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Autore: FairyCleo    12/07/2013    10 recensioni
"Aveva perso la cognizione del tempo. Non sapeva quanti giorni fossero trascorsi da quando la sua prigionia aveva avuto inizio, da quando suo padre lo aveva venduto all’essere che pretendeva di essere chiamato lord.
Sentiva male alla schiena, e lo stesso valeva per tutto il resto del suo corpo.
Aveva sicuramente subito un trauma cranico, ed era quasi certo di avere la spalla sinistra lussata. E rispetto alle volte precedenti, poteva ritenersi più che fortunato. ‘Lord Freezer’ aveva avuto poco tempo da dedicargli la scorsa notte, e questo gli aveva permesso di uscire da quella stanza sulle sue gambe, senza dover subire l’umiliazione di essere trascinato per i capelli in quello sgabuzzino buio che gli avevano assegnato come posto dove vivere.[...]Ovviamente, suo padre non poteva sapere che quel giorno non sarebbe mai giunto.
Non ci sarebbe stata rivalsa per loro. Non ci sarebbe stata rivalsa per nessuno. Perché, alla fine, nonostante tutto quello che aveva fatto per impedirlo, era riuscito a piegarlo.
Ma mai, mai gli avrebbe permesso di spezzarlo.
Non glielo avrebbe concesso.
Si era preso già troppo. Non poteva prendersi tutto.
Eppure, continuava a credere che un giorno ci sarebbe stata vendetta".
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Re Vegeta, Table, Vegeta
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Disclaimer: I personaggi non mi appartengono e non scrivo a scopo di lucro.
 

Salvation

 
 
Doveva mantenere la calma. Era quello che continuava a ripetersi, che doveva mantenere la calma. Doveva respirare, lasciare che l’aria fluisse nei polmoni, ossigenasse il suo sangue, tornasse fuori svuotata della sua essenza, e poi fare nuovamente la stessa cosa.
Doveva mantenere la calma perché era ormai fin troppo palese che agitarsi e lasciarsi guidare dalla rabbia e dalla frustrazione non sarebbe servito a niente.
Sì, doveva mantenere la calma. Doveva mantenerla anche se sapeva che ad ogni passo che faceva, ad ogni secondo trascorso, si avvicinava sempre di più alla fonte del suo più profondo dolore, quel dolore che gli impediva di respirare, quel dolore che era arrivato al punto di farlo piangere, di far piangere lui che fino a qualche tempo prima non sapeva nemmeno come questo meccanismo potesse accadere, come facessero gli occhi a riempirsi di quel liquido salato che era sgorgato fluente quando quella condanna era iniziata, quando la sua vita era finita.
 
Suo padre gli aveva insegnato che non doveva avere paura di niente. Dall’istante in cui aveva cominciato a comprendere, gli aveva ripetuto fino alla nausea che sarebbe diventato il più grande guerriero mai esistito, il più forte, il più temuto, e che gli altri popoli avrebbero tremato solo a sentir pronunciare il suo nome. Gli aveva detto che un giorno sarebbe stato così potente da liberarli dal loro più grande oppressore.
 
Ovviamente, suo padre non poteva sapere che quel giorno non sarebbe mai giunto.
Non ci sarebbe stata rivalsa per loro. Non ci sarebbe stata rivalsa per nessuno.
 
Perché, alla fine, nonostante tutto quello che aveva fatto per impedirlo, era riuscito a piegarlo.
Ma mai, mai gli avrebbe permesso di spezzarlo.
Non glielo avrebbe concesso.
Si era preso già troppo. Non poteva prendersi tutto.
 
No, non ci sarebbe stata rivalsa per loro, lo sapeva.
Eppure, per qualche assurdo motivo, continuava a credere che un giorno ci sarebbe stata vendetta.
 
Alcuni giorni prima…
 
Era stato convocato.
Non amava quando qualcuno lo interrompeva durante i suoi allenamenti quotidiani, ma opporsi sarebbe stato inutile, oltre che una palese e rischiosa mancanza di rispetto.
I suoi ordini dovevano essere rispettarti da tutti, anche da chi un giorno avrebbe preso il suo posto.
 
Per questo, anche se con riluttanza, aveva ridotto velocemente in polvere e senza il minimo godimento gli ultimi due saibaimen che ancora arrancavano nella speranza di avere la meglio su di lui, aveva raccolto il suo asciugamano e si era diretto presso le sue stanze per prepararsi a dovere.
 
Non aveva idea del perché avesse tutta quella urgenza di vederlo, ma doveva trattarsi di qualcosa di importante.
 
Erano diversi giorni che a palazzo c’era uno strano fermento. Gli schiavi stavano lavorando senza sosta nell’evidente tentativo di lustrare persino le segrete, il consiglio si era riunito ben tre volte negli ultimi due giorni, e suo padre e sua madre erano così presi dai loro doveri da non avergli dedicato il tempo che quotidianamente trascorrevano con lui.
 
Non che questo gli importasse, ovviamente.
Amore e dimostrazioni di affetto erano sentimenti che lo disgustavano oltre ogni dire. Nonostante la sua tenera età, non aveva mai ricevuto né chiesto un abbraccio o una carezza. Non era nella sua indole, non era nella sua natura.
Molti continuavano a sostenete che non avesse mai pianto. Mai, neppure nell’istante in cui era venuto al mondo. Sembrava che levatrice avesse tentato di schiaffeggiarlo per stimolare la reazione comune a tutti i neonati, ma che lui, niveo sotto lo strato di sangue incrostato, invece di strillare a gran voce, l’avesse guardata così intensamente da metterle i brividi. Secondo questa leggenda, la levatrice si era così tanto spaventata da averlo consegnato a sua madre per allattarlo senza neppure pulirlo, causando la prima delle rare occasioni in cui aveva ricevuto una sua stretta.
 
Durante le invasioni dei pianeti da assoggettare, aveva visto più volte i bambini avvinghiati ai loro genitori. Quei piccoli esseri inetti e incapaci avevano bisogno di ricevere protezione, calore, amore per poter sopravvivere. Ripugnanti. Ecco come li considerava, ripugnanti. I loro occhi brillavano per colpa delle lacrime prima che gli venisse scagliato il colpo mortale, e lo stesso accadeva quando venivano strappati da quelle braccia in cui avevano ricercato invano la salvezza.
Era certo che non ci fosse luce più bella.
 
Lui era diverso. Lui non aveva bisogno di protezione. Lui era forte, era spietato, ma proteggeva, se necessario. Perché lui era un principe. E per quanto il suo istinto animalesco gli suggerisse di fare il contrario, spesso l’educazione riusciva a prevalere.
Ma a volte, in altre occasioni, in altre rare, rarissime occasioni, accadeva il contrario, anche se ancora non era riuscito a spiegarsene la ragione.
 
Senza fare troppe cerimonie, si era spogliato degli abiti leggermente umidi di sudore gettandoli sul pavimento alla rinfusa, e si era diretto presso la grande stanza da bagno, lasciando che l’acqua bollente lavasse via lo sporco, perché di stanchezza ce n’era davvero poca.
Gli piaceva trascorrere del tempo sotto lo scroscio della doccia. Adorava vedere il vapore formarsi attorno a lui, la carezza del getto sulla pelle, e le goccioline che si addensavano sul suo corpo da bambino temprato ormai da tempo dalla fatica.
 
Avrebbe voluto trascorrervi molto più tempo, ma doveva sbrigarsi.
 
Gocciolante, con i capelli zuppi e la lunga e fiera coda perfettamente liscia e resa lucida dall’acqua, era entrato nella sua stanza, dirigendosi presso l’armadio.
 
Non aveva previsto di trovarvi all’interno un ospite, ma si era detto che forse avrebbe dovuto immaginarlo, o almeno tenerlo in considerazione.
 
“Si può sapere che diavolo ci fai qui dentro?” – aveva chiesto, nudo, bagnato, e con un cipiglio in viso che ricordava molto quello di suo padre.
 
Il suo ospite inatteso gli aveva riservato un’occhiata triste e delusa: il suo evidente tentativo di coglierlo di sorpresa era stato vano.
 
“Volevo farti paura” – aveva ammesso senza troppi problemi con la sua vocina da infante, scendendo dal ripiano con non poca fatica – “Ma tu non hai paura di niente”.
 
Trattenendo a stento un sorriso d’orgoglio, aveva osservato l’intruso arrampicarsi lungo le coltri per sedersi sulla sommità del suo letto, a gambe incrociate, con gli occhi pieni di ammirazione verso colui che vedeva simile ad un dio.
 
“Cosa ci fai qui?” – aveva chiesto, rude, continuando a cercare ciò che gli occorreva per prepararsi – “Sai che non puoi allontanarti dalla tua stanza o dalla palestra senza il suo permesso. Vuoi forse che ti punisca?”.
 
Era stato sgarbato. Sgarbato e brutale, e non aveva avuto bisogno di osservare il suo viso per rendersi conto del lampo di paura che lo aveva attraversato.
 
“Scusa…” – era stata la sua risposta, seguita da un goffo tentativo di alzarsi in piedi – “Non ti arrabbiare”.
 
Si era diretto presso la porta con quella sua andatura un po’ ondeggiante, decisamente buffa per un bambino della sua età, e si era allungato quanto bastava per arrivare alla maniglia, pronto a tornare da dove non sarebbe mai dovuto uscire.
 
“Tsk! Dove stai andando?” – gli aveva detto dopo aver indossato la sua biancheria, esasperato, con le braccia incrociate sul torace ancora nudo.
Come facesse a fargli venire quella strana sensazione ogni benedetta volta che lo maltrattava non era ancora riuscito a spiegarselo. Lui non aveva un cuore. Lui non provava sentimenti. Eppure, avvertiva sempre quel maledetto nodo allo stomaco, quella sensazione di dolore che lo faceva sentire simile ad un verme.
Qualcuno diceva che quello fosse ‘senso di colpa’. Ma sicuramente questo qualcuno si era sbagliato.
 
Aveva lasciato andare la maniglia con un po’ di esitazione. Era evidente che non sapesse se poteva rimanere o no. E i suoi piccoli occhi scuri così simili a quelli in cui si stava specchiando glielo stavano domandando, perché non avrebbe osato chiedere ad alta voce.
 
“Tsk… Siediti, mocciosetto! Se ti vedesse girare qui attorno sarebbe peggio. E chiudi a chiave la porta. Non voglio passare guai per colpa tua”.
 
Lo avrebbe abbracciato se avesse potuto. Sarebbe corso da lui e lo avrebbe stretto con le sue piccole braccia paffute. Ma non poteva farlo. Quelle cose erano vietate, e sapeva che gli avrebbe dato solo fastidio, che lo avrebbe fatto arrabbiare. E voleva troppo bene a suo fratello per farlo arrabbiare.
 
“Grazie, Vegeta”.
“Tsk” – e aveva ricominciato a vestirsi.
 
“Ho sentito dire da Nappa che papà ti cercava…” – aveva proseguito, riprendendo il suo posto sul letto”.
“Sì Tarble. Nostro padre vuole vedermi”.
“Per la missione da primo?”.
 
Si era girato di scatto, guardandolo dritto negli occhi.
Missione da primo. Non aveva neanche lontanamente pensato a quell’eventualità, ed ecco che il suo fratellino, di ben due anni più piccolo di lui, formulava un’ipotesi molto più che plausibile.
Forse, suo padre stava organizzando la cerimonia in suo onore per la sua prima missione da primo, e il che sarebbe stato a dir poco entusiasmante, escludendo il fastidioso gioco di parole.
 
“Cosa te lo fa pensare?” – aveva chiesto, dissimulando interesse.
“Bè… Hai già sette anni… Non pensi che sia arrivato il tuo momento?”.
 
Certo che lo pensava. Era più di un anno che si sentiva già pronto, in realtà. Sapeva di essere perfettamente all’altezza di conquistare un pianeta guidando un piccolo gruppo di uomini, e di riuscire anche a farlo in poco tempo, ma suo padre non aveva voluto dargli un’occasione. Non poteva negare di averlo odiato più di una volta per averlo messo da parte. Cosa c’era? Forse non si fidava di lui?
Bene! Se fosse stato davvero quello il motivo per cui era stato convocato, gli avrebbe dimostrato che si era sbagliato, che era perfettamente all’altezza, e lo avrebbe fatto conquistando il pianeta assegnatogli nella metà del tempo previsto. I suoi uomini lo avrebbero osannato, e suo padre si sarebbe ricreduto. Avrebbe dimostrato a tutti di cosa era capace il principe dei saiyan.
 
“Sei fortunato” – aveva detto il piccolo Tarble, vedendolo sorridere.
“Uhm?”.
“Ho detto che sei fortunato. Nostro padre è molto orgoglioso di te… Ti stima tantissimo. Sa che sarai il suo degno erede, e sono certo che ha aspettato tanto solo perché tu potessi essere pronto veramente. Onore che a me non toccherà mai”.
 
Vegeta si era soffermato a guardarlo con attenzione dopo aver udito quell’ultima frase, studiandone l’aspetto minuto, esile e fragile.
Suo fratello aveva la coda, esattamente come lui, aveva il suo stesso sangue nelle vene, lo stesso colore dei suoi occhi e dei suoi capelli, ma non aveva nient’altro in comune con lui. Se non fosse stato per quei particolari, forse non sarebbe sembrato neppure un saiyan.
Per niente incline al combattimento, aveva impiegato un anno per imparare a volare e ben due per riuscire a lanciare una sfera di energia. Tarble era appena in grado di portare a termine un combattimento di medio livello, e forse non sarebbe mai riuscito ad avere la meglio su uno scontro vero e proprio.
Suo padre lo considerava la vergogna della loro stirpe, un morbo da eliminare, una maledizione abbattutasi su di loro per chissà quale motivo. Entrambi sapevano bene che era solo grazie all’intercessione della loro mamma se non era stato esiliato su di un lontano pianeta, dimenticato da tutto e tutti.
 
