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Autore: TaliaAckerman    12/07/2013    7 recensioni
[Revisione in corso]
Primo capitolo della serie del "II ciclo di Fheriea"
Dal diciottesimo capitolo:
"Pervasa da un senso di feroce soddisfazione, Dubhne alzò il braccio destro in segno di vittoria. La folla intorno a lei urlava e scandiva il suo nome, entusiasta. E la cosa le piaceva."
Salve, e' la prima fan fiction che pubblico in questa sezione. Più che una ff però è un romanzo, il mio romanzo, ideato e steso in più di due anni di fatiche e grandi soddisfazioni. Spero vi piaccia^^
Genere: Azione, Drammatico, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'II ciclo di Fheriea'
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- Chi… chi c’è? – fece Dubhne nell’oscurità, fra l’intimorito e l’assonnato. I passi che l’avevano svegliata cessarono. – Chi c’è? – ripeté la bambina, cominciando a sentirsi agitata.
Udì altri passi, ma poi una voce femminile la rassicurò:- Tranquilla, Dubhne. Sono io, Johanna.
Johanna? E da quando in qua Johanna mi rivolge la parola?
Il volto della ragazza, incorniciato dai ricci capelli corvini, emerse dall’ombra. Aveva un’espressione stranamente mesta.
- Senti, io…- esordì sedendosi accanto a lei. – Volevo… insomma, chiederti scusa.
Dubhne alzò gli occhi, sorpresa, e riuscì a scorgere il volto di contrito della ragazza anche oltre il buio.
– Scusa?- fece la bambina, certa di non aver capito bene. Johanna non le aveva mai fatto o detto nulla di particolare, ma non si era mai dimostrata amichevole nei suoi confronti, un po’ come tutti gli altri del resto; al contrario, era sempre la prima a ridere delle battute e frecciate che Dills le lanciava e spesso Dubhne l’aveva vista sedersi con lui e il suo gruppo, in refettorio.
– Sì… vedi… - pareva che parlare la mettesse non poco a disagio. - Non sono stati solo Dills e Charlons a trattarti male. Neanch’io mi sono mai comportata proprio da amica con te e… mi dispiace. E comunque, ti giuro, io non centro niente con ciò che ti hanno fatto quei quattro. Sono stati dei, dei… dei codardi e… hanno davvero esagerato.
- Va bene – disse subito Dubhne, quasi incredula per ciò che aveva appena ascoltato. - Sì, ho capito. Beh… grazie.
Le due sorrisero imbarazzate, poi Dubhne appoggiò la testa sui cuscini sentendosi all’improvviso più leggera. Finalmente, Alesha non era più l’unica su cui la bambina potesse contare.
– Adesso però, riposa, finché puoi. – Johanna le strizzò l’occhio. – Ne hai bisogno.
L’altra annuì. – Grazie,
Jo.
Aveva usato il nomignolo con cui a volte aveva sentito gli altri apprendisti rivolgersi a lei. Per un attimo temette di essersi presa una confidenza fuori luogo, ma si rincuorò quando vide la ragazzina sorriderle di rimando.


- Perché fai tutto questo per me?- chiese Dubhne una sera, mentre Johanna le passava uno straccio bagnato sulla fronte. In effetti, da quando Dills e gli altri l’avevano picchiata, la ragazza era diventata più che mai premurosa con Dubhne. Ogni giorno, dopo la cena, al posto di godersi il riposo assieme agli altri apprendisti, si precipitava sempre all’infermeria, si informava sulle condizioni della bambina e, quando ce n’era bisogno, le cambiava le fasciature sulla fronte e sulle braccia.
– È stata Alesha a chiedermelo, mentre la portavo alle cantine – rispose lei. - Mi ha detto che dovevo tenerti d’occhio. E comunque… l’avrei fatto lo stesso.
– Grazie di tutto – le disse la bambina, grata nel profondo del cuore.
Ma nonostante le cure di quella nuova amica, Alesha le mancava terribilmente. Erano solo quattro giorni che non la vedeva, ma già la bambina rimpiangeva le lunghe chiacchierate con l’amica, il loro sostenersi a vicenda. Era un po’ come aver perso una parte di sé.
