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Autore: GreedFan    12/07/2013    5 recensioni
Mi guarda con una disperazione così intensa che mi sento mancare la terra sotto i piedi.
Cerco − invano ‒ di recuperare il mio lato più cinico e menefreghista, ma tutto quello che ottengo è una secchiata di vergogna bruciante e il pensiero che sì, sono il peggior rifiuto umano sulla faccia della Terra. Un fallimento. Dev'essere quello che succede quando un disadattato con evidenti problemi relazionali pregressi cerca di prendersi cura di altre persone.
«Io ho solo bisogno che tu mi dica perché non dovrei ammazzarmi». La voce di Marvin è un sussurro tremulo, mi fa venire i brividi «Dammi una sola ragione, Frank. Dimmi perché al mondo serve uno come me, e basterà. Se vuoi ti pago. Ma dimmelo».

{Following the Big Damn Table #71, "Rotto"}
Storia vincitrice dei premi "Stile" e "Great M" al Misfit Contest indetto da Lilith in Capricorn sul forum di EFP
Genere: Angst, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Ow, l'ennesimo polpettone angst.

Probabilmente, quando avrete finito questa shot, penserete che io abbia bisogno di un bravo psicologo e non visiterete mai più la mia pagina autrice. Ma ci sarà qualcuno, ne sono convinta, che si ritroverà un po' nel messaggio fondamentale di "Veleno" e la apprezzerà, anche se la prima parte giace nel mio computer da circa un anno ed è quasi detestabile dal punto di vista sintattico.

Penso sia la cosa più cinica che abbia mai scritto... per non parlare del chilometraggio non indifferente. L'ho completata appositamente per poterla iscrivere al Misfit Contest indetto da Lilith in Capricorn sul forum di EFP ‒ e credo che non vedrò l'ombra di un premio, ma in fondo non importa.

Mi auguro comunque che non sia una lettura del tutto indigesta ;)

See you soon,

Greedfa













Veleno


Come gli adesivi che si staccano

Come le cerniere che si incastrano

Come interruttori che non scattano

O caricatori che si inceppano

Io tradisco le ultime mie volontà

Tutte le promesse ora si infrangono

Veleno, Subsonica


Le persone sono come giocattoli rotti.

E non sto parlando di chi ha subito traumi, di chi è malato o muore di fame in qualche città del terzo mondo. Non sto parlando dei tossicodipendenti, dei pazzi o della gioventù moderna che si spegne come una candela sotto una cappa di vetro.

Siamo tutti spezzati, in fondo. Come se ci mancasse un pezzo, proprio quel minuscolo frammento di noi indispensabile al raggiungimento della felicità; lo cerchiamo per tutta la vita nelle cose più sciocche, in alcuni casi arriviamo quasi a toccarlo, finché non fugge via dalla nostra presa e ci lascia con la certezza che di tutte le nostre esperienze, di tutte le nostre vittorie e le nostre sconfitte non resta altro che la stanchezza.

Nessuno, però, potrebbe vivere serbando nel cuore una consapevolezza così schiacciante. C'è bisogno di qualcuno che riempia i buchi, che rassicuri il resto del mondo, che finga che tutto quello che ci viene presentato sin da piccoli come il modello perfetto di vita - case dall'aria allegra, famiglie sorridenti di attori disgustosamente belli - sia realizzabile, quando non è altro che una chimera.

Forse volevo sentirmi un eroe, quando ho assunto quel peso sulle mie spalle. Mi sarebbe piaciuto che qualcuno mi guardasse con gli occhi spalancati e lucidi per la gratitudine e mi dicesse che ero riuscito ad aiutarlo, che gli importava davvero di me perché avevo reso migliore la sua vita. Ma una bambola non guarda con riconoscenza la bambina che le ha sistemato il braccio staccato, le spazzola i capelli e le mette il suo vestito più bello, allora perché l'uomo dovrebbe essere diverso? Perché dovrebbe accorgersi della ricomparsa di qualcosa che non si è mai reso conto di aver perso?

Ho imparato ad accontentarmi, a sfruttare qualcosa che era partito come un modo per aiutare gli altri ed è diventato il mio unico mezzo di sostentamento. Se c'è una cosa giusta che il mondo ti insegna, è che i buoni sentimenti sono il modo migliore di spillare soldi alla gente: presentati con un sorriso rassicurante, lenisci il loro dolore, e saranno disposti a staccarti un assegno.

Da quando il telefono ha cominciato a squillare continuamente, non ho più avuto tempo per pensare a quanto tutto questo sia triste.

C'è gente che chiama a tutte le ore. A mezzanotte, alle tre. A volte mentre sono al cesso, o mentre cucino, il cordless arancione balla nella sua piccola base di plastica come Fred Astaire in uno dei suoi numeri migliori. E suona, con quel bi-bi-bip insistente che sembra voglia pugnalarti le orecchie; ho risolto il problema comprando dei tappi di silicone, di quelli che i nuotatori usano in piscina, per recuperare qualche ora di sonno quando davvero non riesco a tenermi in piedi.

Il punto è che devo lavorare in continuazione se voglio pagare l'affitto.

E poi, a furia di parlare con tutta questa gente, mi sono assuefatto alla loro presenza costante. Le loro voci nella cornetta sono la mia vita sociale, la mia cerchia di amici più intima, l'unica cosa che mi spinge ad aprire gli occhi sul mondo e assaporare il brivido dell'ignoto.

Quando sollevo il ricevitore per l'ennesima volta, con il chiarore di un'alba pallida che filtra tra le persiane rotte, la voce che gracchia dall'altra parte potrebbe essere quella di chiunque.

«Pronto?» La mia voce suona roca, impastata; puoi fare tutti i corsi di dizione che vuoi, ma quando passi sedici ore al giorno a parlare l'aria scivola sulle corde vocali come carta vetrata sul legno lucidato, con effetti altrettanto disastrosi. Sul comodino accanto al letto tengo abitualmente una bottiglia d'acqua non frizzante, uno spray per la gola e delle caramelle balsamiche da discount; vi sembrerà stupido parlare di immagine in un lavoro come il mio, ma è importante che l'unica informazione che la persona dall'altro capo del telefono ha di me sia quanto più possibile positiva.

«Salve. Sono Marc Jacobs». La gente usa spesso pseudonimi, quando parla con me. Avrò conosciuto almeno una ventina di Michael Jackson o Marilyn Monroe, schiere di Shirley Temple e Barbra Streisand e Katharine Hepburn. Eppure, nonostante i nomi conosciuti, abusati, so esattamente chi si cela dietro l'anonimato non appena li sento parlare; mariti che cercano un po' d'aiuto per la propria moglie, donne che vogliono risollevare il morale di figlie e amiche, ragazzine che mi contattano perché pensano che sia terribilmente eccitante... e quel tremito, nelle loro voci, quella vibrazione appena percettibile che mi rivela chiaramente quanto è serio il motivo della telefonata. Non è mai del tutto assente.

«In cosa posso esserti utile, Marc?». Cerco di non far trapelare la noia dalla voce mentre mi allungo verso il comodino e prendo una caramella. Lo zucchero è coperto da una patina bianchiccia vecchia di giorni.

Nel frattempo, Marc sta balbettando qualcosa di indefinibile nelle mie orecchie.

«Mia moglie v-vuole fare una plastica al naso. Pensa di essere brutta».

«Ed è brutta, Marc?». Queste caramelle fanno schifo.

«N-no, è la donna p-più bella che...» E sono anche scadute da un mese. Probabilmente qualche insetto avrà fatto il nido sul fondo del pacco, mangiando lo zucchero e disseminando le pastiglie con quelle disgustose uova bianche tonde che fanno le tarme.

Di che stavamo parlando?

«... m-ma n-noi non abbiamo i soldi per pagare la plastica e-»

«Non devi preoccuparti, ci penso io. Dove posso trovarla?».

Mi dice il nome di un ristorante in centro e l'indirizzo; stiracchiandomi, il telefono incastrato tra la guancia e la spalla, mi avvicino al letto e frugo tra le coperte appallottolate fino a tirare fuori un'agenda di cuoio gravida di foglietti infilati alla meno peggio tra le pagine fitte di appunti. Ci sono nomi, date, annotazioni a penna rossa, cifre che si rincorrono in colonne ordinate da una pagina all'altra.