‘Debole o no è pur sempre un Vegeta’ – aveva detto al marito, al re – ‘Ha sangue regale nelle sue vene. Non possiamo fingere che non sia così’.
 
Quelle parole riecheggiavano nella mente di Vegeta ogni volta che si ritrovava da solo con Tarble. Era l’unico a fargli visita regolarmente. Suo padre accettava di vederlo solo durante le occasioni ufficiali, e sua madre… bè, sua madre non riusciva a trascorrere insieme al suo secondogenito lo stesso quantitativo di tempo che trascorreva con lui. Non sapeva bene se non ci riuscisse o se non volesse, ma stava di fatto che Tarble passava la maggior parte del suo tempo da solo, rinchiuso nella sua camera, lì dove suo padre gli aveva ordinato di restare, lì dove nessuno poteva vederlo, lì dove non poteva incrociare gli sguardi di chi avrebbe potuto deridere la loro stirpe.
 
“Cosa indosserai?” – si era affrettato a cambiare discorso Tarble, evidentemente non ancora pronto a parlare della sua condizione.
“Non lo so ancora” – era stata la sua ammissione, felice che il fratello lo avesse salvato ancora una volta da quegli sgradevoli pensieri. Come facesse un bambino così piccolo ad essere tanto perspicace non era ancora stato in grado di capirlo.
“Io penso che dovresti mettere la battle suit blu. Quel colore ti dona molto. Faresti un figurone”.
 
A stento aveva trattenuto un sorriso. Suo fratello si preoccupava del suo aspetto. Forse, non avrebbe avuto neppure il permesso di partecipare alla cerimonia, e il suo unico desiderio era quello di vederlo al massimo della forma.
Era a disagio, e non sopportava essere a disagio. Ma non poteva neanche incolpare Tarble per la sua inettitudine! Era solo colpa sua se non riusciva a tenere a bada il sentimento di affetto che provava per quella sua versione in miniatura. E dubitava che ci fosse rimedio.
 
“Vada per quella blu” – aveva aggiunto, sfilandola dall’armadio – “Ma dopo fila nella tua stanza e non uscire senza essere convocato. O dovrai vedertela con me, hai capito?”.
“Va bene, te lo prometto” - e si era diretto nuovamente presso la porta - “E mi raccomando… Torna presto a casa”.
 
Magari si era sbagliato, ma a Vegeta, quel suo ‘torna presto a casa’ era sembrato più che altro un ‘torna presto da me’.
 

*

 
 
Era nervoso.
Nonostante stesse cercando di apparire come sempre, freddo e impassibile, non poteva negare a se stesso quanto radicato fosse il suo nervosismo.
Accadeva sempre così quando doveva ricevere una sua visita. Qualcosa finiva sempre per andare nel verso sbagliato, e questo puntualmente accadeva a sua spese.
 
Nell’ultimo periodo, si era spesso ritrovato a pensare che senso avesse la sua vita.
Un sovrano avrebbe dovuto prendere le decisioni che più lo aggradavano, avrebbe dovuto avere un potere illimitato, incarnare la figura di giudice, di guida e di autorità da temere oltre ogni dire. Ma che senso poteva avere farsi chiamare re quando si doveva portare rispetto, quando si doveva giurare obbedienza a qualcuno che avrebbe potuto distruggerti con uno schiocco delle dita, con un respiro un po’ più intenso, con la sola forza del pensiero?
 
Non avrebbe voluto riceverlo. Avrebbe voluto dirgli che poteva tranquillamente non scomodarsi a venire, che poteva starsene sulla sua bella astronave a sorseggiare vino e a vedere quell’essere disgustoso che chiamava figlio fare le treccine a quella specie di ermafrodita dalla pelle verde e dall’aspetto tutt’altro che minaccioso che si portavano dietro.
Ma non aveva potuto farlo. Ancora una volta, aveva dovuto ingoiare il rospo e chinare il capo, preparandosi non solo a ricevere quella schifosa lucertola, ma anche ad esaudire ogni suo capriccio, ogni suo desidero.
E mai come quella volta temeva quali essi potessero essere.
Non aveva voluto dare loro alcun tipo di spiegazione riguardo a quella visita. Solitamente era ben chiaro: quando voleva ottenere qualcosa non esitava a farlo presente, e lui e i suoi uomini erano costretti a chinare il capo e ad obbedire ciecamente se volevano salva la vita. E non volevano altro, anche se era ben chiaro che non appartenesse più a loro.
 
Sua moglie aveva più volte evitato che accadesse il peggio. Lui aveva espresso in diverse occasioni la volontà di ribellarsi a quel tiranno, ma lei era stata sempre pronta a farlo desistere, convincendolo che, seppure sotto schiavitù, respiravano ancora, e che sottomettersi era il modo migliore per garantire la sopravvivenza del loro popolo.
Si era convinto che le preoccupazioni della sua sposa fossero iniziate da quando aveva messo al mondo il loro secondogenito. Davvero non riusciva a comprendere perché reagisse in quel modo, e spesso si detestava per non essere riuscito ad imporre su di lei la sua volontà ed esiliare quell’errore su di un pianeta sperduto, abbandonandolo al suo destino. Non era degno di portare il loro stendardo, non era degno di avere il loro stesso sangue nelle sue vene, perché non poteva fare come facevano i guerrieri di infimo livello, ovvero liberarsi delle zavorre senza porsi troppi problemi?
Non poteva farlo perché la regina aveva deciso che a prescindere da tutto si trattava di suo figlio, di un principe, e che in ogni caso sarebbe stato trattato da tale.
Fortunatamente, era riuscito a relegarlo nell’ala ovest del palazzo, nascondendolo dagli occhi dei suoi ospiti indiscreti. Grazie a quell’espediente erano stati in molti a dimenticarsi di lui, e altri ne parlavano come se fosse morto. Solo in pochi avevano osato esprimere opinioni non esattamente a lui compiacenti, ma almeno in qualche occasione aveva potuto punire quegli stolti, impedendogli definitivamente di dare fiato alla bocca, e questo perché per quanto quello che dicevano corrispondesse a verità, non poteva permettere a quelle nullità di gettare fango su di loro.
 
Poteva ritenersi fortunato sotto un altro aspetto, almeno. Anche se il destino era stato tremendamente ingiusto nell’affibbiargli un secondogenito praticamente inutile, aveva fatto sì che il suo primo figlio, colui che portava il suo nome, nome che prima di lui aveva avevano avuto suo padre, suo nonno e via dicendo, fosse l’incarnazione del guerriero perfetto.
Vegeta aveva tutto quello che un saiyan potesse desiderare: era forte, spietato, coraggioso fino al punto di divenire spavaldo e incauto, e non si arrestava davanti a niente. Nonostante la sua tenera età, si era dimostrato molto più potente di tanti guerrieri adulti, finendo per superare in potenza anche suo padre, il re.
 
Se non gli aveva già concesso una missione da primo era stato solo per tenere a bada la sua immensa sete di potere. Se gli avesse mostrato sin dall’inizio quanto forte fosse in realtà, temeva che presto sarebbe diventato incontrollabile, e non era il caso che ciò avvenisse. Suo figlio doveva essere guidato, tenuto a freno, perché sentiva che un giorno sarebbe stato in grado di liberarli dal loro oppressore, e che non ci sarebbe stato un altro re davanti al quale avrebbe dovuto inchinarsi, a cui rendere omaggio.
 
Il suo nervosismo era però fomentato dall’unica richiesta palese fatta dal loro visitatore: il pretendere che il principe Vegeta assistesse al loro incontro. Che cosa poteva volere quell’essere da suo figlio?
Era stato scostante da quando aveva capito che quello sarebbe stato un incontro diverso dai soliti. Sua moglie era preoccupata almeno quanto lui, ma era sicuramente più brava a mascherarlo. Gli aveva semplicemente suggerito di attendere la sua visita e reagire di conseguenza. Che altro avrebbero potuto fare, d’altronde?
Niente se non attendere pazientemente il suo arrivo. Arrivo che sarebbe avvenuto a breve.
 
“Maestà” – lo aveva chiamato una guardia, interrompendo le sue elucubrazioni.
Al re era bastato girarsi nella sua direzione e guardare la sua espressione terrorizzata per capire che non avrebbe dovuto aspettare ancora a lungo.
 
“Va a chiamare la regina. Dille di venire qui immediatamente”.
“Subito” – ed era sparito dietro la porta scorrevole.
 
Con un sospiro, re Vegeta si era sistemato il rosso mantello sulle spalle, passandosi poi entrambe le mani guantate fra i capelli.
Era proprio curioso di scoprire cosa avesse da dirgli Lord Freezer.
 

*

 
Era convinto che suo padre si sarebbe molto arrabbiato con lui.
Si era presentato nella sala del trono quando tutti avevano già preso posto, e dall’espressione tesa che aveva letto sui volti dei presenti, non si prospettava nulla di piacevole.
Suo padre si era accomodato sul suo ampio scranno bianco imbottito di velluto rosso, e lo stesso aveva fatto sua madre, prendendo posto accanto a lui sul suo trono, identico a quello del marito se non nelle dimensioni, decisamente ridotte.
Entrambi indossavano le uniformi di gala, e sua madre, più bella che mai, aveva attirato gli sguardi dei presenti, compreso quello dello schifoso essere dalla pelle verde che Vegeta aveva riconosciuto immediatamente nonostante lo avesse visto solo in un’altra occasione. E se c’era lui, questo significava solo una cosa: che il suo padrone si trovava nei paraggi.
 
“Zarbon… quale onore”.
Re Vegeta aveva preso la parola per primo, sedendo eretto sul trono e fissando il suo interlocutore negli occhi.
Quel cane non aveva neanche avuto il buon senso di inchinarsi. Se solo non avesse scatenato una guerra, Vegeta lo avrebbe preso a pugni fino a farlo cadere in ginocchio. Come osava mancare di rispetto in quel modo a suo padre e a sua madre?
 
“Potrei dire la stessa cosa” – aveva risposto l’uomo dalla lunga chioma fluente al re, rispondendo all’evidente provocazione – “Vedo che sei molto in forma… E lo stesso vale per la tua splendida consorte. Poche volte i miei occhi hanno veduto una simile bellezza. Ne sono oltremodo deliziato”.
 
La regina non si era scomposta, continuando a fissare Zarbon con i suoi occhi scuri e penetranti. Quell’essere la disgustava. Ma mostrarsi contrariata lo avrebbe solo compiaciuto, e quella era l’ultima cosa che aveva intenzione di fare.
 
“Perché il tuo padrone sta ritardando, Zarbon?”.
 
Sembrava proprio che la regina fosse stata in grado di colpire e affondare, perché il sorrisetto compiaciuto sul viso di Zarbon aveva lasciato posto ad un’espressione di odio. Non tollerava quando qualcuno gli sbatteva sotto il naso la verità che tanto cercava di nascondere: lui era uno schiavo, e lord Freezer era il suo padrone, anche se gli piaceva credere il contrario.
 
“Quanta fretta vostra maestà… Siete una donna impaziente”.
“Sì, Zarbon. Sono impaziente”.
“E non sei l’unica! E’ proprio per questo che sei la mia preferita, Rosicheena”.  
 
Seguito dall’orrido figlio Dodoria, seduto a bordo del suo trono volante, lord Freezer aveva fatto il suo ingresso in scena agitando come di consueto la sua rivoltante coda rosa.
 
“Lord Freezer” – re Vegeta si era alzato in piedi, seguito da sua moglie, obbligati entrambi a rendergli omaggio in quel modo – “E’ un onore per noi averti qui oggi”.
 
Freezer aveva chiuso gli occhi, per nulla impressionato da ciò che aveva appena visto.
Chi pensava di ingannare quello scimmione con la barba?
 
“Tutto questo è un’offesa alla mia intelligenza, Vegeta. Non ho tempo da perdere, come ben sai, ed è inutile proseguire con questi assurdi convenevoli”.
 
Re Vegeta sarebbe esploso dalla rabbia se non fosse stato per la presenza confortante della moglie. Odiava essere così debole, odiava doversi aggrappare alla forza emanata da una donna, ma allo stesso tempo le era grato per non averlo mai messo da parte.
Se non fosse stato per lei avrebbe già da tempo commesso qualche errore irreparabile.
 
“Sono perfettamente d’accordo con te” – aveva allora proseguito il re, riprendendo posto sul suo trono – “Che cosa vuoi?”.
 
Era stato brusco. Sapeva di aver corso un rischio, ma non avrebbe tollerato un’altra offesa.
I saiyan erano essere coraggiosi. I saiyan erano guerrieri spietati che non temevano niente, e il re era la loro guida, il loro esempio. Ma lo sguardo crudele, lo sguardo che aveva riservato al re a e sua moglie era stato a dir poco agghiacciante.
 
“Che cosa voglio, saiyan?”.
 
Zarbon rideva, seguito da Dodoria, entrambi già al corrente di quale fosse la sua richiesta.
 
“Voglio tuo figlio”.
 
Improvvisamente, era stato come se la luna gli fosse crollata addosso.
 

*

 
Erano rimasti di sasso. Come se li avesse investiti in pieno una cascata d’acqua gelida, re Vegeta, sua moglie e i presenti erano diventati di pietra, convinti per un istante di aver sentito male, di non aver capito quello che in realtà era stato loro detto.
 
Non avevano avuto il coraggio di guardarsi. Entrambi avevano fissato i loro occhi sul mostro che si stava palesando davanti a loro, sul mostro che aveva appena confessato di voler prendere con sé il loro primogenito.
Ma perché desiderare una cosa del genere? Cosa poteva mai volere uno come lui dal principe Vegeta?
 
