoca, Specchio Fumante, cioè colui che nasconde le cose." Ci ha guardati, vedendo la nostra espressione perplessa. "La Notte, no?"

 

 

 




 

 

Frate Juan de Astorga camminava nella chiesa, guardandosi intorno nervosamente.

Ma perché il priore non mi ascolta?... Già, lui non può capire. Per lui questi non sono altro che poveri barbari ignoranti, degni solo di compassione. Non ha visto come me la loro splendida capitale, le strade pavimentate, il mercato, i monumenti ed i templi... non ha visto fino in fondo al loro cuore, non conosce tutto l'orgoglio, l'astuzia, la malignità di quel che si ostina a chiamare il suo gregge. 

Si fida ciecamente del pittore indigeno. Un giorno l'ha scoperto in estasi davanti ai libri del convento. Ha visto che tanta emozione era dovuta ad un'immagine di Cristo benedicente, con il suo Sacro Cuore. Allora ha sorriso e mi ha detto: "Vedi la potenza di Dio, fratello? Ha toccato l'anima di questa povera creatura."

E si è convinto sempre di più di questo, vedendo l'indio studiare ogni giorno una nuova immagine sacra: la Vergine col Bambino... angeli e santi... martiri in gloria... persino il simbolo stesso dell'ordine agostiniano: un cuore trafitto da tre frecce.

"Perché guardi sempre queste figure?" gli ha chiesto una volta, attraverso di me.

E l'indio ha alzato gli occhi lucidi, pieni di commozione. "Perché mi hanno mostrato la più grande verità, la potenza di Dio. Ora sono pronto a dare anche la vita per dipingere queste pareti, perché ho compreso che è un compito sacro oltre ogni immaginazione."

Il priore l'ha guardato con un ampio sorriso. "Che bravo cristiano," ha mormorato. 

Si sedette pesantemente su una panca. 

Ma io non ne sono così convinto...

Un lieve fruscio lo fece trasalire.

Credevo di essere solo... chi c'è? 

Alzo gli occhi e sentì un brivido.

Era proprio il tlacuilo, davanti a lui, avvolto nel suo solito, povero mantello. Lo guardava intensamente, come se avesse capito perfettamente i suoi pensieri. 

"Benvenuto, tlamacatzin."

"Perché usi quella maledetta parola?" sbottò Juan, nervosamente, e distolse lo sguardo. "Indica i tuoi sacerdoti, non quelli di Cristo."

"Che differenza c'è? Non servite la stessa Verità Suprema? Compite gli stessi riti, negli stessi luoghi, per gli stessi scopi... e vestite persino nella stessa maniera."

Juan restò senza fiato. Chinò lo sguardo su se stesso. Era vero, portava una veste nera... esattamente come i sacerdoti sanguinari dei Mèxica.

"Prova... prova a ripetere queste cose al priore, se ne hai il coraggio!"

"No, le dico a te. Parli la mia lingua, conosci già la verità di cui parlo. Cosa potrebbe capire il tuo priore, con la sua superbia, lui che disprezza... no, che ignora la gloria della nostra cultura? E' del tutto inconsapevole del vero significato di queste pitture."

Juan sentì che il momento della verità era giunto, che Miguel aveva finalmente deciso di uscire allo scoperto. Si sentì la gola secca. 

"Ma io so cosa sono," disse, bellicosamente. "Un inno al tuo mondo pagano!"

"Oh no, tlamacatzin. Sono un inno al nostro mondo comune!" Miguel si fece il segno della croce, con devozione. "Guardando i tuoi libri ho scoperto che sono cristiano, che lo sono sempre stato. Il tuo dio era già venuto da me ed il mio dio da te: quale prova più grande della sua potenza?"

"Che vuoi dire con questo?!"

"Quando celebri la messa offri ai fedeli la carne di Dio; ma anche noi mangiavamo la carne di coloro che impersonavano le nostre divinità... teocualo, così chiamavamo questo rito. Poi alzi una coppa, e dici che contiene il sangue di Dio... ebbene, anche i nostri sacerdoti alzavano il cuauhxicalli pieno di caldo sangue umano!"