Tranquilla. Tra pochi giorni la rivedrai.
Ma d’altra parte, stare in infermeria le piaceva. Se non altro, non era costretta a lavorare. La bambina si era guardata spesso intorno: più che un infermeria, quella era più che altro una stanza un po’ più grande delle altre, con una fila di letti arrangiati contro una parete e, sul fondo, un vecchio armadio di legno contenente bende, stracci e il minimo indispensabile per curare ferite di basso livello: erbe mediche e qualche unguento. Inutile dirlo, era un ambiente squallido e scarsamente illuminato, come tutte le altre stanze della sartoria. Dubhne non aveva idea di dove vivesse il signor Tomson, ma sicuramente non aveva nulla a che fare con quella miseria.
Il giorno dopo, Dubhne fu dimessa.
– Sarai perfettamente in grado di lavorare - aveva detto Deka con la sua voce insopportabilmente stridula.
Certo, come no. Al massimo sarò in grado di farvi guadagnare tanti bei soldoni…
E così per la bambina era ricominciata la vita di sempre. Il lavoro era, se possibile, ancora più faticoso del solito, e il signor Tomson sempre più esigente. Nonostante questo comunque, la notizia dell’aggressione era dilagata, e gli altri apprendisti, ben lungi dall’essere gentili con Dubhne, almeno si sforzavano di ignorarla.


Qualche giorno dopo accadde una cosa. Una cosa che, seppur minima e del tutto ininfluente, diede a Dubhne un piccolo motivo di evasione da quel modo altrimenti duro e tedioso.
Quando era arrivata a Célia, Alesha le aveva spiegato che agli apprendisti era permesso lavarsi una volta ogni due mesi. Era passato poco più di un mese da quando lei aveva messo piede nella sartoria, ma fortuna volle che l'ultimo lavaggio risalisse a circa due mesi prima. Così, per tutti i giorni che seguirono il suo abbandono dell’infermeria, la bambina non aveva fatto altro che attendere il momento di potersi finalmente dare una ripulita. Dubhne, Johanna e tutte le altre ragazze della sartoria vennero condotte nello squallido cortile interno, dove le attendeva una tinozza in ferro colma di acqua insaponata e grigiastra.
– Avanti, vieni - fece Deka, prendendola per un braccio. Versati l’acqua addosso con questa.- e le porse una grossa brocca. – Poi strofinati un po’ con la spugna e quando hai finito passala alla compagna dietro di te.
– Ma… i vestiti dove li metto?- chiese la bambina sconcertata.
– Non so, tu che dici? Vorresti un attaccapanni? Arrangiati. E sbrigati- la liquidò Deka in fretta.
Un po’ imbarazzata, Dubhne si sfilò la gonna, la camicetta e il grembiule da lavoro depositandoli in un mucchietto a terra; immerse i piedi nella tinozza e con mano malferma si rovesciò l’acqua addosso. Questa la investì gelida come la pioggia invernale, e la bambina lasciò cadere a terra la brocca con un salto.
– Ma è ghiacciata!- esclamò, scossa dai brividi. Tutte scoppiarono a ridere, indicandola con il dito e bisbigliando critiche incomprensibili. La bambina si guardò intorno, sull’orlo delle lacrime. Ecco come dovevano vederla le altre apprendiste: una bambinetta piccola, minuta, con le guance rosee tremanti e il mucchietto di vestiti sporchi ai piedi. Arricciò le labbra per controllarsi, raccolse i propri vestiti e corse via.
– Grandioso! – fece Johanna irata, guardando le altre. – Grazie per essere sempre così simpatiche… - e corse dentro, seguendo Dubhne.
– Avanti, non è successo niente…- provò a dirle, ma l’altra spalancò la porta di uno sgabuzzino, vi si infilò e non permise all’amica di entrare.
– Dubhne, vieni fuori! Dai, per favore, non è così grave…
- Non è così grave?- ripeté Dubhne combattendo con rabbia per frenare le lacrime. - Facile da dire per te, Jo: tu sei accettata e ammirata da tutti, non hai nemici, non hai ragazzi che desiderano picchiarti o renderti la vita impossibile! Ma non capisci? Speravo che, dopo di te, anche altre mi avrebbero accettata, offerto la loro amicizia, o almeno il loro rispetto… e invece no! No! Ma cosa ho fatto per meritarmi un simile trattamento, eh? Cosa?