“Però… Finalmente sono riuscito a zittirti! Quasi non ci credo!” – era stato il suo sadico commento, pronunciato mentre agitava all’unisono la mano destra e l’apice della sua coda disgustosa - “Credo proprio di averti sconvolto, non è così?”.
 
Il silenzio di entrambi lo stava facendo divertire oltre ogni dire, evidentemente. Peccato che per loro non fosse lo stesso.
Temevano una rivolta. I soldati presenti in sala sembravano sul punto di attaccare i nemici, e a quel punto sarebbe stato impossibile per loro fermare l’irreparabile.
 
“Io sto ancora aspettando”.
 
Volevano reagire. Non tanto per mostrare ai presenti che a loro importasse qualcosa del figlio. Erano saiyan, esseri spietati, senza sentimenti, cosa poteva importargli di un bambino? La cosa che lo mandava in bestia era l’affronto subito. O meglio, questo era quello di cui si era convinto, questo era quello che avrebbe detto agli altri.
Era molto più semplice che mostrare di avere dei sentimenti differenti, dei sentimenti che un saiyan non poteva e non doveva provare.
 
“Io… io... non…”.
“Tu ‘non’ che cosa, Vegeta? Non vorrai forse opporti, spero. Dimmi, non vuoi darmi il principino? Credi forse che non mi occuperei di lui? E’ così?”.
 
Non aveva risposto. Non riusciva a trovare la forza di reagire. Sentiva solo il nervosismo diventare rabbia e montare sempre con maggiore foga. Presto non avrebbe più risposto delle sue azioni. Presto era certo che sarebbe avvenuto l’irreparabile.
 
E sarebbe accaduto davvero, se solo l’ultima persona che avrebbe voluto vedere in quel momento non fosse apparsa all’improvviso. Sarebbe avvenuto per davvero se suo figlio non lo avesse raggiunto un attimo dopo.
 
Era quasi apparso dal nulla, sbucando da dietro alcuni soldati che si trovavano in fondo alla sala. Era piccolo, piccolissimo nella sua divisa da cerimonia, ma fiero e altezzoso come pochi guerrieri.
Subito, gli occhi di tutti si erano posati su di lui, pronti ad osservare la sua prossima mossa.
 
Sua madre aveva stretto forte i pugni, serrando le labbra e irrigidendo la schiena. Perché si era fatto avanti? Cosa voleva dimostrare quello sciocco?


“Guarda un po’ chi si abbiamo qui…” – era stato il sarcastico commento di Freezer, il cui sguardo si era velato di bramosia dopo l’ingresso dell’oggetto del suo desiderio – “Lindo e pinto, per giunta. Dovresti prendere esempio da tuo figlio, Vegeta. Puntuale, e obbediente, proprio come piace a me”.
 
“Avete richiesto la mia presenza, lord Freezer?”.
 
Aveva preferito tagliare corto, mostrandosi deciso. Per la prima volta in vita sua aveva visto i suoi genitori vacillare, e non gli era piaciuto. Non aveva idea di cosa quel verme che li aveva assoggettati volesse da lui, ma non aveva intenzione di mostrarsi debole o spaventato. Non voleva essere un codardo, non voleva essere un moccioso pauroso. Voleva essere un guerriero. Doveva essere un guerriero perché un giorno sarebbe diventato re, e doveva essere d’esempio per il suo popolo.
E, forse, avrebbe dovuto iniziare ad essere d’esempio per i suoi genitori.
 
Sua madre non gli aveva staccato gli occhi di dosso. Era come se avesse smesso di respirare. Era spaventata. Forse, lui e suo padre erano stati gli unici a capirlo, ma a lui non importava.
Era grande ormai. Non era lì per il motivo che pensava, non avrebbe avuto la sua missione da primo, ma non era un problema. Era lì per mostrare al mondo che era diventato adulto, e non si sarebbe di certo tirato indietro.
 
Freezer continuava a guardarlo, rapito. Sembrava quasi ipnotizzato dal principino, dalla sua fierezza, dal suo orgoglio. Non sembrava temerlo, e questo lo rendeva ancora più interessante di quanto già non fosse.
 
“Vedo che non ti manca il coraggio, principino. Non sai quanto la cosa mi compiaccia”.
 
Vegeta non aveva pronunciato parola, continuando a tenere lo sguardo fisso su di lui. Era in attesa di sapere cosa di preciso volesse da lui. La sua richiesta era stata troppo generica.
Voleva parlare con lui? Voleva che lo seguisse? Ma perché, poi? Freezer li considerava delle scimmie inutili, lo sapevano tutti. Che cosa poteva volere dal legittimo erede al trono?
 
“Tuo figlio ha molto più fegato di te, maestà” – lo aveva di nuovo deriso il lord della galassia – “Non ho intenzione di attendere oltre. Fai preparare le sue cose. Non resteremo qui a perdere tempo”.
 
Stava per andarsene. Gli aveva già voltato le spalle, pronto ad abbandonare quel lurido pianeta con il suo ricco bottino quando la voce imperiosa del re aveva raggiunto le sue orecchie, facendolo bloccare di scatto.
 
“No”.
 
Era convinto di aver capito male. No? Quello scimmione gli aveva detto di no? Come aveva osato?
 
“Prego?” – aveva chiesto, girandosi di tre quarti – “Non credo di aver capito”.
“Lui non verrà con te” – era furente. Fiamme danzanti si agitavano nei suoi occhi color della notte. Sembrava che potesse prendere fuoco da un momento all’altro e come una cometa abbattersi su di loro, distruggendo ogni cosa incontrata sul suo cammino.
“Sai, Vegeta, mi sono sempre chiesto se tu fossi pazzo, o solamente stupido, ed oggi ho avuto la conferma che sei entrambe le cose. Dimmi, cosa ti fa pensare che io possa anche solo lontanamente aver preso in considerazione un tuo rifiuto? Sono curioso”.
 
Zarbon e Dodoria ridevano divertiti da quello che per loro doveva essere un siparietto piuttosto comico. Il cane che si rivoltava contro il suo padrone.
Ah, ma lui sapeva bene come rimetterlo in riga. Lo sapeva benissimo.
 
“Credo che tu non abbia capito, lord Freezer. A me non importa niente di mio figlio. Per quanto mi riguarda, potresti anche tagliargli la gola in questo preciso istante, non farebbe alcuna differenza” – e, a queste parole, l’intera corte, compresi la regina, il principe Vegeta e Freezer stesso, erano rimasti di stucco – “Quello che non accetto è che tu venga sul mio pianeta a darmi degli ordini. Non sono uno zerbino. Io sono un re”.
 
Sorridendo compiaciuto, Freezer aveva sollevato entrambe le mani accanto al viso, quasi in segno di resa, stringendosi nelle spalle.
 
“Se è così che la metti credo che non ci sia altro da dire, non è così? Mettiamola in questo modo, ci stiamo facendo un favore a vicenda. Tu ne stai facendo uno a me, ed io ne farò uno a te. Avanti, su! Chiedimi tutti quello che vuoi! Cosa ti occorre? Denaro? Gioielli? Astronavi? Posso darti tutto quello che desideri. In cambio di tuo figlio, ovviamente”.
 
Il silenzio che era calato nella sala del trono era stato pesante come un macigno. Tutti erano in attesa di una risposta da parte del re, che immobile continuava a fissare l’odiato interlocutore.
La regina non aveva avuto la forza di parlare, né di muovere anche solo un muscolo. Era confusa, quasi come se non fosse lì. Attendeva come tutti che suo marito parlasse di nuovo, e che da merce rubata trasformasse il loro primogenito in merce di scambio. Perché era certa che il re avrebbe accettato. Freezer gli aveva fatto un’offerta che non poteva rifiutare. Anche se quest’offerta avrebbe causato loro la perdita di un figlio.
 
“Voglio che tu vada via da qui” – aveva asserito ad un certo punto – “Voglio che tu te ne vada, e che non ti faccia vedere mai più. Non dovrai mai pronunciare il mio nome o quello di mia moglie, e nessun guerriero saiyan dovrà mai più ricevere ordini da te. Da oggi è come se noi non esistessimo. Da oggi in poi sarà come se non ci fossimo mai incontrati”.
 
Freezer, dopo aver pazientemente ascoltato le sue parole, aveva guardato prima Zarbon, poi Dodoria, e alla fine aveva nuovamente concentrato tutto il suo interesse sul piccolo principe, del tutto impassibile, quasi privo di emozioni, pregustando quello che di lì a poco sarebbe avvenuto.
 
“E sia” – era stata la sua ultima parola – “Mi sembra onesto. Ma fidati, saiyan, sono io ad averci guadagnato”.
 
Il re aveva preferito tacere.
 
“Vieni, principe, è tempo di andare. E’ arrivato il momento che qualcuno si interessi a te come meriti”.
 
E Vegeta lo aveva seguito senza guardarsi indietro, senza dire una parola.
Alla fine, suo padre aveva avuto ragione: alla fine, era riuscito a liberarli dall’invasore.
 

*

 
L’astronave di Freezer era la più grande su cui avesse mai messo piede in vita sua. Ovunque vi erano uomini che monitoravano le funzioni dei motori, e computer su cui erano indicate le posizioni dei suoi soldati sparsi per la galassia. Una schiera di schiavi aveva il compito di mantenere immacolato ogni singolo anfratto di quel posto all’apparenza sconfinato, rendendo il tutto simile ad una catena di montaggio perfetta.
 
Lui non aveva proferito parola. Si era limitato a seguire Zarbon lungo quel corridoio freddo e asettico illuminato dalle luci dei neon, il corridoio di quel luogo che da quel momento in poi avrebbe dovuto chiamare casa.
 
Non era semplicemente arrabbiato con suo padre. Ne era profondamente deluso e quasi disgustato. Sapeva benissimo che non avrebbe mai potuto avere la meglio su Freezer, ma lo aveva lasciato andare senza lottare. Era davvero così poco importante per loro?
Era combattuto. E lo era perché avrebbe voluto essere forte, spietato e infischiarsene di tutto quello che aveva dovuto subire, ma aveva scoperto di non esserne in grado. Alla fine, aveva capito di avere dei sentimenti, sentimenti che erano stati traditi da coloro che lo avevano messo al mondo.
Avrebbe dovuto trarre degli insegnamenti da tutto quello. Aveva imparato che alla fine dei conti non sei importante per nessuno se non per te stesso. E da quel giorno in poi, non si sarebbe curato più di niente all’infuori di sé.
 
Non sapeva cosa attendersi. Cosa volesse Freezer da lui non l’aveva ancora capito. Non aveva paura. Al contrario di suo padre, quel mostro schifoso non gli incuteva alcun timore, ma il non sapere lo rendeva nervoso.
E Zarbon, dove lo stava portando?
Lo avrebbe scoperto poco dopo, perché si era fermato improvvisamente davanti ad una grande porta automatica, e lui aveva quasi rischiato di finirgli addosso, troppo preso dai suoi ragionamenti.
 
“Entra, coraggio” – lo aveva invitato, indicandogli la porta – “Aspetta solo te”.
 
Sarebbe stato stupido se non avesse capito a chi si fosse riferito Zarbon. Ma non avrebbe mai e poi mai potuto immaginare cosa sarebbe accaduto dietro quella maledetta porta scorrevole, quando era stato inghiottito dal buio illuminato da due pupille rosse come il fuoco.
 

*

 
Si era risvegliato di colpo, ritrovandosi immerso nella vasca in cui venivano curati i soldati gravemente feriti in battaglia.
Avvertiva un forte bruciore là dove erano state causate cicatrici da mani crudeli, e le ossa fratturate lentamente stavano tornando al loro posto, provocandogli un dolore indicibile.
 
Non aveva mai provato quell’esperienza prima di allora. Il non aver mai dovuto svolgere una missione da primo non gli aveva permesso di affrontare uno scontro vero e proprio e di riportare delle vere ferite, e prima di allora aveva solo immaginato di trovarsi lì dentro, intento a riprendersi da un duello mortale, ma un duello in cui aveva avuto la meglio, da cui era uscito vincitore, in attesa di ricevere gli onori adeguati ad un guerriero del suo rango,  ad un guerriero degno del suo nome.
Ma niente di tutto ciò era avvenuto.
Si era ritrovato nella vasca per una ragione del tutto opposta, una ragione che mai avrebbe immaginato.
 
Non c’era stata alcuna gloria per lui. Non c’era stato neppure uno scontro, a dire il vero. Si era limitato a subire, incapace di reagire a quella ingiusta punizione che gli era stata inflitta.
Mai e poi mai avrebbe creduto di poter subire qualcosa del genere. Lui, un principe, l’erede al trono della più gloriosa razza di guerrieri che l’universo intero avesse mai visto, era stato trattato alle stregue di uno schiavo. E non di uno schiavo comune, ma di uno che meritava di essere punito per qualcosa che neppure aveva commesso.
 
Chi lo aveva messo lì dentro? Chi lo aveva raccolto da terra, spogliato e si era preoccupato di curarlo? Zarbon, Dodoria, o il suo carceriere in persona?
Per la prima volta nella sua vita, temeva le persone che avrebbe avuto intorno avrebbero compreso, temeva che gli altri lo avrebbero capito. Perché, per quanto fingesse che non fosse importante, per quanto stesse ripetendo a se stesso fino alla nausea che poteva averlo piegato ma non spezzato e che per questo poteva ritenersi orgoglioso, non riusciva a non pensare che gli altri lo avrebbero capito, che gli altri avrebbero visto, saputo, capito quello che gli aveva fatto, che gli altri avrebbero capito che non era più un principe, che non era più niente.
 