Juan sentì un urto di nausea.

Ma Miguel continuò, tranquillamente: "In uno dei vostri libri appare Gesù Cristo con il costato tagliato, davanti ad esso il Suo cuore inonda il mondo di raggi luminosi... oh, come posso non adorare un dio che fa quel che noi abbiamo sempre fatto, sottoporsi all'onorata Morte Fiorita, dare il proprio cuore affinché il Sole possa continuare a vivere?"

"Osi paragonare i sacrifici umani del tuo popolo con la Passione del Salvatore?!"

"Che differenza c'è, tlamacatzin? Il tuo Dio ha accettato la morte per dare la vita. Esattamente come fecero tutti i nostri dèi, a Teotihuacàn, per dar la vita al cosmo! Guardati intorno," disse indicando di nuovo le pareti. "Questa che ho dipinto qui è l'eterna Guerra Fiorita che muove l'universo. Il giorno uccide la notte. La notte uccide il giorno. Il sangue arrossa albe e tramonti. I nostri dei muoiono... e poi risorgono." Sorrise. "Come il tuo Cristo."

Juan tremò. Non devo ascoltare questa bestemmie... devo denunciare quest'indio, devo farlo frustare e bruciare come pagano!

Ma una forza più grande di lui lo teneva inchiodato dov'era, incapace di  reagire. 

"Voi adorate una Vergine, la Madre di Dio," proseguì il tlacuilo, implacabile. "Ma anche noi l'abbiamo sempre adorata. Avevamo un tempio dedicato a Teteoìnan, la madre degli dèi. Era proprio uguale alla vostra: anche lei con un bambino in braccio. Voi venerate i martiri, uomini che hanno affrontato orribili morti per la gloria di Dio. Ma anche noi avevamo i nostri martiri: i prigionieri di guerra che sacrificavamo. Le loro famiglie li ricordavano con orgoglio, i sacerdoti bruciavano resina di copale davanti ai loro teschi esposti nel tzompantli. Era un onore morire per la gloria di un dio, non una punizione..."

L'indio aprì le braccia, come per indicare quel che gli stava attorno.

"La prima cosa che avete fatto giungendo qui è stata bruciare il nostro teocalli. La stessa cosa che facevamo noi Mèxica, conquistando un nuovo territorio. Poi avete edificato questa imponente chiesa, proprio sui resti del nostro tempio. E l'avete dedicata alla nostra stessa divinità!" Indicò il simbolo dell'ordine agostiniano. "Tre frecce nel vostro stemma... ebbene, per noi le tre frecce sono sempre state il simbolo del dio Tezcatlipoca!"

Juan sbarrò gli occhi.

"Non ve n'eravate ancora accorti?" sorrise Miguel. "La gente di questa città viene devota in questa chiesa, solo per adorare lo stesso dio che onorava nel vecchio tempio. Non avete cambiato niente! Proprio voi castigliani siete la dimostrazione più grande della sua potenza. Siete arrivati dall'oceano solo per edificargli un tempio diverso e più bello, chiamando il Nostro Signore in un'altra lingua, ma con gli stessi nomi che gli davamo noi: Icnoacatzinli, il Misericordioso; Pilhoacatzinli, il Padre Nostro, Teyocoyani, il Creatore, Tlazopilli, il Figlio Prezioso... avete compiuto per lui gli stessi riti dei nostri avi, ci avete raccontato le nostre stesse leggende!" L'indio si inchinò a sfiorare la terra con la mano. "Bacio dunque la terra davanti a te, nel tuo nuovo tempio... benvenuto, sacerdote del divino Tezcatlipoca!"

"No!!!..."

 

 




 

 

 

"Ehi, Juan, svegliati, svegliati!"

Ho aperto gli occhi ed ho visto Jorge in pigiama, che mi scuoteva selvaggiamente. La luce era accesa, alla porta c'era la padrona dell'albergo con un rebozo gettato sulle spalle, l'aria spaventata. 