La sfoglio, masticando la caramella stantia.

«No, Marc, domani non posso. Ho un buco... vediamo... la settimana prossima, martedì mattina dalle undici a mezzogiorno. Cerca un modo di farmela trovare lì. Il pagamento è anticipato. Potremmo vederci nello stesso posto questa sera per un caffé... magari mi porti una foto, mh?»

«I-il costo di quanto...»

«Centocinquanta dollari». Lapidario, mando giù un sorso d'acqua. So che adesso si sta chiedendo se valga la pena di spendere tutti questi soldi per il mio servizio, ma se ha chiamato vuol dire che qualcuno che conosce gli ha parlato di me. Succede molto raramente che la reticenza dei clienti sopravviva oltre il dubbio iniziale.

«V-va bene». Marc chiude la chiamata senza nemmeno ringraziare, e nelle mie orecchie rimane soltanto il fruscio del microfono e un senso di sollievo per la scomparsa di quella sua vocetta sottile, traballante.

Mi alzo dal letto con la consapevolezza di dover passare almeno un paio d’ore in bagno per assumere un aspetto presentabile – nemmeno fossi una donna – e raggiungo il box doccia. Un secondo prima di aprire il getto, scorgo un qualcosa di nero e scattante che fugge dietro la catasta di flaconi di creme e shampoo ammucchiati nel lavandino. Odio gli scarafaggi.

Di norma non proverei nemmeno ad ucciderlo, lo lascerei lì a nutrirsi di tutte le innumerevoli schifezze  che può trovare in casa mia, ma qualcosa nella mia testa mi dice che tra poche ore sarò di nuovo nel mondo reale, in quel meraviglioso ammasso di norme igieniche e comportamentali che si stende al di là della porta del mio appartamento. Ora come ora, non posso trattenermi dall’uscire dal box doccia e avvicinarmi al lavandino brandendo un confezione di balsamo come se fosse un mazzafrusto.

Scaglio via i vuoti di plastica con una manata, e lui è lì, sul fondo.

Il buco che sta al centro del lavabo di ceramica deve essere la sua piccola tana, la via attraverso cui lui e tutti i suoi amici escono ed entrano dalla mia vita. Mi chiedo cosa pensino, queste creaturine munite di arti ispidi e pelosi e lunghissime antenne, quando finiscono in queste magnifiche prigioni di muratura che sono le case umane. Mi chiedo se comprendano quanto è preferibile la loro fogna, quanto sono fortunati ad essere nati scarafaggi.

Il mio amico, qui, è particolarmente grazioso. Non più lungo del mio dito indice, ha quella corazza nera e lucida tipicamente da scarafaggio, che non sai mai se ti dia un’impressione di solidità – come l’esoscheletro di un coleottero – o di qualcosa di viscido che s’infila negli anfratti più luridi senza difficoltà.

So che mi sta fissando con i suoi minuscoli occhietti nascosti sotto quella cupola semisferica che si ritrova al posto della testa, che il suo cuore – sempre che ce l’abbia, questo principe della spazzatura – sta scoppiando di paura alla vista del gigante che è pronto a farlo a pezzi sulla ceramica bianca.

Allora perché non scappa? Di solito, a questo punto si dovrebbe essere già infilato nel sifone, sollevandomi dalla responsabilità di togliergli così brutalmente la vita.

«Ehi,» e la mia voce trema un po’, alla vista di quelle antenne frementi «ehi, vattene. Non mi va proprio di ammazzarti. E poi io odio gli scarafaggi».

«Mi pare contraddittorio che tu li odi, visto che sei a tutti gli effetti una blatta». Risponde, e accompagna la replica con una mossa fulminea della coppia di zampe anteriori, come se gesticolasse.

Simpatico, il ragazzo.

«Non sotto il profilo tassonomico».

«Mi riferivo alla sociologia, ignorante».

«Oh,» stavolta mi scappa da ridere «siete animali molto più sociali di quanto io non sarò mai. Parecchio più genuini».

E per fortuna che il divario di forze tra me e questo pusillanime è piuttosto importante, perché mi sono già stufato di sentirlo parlare. Pur ammettendo che la sua compagnia sia molto migliore di quella di tanti esseri umani, non ho voglia di ascoltare qualcuno intento a rinfacciarmi i miei difetti. Nessuno ne ha mai voglia.

Abbasso la mano con una violenza tale che il cosino non fa in tempo a spostarsi.

Sapete, è buffo. È buffo come una creatura viva possa trasformarsi un pochi secondi in un ammasso indefinito di interiora schiacciate e zampe contratte. E uno si sente un po’ Dio quando pensa di aver realmente cambiato l’esistenza di qualcuno, non importa se di uno scarafaggio o di un essere umano; credo sia questo tipo di sentimento, quest’esplosione di dopamina e il senso d’onnipotenza che si diffonde nel mio cervello, a muovere le suore missionarie in Africa, i politici riformatori, i rivoluzionari e i serial killer. Lasciati da parte ideali più o meno futili, rimane soltanto la volontà egoistica di diventare importanti per qualcuno, in qualsiasi modo.

Questo scarafaggio, ve lo posso giurare, ha pensato a me per ultimo. Io sono stato il più grande avvenimento di tutta la sua vita.


ψ


Il mio Marc Jacobs è molto peggio di quanto mi aspettassi.

Ci siamo incontrati nel bar scelto di lui, un ridicolo caffè arredato in modo oggettivamente pretenzioso, a metà tra un fast food dozzinale americano e un locale parigino di quart’ordine. Il fatto che spera che lavori qui con la moglie è già un indizio del perché quella donna abbia dei seri problemi di autostima; mi basta guardarlo, poi, per fugare ogni possibile dubbio.

È il classico yuppie vestito male, di quelli che credono che una giacca e un paio di pantaloni eleganti bastino per classificare a priori il loro abbigliamento come “di classe”; magro, più basso di me e curvo come tutti i colletti bianchi che passano ore seduti davanti ad un computer, in ufficio, credo abbia qualche problema serio con la forfora e un accenno di calvizie. Per fortuna, aggiungerei, visto che si porta appresso dei capelli stopposi e unti come la pelliccia di un topo.

Di viso è così anonimo che so già che dimenticherò la sua faccia dopo essere uscito dal locale.

«Allora,» penso al mio scarafaggio, alla piccola bestiola così meritevole di attenzione che ho ucciso qualche ora fa «hai portato una foto?»

Certo che l’ha portata. Probabilmente, rifletto, avrà passato buona parte della giornata a cercarne una che fosse abbastanza fedele da farmi riconoscere sua moglie con tranquillità e abbastanza brutta perché non mi piacesse. Ne va davvero fiero, a giudicare dal luccichio nei suoi occhi castani mentre tira fuori il portafoglio ed estrae una fotografia non più grande di una cartolina.

E, quando la guardo, realizzo che sua moglie avrebbe davvero bisogno di una plastica.

Sarebbe forse bellissima, con i capelli biondi che le ricadono in onde gentili sulle spalle e gli occhi azzurri, se solo non avesse una brutta caricatura di naso ad involgarirle i lineamenti. Non criticatemi per l’importanza che conferisco a qualcosa di effimero come la bellezza: in un mondo in cui anche una bambina di dodici anni può rifarsi le tette con il beneplacito della madre, giudico inestimabile il valore di un viso autenticamente grazioso. È un dono, qualcosa su cui – a differenza della cultura o dell’intelletto – non c’è possibilità di apportare modifiche naturali.

Riportando l’attenzione sulla fotografia, sospiro. I casi in cui il motivo dell’affanno è reale sono sempre i più difficili.

«Come si chiama?».

«Julia».

«Ok. Fissiamo per martedì alle undici?».

Annuisce. Colgo un lampo di indecisione nei suoi occhi, mentre mette nuovamente mano al portafoglio.

Andiamo, Marc, se sei qui vuol dire che ti hanno parlato bene di me.

«Potresti lasciarmi un nome? Io non so se posso fidarmi di-»

«No». Lo interrompo, asciutto, che ha ancora i centocinquanta dollari in mano e mi fissa come se gli avessero tolto la terra da sotto i piedi. Si aspettava che accettassi ad occhi chiusi.