Per questo aveva chiuso gli occhi, chinando il capo quel poco che poteva per non mostrarsi vulnerabile neppure a se stesso. Non riusciva più a riconoscersi neppure nell’imperfetto riflesso che vedeva sul vetro della vasca.
 

*

 
“E’ un esemplare straordinario, il migliore che potesse mai capitarci.
L’aver dovuto rinunciare a quegli scimmioni è un dato del tutto irrilevante. Quella scimmietta adorabile ci ha appena dimostrato di essere il miglior acquisto che abbiamo mai fatto fino ad ora”.
 
Erano state queste le parole soddisfatte pronunciate dalla labbra rosso scuro e bagnate di liquido alcolico di colui che tutti chiamavano lord, colui che suo padre aveva chiamato Freezer.
 
Il demone dall’aspetto quasi androgino continuava a scrutare con i suoi occhi intrisi di morte l’immensità della galassia, in piedi, davanti all’enorme vetrata che aveva preteso di avere nelle sue stanze. Zarbon si trovava a venti passi da lui come l’etichetta di quella che a tutti gli effetti poteva considerarsi una corte gli imponeva, ansioso di ricevere approfondimenti relativi alla questione che il suo signore e padrone si ostinava a concedergli in insoddisfacenti frammenti.
Voleva sapere ogni cosa, ogni singolo dettaglio relativo a quello che era accaduto in quelle stanze. Aveva solo intravisto il piccolo ospite uscire malfermo sulle gambe e in stato di shock dopo lo speciale trattamento a cui era stato sottoposto, e moriva dalla curiosità di sapere dell’altro. La sua fantasia aveva galoppato per tutto il tempo, sempre, senza mai fermarsi durante tutte le otto lunghe ore scoccate dall’istante in cui lo aveva lasciato in quella stanza, vedendolo scomparire dietro le ampie porte automatiche.
Solo gli dei sapevano quanto avrebbe voluto assistere, e quanto avrebbe goduto nel farlo. Se c’era una cosa che lo eccitava oltre ogni dire era proprio assistere alla formazione di un nuovo adepto.
In quelle occasioni, il sangue cominciava a pulsargli nelle vene fino ad irrigidire le membra, e il cuore sembrava voler esplodere da un momento all’altro. La frenesia si impossessava di lui, e l’unica cosa che riusciva a placare quei dolorosi spasmi, era vedere il sangue del prescelto tingere il pavimento di rosso, e sentire la sua voce pronunciare le fatidiche parole che lo decretavano morto nella sua vecchia vita e rinato in quella nuova veste, veste di schiavo completamente votato al suo padrone.
 
Perché lord Freezer aveva deciso di tenerlo sulle spine in quel modo? Voleva forse perpetrare quel sadico gioco fino all’infinito?
 
“E sai…” – aveva ripreso a parlare, girandosi nella sua direzione – “La cosa più interessante è che non è per niente uguale agli altri” – lo stava fissando con quei suoi occhi penetrati, quasi come se stesse cercando di scavare dentro di lui – “Lui non ha la benché minima intenzione di cedere”.
 
“Co-cosa? Come sarebbe? Non ha ceduto?” – non riusciva a credere alle sue orecchie. Quella stupida scimmia non si era piegata? Non si era inchinata dinanzi al grande e potente Freezer giurandogli fedeltà? Ma come era stato possibile? Forse, Freezer non aveva usato con quella scimmia la stessa cortesia riservata agli altri, la stessa cortesia che aveva riservato anche a lui?
 
“E’ proprio così mio caro, vecchio Zarbon… Credi forse che stia mentendo?”.
“NO! No mio lord… Non potrei mai neanche pensare qualcosa di simile”.
“Meglio così… Non avrei il tempo di dedicare le mie attenzioni anche a te… Sai, il mio giovane ospite ha voglia di farmi divertire ancora a lungo… Ed io non ho alcuna intenzione di rinunciarci”.
 

*

 
Aveva perso la cognizione del tempo. Non sapeva quanti giorni fossero trascorsi da quando la sua prigionia aveva avuto inizio, da quando suo padre lo aveva venduto all’essere che pretendeva di essere chiamato lord.
Sentiva male alla schiena, e lo stesso valeva per tutto il resto del suo corpo.
Aveva sicuramente subito un trauma cranico, ed era quasi certo di avere la spalla sinistra lussata. E rispetto alle volte precedenti, poteva ritenersi più che fortunato. ‘Lord Freezer’ aveva avuto poco tempo da dedicargli la scorsa notte, e questo gli aveva permesso di uscire da quella stanza sulle sue gambe, senza dover subire l’umiliazione di essere trascinato per i capelli in quello sgabuzzino buio che gli avevano assegnato come posto dove vivere.
Non avrebbe mai creduto che un giorno gli sarebbe mancata la sua bella stanza luminosa, il suo armadio pieno zeppo di battle suit linde e pinte, e la sua confortevole stanza da bagno. Aveva sempre dato per scontato tutto quello che lo circondava nel suo castello, ma ora che non lo aveva più a sua disposizione, ora che aveva addosso la stessa divisa logora e intrisa di sangue da giorni, ora che non poteva lavarsi quando ne aveva bisogno e che dormiva su di un freddo pavimento senza neppure una coperta a ripararlo dal gelo, ora cominciavano a mancargli.
Il suo piccolo mondo cominciava a mancargli, e non riusciva a comprenderne un motivo.
 
Sin da quando aveva cominciato ad allenarsi gli era stato insegnato a non affezionarsi alle cose. Avrebbe dovuto viaggiare innumerevoli volte quando sarebbe diventato adulto per conquistare i pianeti lontani, e mai niente avrebbe dovuto diventare indispensabile per lui. Un guerriero aveva bisogno solo della sua forza e della sua concentrazione. Tutto il resto sarebbe stato superfluo.
 
Questo modo di pensare lo aveva accompagnato in ogni istante di quella sua giovane vita, e lui ci aveva creduto fin nel profondo. Perché, allora, all’improvviso tutto quello che aveva visto come un semplice soprammobile iniziava a mancargli?
 
Stava disperatamente cercando una posizione più comoda per evitare che il dolore si impossessasse completamente del suo piccolo corpo martoriato, ma sembrava impossibile. Freezer si era divertito parecchio durante le ore precedenti. Si era divertito a scuoterlo come un giocattolo, cercando in ogni modo di piegarlo al suo volere.   
Ma lui non aveva ceduto. Non si era lasciato distruggere da quella belva dagli occhi crudeli. Non gli aveva dato la soddisfazione di vedergli versare neppure una lacrima. E non avrebbe mai ringraziato abbastanza quel buio in cui l’avevano costretto, perché solo grazie ad esso aveva permesso ad esse di sgorgare dai suoi occhi scuri, scuri e gonfi per i pugni ricevuti.
 
Avrebbe dormito fra le sue lacrime durante quella notte. La battle suit si sarebbe inzuppata di quel liquido caldo e salato e avrebbe reso umida la sue pelle ferita.
E avrebbe pianto non per il dolore fisico che stava provando.
Avrebbe pianto, perché gli mancava la sua casa.
 

*

 
I lunghi capelli color dell’ebano stavano ricadendo fluenti sulle sue spalle, sfiorando la schiena muscolosa ma delicata fino a ricoprirla come una sorta di mantello lucido e perfettamente stirato.
La sua pelle bagnata brillava alla luce della luna piena, e la sua coda si muoveva lentamente, fendendo l’aria tiepida della sera. Se non fosse stato per le speciali finestre di cui ogni casa saiyan era dotata, la sua forma aggraziata sarebbe stata presto soppiantata da quella di un enorme gorilla furioso, e tutto attorno a lei sarebbe andato in frantumi.
 
Ma, in quella circostanza, non ci sarebbe stato bisogno della trasformazione in Ozaru per far sì che ciò avvenisse, perché, anche se non lo aveva dato a vedere, anche se aveva cercato di nasconderlo agli occhi di suo marito e dell’intera corte, ogni cosa attorno a sé era andata in frantumi, e questo era successo nello stesso istante in cui suo figlio era stato portato via, nell’istante in cui Vegeta era partito al seguito di Freezer.
Come poteva averlo permesso? Come poteva aver permesso che il suo primogenito, che il sangue del suo sangue venisse portato via da quella bestia infernale?
Aveva preferito mantenere la sua posizione di regina saiyan fredda e cinica cercando di reprimere i sentimenti di madre, gli unici che avrebbe dovuto ascoltare sin dal principio.
 
Non era mai stata una madre come lo erano le donne degli altri pianeti. Le saiyan non avevano istinto di protezione nei confronti della propria prole, e se esso faceva capolino, era loro dovere fare qualsiasi cosa per reprimerlo, o per non dimostrarlo. 
Le saiyan dovevano lasciar piangere i propri figli nelle culle, dovevano abituarli alla fame e alla sete, e dovevano percuoterli per renderli immuni al dolore. Non era loro permesso di stringere i propri figli al petto, di fare loro una carezza o di donare loro un bacio, e lei si era attenuta perfettamente alle regole che a suo tempo le erano state impartite dalla madre che a sua volta l’aveva imparato da sua madre e via discorrendo.
Vegeta era cresciuto in questo modo, con una madre che si era limitata a metterlo al mondo e con un padre che fino a qualche tempo addietro lo aveva considerato solo colui che un giorno avrebbe preso il suo posto, ma che evidentemente aveva finito per considerarlo solo della merce di scambio.
E Tarble… Tarble… Non riusciva neppure a pronunciare il nome del suo secondogenito senza provare un’immensa vergogna.
 
Non era una madre. Non lo era mai stata. Era solo una donna debole e crudele che non aveva mosso un dito per salvare coloro per cui avrebbe dovuto donare la sua stessa vita.
Ed ora, quella donna si sentiva svuotata e sola come non mai.
Ora, quella donna avrebbe voluto che la luna stessa le crollasse addosso, schiacciandola sotto la sua mole una volta per tutte. La volta in cui non avrebbe più sentito quel dolore scoppiato all’improvviso che le stava devastando l’anima.
 

*

 
Aveva raggiunto la sua stanza in punta di piedi, quasi alle stregue di una ladra intrufolatasi nella casa di uno sconosciuto.
Lo aveva trovato nel suo letto, rannicchiato su di un fianco, con il guanciale stretto tra le piccole braccia paffute e la boccuccia spalancata.
Paradossalmente, quella era la prima volta dopo tanto tempo che vedeva suo figlio addormentato, e aveva quasi dimenticato come potesse essere bello un bambino in quella circostanza, quando i brutti pensieri vanno via, quando le paure svaniscono, e tutto diventa più semplice e più colorato una volta entrati nel mondo dei sogni.
Era stata bambina anche lei, ma proprio non riusciva a ricordare di quali immagini fossero composti i suoi sogni.
 
Si sentiva a disagio. Non avendo mai compiuto un gesto materno, non sapeva bene cosa dovesse fare in un circostanza come quella.
 
La luce della luna che filtrava dalle tende bianche illuminava il piccolo viso del suo bambino, rendendo la sua pelle più luminosa che mai.
Sovrappensiero, si era ritrovata ad afferrare le coperte scivolate fino alla vita con tocco delicato e a portarle all’altezza delle spalle, riparandolo dal freddo che avrebbe potuto provare nonostante il clima mite, felice di non averlo svegliato.
Poi, non pensando più a niente, quasi come se ogni cosa fosse venuta da sé, come se avesse scoperto all’improvviso cosa volesse dire fare la madre, si era seduta su quel letto enorme per un bambino di quell’età, per poi sdraiarsi accanto al suo corpicino caldo e rilassato.
Provava l’irrefrenabile desiderio di accarezzare i suoi capelli sottili, ma aveva troppa paura di svegliarlo. Una saiyan, una spietata assassina, temeva di disturbare il sonno di suo figlio. Era quasi paradossale. E il paradosso era aumentato nell’istante in cui si era resa conto di provare ancora più timore al solo pensiero che il suo bambino potesse aprire gli occhi e trovarla lì, stesa accanto a lui, incapace di spiegargli in perché di quel gesto così inconsueto.
 
Tarble era così… diverso.
Non aveva niente in sé che ricordasse l’indole saiyan. Poteva esserlo nell’aspetto, ma in lui non c’era una particolare propensione alla lotta, e il suo livello di combattimento era decisamente basso per essere un membro della stirpe dei Vegeta.
A causa di questa sua diversità, il bambino era stato relegato da suo padre nelle sue stanze, impossibilitato a giovare della loro pur risicata compagnia.
Suo marito, il re, l’aveva persino accusata di infedeltà. Era evidente che fosse un’onta troppo grande per lui sopportare il peso di un figlio non rispondente ai suoi canoni.
 
E lei, anche in quella circostanza, non si era opposta. Anche in quella circostanza, non aveva fatto niente per proteggere il sangue del suo sangue.
 
Ma le cose sarebbero cambiate. E non perché non c’era più Vegeta e aveva necessità di qualcuno che prendesse il suo posto, che colmasse il vuoto che aveva lasciato la sua partenza, o meglio, la sua vendita. Le cose sarebbero cambiate perché Tarble era il suo bambino, perché Tarble era un principe, e perché il suo cuore non avrebbe potuto mai più sopportare un simile tormento.
 

*

 
“Che cosa ci fa lui qui?”.
 
Erano state queste le parole con cui re Vegeta aveva accolto l’arrivo di suo figlio e di sua moglie.
C’era in corso una riunione, come poteva essere venuto in mente a quella donna di condurre lì quello scarto?
Possibile che non riuscisse a capire quanto fosse irritato e che la presenza di Tarble lì non giovasse ai suoi nervi?
 
Ma Rosicheena non si era scomposta, invitando suo figlio a farsi avanti e a prendere posto accanto a suo padre, sedendosi alla sua destra.
 