Johanna sospirò, cercando di trovare le parole giuste per consolare l’amica. Poi alzò gli occhi, e si voltò. - Mi spiace, Dubhne. Ci vediamo stasera.
La bambina rimase chiusa nello sgabuzzino per qualche istante a singhiozzare. Poi, lentamente, cominciò a rinfilarsi i vestiti. Doveva andarsene da lì al più presto, per precedere le compagne già nella sala dei ricami. Spalancò la porta e, silenziosamente, ripercorse i corridoi della sartoria. Finché sentì una voce. Una voce che non aveva mai udito prima: era una voce vellutata, gradevole, appartenente ad un uomo di mezza età.
– D’accordo, Jel, tu aspettami qui, va bene? Devo solo scambiare due parole col signor Tomson, poi potremo andare.
– Ma che noia! Non posso fare un giro per la sartoria? – questa era una voce diversa, più stridula, appartenente ad un bambino poco più grande di lei, probabilmente.
Dubhne si avvicinò e vide, davanti all’ufficio del signor Tomson, un uomo e un ragazzino pressappoco identici, in piedi a discutere. Erano entrambi alti, con un ciuffo di ribelli capelli corvini e i tratti appuntiti. Ma se gli occhi dell’uomo erano ambrati e la carnagione leggermente abbronzata, il bambino aveva il viso bianchissimo, candido, e gli occhi di un color azzurro che neanche quelli di Alesha avrebbero potuto eguagliare. Dubhne rimase un istante a guardarli, affascinata, poi l’uomo entrò nello studio e il ragazzino - Jel - rimase solo. Con aria disinvolta, si guardò intorno, e appena adocchiata una sedia traballante, ci si sedette senza esitazioni. Solamente allora Dubhne si rese conto che il ragazzino indossava una tunica meravigliosa: elegante, lunga fino a terra, di uno splendido color blu scurissimo, e ornata ai lati da decori dorati.
– Com’è bello… - sospirò la bambina senza riuscire a trattenersi, ma appena l’altro si voltò verso di lei, sparì dietro l’angolo prima che questi potesse vederla. Con un piccolo sorriso, schizzò verso la sala dei ricami. Non vedeva l’ora di raccontare tutto ad Alesha.
– Scusate per il ritardo! – proruppe rivolta alla sorvegliante Heixa non appena ebbe messo piede a destinazione.
Sostenne uno sguardo contrito e continuò:- Per ripagare… mi offro volontaria di sostituire Johanna nel portare il pasto giornaliero all’apprendista Alesha, nelle cantine.
Johanna, che aveva sostituito Alesha nel turno nella sala dei ricami, fece cenno di no freneticamente con la testa, e Heixa guardò la bambina perplessa. – E perché mai?- chiese con la solita voce dura.
– Io… io… sono disposta a non pranzare, perché… - ci pensò su qualche secondo. - … perché è quello che mi merito. – Sì, accusarsi da sola era stata un’ottima idea.
E infatti, Heixa sembrò soddisfatta. – Brava, Dubhne, vedo che cominci a capire come le cose funzionano qui. Hai il permesso accordato. Se il signor Tomson avrà qualcosa da ridire, provvederò io a spiegargli tutto. Ma ora siediti al tuo posto e riprendi i tuoi lavori: sei parecchio indietro rispetto alle altre e, come hai detto, sei in ritardo.
Cercando di trattenere un sorriso trionfante, la bambina si affrettò ad obbedire.
– Ma cosa ti è preso? Perché vuoi saltare la cena?- le chiese l’amica, non appena si fu seduta.
– Niente, Jo. Avevo solo voglia di fare quattro chiacchiere.




Note: eccomi, sono tornata come al solito con un nuovo capitolo. E come alò solito sono gradite recensioni positive, negative o neutre, i consigli sono per me miniere d'oro. La trama va avanti... Baci, Joanna:)
  
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