«No, e non perché ho intenzione di fregarti. Ha sempre funzionato così, e scommetto che chi ti ha mandato da me ti avrà anche rassicurato sul fatto che non rubo».

«Ma sono centocinquanta dolla-»

«Puoi fidarti o non fidarti. Io non ti darò nessun recapito, a parte il numero di telefono che già conosci».

Tutti questi tentennamenti cominciano a darmi sui nervi. Osservo la tovaglia a quadretti verdi e bianchi con sopra stampato il logo anonimo del caffè, il coltello di acciaio inox che vi luccica come una carpa koi nell’acqua trasparente di uno stagno giapponese. Potrei prendere il coltello e infilarlo nell’occhio di Marc Jacobs fino all’impugnatura, godermi i suoi rantoli mentre la lama si tinge di rosso – proprio come le squame di un pesce tropicale – e il sangue schizza su quest’insulsa tovaglia. È troppo sperare che le tacce di un omicidio le donino un’aria vagamente più interessante?

Il fruscio di carta morbida e liscia mi distrae dalla contemplazione della lama. Quando alzo lo sguardo, le banconote sono a pochi centimetri dalla mia mano sinistra, appoggiate lì quasi con pudore.

Le tocco, e il calore un po’ umido delle dita di Marc mi fa storcere il naso dal disgusto.

«Bene. Una volta che hai pagato non puoi più tornare indietro, ok?».

Annuisce, dondolando impercettibilmente sulla sedia. Scommetto che sta sudando dalla paura.

«Fantastico. Allora... a martedì. Ora devo andare, ho un altro appuntamento».

Mi alzo, mentre Marc, senza rispondermi, continua a fissare la tovaglia come se stesse cercando di scorgervi la soluzione a tutti i suoi problemi. Ero serio, quando ho detto che gli scarafaggi sono molto più interessanti degli esseri umani.

«Ciao, Marc».

Non prova nemmeno ad alzare la testa.

Dev’essere l’abitudine.


ψ


Dopo una notte passata a guardare repliche di vecchi film di Charlie Chaplin in televisione, l’idea di alzarmi e cominciare a lavorare mi distrugge. Preferirei essere da un’altra parte, perso nel bel mezzo di una giungla con una probabilità di sopravvivere pari a zero, piuttosto che confrontarmi ogni giorno con la sicura, accogliente routine della mia vita media. Mi fa sentire come se qualcuno mi tenesse confinato a forza in un utero artificiale, come se non fossi mai nato; questa protezione imposta è quanto di più avvilente mi trovo ad affrontare ogni giorno, quando bevo del latte e leggo la scritta “pastorizzato” sulla confezione o quando sento dire in giro che la polizia ha acciuffato un criminale latitante.

A volte vorrei mangiare cibo stantio fino a buttarmi sul cesso e vomitare per ore, o lanciarmi in mezzo alla strada mentre passa un tir a tutta velocità. Mi illudo che lo farò, che mi prenderò la vita che mi spetta e la smetterò di fare inutili progetti suicidi, ma non succede mai. Non ci riesco mai.

Esco  di casa con lo stomaco vuoto e i capelli in disordine, un perfetto ragazzo della porta accanto che vi sembrerà di aver visto decine di migliaia di volte nella vostra vita; se sei mediamente di bell’aspetto, mediamente ben vestito e mediamente pulito, la gente ti ignora. Alle persone non interessa la mediocrità, cercano gli estremi.

E io, che non sono né un pezzente né un miliardario, posso permettermi un delizioso anonimato.

Attraverso il quartiere diroccato in cui si trova la mia casa, le mani affondate nel cappotto e gli occhi vigili, attenti; vivo in questa città da tanti anni, ormai, da essermi quasi abituato alla sensazione costante di avere lo sguardo di qualcuno puntato sulle mie tasche. Il problema è che nessuno si è mai degnato di assalirmi per davvero.

I palazzi sono alti e grigi, qui, striati di nerofumo. Le finestre hanno i vetri rotti, oppure riparati alla meno peggio con pezzi che non s’incastrano alla perfezione nelle crepe o lastre di plexiglas trasparente; vedi le facce degli abitanti, dietro, e sono bigie e smunte come la terra in cui vivono, inaridite da anni tutti uguali che le hanno scavate come fa l’aratro con i campi scuri. Eppure, nei loro occhi c’è quella scintilla che manca nei miei. C’è la disperazione tremenda e brutale di qualcuno che vuole vivere, a qualsiasi costo, ed è disposto a rubare e uccidere e farsi strada con la violenza pur di riuscirci.

Queste persone sono vive.

Nei quartieri borghesi, dove invece lavoro, il discorso è completamente diverso. Troverete tanti bei cadaveri allegri, qui, tante belle signore agghindate a festa e vestite di tutto punto per presenziare al proprio funerale quotidiano. Tanti gentlemen che ridono con le mascelle spalancate e gli occhi completamente freddi, come dei sassolini sul fondo di uno stagno melmoso, coperti di quella patina verde e viscida che non se andrà più via.

Passando accanto ad un negozio di vestiti, io che a stento riesco ad avere un paio di giacconi per tutto l’anno, mi capita di cogliere brandelli della conversazione di due signore indubbiamente elegantissime che se ne stanno lì, i cagnolini microscopici e disgustosamente agghindati al guinzaglio, a discutere di quanto siano belle certe pellicce in vetrina. Ridono, così leggere e simpatiche e dolci e felici, con il cervello e gli occhi spenti dietro gli occhiali dalle montature firmate, e pare che non sappiano, che non vogliano sapere quello che c’è dietro ad ogni singola pelliccia.

Li vedo, sapete? I visoni che si contorcono nelle gabbie, fissando il cielo al di là delle sbarre con gli occhietti neri come capocchie di spillo, senza sapere che qualcuno li ucciderà per farci dei vestiti. Che mangiano cibo da poco e non possono accoppiarsi, o correre o vivere come qualsiasi altro animale libero.

Tutto, perché gente come questa possa ridere e spendere.

Vorrei sentirle parlare da persone consapevoli, queste signore.

E allora sì che sarebbe bello, sarebbe meraviglioso ascoltare il loro personale elogio alle brutture del mondo.

O, forse, è meglio che ridano. Se guardo loro posso quasi sperare che un giorno questo stato di inconsapevolezza colga anche me, che il mio cervello finisca annacquato e libero da ogni scomoda verità che rende la mia vita difficile da sopportare. L’unica cosa che mi trattiene dal bruciarmi le sinapsi con qualche droga allucinogena è la certezza che, se lo facessi, non potrei più svolgere la mia onorata professione.

Incontrare i miei clienti.

In particolare, quello di stamattina pare interessante. Ha trentasette anni, si chiama Marjorine ed è una disoccupata che sogna di poter aprire una pasticceria. Grassa, ma tutto sommato accettabile, sempre se si è disposti a soprassedere sulla zazzera di capelli palesemente finti che le scendono come scalpi di Barbie cinesi sulle spalle rotonde.

La aggancio mentre mangia una brioche, seduta da sola in uno dei locali più affollati che abbia mai visto; il mio istinto mi guida fino al suo tavolo, ridicolmente piccolo rispetto alla mole di Marjorine, e guardando i suoi vestiti che gridano "SALDI AI GRANDI MAGAZZINI" capisco perché nessuno si è degnato di agevolarmi il lavoro almeno un po'. Quando mi siedo davanti a lei la poveretta sobbalza, cercando di frenare uno sconcerto che si tramuta istantaneamente in rossore e iperidrosi sulle sue guance ballonzolanti, poi mi inquadra meglio e sbatte con aria civettuola mezzo metro di ciglia finte. Ha gli occhi piccoli, azzurri e vacui.

«Ciao». Il sorriso affascinante che mi increspa le labbra è frutto di ore di allenamento davanti allo specchio, coadiuvate da un certo viscidume congenito che devo aver ereditato dal mio adorabile papaparino «Questo posto è libero?».

Marjorine, che sa perfettamente di essere appena un gradino al di sopra di qualsiasi altro freak, mi guarda come se fossi sceso dal cielo insieme a una nuvola di angioletti svolazzanti. Conosco la reazione: persone come questa hanno un'autostima così bassa che basta persino uno come me, la cui parvenza di bellezza deriva dall'età al di sotto degli enta, perché si credano oggetto di un miracolo.

