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Autore: leo rugens    07/07/2013    10 recensioni
Nell’antichità, il Destino era figlio del Caos e della Notte e nessuno, dèi compresi, poteva ostacolarne il percorso. Si dice collaborasse a braccetto con il Caso, combinandone di tutti i colori, nascosto dietro a una nuvola di passaggio. Liz Hemingway abitava in un condominio benestante, sulla IV Avenue, ed era una delle missioni di un angelo, caduto da chissà dove. Vi chiederete cosa c’entri tutto questo con il Fato. Beh, quel palazzo era anche casa di un musicista sfigato, pazzo, con i capelli rossi. Voi chiamatelo Ed, se vi va.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Non sono morta, sono vivissima. Scusate il ritardissimo, domani parto per Londra e sono stata pena di cose da fare. Ah, mi sono iscritta su White Pages, non ho ancora pubblicato nulla là sopra, ma ho in mente di farlo. Il nome è sempre leo rugens, ovviamente. Vorrei ringraziare tantissimo chiunque ami questa storia, perché per me significa davvero tanto. Grazie perché mi  sostenete sempre, per me è molto importante, siete la mia forza, l'arcobaleno in mezzo a tutte queste nuvolacce. Lui è il papà di Aria.  Torno il 23 Luglio, quindi se rispondo in ritardo alle recensoni, chiedo scusa in anticipo. Social networks nella bio, sempre a vostra disposizione!
Vi lascio con una gif di Alex e un bacio enorme,
Sun.















Capitolo sei


Skinny Love (2)


 

 

Aria, la sua vita prima se la ricordava bene. Una casa sulla nuvola più amata dalla Bora, la spazzola posata sul comodino; usata, vissuta. Se si concentrava, pensandolo forte, le tornava in mente suo padre: spalle larghe, voce ferma, ali infinite, le corse per saltargli in braccio quando tornava da lavoro. Quando gli chiedeva cosa facesse, lui rispondeva sempre dicendo che dava una mano –o forse il cuore- alle persone.
“E cosa sono?” Domandava curiosa lei, tirandogli una ciocca di capelli.
“Formiche, Aria. Formiche.”
Sorrideva, guardando il sole tingere l’orizzonte ora di rosa, ora di arancione.
“Posso anche io?”
“Un giorno, chissà.”
Spariva per giorni, partendo con una freccia già incoccata, le dita ad asciugarle le lacrime.
“Perché non posso venire con te?”
“È troppo presto. Ma, se vorrai, potrai fare il mio stesso lavoro da grande.”
Allora annuiva, smetteva di piangere e lo seguiva con lo sguardo, finché non lo inghiottiva il cielo. La mamma, Aria, non l’aveva mai avuta.
Se chiedeva come fosse, per gli altri era sempre “splendente, come il Sole.”
Così, guardava quella gigantesca palla infuocata e sbuffava, incrociando le braccia al petto. Solo con il tempo avrebbe notato il primo raggio di luce entrare proprio dalla sua finestra e l’ultimo accarezzarle i capelli prima di lasciare tutto alla notte. Segretamente, era arrivata a pensare che forse, quella stella, non era che sua madre: Aria le sorrideva a mezzogiorno e si sentiva meno sola al mondo. Dopo aver visto il suo tremilionesimo tramonto rosso, ebbe il coraggio di afferrare la mano di suo padre, fermandolo sulla porta di casa.
“Papà?”
“Dimmi.”
“Mi insegni tutto quello che sai?”