“E’ giunto il momento per lui di imparare. E’ grande abbastanza per apprendere ciò che gli servirà in futuro. E sia ben chiaro che questo accadrà a partire da oggi”.
 
Nella sala era piombato un silenzio quasi surreale. I presenti non avevano osato fiatare, limitandosi ad abbassare il capo e ad attendere la sfuriata di sua maestà che sarebbe arrivata senza dubbio alcuno.
Invece, al contrario di ciò che tutti attendevano, re Vegeta si era limitato a poggiare la schiena contro lo scranno e a fissare i suoi occhi scuri sul bambino nelle cui vene scorreva il suo stesso sangue.
Che cosa doveva farne di lui?
Possibile che sua moglie credesse davvero che quella nullità potesse prendere il posto di Vegeta? A lui non importava niente delle linee di successione. A questo proposito, aveva già pensato di rimediare a quella perdita ingravidando nuovamente la sua sposa. Di certo, non sarebbe potuto capitargli un altro figlio disgraziato come quello che aveva davanti agli occhi in quell’istante.
 
Ma non aveva né la forza né la volontà di litigare con la sua consorte. A tempo debito, le avrebbe illustrato i suoi piani.
Per ora, si sarebbe limitato ad assecondare quel suo bizzarro desiderio. Dopotutto, poteva anche darsi che Tarble dimostrasse di avere qualche qualità di cui nessuno aveva idea.
 

*

 
Era rientrato nei suoi appartamenti a sera tarda, dopo aver cenato per la prima volta dopo tanto tempo insieme a sua madre e a suo padre. Era stata una giornata diversa per lui. Diversa ed entusiasmante.
La mamma lo aveva svegliato di buon ora, preparandolo di tutto punto e dicendogli che da quel momento in poi le cose per lui sarebbero cambiate, e in meglio.
Dopo un attimo di smarrimento ed anche di timore - fomentato dal cipiglio aggressivo del padre – si era adeguato a quella nuova situazione, impegnandosi con tutto se stesso per rendere entrambi i suoi genitori orgogliosi di lui, e le cose erano andate abbastanza bene.
 
Sarebbe stato tutto perfetto se non avesse sentito la mancanza di suo fratello.
 
Non aveva capito perché Vegeta non avesse preso parte alla cena, così come non aveva capito perché non fosse più andato a trovarlo negli ultimi giorni.
Sospettava che fosse impegnato nella sua missione da primo, ma cominciava ad essere preoccupato per la sua incolumità.
Aveva provato a chiedere a sua madre, ma aveva solo dato risposte vaghe o si era limitata a non rispondere.
Si sentiva strano, e non vedeva l’ora che suo fratello facesse ritorno per far sì che i suoi timori si placassero.
Non aveva mai trascorso tanto tempo lontano da Vegeta. Era solito fare irruzione nella sua stanza tutti i giorni, e molto più spesso di quanto si poteva pensare, suo fratello passava ‘casualmente’ dai suoi appartamenti, o vi passava davanti giusto per ‘constatare se fosse ancora vivo o se fosse morto di paura dopo aver visto la sua stessa ombra’.
A modo suo, Vegeta era in grado di farlo sorridere. Quelle che poteva sembrare delle battute offensive era solo bizzarre dimostrazioni dell’affetto che nutriva nei suoi confronti.
E lui gli voleva un bene inimmaginabile. Suo fratello era il suo eroe e, anche se sapeva di non poterlo eguagliare, sperava ugualmente di poter diventare simile a lui.
 
Avrebbe continuato a formulare tali pensieri fino all’infinito se un rumore improvviso non l’avesse colto di sorpresa, facendolo sobbalzare e mettere in allarme.
Aveva fatto pratica di difesa, e sapeva esattamente cosa avrebbe dovuto fare in caso di attacco, ma se il nemico fosse stato più grosso o più forte di lui non avrebbe avuto speranze.
 
Doveva farsi coraggio. Doveva farsi coraggio e mostrarsi per quello che era: un saiyan, e non uno qualunque, ma un principe.
 
Per questo, si era messo sulla difensiva e aveva chiesto a gran voce se ci fosse qualcuno, intenzionato a scacciare il nemico senza l’intervento di terzi.
 
Ma un rantolo, un rantolo sommesso era sopraggiunto alle sue orecchie, facendogli credere che forse non si trattava di un nemico, ma di un animale ferito capitato nella sua stanza chissà come.
Per questo motivo si era acquattato sul pavimento, avanzando sulle ginocchia e sulle mano, sbirciando sotto il letto alla ricerca dello sconosciuto clandestino.
 
Ma quando i suoi occhi, abituatisi alla penombra, avevano scorto la figura che si nascondeva sotto il mobile, non aveva potuto non indietreggiare prima di scattare in avanti, in lacrime, colto dalla paura di essere arrivato troppo tardi.
 
“Vegeta! Vegeta, ti prego, rispondimi!”.
 
Suo fratello, il suo adorato fratello, si trovava nella sua stanza, nascosto come un ladro,  con la bella divisa blu che gli era stata regalata da suo padre strappata in più punti e intrisa di sangue, e il volto tumefatto, specchio della sofferenza che il suo fisico stava provando.
 
Senza pensarci troppo, si era avventato su di lui, trascinandolo via da quella penombra e sollevandolo con tutta la forza che aveva in corpo, nonostante la tenera età e la differenza di altezza. Con il minimo dello sforzo era riuscito a metterlo sul letto, ma non appena la schiena di suo fratello era entrata in contatto con il morbido materasso, un urlo malamente soffocato era fuoriuscito da quelle labbra sanguinanti, e l’istinto lo aveva fatto girare di colpo, rivelando allo sguardo velato di lacrime di Tarble il motivo di tanto dolore: la coda, la sua bellissima coda, il simbolo dell’appartenenza alla loro razza, era stata intaccata in più punti alla radice, quasi come se qualcuno avesse deciso di provocarvi dei solchi per innestarvi qualcosa, ma più probabilmente era stato fatto solo per provocare in suo fratello un dolore che nessun saiyan era  mai stato in grado di sopportare.
 
Era in preda al panico. Al panico e ad una rabbia che non aveva mai provato prima di allora. Chi aveva ridotto Vegeta in quelle condizioni? E come aveva fatto? Vegeta non era uno sprovveduto, sapeva benissimo come fare a difendersi, e suo padre non gli avrebbe mai affidato una missione da primo in cui potesse riportare simili danno.
E poi, perché si era rintanato nella sua stanza invece che recarsi in infermeria?
C’era qualcosa di strano, qualcosa che non riusciva a spiegarsi, qualcosa che gli stava facendo ribollire il sangue nelle vene.
 
Doveva aiutarlo. Doveva aiutarlo immediatamente, ma era chiaro che non potesse richiedere l’aiuto di un medico. Suo fratello gliel’aveva fatto capire chiaramente facendosi trovare nella sua stanza.
 
Dopo aver preso un paio di respiri nella speranza di calmarsi, si era precipitato in bagno per recuperare degli asciugamani puliti e dell’acqua bollente. Doveva curare quella ferita. Avrebbe potuto recidergli la coda, ma non ne aveva il cuore.
No, suo fratello sarebbe guarito. Lo avrebbe medicato e nascosto nella sua stanza finché non fosse stato in grado di parlare e spiegargli cosa gli era capitato.
E così avrebbe fatto, se solo il rumore di qualcosa che si infrangeva al suolo non lo avesse bloccato, spingendolo a tornare immediatamente nella stanza da letto.
 
Sulla soglia, con ai piedi quello che restava di un piatto colmo del suo dolce preferito, c’era sua madre, la sua amata mamma, rimasta di sasso alla vista del suo primogenito ferito e probabilmente in fin di vita.
 
“Vegeta…” – aveva appena sussurrato, precipitandosi sul letto e cercando più volte di sfiorarlo, ma invano. Troppo grande era in lei il timore di fargli del male, di causare in lui ancora più dolore di quanto già non gli fosse stato causato – “Vegeta… Vegeta, guardami. Guardami. Che cosa ti hanno fatto? Che cosa ti ha fatto?”.
“Mamma…” – Tarble era spaventato e sollevato allo stesso tempo.  Non avrebbe più dovuto occuparsi tutto solo del fratello ferito, ma sua madre era spaventata, e lui non l’aveva mai vista spaventata prima di allora.
Che suo fratello stesse… Che Vegeta stesse…? No, non voleva nemmeno prendere in considerazione quell’ipotesi. Vegeta era forte, era il guerriero saiyan più forte che avessero mai visto, e non sarebbero state quelle stupide ferite a privarlo della vita.
“Mamma, ho preso… Ho preso questi…” – e le aveva mostrato degli asciugamani puliti.
“Bravo. Sei stato bravissimo Tarble, bravissimo” – aveva afferrato le asciugamani con entrambe le mani, per poi premerle sulle ferite sanguinanti della coda, continuando a chiamarlo per nome, continuando a ripetergli di non mollare.
“Coraggio Vegeta. Fallo per me… Non mollare. Sei un principe. Non puoi mollare. Non puoi. Non puoi o giuro che… giuro che…”.
“Ma-madre…”.
 
Se non avesse visto le sue labbra muoversi e i suoi occhi tumefatti spalancarsi per quanto questo era possibile, non avrebbe mai creduto che una persona in quelle condizioni potesse avere ancora la forza di parlare.
 
“Vegeta! Vegeta… Che cosa ti è successo? Chi è stato? Che ti hanno fatto??” – Tarble non era riuscito a trattenersi. Voleva sapere cosa avevano fatto a suo fratello, doveva saperlo per poterlo vendicare.
Ma Vegeta era troppo stanco per rispondere a quell’infinito numero di domande e, per quanto poteva, si era limitato a pronunciare le uniche due parole che mai avrebbe creduto di sentir dire proprio a lui.
“Mi dispiace” – aveva detto.
 
Vegeta aveva detto che gli dispiaceva. E, poco dopo, era caduto nell’oblio.
 

*

 
“Come ha osato! Come ha potuto ordire un simile tradimento nei nostri confronti? COME? Vuole forse condannare a morte il nostro popolo, vuole farci spazzare come foglie al vento? E’ questo che vuole? E’ QUESTO?”.
 
Re Vegeta era furioso. Furioso con sua moglie, furioso con i suoi figli, furioso con l’universo intero.
Perché Vegeta era tornato? Perché aveva osato commettere un simile affronto? E come poteva sua moglie fargli una richiesta del genere? Nasconderlo. Gli aveva chiesto di nasconderlo! Come se Freezer fosse così stupido da non essersi reso conto di quello che aveva fatto, che il suo più prezioso acquisto fosse scappato nel cuore della notte! Come se Freezer e i suoi scagnozzi non sapessero dove potesse essersi nascosto!
 
Ma che cosa era preso a sua moglie? Prima lo obbligava a trascorrere del tempo con Tarble, e adesso pretendeva di dare asilo a suo figlio. Quella pazza aveva intenzione di scatenare una guerra e di portarli alla rovina, evidentemente!
 
“Non riesco più a capire chi ho davanti, Rosicheena. Non ti riconosco più. Chi sei tu? Che cosa hai fatto alla mia regina?”.
 
Si era lasciato cadere sul suo ampio trono, strofinandosi la fronte con la mano destra, cercando una spiegazione a tutta quella situazione apparentemente senza via d’uscita.
Dal canto suo, Rosicheena era rimasta impassibile, per nulla turbata dalle ultime affermazioni del suo regale consorte.
Era più che normale che non si rendesse conto di quello che le era capitato: durante quello che solo apparentemente si poteva chiamare matrimonio, si era solo limitato a farle visita per sfogare i suoi bisogni e a renderle omaggio esclusivamente in pubblico. Vegeta non era cattivo con lei, era solo non programmato per elargire attenzioni o tenerezze. E non che lei le avesse mai chiesto una cosa del genere, dopotutto.
Ma, dopo più di dieci anni di matrimonio, gli stava chiedendo di fare una cosa non per il proprio piacere, ma per salvare la vita del loro bambino, per salvare la vita del piccolo Vegeta.
 
“Non è di me che stiamo parlando, ‘vostra maestà’. Non ti ho chiesto denaro per organizzare una stupida festa o di farmi visita più volte durante la notte. Ti ho chiesto di aiutare nostro figlio”.
“Che cosa dovrei fare! Dimmelo. Dovrei farlo scappare come un codardo? O permettergli di nascondersi in eterno sotto le tue gonne?”.
“Non osare… Noi siamo saiyan. Siamo guerrieri, non ci nascondiamo davanti a niente e a nessuno”.
“E dunque?” – si stavano sfidando apertamente. C’era solo da vedere chi tra i due l’avrebbe spuntata.
 
La regina si era presa un attimo prima di rispondere. Come far comprendere ad un uomo così burbero che c’era molto di più rispetto a quello che gli era stato insegnato?
 
“Ha… Ha una spalla lussata” – aveva improvvisamente ripreso a parlare con voce tremante, cercando di descrivere a suo marito quello che i suoi occhi avevano scrutato sul corpo di suo figlio – “Ha due costole rotte e un trauma cranico. Sulla schiena, sul torace e sulle gambe ci sono lividi, tagli e segni di… segni di frustate. Ma la cosa peggiore è la coda. L’ha recisa in più punti con un taglierino arrugginito. L’ha intaccata in più punti, lasciandola attaccata alla radice solo per un piccolo lembo di pelle. Ogni singola terminazione nervosa del suo corpo viene scossa da un dolore insopportabile, e questo succede anche se respira. Se respira. Tu sai di che dolore parlo, non è vero? Lo sai perché l’hai provato pure tu”.
 