«Certooo». Chioccia, strascicando le sillabe più di quanto sia strettamente necessario «Io sonooo Marjorineee».

«David». Mi presento, un nome casuale che emerge mentre gli altoparlanti del locale diffondono "Heroes" di David Bowie «Come mai sei qui da sola?».

Lei scuote la testa, nella speranza che un gesto tanto vago significhi qualcosa di ironico e, possibilmente, divertente, poi ridacchia agitando una mano grassoccia. Rido anche io ‒ è fondamentale che si senta a suo agio, altrimenti non riuscirò a portare a termine l'incarico.

«Posso tenerti compagnia?». Domanda superflua, non mi manderebbe via nemmeno se fossi un vecchio bavoso o un eroinomane in cerca di soldi. Il suo disperato bisogno di compagnia trapela da ogni espressione, da ogni gesto, da ogni nota tremante della voce stridula.

«Maaa certooo. Seiii unooo studenteee, Daviiid?».

«Sì, seguo dei corsi al college qui vicino».

Non ho mai finito il liceo. A scuola andavo male, troppo indolente e disinteressato perché qualcuno potesse spingermi a studiare, e poi erano più i giorni che passavo a casa, terrorizzato e tremante e nascosto in qualche angolo sicuro, che quelli di effettiva frequentazione. Ma i freak non vogliono essere apprezzati da qualcuno che è come loro: vogliono l'attenzione, persino l'amore dei vincenti, di quella massa di sgradevoli stronzi che per anni li ha emarginati e spinti a diventare dei fallimenti totali. Potremmo definirla una rivincita sociale, se soltanto non fosse falsa dalla prima all'ultima battuta.

La conversazione con Marjorine prosegue tra ovvietà devastanti, formule di cortesia e le sue assurde ciglia che non manca di sbatacchiare al mio indirizzo ogni volta che pensa di aver detto qualcosa di particolarmente acuto. Mi rendo conto che manca quasi un'ora e mezza all'appuntamento successivo proprio mentre lei sta raccontando della sua ultima storia d'amore andata male, così le sfioro una mano con la mia ‒ il dorso è morbido e cedevole come un materassino ad acqua ‒ e la fisso dritta negli occhi, concentrandomi.

«Sai,» sussurro «sei davvero bellissima».

Forse questo basterebbe anche senza tutto il resto. Le persone non ci pensano mai, ma spesso ci facciamo influenzare di più dai pareri di chi non ci conosce quasi per nulla che da quelli di amici e familiari. Un estraneo è voce imparziale, scevra da ogni pregiudizio, parla solo in base a ciò che vede.

Io so che per qualche istante, adesso, Marjorine si sentirà la donna più attraente del pianeta.

Ed è in questo varco di soddisfazione improvvisa, proprio quando la sua mente è più debole, che mi insinuo senza farmi notare. La coscienza di Marjorine è un ammasso di recriminazione e sensi di colpa, autocommiserazione che affonda in un mare di fallimenti sia sul piano affettivo che professionale; mi ci vuole un po' per individuare il centro del suo dolore, nascosto sotto uno scudo così impenetrabile che devo accarezzarne ogni millimetro per individuare una fenditura.

Afferro il conglomerato di ricordi con mani invisibili, e posso sentire, mentre le dita si stringono sempre di più attorno a questa massa incancrenita, le urla di una bambina che viene derisa dai coetanei per le ragioni più impensabili, le sue lacrime ingenue soffocate da un cuscino. In condizioni normali mi godrei i ricordi come un bel film, raggomitolato nell'oscurità rassicurante di un inconscio estraneo, ma ho poco tempo e questa donna non sembra custodire nulla di troppo interessante. Serro la presa, il grumo di sofferenza esplode e si volatilizza nella mente di Marjorine come se non fosse mai esistito.

Ti sto dando una seconda possibilità, aspirante pasticcera. Vedi di non sprecarla.

Ha gli occhi ancora più vacui di prima quando mi alzo e la lascio seduta al tavolo. Ci vorrà circa un quarto d'ora perché si riprenda, libera da tutte quelle cazzate inutili che l'avevano inchiodata per anni allo status di disadattata, e riesca finalmente a trovarsi un posto nella nostra meravigliosa, equa società. Dal mio punto di vista le ho fatto più male che bene, ma so già che l'ansioso fratellino di Marjorine chiamerà e mi ringrazierà per quello che si suppone sia il semplice operato di uno straordinario assistente sociale. Il lato più interessante della questione è che sono io quello che avrebbe bisogno di un assistente sociale.


ψ


Iosif vive nell'appartamento accanto al mio.

Dopo una giornata passata a rimettere a posto la testa degli altri ho bisogno di qualcuno che rimetta a posto la mia, quindi spingo la porta sfondata con il piede ed entro senza nemmeno chiedere permesso. Non che il proprietario sia mai stato particolarmente selettivo per quanto riguarda le amicizie.

Ci incontriamo sempre a metà strada, io e Iosif, il mio respiro sulla sua pelle sottile come carta di riso e le sue mani ossute perse in una ricerca febbrile sotto i miei vestiti. Ha un corpo in costante cambiamento, sempre più magro e distrutto ogni volta che varco la soglia, ma i suoi occhi azzurri e folli come lanterne stregate sono sempre lo stesso, rassicurante punto fermo nel caos di gusci vuoti che mi circonda. Iosif è il gradino più basso della società, l'emblema di un degrado che incarna quasi con orgoglio ‒ e questo, nonostante sia magro come uno scheletro e abbia la pelle coperta di sfoghi, lo rende bello. Bellissimo, ben più della grassa, patetica Marjorine.

«Hai portato la grana?». Ansima, spogliandosi in fretta e furia degli stracci laceri che ha rimediato in qualche raccolta di beneficienza per senzatetto. La voce di Iosif è dolcemente musicale, venata da un accento nordico che riesce quasi a farmi dimenticare lo sgradevole lato da transazione commerciale del nostro rapporto.

Se non fosse per il suo fabbisogno in costante aumento di sostanze psicotrope, probabilmente io non sarei nemmeno qui. Probabilmente non potrei accarezzarlo, indugiare sulle costole che sporgono sul torace giallognolo, graffiare clavicole sottili come quelle di un uccellino e stringere i suoi capelli così chiari da sembrare quasi bianchi.

La manciata di banconote che appoggio sul comodino ogni volta che gli faccio visita mi consente un controllo assoluto, assuefacente. La mente di Iosif, una landa devastata da traumi come crateri di meteoriti e ricordi così orribili che sembrano partoriti dalle propaggini di un incubo, è un luogo in cui amo indugiare quasi come nel suo corpo ‒ c'è così tanto dolore, una rapsodia di sofferenza e tentativi falliti di risalita dal baratro, da rendere il mondo esterno nient'altro che un insieme di futilità.

Che si fotta la crisi economica. Che si fottano i traditori, i bastardi, i viscidi succhiacazzi che mi hanno reso la vita impossibile. Che si fottano le vetrine scintillanti piene di cose che non potrò mai permettermi.

L'insoddisfazione, la disperazione, la lenta discesa verso l'angoscia di una morte ineluttabile: qui c'è tutto il mio mondo, tutto quello che capisco e di cui ho bisogno. Mentre affondo nel vortice emozionale di Iosif la mia vita sembra un unico, infinito sentiero dorato ammantato di gioia e fortuna.

E forse potrei usare la mia abilità su di lui, ripulirgli la coscienza regalando a questo ragazzino di nemmeno diciannove anni la vita che veramente merita. Amici, una fidanzata, un appartamento decente in periferia e un'istruzione di livello medio/basso, ma comunque sufficiente a garantirgli un lavoro.

La verità, però, è che gli porterei via tutta la bellezza tragica, il languore spettrale che avvolge la sua figura di condannato ‒ lo priverei di un'identità che mi è cara, e al suo posto lascerei una mente uguale a mille altre e del tutto priva di attrattive. Come potrei stroncare una simile poesia in nome della morale comune? Iosif è come una fenice, una creatura che deve bruciare fino in fondo per poter rivelare la sua vera bellezza, e solo con l'annichilazione svelerà la magnificenza della morte.

Lo amo troppo per salvarlo.


ψ


Non sono mai stato il classico ragazzino solare e pieno di amici.