"Ma che diavolo hai bevuto ieri?" ha sbraitato il mio amico. "Pulque andato a male? Ci hai fatto prendere un accidente, mettendoti ad urlare in piena notte." 

"È... è stato solo un brutto sogno," ho detto. Ero fradicio di sudore, e spaventato perché in tutta la mia vita non mi era mai capitata una cosa simile. "Mi spiace..."

"Ti spiace, eh? Al diavolo..." Jorge ha sospirato, si è voltato verso la padrona. "Signora, ce l'ha una tazza di caffè? Credo che la notte per noialtri finisca qui." Quando la donna se n'è andata, si è voltato a guardarmi. "Juan, ma tu parli bene il nàhuatl?"

"Io?" Mi sono alzato a sedere, stupito da quella domanda. "So quel che ogni messicano che fa il mio mestiere deve sapere, non di più. Qui al mercato è pieno di campesinos che parlano nàhuatl, ed io non capisco un accidente di quel che dicono..."

"Ma la padrona dice che ti ha sentito parlare in nàhuatl. E lei lo conosce di sicuro."

"E cosa dicevo?" ho chiesto, col cuore in gola. 

"La signora non me l'ha voluto dire, ma si è segnata una dozzina di volte. Forse pensa che sei invasato, o qualcosa del genere. Qui la gente è superstiziosa, sai." E senza dar troppo nell'occhio, ha preso in mano il crocefisso d'oro che porta sempre al petto.

"Ehi, non lo penserai anche tu!"

"Dimmi che cosa hai sognato e poi te lo saprò dire." Ha taciuto, a lungo, poi ha insistito: "E allora? Si può sapere che cosa hai sognato?"

Ho scoperto che non ero capace di descriverlo.

 

 





 

 

 

La conoscenza di questa gente mi ha intossicato, mi ha indebolito. Ed ora guardo ogni giorno queste pitture, soggiogato dai significati reconditi che solo io posso capire. Mille dèi stranieri mi parlano ed io non riesco a tapparmi le orecchie alla loro voce...

Aquile, simbolo del sole, che lottano contro giaguari dalla pelle maculata, simbolo della notte. Un guerriero coperto da piume rosa, il dio dell'alba, signore della Stella Mattutina, esce dal cesto carico di frutta mediterranea. Qual'è il mistico significato di questa giustapposizione? Un guerriero caduto ha due piedi destri: è uno sbaglio del pittore, o anche questo ha un significato? E lassù, dove i festoni colorati si uniscono, appare una figura che sembra una cariatide greca, ma sulla sua testa un diadema verde ricorda l'agave, e due pesci succhiano il latte delle sue flaccide mammelle... è forse la dea del pulque, Mayahuel? Infiniti serpenti si torcono tra le volute manieriste, sono il simbolo della saggezza e del male, come in Europa? Serpenti piumati, di fuoco, di nubi, di turchesi, animali fatati che parlano all'uomo, mangiano il suo cuore e lo portano al paradiso...

"Tlamacatzin," mi ha detto Miguel, "Sto per finire i miei affreschi. E dopo, che ne sarà della mia vita? Sarò uno dei vostri schiavi, un vecchio inutile, buono solo per morire di fame, o di fatica nelle miniere. Oh, tlamacatzin, io non voglio finire al Mictlàn, la più nera delle patrie dei morti, quella destinata ai miserabili, agli egoisti che muoiono nel loro letto!"

"Tu finirai all'inferno se continuerai a parlare dei tuoi déi!" 

Ma lui non si è arreso. 

"Il mio lavoro sta terminando. Ha bisogno solo di essere consacrato, ha bisogno che qualcuno accenda con la vita la fiaccola della sua forza. Sono tanto stanco, tlamacatzin, voglio andare nel luogo a cui appartengo, Tonatiuhichan, la Casa del Sole... aiutami, ti prego!"