Re Vegeta la stava ascoltando, apparentemente impassibile, in attesa che finisse di descriverle quell’orrore.
La coda era quasi recisa. Come poteva aver sopportato un simile dolore? Dove poteva aver trovato la forza di scappare?
Ricordava chiaramente in giorno in cui gli aveva detto di proteggere la sua coda a costo della vita perché essa era il simbolo della sua razza. Era evidente che suo figlio avesse messo in pratica i suoi insegnamenti, decidendo di sopportare le pene dell’inferno piuttosto che rinunciare ad essa. Nonostante tutto quello che gli era stato fatto, nonostante lo avesse usato come merce di scambio, suo figlio sentiva ancora di essere un saiyan, sentiva ancora di dover portare rispetto a lui che non aveva avuto lo stesso riguardo nei suoi confronti.  
 
“Lo ha picchiato fino a fargli perdere i sensi. Lo ha… torturato e… solo gli dei sanno cos’altro hanno fatto quelle luride mani sul corpo di mio figlio!” – incapace di trattenersi ancora, la regina dai capelli color dell’ebano aveva lasciato che le lacrime di rabbia e di dolore ricacciate indietro fino ad allora scendessero lungo le sue guance, mostrandosi finalmente per quella che era: una madre disperata a causa delle sofferenze patite da suo figlio – “Non possiamo permettergli di farlo ancora, mio sposo. Non possiamo. Potrebbe tornare di nuovo, potrebbe minacciarci ancora e decidere di prendersi anche Tarble, di strappare tutti i bambini dalle braccia delle loro madri! Non possiamo permettere che ciò accada!”.
 
Re Vegeta era furente. I suoi occhi dardeggiavano fiamme fino a pochi istanti prima sopite. Era come se le accorate parole di sua moglie avessero risvegliato in lui la sua vera indole, quella di guerriero feroce e inarrestabile, quella di uomo capace di trarre forza e godimento dalla paura causata dal trovarsi davanti ad un nemico molto più potente di lui. E questo suo risveglio da quello stato di surreale torpore lo doveva alla donna che aveva scelto di avere al suo fianco, a quella donna che aveva mostrato senza timori il suo cuore di madre, e che gli aveva fatto scoprire di essere molto di più di un sovrano crudele e senza cuore.
 
“E non lo permetteremo” – aveva sentenziato, balzando in piedi – “Convoca immediatamente il consiglio. Nessuno oserà mai più oltraggiare me o alla mia prole”.
 

*

 
Si era risvegliato con difficoltà, ritrovandosi steso sul suo letto, nella propria stanza, sopraffatto da un’emicrania così forte che gli aveva impedito di tenere gli occhi aperti troppo a lungo.
Ogni singolo muscolo del suo corpo pulsava, e anche se il dolore lancinante che aveva provato per così tanto tempo si era attenuato, aveva paura di muoversi.
Delicatamente, facendo attenzione, aveva girato il capo verso la sua destra, mugugnando sommessamente per gli spasmi del suo collo, scoprendo che suo fratello era sdraiato accanto a lui, sveglio, ma immobile.
 
“Ta-Tarble?” – lo aveva chiamato, incerto. Non ricordava assolutamente nulla, se non il buio opprimente di quello sgabuzzino in cui lo avevano rinchiuso e il dolore che aveva devastato il suo corpo. Come era arrivato lì? Come aveva fatto a tornare a casa?
“Sshh…” – lo aveva ammonito suo fratello, sorridendogli sereno – “Devi stare buono… Il medico ha detto che sei vivo per miracolo, non vorrai di certo combinare un disastro, vero?”.
“Cosa? Un… un disastro? Io non… Ahhh…” – si era lamentato per il dolore al capo che continuava ad aumentare.
“Visto? Ti avevo detto di stare buono! Non vorrai mica farmi arrabbiare, vero?”.
 
Nel sentire quel rimprovero, Vegeta aveva sorriso, nonostante i muscoli del viso gli facessero un male atroce.
Era a casa. Era davvero a casa, nella sua camera, sdraiato sul suo letto, con accanto il suo fratellino saputello e un po’ impiccione.
Forse, tutto era tornato uguale a prima. Forse, non avrebbe più dovuto stare allerta, con la paura di una nuova, improvvisa e terribile punizione da subire.
 
“Sei a casa… E andrà tutto bene”.
 
Peccato solo che le parole rassicuranti del piccolo Tarble fossero state smentite da un improvviso boato seguito da un chiarore così intenso da aver illuminato a giorno la sua stanza, nonostante fosse ancora notte fonda.
 
Tarble si era alzato di scatto, per poi rannicchiarsi più che poteva accanto a Vegeta, cercando di placare la sua evidente paura.
Stava tremando. Il piccolo saiyan stava tremando, e suo fratello non riusciva a capire il motivo.
 
“Tarble… che cosa… cosa succede?”.
“Niente” – era stata la sua sbrigativa risposta – “La mamma ha detto che dobbiamo stare qui, al sicuro. Ha detto di non muoverci e che presto tutto sarebbe finito”.
 
‘Tutto sarebbe finito’? Che significato poteva avere una simile frase? Che voleva dire che tutto sarebbe finito?
 
“Tarble, che altro ha detto la mamma? Che cosa… cosa ha detto?” – parlare diventava sempre più difficile. La testa sembrava sul punto di esplodere, e il tentativo di sollevarsi sui gomiti era fallito miseramente. Perché era così debole? Perché?
“Ha detto che dobbiamo stare qui” – aveva ripetuto suo fratello, ancora tremante – “Dobbiamo stare qui, al sicuro”.
“Ma perché?”.
Stava cominciando ad agitarsi. Sudava, e sentiva un forte dolore all’altezza dello stomaco. Sentiva che qualsiasi cosa stesse accadendo fuori dalle mura del palazzo avesse a che fare con lui, e cominciava a credere di aver sbagliato a tornare indietro, di aver sbagliato a tornare a casa.
“Tarble, perché?”.
Suo fratello si era sollevato quel tanto che bastava affinché potesse guardarlo negli occhi, spinto dal panico che aveva sentito nella voce di Vegeta. Doveva mantenere la calma. Era sì il più piccolo fra loro due, ma il suo fratellone, il suo eroe stava male, era ancora convalescente e toccava a lui prendere in mano la situazione.
“Lui sta arrivando. Nostro padre lo sta aspettando per, per combatterlo”.
Vegeta aveva smesso di respirare per un breve istante, pietrificandosi.
“Lui… lui chi?”.
“Freezer. Papà ha dichiarato guerra a Freezer”.
 

*

 
Sentiva che prima o poi quel momento sarebbe giunto. Sentiva che quegli scimmioni si sarebbero rivoltati contro di lui, un giorno.
Però, c’era da dire che non avrebbe mai e poi mai pensato che il re degli scimmioni gli dichiarasse guerra per l’onta subita dal suo figlio primogenito. A quanto pareva, anche lui aveva un cuore! Peccato che presto avrebbe smesso di battere.
 
A dir la verità, era piuttosto divertito dalla scena che si stava svolgendo sotto i suoi occhi. Gli scimmioni avevano deciso di dare fondo a tutte le risorse a loro disposizione pur di fermare i suoi soldati, gli ‘invasori’, e questo aveva comportato la presenza di un numero esorbitante di ozaru imbizzarriti in giro per il pianeta, intenti a distruggere tutto quello che capitava loro a tiro.
 
Uno spettacolo a dir poco raccapricciante.
 
Zarbon sembrava oltremodo disgustato da quella visione. Non c’era grazia in quella lotta, non c’era nessuna bellezza. C’erano solo urla e devastazione. Non era uno spettacolo per lui degno di essere ricordato. Quel branco di scimmioni troppo cresciuti faceva solo troppo rumore per i suoi gusti.
Quello non era fegato. Stavano solo dimostrando di essere terribilmente stupidi.
 
“Credo che a breve il loro re ci raggiungerà” – aveva aggiunto Freezer, sorseggiando il liquido ambrato dal suo bicchiere pregiato – “E ho come l’impressione che rideremo davvero di gusto”.
 

*

 
“UCCIDETELI SENZA NESSUNA PIETA’”.
 
Era stato questo l’ordine impartito da sua maestà, il re Vegeta.
Il sovrano aveva deciso di attaccare il loro soppressore per aver osato oltraggiare lui, la sua prole e il suo intero popolo, incitandoli con un discorso che mai prima d’ora si era udito dalla bocca di un sovrano. Le sue parole accorate e cariche di sentimenti di rivalsa erano state come una ventata d’aria fresca per tutti coloro che sin da troppo tempo si erano ritrovati vittime dei soprusi di un despota venuto da lontano.
Guidato dal loro re, il popolo saiyan stava per affrontare la più epica battaglia della loro storia, la battaglia che li avrebbe visti o vincitori o sterminati. Perché sapevano che quelle erano le uniche due alternative plausibili.
 
Re Vegeta era a comando di un nutrito gruppo di soldati scelti, i migliori che aveva a disposizione. Altri dieci plotoni si erano diramati in più punti del pianeta, pronti ad attaccate il nemico e a difendere a loro volta il territorio loro affidato. Donne, uomini, persino i bambini in età da combattimento stavano dando l’anima per proteggere la loro casa, il loro re, il loro onore, e per cambiare le scelte fatte per loro dal crudele destino.
Gli ordini erano stati chiari: distruggere, annientare, polverizzare più soldati possibile, in modo che Freezer non ricevesse più protezione dai suoi sottoposti.
 
Ai dieci comandanti supremi era stato affidato il compito di fronteggiare Zarbon, Dodoria e gli sfrontati membri della Squadra Speciale Ginyu. Peccato solo che questi ultimi non si fossero fatti neanche vedere. Era evidente che lord Freezer non avesse ritenuto necessario il loro intervento.
 
“Ci considera degli avversari così poco degni?” – era stata la reazione irata del re, che circondato dal bagliore delle abitazioni in fiamme avanzava come fa un demone all’inferno. Stavano solo perdendo tempo. Stavano solo aggirando l’ostacolo, e questo faceva di loro dei codardi agli occhi di quella bestia che aveva osato sottometterli.
Freezer doveva essere eliminato. Freezer doveva essere distrutto, e doveva essere lui a farlo. Doveva essere lui a strappargli quel cuore di pietra dal petto e darlo in pasto alle belve feroci. Doveva farlo per difendere l’onore del suo popolo. Doveva farlo per sua moglie. Doveva farlo per i suoi figli.
 
“A noi due, Freezer!”.
“ASPETTA! VEGETA, ASPETTA!”.
 
Non aveva potuto raggiungerlo. Rosicheena non aveva fatto in tempo ad allontanare da sé i nemici e raggiungere il suo consorte. Vegeta voleva battersi contro Freezer da solo. Vegeta voleva affrontarlo di persona, voleva punirlo, voleva vendicarsi dell’affronto subito da lui e da suo figlio, voleva fare tutto questo insieme. E voleva farlo da solo.
 
Il cuore della regina aveva preso a galoppare ad una velocità immane.
Improvvisamente, era come se si fosse estraniata da tutto ciò che le era attorno, come se non ci fosse una guerra in corso, come se dei nemici non fossero sul punto di attaccarla ancora una volta.
Quello che stava vedendo non era ciò che stava accadendo realmente. Era come se fosse in preda ad una sorta di visione, come se stesse già vivendo quello che sarebbe accaduto in una specie di filmato trasmesso al rallentatore.
 
Suo marito aveva raggiunto il punto più lontano dell’atmosfera che circondava il loro pianeta. Suo marito aveva aumentato il proprio livello ci combattimento fino a far esplodere lo scouter dei guerrieri che aveva attorno, guerrieri che lo osservavano impietriti. Suo marito aveva concentrato quell’energia nei palmi delle sue mani fasciate dai guanti. Suo marito aveva colpito la navicella nemica, infrangendo l’oblò dietro il quale si stava nascondendo Freezer.
 
Sembrava che ce l’avesse fatta. Dall’apparente calma che aveva seguito il boato che aveva fatto tremare l’intero pianeta, sembrava che il re avesse assolto il proprio compito, che il re avesse distrutto in nemico.
Tutti avevano il fiato sospeso.
Ogni singolo saiyan, ogni singolo soldato nemico, osservava il re dei Saiyan che ansimante e sfinito attendeva di scoprire l’esito di quel suo attacco devastante.
Se lo avesse sconfitto, se avesse davvero distrutto Freezer, la guerra sarebbe cessata, e tutti loro sarebbero stati liberi, liberi di pensare, di agire, di governarsi come meglio credevano. Molti di loro avevano cominciato ad assaporare quel momento.
Ma quello che era accaduto un istante dopo, aveva distrutto ogni sogno di gloria.
 
Dalla coltre di denso fumo, l’improvvisa apparizione di un arto antropomorfo aveva colto di sorpresa il re, trapassandogli il petto da parte a parte, esattamente all’altezza del cuore.
Non aveva avuto il tempo per rendersi conto di quello che stava accadendo. Non aveva avuto il tempo per chiedere ai suoi dei di perdonarlo per i suoi peccati. Aveva avuto solo il tempo che c’era voluto a spirare.
Ma sua moglie lo aveva avuto.
La regina Rosicheena aveva avuto il tempo di comprendere che per suo marito non ci sarebbe stato ritorno. La regina Rosicheena aveva avuto il tempo di comprendere che per loro non ci sarebbe stato più scampo. La regina RosiRosicheena aveva capito che le sarebbe rimasta un’ultima cosa da fare prima di raggiungere il suo consorte.
 