Ho dei vaghi flash di me stesso al primo anno di superiori, una cosa alta e sottile come un lampione che se ne andava in giro con l'opera omnia di Proust nello zaino e trascurava allegramente i libri di scuola per quelli di narrativa. I miei voti erano mediocri, così come la mia capacità di relazionarmi con chi avevo intorno, e non ero nemmeno lontanamente attraente.

Non parlavo, preferivo stare zitto in un angolo e ascoltare la gente. E più la ascoltavo, meno mi piaceva la compagnia.

Ricordo che i miei coetanei non riuscivano a portare a termine un discorso senza urlare, e io ho sempre detestato quel modo di fare da scimmie; imparai a tenermi in disparte, rispondendo solo quando interpellato, e lentamente capii che, contrariamente a quanto affermavano i miei genitori, non avevo bisogno di compagnia. Preferivo stare da solo piuttosto che mescolarmi con quella che mi sembrava una massa di imbecilli volgari e ignoranti, consumatori di beni prefabbricati che si cibavano di oggetti come io mi cibavo di libri ‒ utenti più che persone. Futuri capi di banca, star del cinema, avvocati e politici... potevo già capire cosa sarebbero diventati e per certi versi invidiavo la facilità con cui si divertivano, ma non riuscivo a passare del tempo in loro compagnia. Era come se ogni cellula del mio corpo li trovasse disgustosi, repellenti.

A quindici anni gli unici amici che avevo erano un gruppo di weirdos convinti di far parte di chissà quale club elitario, ma nel complesso interessanti. Rappresentavamo l'omologazione ad un livello differente, l'idea di essere originali rispetto ad un mondo imperniato sull'estetica e sul materialismo, ma alla fine eravamo più esteti e materialisti dei bersagli delle nostre critiche. Non mi sentivo ancora un diverso.

Non prima di Noah.

I suoi erano la classica famiglia bigotta nordamericana che trascorre ogni domenica in chiesa, e quando Noah divenne mio amico io avevo già la faccia crivellata di piercing e un guardaroba che avrebbe fatto invidia al cantante dei Dimmu Borgir. Non furono molto contenti di vedermi arrivare a casa insieme al figlio, ma a me non interessava il giudizio dei miei genitori ‒ anche loro dotati di una fede pari all'intolleranza, di cui avevano fatto un vanto ‒ figuriamoci quello di Ned Flanders e consorte.

Noah fu la prima persona a farmi mettere in dubbio il mio orientamento sessuale, il primo ragazzo che baciai e con cui, per una serie di fortunate casualità, finii a letto. Non so se lo amavo, ma probabilmente i sentimenti che provavo erano la cosa più vicina all'amore che mi avesse mai sfiorato.

Immaginate che gioia quando se ne andò tutto piagnucolante dai genitori e raccontò che lo avevo trasformato in un frocio contro la sua volontà. E io che speravo di aver cancellato anni di educazione rigidamente cattolica con l'aiuto congiunto di Bukowski e Irvine Welsh.

Seguì, com'era prevedibile, uno scandalo, e poi l'Inferno. Mi piaceva atteggiarmi a duro, fare finta di essere la personalità gelida e borderline che avevo sempre ammirato negli altri, ma quando ogni bisonte etero della scuola si sentì autorizzato a prendermi a calci e infilarmi la testa nel cesso mi dimostrai il coniglio tremante che ero.

Se potessi tornare indietro, probabilmente cambierei tutto.

«Ehi, sei sveglio?». La voce assonnata di Iosif mi riscuote dalla catalessi. Si tira su dal groviglio di coperte sporche e vestiti buttati alla rinfusa che è il suo letto, frugando sul piano del comodino finché non trova una sigaretta miracolosamente intonsa e un accendino. Odio il fumo ‒ arrochisce la voce ‒ ma devo sopportare in silenzio se voglio rimanere ancora un po' in compagnia di Iosif.

«Hai visite in programma?». Da parte mia sarebbe piuttosto ingenuo pensare di essere l'unico a foraggiare i costosi vizi del mio vicino di casa, comunque immaginarlo in compagnia d'altri non mi ha mai creato problemi.

«Nah. Per oggi sono più che a posto con... con la roba».

Gli tremano le dita, così fragili che se le stringessi un po' più del dovuto potrei spezzarle. Mi chiedo come sarebbe la mia vita se anche io dividessi la mia vita in segmenti di poche ore ‒ ricerca, acquisto, cucina, botta, down, astinenza ‒ e poi realizzo che è già quel che faccio. Scandisco le giornate grazie ai clienti, appuntamenti ravvicinati nel tempo, e le ore trascorse con Iosif non sono che momenti di respiro in una routine serrata.

Forse la mia si può classificare come dipendenza. Assuefazione alla miseria umana.

«Hai altri soldi?». Mi fissa con la stessa intensità che riserva alle banconote da cinquanta dollari «Perché posso guadagnarmeli, se vuoi».

Non posso impedire ad un piccolo sorriso cospiratorio di incresparmi le labbra.

«Per me è sempre un piacere, Iosif».


ψ


Anthony Hall ha le braccia muscolose e dure come l'acciaio e un taglio di capelli che conferisce ancora più stolida ferocia al suo viso da scimmione. Ride mentre mi infila la testa nel water e la spinge a fondo, verso l'acqua putrida, mentre conati di vomito e globi di rabbia incandescente mi riempiono l'esofago fin quasi a soffocarmi.

Cristo, vorrei ucciderlo. Prendere quella sua lurida testaccia del cazzo e sbatterla sul muro fino a far uscire il cervello, strappargli le palle e gettarle in una porcilaia. Ma prima vorrei vederlo umiliato e deriso da tutti quei coglioni dei suoi amici.

Vorrei che qualcuno gli infilasse la faccia in un cesso come lui sta facendo con me.

«Allora, frocio, ti piace la sottomissione?».

Lurido verme del cazzo, mi auguro che un giorno qualcuno te lo metta in culo contro la tua volontà.

«Adesso non ti va più tanto di andare ad infettare le persone per bene, eh?».

Mi dibatto, senza speranza. La risata di Hall è di gran lunga più disgustosa di qualsiasi cosa ci possa essere sul fondo di un cesso, ma devo persino considerarmi fortunato per il fatto che non ha chiesto ai suoi amichetti di partecipare al gioco. Loro sì che sanno essere fantasiosi, quando ne hanno voglia.

Succede tutto così all'improvviso che non ho il tempo di rendermene conto.

Tony Hall mi spinge con più forza nel water, la mia faccia finisce dritta nell'acqua e per poco non rischio di soffocare. La scossa di adrenalina che mi colpisce è così forte che riesco a spingerlo via con un calcio e a rotolare lontano dal WC, la testa gocciolante sul pavimento di linoleum bianco del bagno della scuola; per qualche bizzarro motivo ho ancora il coraggio di alzare la testa e fissare il mio aguzzino dritto nei suoi occhietti porcini, simili a minuscoli sassolini lucidi.

Il mondo sembra sparire.

La sensazione è che tutto ciò che ho intorno si offuschi e decada in un'indistinta nebbiolina grigia, e l'unica percezione costante è quella delle pupille di Hall piantate nelle mie. E in quei buchi neri ci sono... masse, aggregati di ogni forma e dimensione che pulsano in uno spazio scuro e caotico come una discoteca piena di gente; mi attirano come calamite potentissime, ed è come se la mia testa si dilatasse per avvicinarsi il più possibile a quella di Hall. Mi sforzo di sfiorare una di quelle forme indistinte e subito vengo catapultato nel bel mezzo di una partita di football, con giocatori in uniforme imbottita che corrono disordinatamente per il campo e il pubblico che rumoreggia. Non appena tocco un'altra massa mi investe un senso di potente euforia, e le labbra di una procace ragazza bionda si avvicinano alle mie ‒ adesso sono seduto su uno sgabello in un pub all'ultima moda, il ritrovo abituale degli studenti in della mia scuola. La ragazza si chiama Audrey Stevens, ed è la capo-cheerleader.

Ed è allora che, complice la mia grande passione per la letteratura sci-fi, capisco.

Cazzo, sono nella testa di Tony Hall.