"Miguel, tu..."

"Non chiamarmi più Miguel!... Non è il mio nome. Mi chiamo Tezcatlanextia!"

Un nome profetico: Specchio-che-rivela-le cose... e quante cose mi ha rivelato!

Dio è uno solo, unico e per tutti. E pensare che il papa ordina le crociate per sterminare i suoi stessi credenti, solo perché lo chiamano in un modo diverso. Sangue, fiumi di sangue e montagne di teschi si ergono su questo mondo, costruiti anche dalle nostre mani sante, noi spagnoli che abbiamo fatto di questo paese un mattatoio, che abbiamo strappato il cuore di tutto un popolo, il tutto in nome del nostro Dio... ed abbiamo il coraggio di inorridire davanti ai sacrifici umani di questa gente! I frati del mio ordine rovesciano gli altari pagani portando una croce, senza accorgersi che la croce c'è già: è quella del dio della pioggia, Tlàloc, padrone dei quattro punti cardinali...

Oh Dio, perché ci hai creato tanto sciocchi?!

 

 

 





 

 

La notte successiva ho sognato ancora. Ho avuto paura: ho sentito di nuovo quella sensazione di terribile vividezza, la realtà che riempiva i miei sensi. Ma stavolta, quando mi sono finalmente svegliato, ricordavo perfettamente tutto.

Mi sono sentito euforico, perché sapevo che avevo la chiave dei miei dubbi, e questa consapevolezza mi ha finalmente liberato dall'angoscia.

Sono andato a prendere Jorge nella sua stanza, e l'ho tirato fuori di lì quasi a forza, lui che protestava perché voleva fare colazione prima di uscire. "Ma sei diventato tutto matto?..."

"Sì," ho risposto. "Dov'è Evaristo?"

Era anche lui nella sua stanza, e pure in dolce compagnia (un giovane e ricco cittadino fa sempre gola alle ragazze dei pueblos); ma io non ci ho fatto caso, e quando dopo un lungo bussare lui è apparso alla porta, scarmigliato ed imbarazzato, l'ho quasi aggredito:

"Di che è morto Andrés de Mata?"

"Chi?!" ha esclamato lui. "E chi diavolo sarebbe questo... ah, quello del convento." E poi, infuriato: "E proprio a quest'ora vieni a farmi queste domande?!"

"Mi vuoi rispondere sì o no?"

Si è guardato alle spalle, poi si è passato una mano nei capelli. "Aspetta... mi sembra che sia morto d'un colpo, una malattia o qualcosa del genere."

"Quindi non ha fatto in tempo a rivelare dove stava il suo archivio segreto."

"Eh?!" Evaristo era scioccato, ha guardato Jorge dietro di me. Era chiaro che aveva dei seri dubbi sulla mia sanità mentale... ma era pur sempre un vero studioso, troppo appassionato per non drizzare le antenne. "Di che archivio segreto parli?"

"Di quello nascosto nella cella d'angolo, quella che confina con la balconata della chiesa," ho detto, tutto d'un fiato. "Nessuno ne conosce l'esistenza, ma io so dov'è. E dentro c'è un documento essenziale per tutta la nostra ricerca!..."

 

 





 

 

Il sagrestano Francisco de Cantos entrò nella chiesa, come faceva tutte le mattine. 

E lo accolse uno spettacolo atroce. 

Frate Juan de Astorga era sotto la cupola dell'abside, ieratica figura nera elevata su un corpo senza vita, disteso di schiena sull'altare, la testa arrovesciata all'indietro, la bocca aperta e gli occhi vitrei. Era il cadavere di Miguel, il pittore indigeno, con il torace squarciato. 

Il sagrestano alzò lo sguardo attonito. Le mani del frate levavano al cielo un largo coltello di selce, e qualcosa che sembrava un flaccido, viscido e rosso frutto di cactus...

Un cuore umano!