*

 
Aveva volato ad una velocità che non avrebbe mai creduto di poter raggiungere. Aveva distrutto senza alcuna pietà tutti coloro che avevano osato pararsi davanti a lei, seminando ovunque morte e distruzione. Le lacrime di dolore per quello che era appena capitato erano state ricacciate indietro con fermezza da quella donna che aveva deciso di salvare ciò che era rimasto della sua famiglia, ciò che era rimasto della sua stirpe.
Non c’era un minuto da perdere. Ogni attimo poteva essere l’ultimo, e lei doveva garantire la sopravvivenza dei suoi figli, doveva permettere a loro di vivere la vita che ad altri sarebbe stata negata.
 
“TARBLE! VEGETA! DOBBIAMO FARE PRESTO! PRESTO!”.
 
Aveva buttato giù la porta della stanza di suo figlio con un’onda di energia, trovando entrambi i bambini sdraiati sul letto. Tarble aveva l’aria terrorizzata, e nonostante le ferite sul corpo di Vegeta fossero tutte rimarginate, sul viso di quest’ultimo si poteva ancora leggere il dolore e la sofferenza che aveva provato e che continuava a provare.
Nel vederla piombare così all’improvviso, sporca di sangue e con gli abiti logori, Tarble aveva avuto un attimo di esitazione, stentando quasi a riconoscere quella che era solo una pallida larva della donna bellissima e dal regale aspetto che era la sua mamma.
Ma i suoi occhi, quegli occhi fieri e disperati allo stesso tempo non potevano essere altri che i suoi, e in meno di un attimo, il bambino aveva cercato di raggiungerla e di ottenere conforto dalle sue braccia delicate.
 
“Madre! Madre! Siete tornata! Siete qui!”.
“Sì, sì, sono qui. Ma non è questo il momento adatto per sciogliersi in simili effusioni! Dobbiamo fare presto, dobbiamo andare via, e subito!” – senza esitare, aveva cercato di prendere Vegeta in braccio, ma quest’ultimo era stato di tutt’altro avviso. Il suo orgoglio gli aveva dato la forza di sollevarsi sui gomiti e di mettersi in piedi sulle proprie gambe, anche se un po’ traballante e ancora pervaso dal dolore al capo.
“Vegeta…”.
“Dove-dove dobbiamo andare, madre?”.
Ricacciando indietro ancora una volta le lacrime, che questa volta erano lacrime di fierezza e di orgoglio nei confronti del suo primogenito, nei confronti di quel bambino che aveva il coraggio di un uomo, aveva invitato i bambini a seguirla.
Non c’era più tempo da perdere.
 

*

 
“Forza figli miei! Forza!”.
 
Attraversare il castello si era rivelato più difficile di quanto avesse preventivato. Gli invasori erano riusciti a penetrarvi all’interno, e stavano seminando morte e distruzione ovunque, razziando i tesori stipativi e usando violenza a tutte le schiave e gli schiavi incapaci di difendersi dai loro aggressori.
 
Ignorare quello che stava accadendo loro attorno non era stato facile, e più di una volta un Vegeta tornato quasi perfettamente efficiente aveva dimostrato la volontà di fermare quelle bestie, ma era stato ostacolato da sua madre. Tarble era troppo spaventato, e dovevano raggiungere la pista di atterraggio al più presto.
Il piccolo principe temeva di aver capito quali fossero le intenzioni di sua madre, ma se davvero credeva che potesse abbandonare il suo popolo e fuggire come un codardo si sbagliava di grosso. Era perfettamente in grado di combattere, e avrebbe preferito la morte piuttosto che fuggire per tutto il resto della sua vita.
Aveva perfettamente compreso, però, che la stessa cosa non valeva per il suo fratellino. Tarble sarebbe morto ancora prima di potersene rendere conto. Combattere non era nella sua natura, non era una cosa che faceva parte di lui, e sarebbe stato come dare in pasto un neonato ad un branco di canidi affamati.
No, Tarble doveva essere portato al sicuro, spedito su di un pianeta situato ai confini dell’universo e sperare che Freezer o chiunque per lui pensassero che fosse passato a miglior vita come centinaia di migliaia di altri saiyan.
Era l’unica cosa che potevano fare, l’unico gesto umano che potesse avere nei confronti di quella creatura indifesa.
Ma lui no. Lui avrebbe combattuto. Avrebbe messo suo fratello al sicuro, e poi avrebbe raggiunto suo padre, fiancheggiandolo nello scontro finale. Adesso era molto più forte, e non aveva più paura di Freezer e dei suoi scagnozzi. Non aveva più paura di niente.
 
“Presto! Presto!”.
 
Erano quasi arrivati. Erano quasi giunti presso la pista dove venivano parcheggiate le navicelle monoposto, sperando che ce ne fosse qualcuna ancora intatta.
Accanto ad un posto vacante, avevano trovato il corpo martoriato di un soldato, un uomo a cui il re più volte aveva affidato missioni di prestigio.
La regina lo aveva riconosciuto immediatamente per via della cicatrice che aveva in volto, segno che aveva permesso a Bardack di distinguersi dagli altri saiyan di terza classe che tanto si somigliavano tra loro. Sapeva che il saiyan aveva avuto da poco un bambino piccolo, ed era certa che il guerriero avesse avuto la sua stessa idea. Sperava con tutto il cuore che fosse andata a buon fine, altrimenti avrebbe sacrificato la propria vita per niente.
 
Rosicheena era in preda ad un’ansia che si sarebbe placata solo nell’istante in cui i suoi figli fossero saliti a bordo e partiti verso un pianeta lontano.
Ci sarebbe riuscita, ce l’avrebbe fatta a vederli al sicuro, se solo un essere dalla pelle viola non avesse impedito loro di proseguire.
 
“Rosicheena… Quanta fretta… Dov’è che sei diretta con quei due angioletti?”.
“Aragon. Lasciami passare”.
 
Il fratello gemello di Zarbon, identico all’essere dalla pelle verde se non nel colore della pelle, sembrava però di tutt’altro avviso.
Il guerriero al servizio di Freezer non sembrava intenzionato a lasciarla passare, ma lei non era disposta a cedere.
 
“Vegeta, prendi tuo fratello”.
“Ma, madre, io…”.
“Prendi Tarble e portalo dove abbiamo detto. Salvalo Vegeta. Salvalo”.
 
Sua madre aveva una strana espressione: era come se allo stesso tempo fosse carica di odio e di serenità. Era quasi come se i suoi occhi dolci contraddicessero il sorriso sadico assunto dalle sue labbra.
Che cosa voleva fare? Non voleva forse affrontare quella bestia da solo? Lei era la donna più forte del pianeta, era risaputo, ma Aragon era un guerriero molto più potente rispetto a lei. Da sola non ce l’avrebbe mai fatta.
 
“Madre…”.
“Fa come ti ho detto. Non osare contraddirmi!” – sembrava che volesse schiaffeggiarlo. Eppure, i suoi occhi erano velati dalle lacrime – “Vai”.
“Mamma… No…”.
 
Ma nonostante le sue proteste, Tarble si era lasciato prendere in braccio da Vegeta e scortare lontano da lei e da Aragon.
Non sapeva bene perché, ma sentiva che quella era l’ultima volta che avrebbe visto la sua mamma.
 

*

 
Aveva volato con suo fratello stretto tra le braccia fino ad una delle navicelle. Senza fare troppe cerimonie, aveva premuto il pulsante d’apertura di una monoposto e vi aveva adagiato suo fratello in maniera sin troppo energica, cominciando ad impostare la rotta come gli era stato mostrato durante l’addestramento.
 
“Vegeta… che cosa fai? Io… io…”.
“Per favore Tarble, non rendere tutto più difficile!”.
“Ma cosa vuoi dire??”.
“Sta giù!”.
“NO!”.
 
Vegeta voleva abbandonarlo? Voleva davvero abbandonarlo? No, non lo avrebbe permesso. Non voleva lasciarlo. Non poteva, non poteva! Doveva proteggere il suo eroe. Doveva rimanere lì con lui, e nessuno glielo avrebbe impedito.
 
“NO! VEGETA LASCIAMI! VOGLIO STARE CON TE! CON TE!”.
“PER FAVORE, STAI GIU’! NON ABBIAMO TEMPO, NON LO CAPISCI?”.
“NO! LASCIAMI ANDARE!”.
“TARBLE!”.
“NOOO!”.
“Perché non lo capisci??” – aveva ripetuto, scuotendolo per le piccole spalle – “Perché non capisci che non puoi stare qui? Vuoi forse morire?”.
“Non mi importa di morire! Io sono un saiyan, e voglio stare qui con te e la mamma! Voglio aiutarvi!”.
“Dannazione! Perché non capisci che saresti solo d’intralcio?”.
 
Non avrebbe voluto dirlo. L’espressione ferita comparsa sul viso di suo fratello gli aveva fatto venire una stretta allo stomaco. Ma se odiarlo voleva dire salvargli la vita, si sarebbe fatto odiare molto più di quanto lui odiasse Freezer.
 
“Sei… sei cattivo” – aveva balbettato, piangendo – “Sei cattivo”.
“Ora, sta buono e…”.
“MAMMA!”.
 
Da un’apertura apertasi all’improvviso nella parete di metallo era comparso all’improvviso il corpo di sua madre, apparentemente privo di vita.
 
“MADRE!”.
“Che trambusto!” – aveva esclamato un Aragon ricoperto da ferite superficiali – “Ma ecco qui le due scimmiette. Che carine… Volevano scappare!”.
“Ve-ge-ta… Taaarble…” – Rosicheena non era ancora spirata, ma sembrava che fosse sul punto di farlo. Quel poco di lucidità che le era rimasta le aveva permesso di rendersi conto che i suoi bambini si trovavano ancora sul pianeta – “Via… andate… via…”.
“DANNATO!” – Vegeta non riusciva a credere a ciò che i suoi occhi gli stavano mostrando. La rabbia in lui stava montando, e non era convinto di potersi controllare ancora a lungo – “Farabutto! Che cosa hai fatto a mia madre??”.
 
Tarble continuava a piangere, pietrificato dalla scena a cui stava assistendo. La sua mamma stava morendo e lui non poteva fare niente, niente.
 
“Io? Oh, ci siamo solo divertiti un po’! Ma il bello deve ancora venire. Vi va di assistere, miei piccoli amici? Poi, dopo, che ne dite se tutti insieme andiamo a trovare il nostro amato lord Freezer?”.
 
Mentre parlava, aveva raggiunto Rosicheena, afferrandola per i capelli e sollevandola di peso da terra.
 
“LASCIALA STARE!” – aveva urlato Vegeta.
“E perché dovrei? Tuo padre la sta reclamando, scimmietta”.
Nell’udire quelle parole, i due principi erano sbiancati, rimanendo pietrificati.
“Mio… mio padre?”.
“Oh! Rosicheena, non gliel’hai detto? Che mamma cattiva… Il vostro paparino non c’è più, è stato fatto fuori da lord Freezer in persona! E’ stato uno spettacolo esaltante! Avreste proprio dovuto vedere con quanto gusto il mio signore ha divorato quello che rimaneva del suo cuore spappolato”.
 
Rideva. Aragon rideva come se avesse appena assistito ad uno spettacolo di un giullare.
 
Tarble era scoppiato a piangere, e lo stesso avrebbe fatto la regina se solo non fosse stato suo desiderio infondere quel poco coraggio che le restava ai suoi figli.
Non dovevano vederla piangere, non dovevano vedere che si era arresa, o tutto sarebbe stato vano, tutto sarebbe andato perduto.
Vegeta, invece, aveva cominciato a tremare, e i suoi grandi occhi scuri si erano sbarrati, persi nell’immaginare suo padre ucciso da quella bestia che gli aveva fatto del male.
 
“Tu… Tu…” – aveva poi bisbigliato fra i denti, in preda alla rabbia incontrollabile che stava montando – “Miserabile farabutto, lascia andare mia madre!”.
“Oh, e perché dovrei, scimmietta? Mi sto divertendo così tanto! E poi, perché dovrei prendere ordini da te? E’ solo colpa tua se il tuo popolo si estinguerà, è solo colpa tua se i tuo genitori sono morti… o moriranno”.
“Cosa? Vegeta… Cosa sta dicendo?” – Tarble non riusciva a capire. Come poteva essere colpa di suo fratello se era scoppiata quella terribile guerra??
“Non è vero” – era stata la sua risposta. Ma Tarble credeva che suo fratello non avesse neppure udito la sua domanda – “STAI MENTENDO!”.
“E perché dovrei? Ora, se vuoi scusarmi, devo occuparmi della tua bella mamma… Fai il bravo principino, e vedrai che lord Freezer sarà buono con te!” – e, con l’ausilio delle sue lunghe unghie da felino, aveva cercato di recidere la gola di quella donna che stava dando la vita per i suoi figli.
“NOOOO!”.
 
Trovando dentro di sé un’energia che non credeva neppure di possedere, Vegeta si era scagliato con tutta la forza che aveva in corpo contro Aragon, sfondando con la testa lo sterno del possente guerriero dai lunghi capelli setosi, ponendo fine alla sua vita, forse perché si era rivelato meno forte di quanto credessero, o forse perché dopo tutta quella sofferenza, la fortuna aveva deciso di aiutarlo.
Preso dallo sgomento, Aragon aveva lasciato andare Rosicheena, ma non senza averla prima ferita gravemente al collo, recidendole la giugulare. La regina dei saiyan era caduta al suolo senza emettere neppure un lamento, prona. Un istante dopo, era soffocata nel suo stesso sangue.
 
“MADRE!” – il piccolo Tarble, era sceso dalla navicella a gran velocità, dirigendosi presso il corpo esanime di sua madre, cercando di trattenere le lacrime, incapace di credere che lei non ci fosse più.
Ma Vegeta lo aveva intercettato, bloccandolo per le spalle e spingendolo con forza verso la navicella, incurante delle sue proteste.
“NOOOO!!! VEGETA! DEVO ANDARE DALLA MAMMA! DEVO ANDARE DA LEIII! LASCIAMI! LASCIA-“.
 