Il terrore mi investe giusto per qualche minuto, il tempo necessario perché la mia immaginazione sempre in moto lasci germogliare un'idea. Se questo è vero, se non è un sogno, se davvero ho tra le mani i pensieri più nascosti del peggior figlio di puttana che abbia mai incontrato, allora è arrivato il momento della rivincita.

È l'istinto a guidarmi. Basta poco per capire come espandermi a mio piacimento in questo labirinto di nebulose informi, anche se all’inizio mi costa una certa fatica. Afferro una delle masse più luminose, uno splendido concentrato di gioia, e la disintegro tra le dita come una palla di neve. Distruggo a calci intere vie lattee di allegria, invidia, tristezza, interesse, praticamente ogni singola esperienza emotiva che il maledetto Tony Hall ha immagazzinato nel corso della sua vita finisce schiacciata nella morsa della mia coscienza. Scopro di non poter sradicare i ricordi ‒ quelli rimangono fissi come cozze attaccate ad uno scoglio ‒ ma non è comunque un gran cruccio nel momento in cui riesco a svuotarli di ogni sentimento, pallidi fantasmi privi di significato.

Non gli restano nemmeno le emozioni negative, perché non voglio che questo stronzo le sfoghi su qualcun altro ‒ specialmente su di me, ad essere onesti.

Quando mi ritiro dalla mente di Hall e il mondo riacquista forma e colore, il mio aguzzino è sdraiato per terra con un filo di bava che gli cola dalla bocca e lo sguardo impersonale, fisso. Ho come la sensazione che non gli passerà molto presto.

Raccolgo lo zaino, gettato a terra accanto al water, e scappo. Sono sicuro che non riusciranno mai a darmi la colpa dell'encefalogramma piatto di Anthony Hall, ma una paura irragionevole mi spinge a macinare metri e metri di corridoi finché non sono fuori, all'aria aperta.

Non sono più un bamboccio indif...

Bi-bi-bip. Bi-bi-bip. Bi-bi-bip.

«Ah, ma vaffanculo!». Il telefono mi sveglia a metà di quello che prometteva di essere il miglior sogno-ricordo dell'anno. Allungo una mano sul comodino, ancora un po' intorpidito, e rifletto. Sono tutt'ora estremamente soddisfatto della fine che ho fatto fare a quell'imbecille arrogante, a volte fantastico persino su come avrei potuto ridurlo se la mia abilità fosse stata sviluppata ai livelli attuali, ma forse non meritava tutta quella ferocia. Era solo un teenager più stupido della media.

Di sicuro meno stupido di me, che ho dimenticato di mettere i tappi per le orecchie.

«Pronto?».

«Aiuto».

Basta quella parola, intrisa di un terrore che riesce a colpirmi nonostante il filtro del microfono, a dissipare del tutto gli ultimi barbagli di sonno. Scatto sedere sul letto, il cordless schiacciato sull’orecchio sin quasi a far male, e sussurro: «Chi è?».

«Lo so che sei quello che aiuta la gente. Lo so. Me l’ha detto un mio amico, che aiuti la gente». È un torrente di parole sconclusionate, inframmezzate da singhiozzi e sospiri isterici; la voce sembrerebbe maschile, anche se piuttosto acuta. Quando guardo la sveglia per poco non mi prende un colpo: sono le tre e quaranta del mattino.

«Ehi, amico, calmati. Sono sempre disponibile per qualsiasi cosa, ma qual è il prob‒»

«Adesso. Devi aiutarmi adesso. Se no io mi ammazzo, capito?». Percepisco un brivido che mi accarezza la schiena dalla nuca alle natiche, sibillino, e una vampa di calore che accompagna l’aumento del battito cardiaco e precede di poco il sudore. Sapevo che prima o poi mi sarebbe capitato di immischiarmi in qualche situazione inquietante, ma non è mai troppo presto.

«Ok, ok». Vorrei sembrare calmo, ma quello che mi esce dalla bocca è un mezzo verso strozzato «Va bene, arrivo immediatamente, ma dimmi dove sei». Il pensiero che dall’altra parte del filo ci sia qualcuno che sta consapevolmente mettendo le sue vita nelle mie mani incapaci mi terrorizza più della prospettiva di un pazzo armato d’ascia, appostato in attesa del momento propizio per tirarmi fuori le budella.

Mentre immagino la meravigliosa prospettiva del mio intestino tenue che diventa un nuovo pezzo d’arredamento, il ragazzo al telefono mi comunica piangendo il nome di un parchetto che, per qualche miracolosa combinazione del destino, non è troppo lontano da casa mia. Posso raggiungerlo a piedi.

Butto il cordless dall’altra parte della stanza e infilo le scarpe da ginnastica sotto il pigiama. Alle tre e quaranta per questo merdoso quartiere girano solo puttane e spacciatori, gente che eviterà di far caso ai miei vestiti sbrindellati. Forse riuscirò addirittura ad evitare le minacce di morte e i tentativi di rapina ‒ così conciato nemmeno l’individuo più disperato della terra si azzarderebbe a chiedermi dei soldi.

Corro fuori dall’appartamento, giù per le scale, continuo ad arrancare anche quando il freddo pungente della notte attacca la pelle. Non sono mai stato uno sportivo, e bastano dieci minuti di andatura sostenuta perché i polmoni comincino a bruciare come se avessi inalato acido solforico.

Raggiungo il parco in tempi minimi; è un fazzoletto di prato con pochi alberi e gli scheletri malandati di qualche panchina, avvolto in un buio quasi totale a causa dei numerosi lampioni rotti ‒ il genere di posto che, se di giorno non ha la minima attrattiva, di notte diventa lugubre e losco.

Lui, però, lo vedo benissimo. Sfiderei chiunque a non vederlo.

Indossa scarpe col tacco vertiginose, di un rosa così acceso che dev'essere impossibile guardarle alla luce del Sole. Gambe lunghe, nude e depilate con un'accortezza che credevo impossibile per un uomo, scompaiono in una minigonna di paillette azzurrognole che, a contrasto con la giacca di pelo intonata alle scarpe, lo fa sembrare una specie di Barbie. O un Ken che le ha rubato i vestiti.

Fantastico. Sembra un tipo più incasinato di quanto pensassi.

Ha il viso rigato di lacrime e generose quantità di trucco sciolto, i pugni stretti attorno ad un fazzoletto di carta e le unghie, laccate di rosso, sono artigli lunghi tre centimetri.

«Ehi,» mi avvicino con circospezione e nel frattempo cerco freneticamente qualche altra presenza umana, nella speranza di essermi sbagliato «ciao. Mi hai chiamato qualche minuto fa, giusto?».

Lui solleva lo sguardo dalle scarpe − e nonostante la luce fioca i suoi occhi sembrano brillare, così chiari che iride e sclera si confondono − poi cerca di asciugarsi le lacrime, con l'unico risultato di spalmare la matita sciolta sulle guance incavate. Sembra uscito da un campo d'addestramento dei Navy Seals o da un film di Sylvester Stallone, e la cosa, più che divertirmi, mi impietosisce.

Sto fermo come una statua mentre mi analizza. Si prende qualche secondo più del necessario, scrutandomi sospettosamente dalla testa ai piedi, poi tira un sospiro di sollievo e si rilassa contro lo schienale della panchina. Cosa si aspettava, l'ennesimo vecchio bavoso? Deve averne visti molti, con la faccia che si ritrova.

«Sai, credevo che tu fossi un po' più... Freud». Ridacchia, brevi singhiozzi privi di allegria, poi mi porge la mano «Lascia stare, me ne esco sempre con le cazzate. Io sono Marvin».

Che strano, qualcuno che non usa uno pseudonimo idiota con me. La sensazione è fastidiosamente intima, ma quasi mi dispiace non poter fare lo stesso.

«Frank Zappa, molto piacere».

Mi lancia un'occhiata sorpresa, e per un attimo penso che abbia capito il suo errore nel presentarsi con il nome di battesimo; Marvin, però, sbatte le ciglia impiastricciate di mascara con aria innocente e dice: «Ah, wow. Quindi hai origini italiane».

Io sono a stelle e strisce fin nel midollo, amico, e tu ascolti musica di merda.

«Sì, per parte di madre. Posso sedermi, Marvin?».