Aria a quindici anni ebbe il suo primo arco. Era un’arciera perfetta e sapeva muoversi utilizzando anche la più innocente brezza. Non sentivi nemmeno il suo odore, tant’era brava a mimetizzarsi. Aveva capito che gli esseri umani sono stupidi; egocentrici, egoisti, totalmente convinti di essere l’unica risposta e il più irrisolvibile dei problemi. Non le piacevano, le persone. Avrebbe volentieri incendiato la Terra e tutte le cose orribili che quelli avevano fatto. Il suo disgusto, quando la beccavi a pensarci, era palpabile; la bocca storta in una smorfia, le sopracciglia corrugate e quella rughetta di espressione proprio vicino al labbro superiore che solo una risposta avrebbe fatto sparire: l’amore. Non sapeva cosa fosse, ma era meraviglioso.
Portava un sacco di cose positive: intelligenza, saggezza, coraggio… Ne scopriva una nuova ogni giorno e ormai ne aveva viste così tante da iniziare a perdere il conto.
“Papà, perché esistono anche le cose brutte?” Chiese d’impulso una sera, seduta davanti al caminetto con una tazza di tè fra le mani fasciate. Si era fatta male all’addestramento, ma non si era fatta scappare neanche un gemito: era una guerriera.
“Altrimenti non ci sarebbero quelle belle.”
“Se non ci fosse la guerra, non avremmo la pace, quindi?”
“Esatto.”
“E noi cosa facciamo?”
“Noi? Niente. Diamo loro ciò di cui hanno bisogno per arrivare a scegliere.”
“Quindi potrei diffondere anche odio e disperazione?”
“Dipende da cosa vogliono gli esseri umani, amore mio.”
Aria sbuffò, appoggiandosi allo schienale con un broncio. Suo padre ridacchiò, posando l’avambraccio sul tavolo  e cercò il suo viso con lo sguardo.
“Ascoltami, so che possono sembrarti dei cretini, ma non lo sono. Hanno tesori sepolti ovunque, tu devi solo diventare brava a trovarli. Esistiamo grazie a loro, perché ci credono. Hai capito?”
“Sì.” Formulò, lenta, ignorando la sua ombra giocherellare sul muro.
“Va’ a dormire, domani devi alzarti presto.”
Suo padre le mancava terribilmente. Rivoleva i suoi occhiolini scherzosi al poligono di tiro e i primi voli su New York con lui che le spiegava come curvare per non andare a schiantarsi contro un grattacielo. Ricacciava indietro le lacrime e camminava un po’ più veloce, restando impassibile, di pietra, perché così le avevano insegnato. Per quanto fosse attenta e cauta, però, non vedeva mai una giovane donna con il suo stesso sorriso seguirla dall’altro lato della strada ogni volta che smetteva di piovere.



Corinne stava per avere una crisi di nervi. Aveva dato tutti gli esami, consegnato ogni relazione in un portalistini colorato, eppure sentiva che qualcosa non andava. Era come se avesse dimenticato qualcosa di importante ma non ricordava cosa fosse. Mentre finiva di tingere la nuova t-shirt rimuginava, senza successo, come se le avessero rubato un ricordo. Appese la maglia fuori, la bandana malconcia che tentava di fermarle i capelli per non farli finire sugli occhi mentre lavorava.
Alex quella mattina si era svegliato presto, perché doveva assolutamente potare la siepe, o sua madre lo avrebbe diseredato. Cesoie alla mano, vecchio berretto di suo padre calcato in testa, canticchiava una vecchia canzone punk; Corinne uscì di casa con il sacco dell’immondizia e lui alzò un braccio in segno di saluto. Era così bella con le guance macchiate di colore e la salopette consumata sulle ginocchia. Lei urlò un ciao in risposta e, dopo aver gettato i rifiuti, attraversò la strada con le mani dietro la schiena, come da bambina.
“Tua madre ti ha messo a sgobbare?”
“Già, con la solita scusa di togliermi dal testamento.”
Risero insieme, facendo volare via una farfalla posatasi troppo vicina. La guardarono sparire oltre i tetti, facendo piombare il silenzio. Da dietro un camino, Aria guardava un punto lontano, persa. Si riscosse, come da un incubo, e incoccò la freccia, appoggiando l’arco sul pergolato. Alex e Corinne erano in una situazione di stallo e la cosa l’aveva irritata a tal punto da rompere un rametto di ciliegio con le mani, per poi chiedergli scusa e farlo tornare come prima: non le piaceva quando le cose non andavano come previsto.



La freccia scottava, ma lei resisteva, aspettando che Alex le capitasse sotto tiro. Una scena vista e rivista, quella del cacciatore e del cerbiatto; stette là sopra per quelle che le parvero ore. I due si erano seduti sul marciapiede, irrimediabilmente vicini e con le spalle che si sfioravano. Vedeva Corinne rabbrividire ma esitava: sentiva che le sarebbero mancati, una volta finita. Aria, a scuola, era la migliore del suo corso nella pratica, ma aveva grossi problemi a spegnere le proprie emozioni, cosa che non risultava difficile agli altri angeli. Si affezionava alle persone, lasciarle andare era dura, dopo aver finito la propria missione. Con le lacrime agli occhi e l’amaro in bocca, le guardava andare via, girare l’angolo per l’ultima volta. Non sarebbe più tornata, aveva paura di soffrire troppo. Per consolarsi, si affacciava alla finestra del suo appartamento e mirava con l’arco, fra la folla: il primo che entrava nel mirino, era il suo nuovo protetto. Guardando la testa di Corinne appoggiarsi sulla spalla di Alex, sentendosi sola, Aria ebbe paura. Non scoccò, non quella volta. Si girò, mise l’arco in spalla e, con un singhiozzo, spiccò il volo.