Tutto lì intorno era orribilmente imbrattato di sangue: l'altare, la tovaglia, il coltello, le braccia e persino la faccia del frate. Francisco non poteva credere alle sue orecchie, perché lo sentiva declamare, con voce chiara e sonora, piena di pio ardore: 

Credo in un solo Dio, Padre Onnipotente, Creatore di tutte le cose visibili e invisibili...

"La Casa di Dio, il nuovo teocalli è stato consacrato," disse alla fine frate Juan, con espressione soddisfatta. "La continuità è stata sanzionata con un sacrificio umano, il più antico dei riti della fede... di tutte le fedi. Oh, Dio del Mistero!" gridò, rivolgendosi agli affreschi che lo circondavano. "Solo ora ho capito la tua sottigliezza: Signore della Dualità, tu sei Tezcatlipoca, lo Specchio-che-nasconde..." Abbassò gli occhi al corpo squarciato davanti a lui, sorrise. "Ma sei anche Tezcatlanextia, lo Specchio che Rivela! Non ti avevo riconosciuto, ma Tu eri quest'uomo. Sei venuto per riappropriarti del tuo tempio, ti sei dipinto sulle sue pareti, ed ora hai sigillato il tuo potere in esso con il tuo stesso sangue. Tu, proprio come il Nostro Signore Gesù Cristo, hai accettato la Morte Fiorita, sacrificandoti sul tuo stesso altare per salvarci dalla tua stessa ira!"

Di nuovo levò il cuore morto, lo baciò devotamente insozzandosi la bocca di sangue.

"Perché Tu e Cristo siete una cosa sola. Credo in te, divino Tezcatlipoca!... Io, tuo servo, tuo sacerdote, in questo tuo nuovo tempio canterò per sempre la tua gloria!"

Ed aprì le braccia, gli occhi al cielo, declamando: Gloria a Dio nell'alto dei cieli, e pace in terra agli uomini di buona volontà...

Francisco non resistette più, fuggì dalla chiesa, urlante e in lacrime. 

 

 

 






 

"Aspetta, che fretta c'è?" Evaristo faticava a mantenere il mio passo, mentre io divoravo la strada a larghe falcate. "D'accordo, hai fatto un sogno, e con questo? E poi, anche se ci fosse davvero un archivio segreto, è lì da quattrocento anni e non scappa di sicuro..."

Jorge mi ha afferrato per un braccio, costringendomi a fermarmi.  "Sentimi bene, Juan Albornoz!" Mi ha guardato severamente. "D'accordo, noi ti veniamo dietro e ti diamo una mano. Ma se non troviamo niente, tu fai le valigie e torni a Mèxico prima di mezzogiorno. Non vogliamo tra i piedi un collega nevrastenico."

"Comunque non ti preoccupare," ha aggiunto Evaristo, "Sei pur sempre nostro amico. Io e Jorge staremo zitti e non diremo a nessuno quanto sei svitato, perché se all'INAH sapessero una cosa del genere ti sbatterebbero fuori, e tu resteresti senza lavoro."

"Grazie tante a tutti e due," ho detto con la gola secca. "Ma l'archivio esiste. Ed esiste anche il documento. Sono dei fogli di carta, racchiusi in una copertina di cuoio."

"E magari sai anche cosa c'è scritto sopra, vero?"

"Sì," ho annuito. "C'è la spiegazione di quando e perché furono occultati gli affreschi."

 

 




 

 

Anno Domini 1577. Addenda segreta al registro conventuale. Io, Andrés de Mata, priore del convento di Ixmiquilpan, ho partecipato ad un colloquio riservato con il comandante Juan Bello, quale rappresentante del potere secolare, e il superiore del mio ordine, il venerabile Alonso de Veracruz. Abbiamo convenuto di mettere a tacere l'orribile crimine che ha profanato la nostra chiesa: renderlo pubblico provocherebbe infatti  uno scandalo, e quel che è peggio inficerebbe la nostra opera di conversione. I frati avranno la consegna tassativa del silenzio. Frate Juan de Astorga, colpevole del delitto, sarà rinchiuso nel carcere sotterraneo del convento ed ivi resterà fino alla fine dei suoi giorni.