Il travestito − non ha nemmeno un vago accenno di tette sotto quella montagna di pelo rosa − annuisce e si fa un po' più in là su una panchina che potrebbe contenere agevolmente quattro camionisti da cento chili ciascuno. Persone come questa ce l'hanno scritto in fronte che sono delle vittime, che qualsiasi cosa capiterà saranno le prime a sottomettersi e subire il lato peggiore della vita; li riconosco subito, con quei sorrisi timidi e il modo impacciato di scuotere il capo, con le dita che tremano per la tensione e gli occhi che non sanno mai dove posarsi − e so, anche se non vorrei, che sto guardando un pezzo di carne da macello. Marvin è quello che sarei io se non avessi la mia abilità.

«Allora, che ci fai da solo in questo posto alle quattro del mattino?».

«Non so dove scappare». Marvin nasconde il viso tra le mani, la sua voce si fa soffocata «O dove nascondermi. Un mio amico mi ha detto che hai aiutato la sua ragazza, che con una seduta riesci a curare la gente che soffre. Così... così ho pensato di fermarmi da qualche parte e chiamarti».

«Perché dovresti scappare? Hai combinato qualche casino? C'è qualcuno che vuole farti del male?».

Non ha l'aria nevrotica e sciupata di Iosif, ma in questo quartiere ci sono ben pochi ragazzi che il sabato sera non vomitano anche l'anima ai lati del marciapiedi, strafatti o ubriachi. Per non parlare di quelli che sarebbero disposti a spaccare la faccia a Marvin per via delle sue inclinazioni.

A sorpresa, però, mi caccia in mano il fazzoletto appallottolato e si volta dall'altra parte, in modo che non possa guardarlo in faccia. Mi accorgo che si tratta in effetti di un foglio di carta da stampante, bagnato e accartocciato fino a diventare morbido, e lo stendo sulle ginocchia cercando di capire quello che c'è scritto nonostante il buio. In alto c'è il nome di un ospedale che non ho mai sentito e un timbro rettangolare mezzo sbiadito, e i caratteri neri spiccano sulla carta immacolata con una crudeltà tutta particolare.

«Ah...» cerco di controllare l'espressione del viso mentre lo piego in quattro, con cura, e lo restituisco al legittimo proprietario «... mi dispiace, Marvin».

Che frase del cazzo. Scommetto che un bambino di sei anni saprebbe fare di meglio.

Il fatto è che non so rapportarmi con situazioni come questa ‒ non sono tagliato per i problemi gravi che riguardano il presente, l'immediato, specialmente se non c'è modo di risolverli. Come si fa ad eliminare la sofferenza dalla mente di qualcuno che ha appena scoperto di essere sieropositivo?

Come posso esorcizzare un fantasma che gli rimarrà incollato per tutta la vita? Questi non sono traumi infantili, ombre del subconscio che si possono fugare con la mia abilità. Questa è una tragedia vera, e io non sono la persona giusta per arginarla.

«Se pensi che mi sia beccato il virus facendo marchette o bucandomi, be'...» singhiozza, stritolando il responso delle analisi come se la sua rabbia cieca bastasse per cancellarlo «... non hai capito un cazzo. Quel figlio di puttana con cui stavo se l'è preso da una troia qualsiasi che nemmeno conosceva, e poi l'ha passato a me».

«Lui non sapeva di averlo, giusto?».

«No, ma lei se l'è scopata mentre stava con me. Col cazzo che lo perdono, bastardo di merda...»

La sua parlata ben poco elegante tradisce origini umili almeno quanto la qualità dozzinale della parrucca bionda che indossa; povero Marvin, una vita iniziata male, continuata peggio e destinata ad un finale così misero che non ho nemmeno voglia di immaginarlo. Se anche entrassi nella sua mente e frugassi a fondo, dubito che riuscirei ad eliminare il nocciolo del problema: la malattia non è un ricordo passato che perderà di intensità se slegato da qualsiasi emozione, ma un incubo presente e assillante come il ticchettio della goccia cinese. Potrei spazzare via il dolore, ma ritornerebbe subito.

«Marvin,» come si fa a controllare la voce mentre si distruggono le speranze di una persona? «sono desolato, ma il tuo caso è molto... particolare. Non esiste una terapia per questo tipo di problemi, capisci? Si va da un assistente sociale o da uno psicologo quando si vuole risolvere un conflitto di natura astratta, o che comunque non sussiste nel presente, non quando...» mi blocco a metà, non so come continuare. Mi guarda con una disperazione così intensa che mi sento mancare la terra sotto i piedi.

Cerco − invano ‒ di recuperare il mio lato più cinico e menefreghista, ma tutto quello che ottengo è una secchiata di vergogna bruciante e il pensiero che sì, sono il peggior rifiuto umano sulla faccia della Terra. Un fallimento. Dev'essere quello che succede quando un disadattato con evidenti problemi relazionali pregressi cerca di prendersi cura di altre persone.

«Io ho solo bisogno che tu mi dica perché non dovrei ammazzarmi». La voce di Marvin è un sussurro tremulo, mi fa venire i brividi «Dammi una sola ragione, Frank. Dimmi perché al mondo serve uno come me, e basterà. Se vuoi ti pago. Ma dimmelo».

A questo punto mi si presenta un bivio. Potrei tirare fuori un mucchio di cazzate sull'unicità di Marvin, sul fatto che uccidendosi renderà tristi tante altre persone. Potrei dirgli che avrà una vita soddisfacente anche con l'HIV, se si curerà, che ci sono moltissime cose in lui che chiunque sarebbe disposto ad amare.

Ma so che non funzionerebbe, perché ai tempi non ha fermato neanche me.

Così, con i suoi enormi occhi chiari puntati addosso, lo incoraggio a fare l'unica cosa che mi sia mai riuscita in tutta la mia vita. Gli do il consiglio peggiore, ma paradossalmente anche quello di cui adesso ha più bisogno.

«Lo stronzo che ti ha tradito... come si chiama?».

«Joseph».

«Bene, è ora che Joseph si becchi una razione doppia di calci nel culo. Te lo dico io perché servi al mondo, Marvin: perché uno stronzo come quello non possa più fare del male a qualcuno». Lo guardo, un ragazzino infagottato in vestiti ridicoli, e non ho mai visto niente di meno minaccioso in tutta la mia vita «Capisci? Sputtanalo, paga qualcuno perché gli faccia il culo, tira fuori le palle e pestalo fino a fargli sputare tutti i denti. Ma non lasciare che quello che ti ha fatto resti impunito».

Nel mio sguardo ci dev'essere qualcosa che lo ha allarmato, perché si allontanato leggermente; senza curarmene, continuo: «Puoi star certo che al resto del mondo non importerà se tu soffri per colpa di un bastardo. La gente fa sempre così: chiude gli occhi davanti alle ingiustizie e si rintana nel suo ovile comodo e sicuro, al riparo del gregge. Se non dimostri che sei abbastanza forte, se ti ammazzi, anche da morto ti trasformeranno in un reietto». Ho preteso per tutta la vita di non tenere in nessun conto l'opinione della gente, e solo adesso mi rendo conto che probabilmente ho sempre vissuto basandomi unicamente sui pareri altrui. Simulare spavalderia e menefreghismo solo perché non si è capaci di entrare in contatto con il resto del mondo... suona patetico, ma a volte bisogna aggrapparsi anche ad una cosa del genere. Devo ricordarmi in continuazione che basto a me stesso.

«Mi stai dicendo che dovrei vivere per... vendicarmi? Sembra tanto un pessimo film di Hollywood».

«Tu mi hai chiesto un parere, io te l'ho dato. Vorresti che qualcuno si sentisse come ti senti adesso tu?». Sembra che la crisi di pianto sia rientrata nei ranghi.

Marvin scuote la testa, le emozioni scorrono sul suo viso come sullo schermo di un cinema.

«Forse è una ragione peggiore di tante altre». Sospira, infine, buttando il foglio spiegazzato a terra «Ma è una ragione. Fai dei bei giochetti con le parole, tu».

«Be', mi dispiace di non averti potuto aiutare».

Improvvisamente mi rendo conto che sono le quattro e mezza di mattina, che ho una discreta quantità di sonno arretrato e ho trascorso l'ultima ora della mia vita a preoccuparmi per un travestito con l'HIV in piena crisi isterica. Improvvisamente, già, ho voglia di buttarmi su un letto e non incrociare mai più lo sguardo ridicolmente speranzoso di Marvin, puntato su di me come un faro.