A quel punto, aveva dovuto fare l’unica cosa che gli era rimasta da fare: nonostante il suo cuore stesse urlando, ignorando il sangue del nemico che colava dalla sua fronte, aveva tirato un pugno nello stomaco al suo piccolo, amato fratellino, un pungo forte abbastanza da fargli perdere i sensi.
Poco dopo, lo aveva adagiato sulla poltroncina, finendo di impostare i dati sul navigatore e chiudendo il portellone, vedendolo andare via.
Non avrebbe mai potuto dimenticare lo sguardo carico d’odio che Tarble gli aveva riservato. Mai, per nessuna ragione al mondo.
Ma sapeva che nonostante lo stesse odiando, suo fratello avrebbe vissuto la vita che agli altri era stata negata.
 

*

 
Morte.
Tutto quello che c’era attorno a lui era stato mietuto dalla Morte.
Dove un tempo c’erano case e abitazioni, ora c’erano solo macerie, detriti e fiamme rosse come l’infero che divoravano quel poco che era rimasto ancora in piedi.
Le strade, un tempo rumorose e affollate, erano cosparse di cadaveri mutilati e di corpi senza vita, e l’unico suono udibile era quello del crepitio delle fiamme e dello scricchiolio sinistro delle strutture di ferro in procinto di crollare, neanche fossero state dei fragili castelli di carta.
Tutto attorno a sé aveva mutato la sua forma. Tutto attorno a sé non aveva più senso. Tutto attorno a sé non era più niente.
 
Aveva ancora il sangue di Aragon che gli colava sulla fronte, e quello della madre impregnatosi sulla pelle nuda delle sue mani sembrava quasi che avesse preso il posto dei suoi adorati guanti bianchi.
Non sapeva neppure perché si fosse avvicinato a lei. Dopo aver tramortito suo fratello e aver assistito  alla sua partenza forzata a bordo di quella navicella, si era come spento per un tempo che non era riuscito a calcolare.
Sapeva solo di aver prima guardato il cadavere di Aragon per un brevissimo istante, e poi di aver raggiunto lentamente il corpo senza vita di sua madre, cadendo in ginocchio nella pozza di sangue sgorgato dal suo corpo.
Forse era impazzito. Forse, il dolore che stava provando lo aveva fatto sragionare, eppure, era sicuro di non aver mai visto la sua mamma più bella di allora, nonostante le percosse subite, i capelli disordinati sparsi ovunque, e il sangue che lentamente stava abbandonando le sue membra immobili.
Sembrava quasi che stesse dormendo su di un lenzuolo rosso, e che presto, dopo essersi riposata abbastanza, avrebbe aperto i suoi bellissimi occhi scuri così simili ai suoi, tornando a regnare sul loro pianeta al fianco del re, al fianco di suo padre.
Ma lui… suo padre… lui non c’era più.
 
Nonostante fosse altrove, nonostante non fosse lì, le parole di Aragon continuavano a riecheggiare nelle sue orecchie.
Era colpa sua. Era solo colpa sua. Se non fosse mai tornato indietro, se non fosse fuggito dalla base di Freezer come un codardo, come un inetto, niente di tutto questo sarebbe accaduto.
Sua madre e suo padre sarebbero ancora in vita, il suo popolo non sarebbe stato sterminato e suo fratello non sarebbe dovuto fuggire.
La verità era piombata su di lui come un macigno, schiacciandolo, devastandolo.
Era lui la causa di tutto, era stato lui a portare morte e distruzione.
Ma se era stato lui l’inizio, doveva essere lui la fine.
 
Si era recato in quello che fino a poco prima era il punto più alto della città, avanzando a tentoni tra il mare di cadaveri esangui. Sapeva di trovarlo lì. Il re trovava sempre il posto più idoneo per godersi lo spettacolo. Il re doveva vedere ogni cosa. Persino la venuta di un piccolo principe pronto a sfidarlo apertamente.
 
“Sapevo che saresti arrivato. E’ un piacere rivederti, scimmietta”.
 
Era solo, seduto come al solito sul suo trono volante.
Il suo volto era lo specchio della sua eccitazione. Le fiamme che bruciavano la città stavano illuminando i suoi occhi malvagi di una luce sinistra, facendo splendere il sangue ancora fresco che aveva sulla mano e sul braccio destro, sangue che probabilmente era appartenuto a re Vegeta.
 
Il principe dei saiyan non si era scomposto. Era come se fosse privo di emozioni, come se fosse vuoto, un fantoccio senza vita.
 
Freezer sembrava incuriosito da ciò che stava vedendo.
 
“Che cosa ti succede, Vegeta? Sei forse impressionato da ciò che ho fatto praticamente da solo? Eppure, dovresti sapere con chi hai a che fare, non è così?”.
 
Ma i suoi numerosi quesiti non avevano ricevuto alcuna risposta. Possibile che quello sciocco si divertisse a sfidarlo? Era chiaro che i saiyan non brillassero per l’intelligenza, ma non occorreva essere un genio per capire che non era il caso di giocare con il fuoco.
 
“Dimmi saiyan, vuoi forse farmi arrabbiare? O forse no! Tu sei qui per chiedere il mio perdono, non è così? Sei venuto qui per implorarmi di perdonarti e per dirmi che hai deciso di servirmi, che vuoi essere mio, non è vero?”.
 
Era ansioso di ottenere una risposta. Certo, non avrebbe più giocato con lui, ma di certo avrebbe avuto modo di punirlo severamente, di tanto in tanto.
Già pregustava il momento. E non vedeva l’ora che ciò accadesse. Sì, aveva fatto davvero un ottimo affare. Un affare conclusosi nel migliore dei modi.
 
“No” – era stata la laconica risposta di un Vegeta freddo come il ghiaccio.
“No? No cosa? No non vuoi farmi arrabbiare, o no non sei qui per dirmi che vuoi venire con me?”.
“No” – si era limitato a ripetere, distante più che mai.
“Piccola stupida scimmia… Non sfidarmi!”.
“Io non sono qui per sfidarti” – aveva detto all’improvviso, serio, impettito, apparendo molto più grande della sua età. Aveva lo sguardo di un adulto e non quello di un bambino che aveva solo sette anni, aveva lo sguardo di chi aveva vissuto per il tempo necessario di perdere tutto quello che aveva. E, purtroppo, era proprio così che stavano le cose.
“Ah no?” – lo aveva deriso il suo interlocutore.
“No. Io sono qui per porre fine alla tua vita”.
 

*

 
Si era scagliato contro di lui all’improvviso, scatenando tutta la rabbia che aveva in corpo, tutti i sentimenti repressi, tutto l’odio, tutto il dolore, tutta la frustrazione, cercando di concentrare tutto questa energia nei palmi delle mani.
Voleva distruggerlo, voleva disintegrarlo, voleva annientarlo, polverizzarlo, far sì che diventasse solo cenere sparsa al vento, cenere che si sarebbe unita a quella dei palazzi e dei corpi dei guerrieri saiyan che continuavano a bruciare.
 
Non c’era lucidità nelle sue azioni.
Voleva solo che il dolore finisse. E sapeva che solo la morte di Freezer avrebbe potuto placarlo.
Lui era stato a dare avvio al principio di quella storia, e lui doveva essere a decretarne la fine.
 
E lo avrebbe fatto. Se solo non fosse stato così debole.
 

*

 
Lo aveva atterrato con un solo colpo di frusta scoccato con la sua lunga e carnosa coda, non senza essere stato prima ferito di striscio ad una guancia dall’onda di energia prodotta dal piccolo principe saiyan.
Vegeta non era svenuto. Era caduto malamente al suolo e si era rialzato, pronto ad attaccarlo di nuovo, nonostante la profonda ferita sanguinante che si era aperta sulla sua schiena.
Ma il divario tra lui e il suo nemico era troppo vasto, e nuovamente, il coraggioso saiyan era stato atterrato, fratturandosi entrambe le braccia nel tentativo di attutire la caduta.
Il dolore che aveva esorcizzato grazie alle cure ricevute era tornato, prepotente e feroce come non mai. Aveva provato a dimenarsi, aveva provato a scalciare e a mordere con le esigue forze che gli erano rimaste, ma ciò non era stato sufficiente: la stretta che Freezer aveva esercitato sul suo collo era qualcosa contro cui non era riuscito a lottare, perdendo i sensi per l’assenza prolungata di aria.
 
Era stato svegliato di colpo da un brutale calcio nella schiena, sentendosi di nuovo sollevare di peso, questa volta da uno Zarbon i cui occhi dardeggiavano fiamme. Il suo viso angelico era sparito, lasciando posto ad un volto feroce, desideroso di vendetta. Doveva aver scoperto in qualche modo che era stato lui il responsabile della morte di Aragon, e sembrava che la vendetta fosse la sua unica aspirazione.
 
Ma Zarbon era un soldato, e un soldato doveva obbedire agli ordini che gli erano stati impartiti.
Per questo, aveva sollevato Vegeta di peso, schiacciandogli il viso contro l’ampio oblò della navicella su cui si trovavano.
 
Fluttuavano nello spazio, a pochissima distanza dal pianeta Vegeta, ormai ridotto ad un ammasso di fiamme e di rovine.
Il suo stomaco si era contorto in uno spasmo dolorosissimo, e la sua incapacità di reagire agli eventi, la sua inettitudine erano motivo di ulteriore vergogna, di ulteriore umiliazione.
Non c’era più niente per lui, niente, se non la prigionia.
 
“Guarda bene, guarda lurida scimmia. Guarda che fine fanno coloro che si rivoltano contro di lui, coloro che si rivoltano contro il grande e potente Freezer!”.
 
E poi, lo aveva visto. Sbucato da chissà dove, lord Freezer era levitato a mezz’aria, e sulla punta del suo dito indice si stava formando una gigantesca sfera di energia.
 
“Guarda scimmietta. E goditi lo spettacolo”.
 
Non aveva proferito parola. Niente. Non aveva emesso neppure un suono mentre accadeva, mentre la sfera di energia si ingigantiva, raggiungeva la superficie del pianeta che portava il suo nome, della sua casa, e lo trapassava da parte a parte come un coltello che affonda nel burro. Non si era mosso, non aveva urlato. Non lo aveva fatto neanche quando l’onda d’urto conseguente all’esplosione li aveva investiti in pieno, facendo tremare ogni singola parete di quella maledetta astronave, neanche quando il cielo si era illuminato di un bagliore che in un’altra situazione sarebbe stato bellissimo da vedere.
 
“Ecco come è andata a finire, principino. Ecco come va a finire la storia. Tu hai perso, e noi abbiamo vinto. Abbiamo vinto”.
“No” – aveva improvvisamente pronunciato in un sussurro, con le lacrime che amare avevano cominciato a rigare il suo viso – “Nessuno di noi ha vinto. Nessuno”.
E Zarbon aveva mollato la presa sui suoi capelli, lasciando che Vegeta scivolasse sul pavimento freddo, asettico, e che contemplasse da solo lo spettacolo degli ultimi frammenti del suo pianeta che si disperdevano nelle profondità dell’universo.
 
Continuava a pensare alle parole di quel ragazzino, parole che come una nenia avevano cominciato a tormentarlo.
 
‘Nessuno di noi ha vinto’ aveva detto, ‘nessuno’.
 
E, stranamente, quasi all’improvviso, si era reso conto di quanto autentica fosse quella verità.
Forse, un giorno le cose sarebbero cambiate. Forse, in un tempo non molto lontano, qualcuno sarebbe piombato dal nulla e avrebbe fatto sì che tutti potessero vincere.
Tutti, tranne l’essere che aveva condannato tutti alla schiavitù.
Tutti, tratte colui che era costretto a chiamare Lord.
Tutti, tranne quel mostro di Freezer.
 

Fine

 
 
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Saaaalve!!!
Bene bene, era un po’ di tempo che non pubblicavo una One Shot, ed eccomi qui!
A dire il vero, è proprio un po’ di tempo che non pubblico un bel niente!!
Se qualcuno che sta leggendo “When you least expect it” si fosse imbattuto in questa storia non si preoccupasse: non l’ho abbandonata!!
E’ solo che la sfortuna mi perseguita. Dovete sapere che io archivio i capitoli su di una chiavetta, e quest’ultima ha deciso di aprirsi in due circa tre settimane fa. Ora, lì c’era il capitolo nuovo, capitolo che non vorrei riscrivere, e che FORSE mio zio ha recuperato. Ora, sta a me recuperare il dvd con i dati e il cadavere della mia povera chiavetta da 8 giga! =’(
 
Ma torniamo alla fiction.
Seriamente, non mi è mai andata giù l’idea che re Vegeta fosse un cane rabbioso ed invidioso della potenza del figlio, che Tarble e la regina non venissero nominati, e che Vegeta fosse una piccola macchina da guerra senza cuore, così, è venuto fuori questo papiro.
Non voglio dilungarmi molto, anche perché credo che si spieghi tutto da sé.
Mi perdonerete per aver inventato il fratello gemello di Zarbon, vero? Come se uno non bastasse…
 
Sul serio, non so cosa dire!
Spero solo che vi sia piaciuta e che non vi abbia annoiato.
E’ la storia di una guerra, la storia di un popolo, la storia di una famiglia non convenzionale i cui membri scoprono di amarsi quando pensavano che questo fosse impossibile.
E’ una storia di dolore e di voglia di rivalsa. Rivalsa che prima o poi arriverà…
Ma, come ben sappiamo, questa è un’altra storia… Una storia che è stata già raccontata!
 
A presto!
Baci
Cleo
 
 
 
 
 
 
 
 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
  
 
   
 
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