Ed Sheeran amava chiunque avesse inventato il condizionatore. Se ne stava beatamente sdraiato sotto l’aria condizionata, con la coda di Bellini che gli batteva contro la coscia.
“Signora Mondo?”
“Dimmi, Edward.”
“Ma lei, fisicamente, com’è?”
“Non ho una forma fissa. Assumo quella con cui la gente mi immagina.”
Gli sarebbe piaciuto, essere un mutaforma. Diventare cosa più gli piacesse nel momento più –o meno- opportuno. Chissà com’erano le nuvole,  l’aria di alta quota o l’oceano. Aveva viaggiato tanto, ma solo con la fantasia; non si era mosso dalla sua Inghilterra, fisicamente parlando. Si sentiva un fallito con un vecchio CD di Damien Rice a tutto volume e la chitarra da accordare, eppure rimaneva lì, a cercare di prendersi un torcicollo. Ed era un mistero per tutti, amici e parenti compresi: non sapevano mai cosa pensasse o come gli venissero certe idee. Persino il suo gatto lo stava guardando con quel fare sostenuto tipico dei felini e, per tutta risposta, gli fece una linguaccia per poi tornare a cantare. Batteva un piede a ritmo, tamburellava le dita, lasciava che la musica gli entrasse dentro. Aveva voglia di correre, di metro, di scoprire chi fosse quella sul tetto l’altro giorno. Non si era buttata, impossibile, l’avrebbe vista schiantarsi, l’edificio era troppo alto. Cercava di ignorare la vocina nella sua testa che ripeteva, come una cantilena: “E se fosse volata via?”
“Signora Mondo,  ma gli umani possono volare?”
“Dipende, Edward caro. Tu credi possano farlo?”
“Non lo so.”



Mentre il CD finiva e Bellini si concedeva un riposino, Aria saltava da un tetto all’altro, sentendo il cuore stringersi, come se qualcuno ci avesse avvolto intorno una cintura e, ad ogni secondo, cambiasse buco, rendendo la striscia di cuoio sempre più stretta. La notte era ormai calata, fresca, come un’oasi nel bel mezzo del deserto per un beduino. Riconobbe il palazzo di Liz, la matematica, e decise di riprendere fiato lì.
Guardava la città accendersi, ricordandole le sigarette che fumava il signor Worth. Si sentiva esclusa da tutto quel tran tran, non aveva fretta; eppure, una parte di lei avrebbe voluto unirsi alla maratona, solo per sapere come ci si sentisse, solo per dire di averlo fatto. Si appoggiò all’inferriata sospirando e chiudendo le ali sulla schiena. Aveva un gran vuoto dentro che niente riusciva a riempirle, nemmeno il suo lavoro. Constatando che si fosse fatto tardi, si decise a riprendere il cammino, quando il maniglione antipanico della porta si abbassò.
Terrore.
Si nascose e trattenne il respiro, paziente. Si diede mentalmente dell'imbecille, perché aveva già rischiato una volta e non poteva farla diventare un'abitudine. Aria non poteva sbagliare, non avrebbe potuto permetterselo. Il ragazzo con i capelli rossi uscì, sospirando, dandole le spalle. Colse l’occasione per prendere la rincorsa e saltò sull'edificio vicino, per poi scappare verso l’orizzonte.
Ed, nel frattempo, non si era accorto di niente e fissava un punto lontano, poco definito e sorprendentemente buio. Il Maestrale cominciava ad alzarsi rabbrividì per il freddo. Si era finalmente deciso a rientrare, quando una folata di vento alzò qualcosa di incredibilmente luccicante e bianco: una piuma.
“Signora Mondo, cosa sa sugli angeli?”



 
***




I was following the pack, all swallowed in their coats with scarves of red tied around their throats,
to keep their little heads from falling in the snow.

White Winter Hymnal - Fleet Foxes

  
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