Dopo una inchiesta segreta, è apparso chiaro che il nostro povero confratello è stato posseduto da uno dei demoni adorati da questo popolo prima della nostra venuta. Non c'è altra spiegazione per la sua totale, blasfema follia omicida. E poiché tale possessione deriva evidentemente dalle figure affrescate, troppo simili a quelle del periodo del massimo potere di questi demoni, ho deciso di farle cancellare con una rapida opera di imbiancatura a calce, laonde il loro malefico potere non possa più adescare gli sguardi dei fedeli...

 






 

 

 

"E allora?" mi ha chiesto Jorge.

"La pietra d'angolo," ho detto, una volta nella cella. "Dammi lo scalpello."

"Ma è cementata."

"No, questo è solo stucco." Ne ho fatto saltar via un pezzo. "L'hanno messo dopo. Questa non è una pietra, è un cassetto scolpito: è cavo al suo interno."

"Santo cielo, se alla Sovrintendenza sanno che stai danneggiando un edificio storico..."

I pezzi di stucco cadevano sul pavimento, mentre liberavo i bordi della pietra. "Piantala di blaterare, Jorge, e dammi la spazzola. Credo che ormai ci siamo."

Evaristo mi respirava sulla spalla, evidentemente eccitato. "Certo che, se davvero fosse un nascondiglio segreto, nessuno avrebbe potuto scoprirlo..."

"Stiamo giocando alla mappa del tesoro," ha detto Jorge scuotendo la testa. "Siamo tre omoni grandi e grossi che fanno i bambini, e se ci becca il parroco..."

Ha taciuto di colpo. Perché avevo infilato lo scalpello nella fessura superiore della roccia, e stavo facendo leva. "Ehi, ma si muove!" ha esclamato, sbalordito.

"Sì, non è una pietra come le altre!" ha gridato Evaristo. "Il peso del muro si scarica su una traversa sopra di essa, così può scorrere in fuori!" Mi è venuto al fianco, aiutandomi con tutte le sue forze. "E' vuota al suo interno, altrimenti non riusciremmo nemmeno a spostarla!"

La falsa pietra è finalmente uscita dal suo alveo. E' rimasta sul pavimento, noi a guardarla in silenzio.

All'interno c'era una vecchia copertina di cuoio annerito. 

Il cuore mi batteva all'impazzata. Tutto come nel mio sogno! Mancava solo il documento. Finalmente avrei saputo se tutto quel che avevo vissuto in quei giorni a Ixmiquilpan era solo una mia fantasia, o piuttosto una visione da un passato lontano... 

Evaristo, l'esperto tra di noi, ha teso le sue mani delicate a prendere quella copertina. L'ha posata religiosamente sul pavimento, ha tirato fuori dalla tasca della giacca una lente d'ingrandimento ed una pila tascabile, e si è chinato ad aprirla.

Dentro c'erano solo dei residui brunastri, come dei trucioli sudici.

Il mio giovane collega è rimasto immobile, a lungo. Poi ha alzato lo sguardo su di me, con tutta la delusione, l'autentico dolore di uno studioso.

"Juan... mi spiace. Qualunque cosa ci fosse in questa cartella, se la sono mangiata i topi. Non sapremo mai cosa c'era scritto in questo documento."

Anche Jorge mi ha guardato, ammutolito.

Ed io ho sentito il sangue andarsene dalla mia faccia.  Non avrei mai saputo la verità!

Avrei potuto raccontare il mio sogno, ma nessuno mi avrebbe mai creduto: avrebbero tutti detto che avevo trovato il nascondiglio segreto solo grazie ad un colpo di fortuna.

I topi avevano distrutto la mia unica prova, l'unico legame tra i miei sogni e la realtà. 

E mi avevano condannato a tenermi quel dubbio per tutta la vita.

  
Leggi le 2 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Horror / Vai alla pagina dell'autore: hanabi