Non fissarmi in quel modo. E non farlo neanche con gli altri, idiota.

Ti tradiranno altre mille volte, ti racconteranno un mucchio di cazzate. Le persone lo fanno.

E io sono il peggiore tra loro.

«Io... credo che tornerò a dormire. Domani ‒ cioè, oggi ‒ ho un mucchio di lavoro arretrato». Scatto in piedi, spinto da un impulso irrefrenabile, e faccio un mezzo passo indietro. Devo sembrare ridicolo, con il pigiama che mi cade da tutte le parti e le scarpe allacciate male «Arrivederci, Marvin».

Non faccio in tempo a voltarmi che lui mi afferra un polso, stringendolo tra le dita umide di lacrime, ed esclama: «Aspetta! Ti prego, non te ne andare».

Una parte di me vorrebbe scrollarsi di dosso quella mano e scappare, l'altra sceglie impietosamente di dare retta al ragazzino.

«Che cosa vuoi?». Non riesco comunque ad impedirmi di suonare un po' brusco, ma so già che, qualsiasi cosa Marvin stia per chiedermi, la farò. Ha qualcosa di diverso da tutti gli altri, un'ombra di grazia innata che gli conferisce una bellezza del tutto aliena agli abiti lisi del mio Marc Jakobs e alla tranquillità sudaticcia di Marjorine. Mi rendo conto che potrei desiderarlo persino più di Iosif, se non sapessi che si porta dentro il virus.

E io che speravo di aver accantonato ogni sentimentalismo.

«Non ho un posto dove andare. Vivo con Joseph, ma a casa non ci torno».

So già dove vuole andare a parare, e socchiudo gli occhi in attesa della mazzata.

«Ti prego, ospitami per una notte. Una notte soltanto, domani chiamerò qualche amico e me ne andrò da un'altra parte... non ti accorgerai nemmeno che ci sono, se vuoi dormirò sul pavimento».

Lo fisso. Ha la parrucca storta da una parte, la pelle d'oca sulle gambe e i denti macchiati di rossetto.

«Va bene».


ψ


Com'era prevedibile, gli amici di Marvin non rispondono al telefono.

Non credo che menta, da quel poco che ho visto non ne è nemmeno lontanamente capace, e poi si aggira per il mio appartamento come un'anima in pena, il telefono stretto in una mano e l'altra calcata tra i capelli ‒ che, parrucche a parte, sono folti e rossicci come le foglie degli aceri in autunno.

Dopo due giorni di pantomima decido che il nervosismo di Marvin influisce negativamente sul mio rendimento lavorativo. «Su, non fare il coglione». Gli dico «Puoi prendere residenza fissa sul mio divano finché non trovi un altro posto, l'importante è che mi passi un po' di grana. Sai, l'affitto».

Non sono uno di quegli psicopatici che vedono l'HIV come una specie di peste bubbonica del nuovo millennio ‒ non ho la minima intenzione di intrattenere rapporti romantici e/o sessuali con Marvin, per cui le possibilità di un contagio accidentale si avvicinano allo zero. Rischio molto di più ogni volta che finisco a letto con Iosif, che avrà fatto il test sì e no due volte in tutta la sua vita (e puoi usare tutti i preservativi che vuoi, ma statisticamente c'è sempre quello che si romperà nel momento meno opportuno).

La quotidianità si trasforma con una velocità allarmante, e la presenza del nuovo coinquilino comincia ad invadere i miei preziosi intervalli di solitudine. Marvin non è un tipo invadente o chiassoso ‒ sta fuori tutto il giorno, e quando non lavora come cameriere in una pizzeria del centro si agghinda ed esce fino alle cinque di mattina ‒ ma sono le piccole cose, i particolari che ha stravolto a colpirmi.
Accanto al divano, per esempio, c'è una valigia con i suoi vestiti. Nel bagno si è preso un angolo e l'ha riempito di creme dai nomi strani e borsette stracolme di trucchi. Sul televisore è comparsa una colonnina perfettamente ordinata di DVD ‒ ho scoperto con grande stupore che sono gli stessi film che guardavo insieme ai miei amici del liceo.

Non mi sento infastidito, solo... confuso.

Fortunatamente i clienti riescono sempre a ristabilire il giusto ordine nella mia vita. Martedì mattina apro l'agenda per dare un'occhiata agli appuntamenti della giornata e, non senza un certo piacere, leggo l'annotazione "Julia - Marc Jacobs" sulla riga delle 11.00; adoro gli incarichi che riguardano insicurezze così blande, e sono anche abbastanza incuriosito dal tipo di donna che ha deciso di passare la propria vita con lo squallido yuppie che ho incontrato pochi giorni fa.

Per una volta curo un po' di più il mio aspetto, sistemo i capelli e i vestiti e metto persino un po' di profumo. Non so nemmeno io perché lo faccio ‒ se per una sorta di antagonismo verso Marc Jacobs, per dimostrare che sono meglio di lui, o per la vanità che Marvin è riuscito inspiegabilmente a risvegliare ‒ ma quando mi rimiro nell'unico, lurido specchio dell'appartamento mi sento piuttosto stupido. Stupidamente ridicolo.

«Non torno a pranzo». Grido, e Marvin emette un vago mugugno mentre si spalma la faccia con una crema verdognola dall'aria ben poco invitante «Ehi, capito?».

«Non sono mica tua moglie, cazzo. Scaverò in quel relitto di frigo alla ricerca di qualcosa».

Mi dico che non dovrei apprezzare risposte acide come questa più del consentito, che sarebbe ben più saggio cacciarlo fuori a calci ‒ e invece faccio spallucce, contengo il sorriso fino alla soglia ed esco dall'appartamento con un ghigno idiota che mi tende tutti i muscoli della faccia. Ghigno che non scompare nemmeno quando affronto un disperato dopo l'altro, usando la mia abilità con una disinvoltura che velocizza notevolmente il lavoro; forse c'è persino un po' di felicità, in me, quando mi preparo all'incontro delle 11.00.

La situazione ti sta sfuggendo di mano, vecchio mio.

Le strade sono quasi deserte, la maggior parte della gente è al lavoro o sta già preparando il pranzo, ma nel minuscolo bar dove ho fissato l'appuntamento c'è una calca notevole; fortunatamente riconosco immediatamente Julia, abbandonata contro lo schienale della poltroncina con il viso notevolmente rannuvolato. Spesso mi chiedo come facciano i clienti a farmi trovare i loro amici e parenti nei posti che stabilisco io, all'ora giusta ‒ se dovessi farlo io, probabilmente i miei tentativi si concluderebbero con un fallimento abbastanza misero.

Mi siedo con nonchalance, le sorrido.

«Ciao, sei qui da sola?».

Lei non sembra particolarmente colpita, ma non mi scaccia.

«Quindi sei tu il famoso amico di Arthur che dovrebbe aiutarmi per la plastica al naso? Non hai l'aria del dottore, tesoro».

Mi irrigidisco e prego ogni divinità del firmamento che questa donna non pretenda una conversazione incentrata sulla chirurgia estetica: le uniche nozioni che ho al riguardo derivano da qualche servizio scandalistico sulle tette di Pamela Anderson. Sudando freddo, mi produco in un sorrisetto tirato e giocherello con il porta-fazzoletti di metallo.

«Io sono il... tramite. Conosco un chirurgo che è un vero esperto in questo genere di cose ed è disposto ad abbassare notevolmente il prezzo se sono io a chiedergli un favore, ma tutto dipende dal vostro budget».

«Stiamo parlando di una clinica privata?».

Annuisco. Non vedo l'ora di finirla, ma lei non è ancora abbastanza tranquilla.

«Naturalmente. Il prezzo per un intervento di questo tipo, e stiamo parlando di plastiche di alto livello, va dai seimila ai settemila dollari. Per te si potrebbe parlare di... cinquemila, forse quattromilacinquecento dollari».

Julia si ravvia i capelli con un gesto stanco e mi lancia uno sguardo rassegnato dei suoi magnifici occhi azzurri; è elegante, una bellezza matura che riesce a farsi notare nonostante il difetto abbastanza marcato che ha al centro del viso ‒ e sembrerebbe anche piuttosto intelligente.

«Con lo stipendio di mio marito e l'affitto, le bollette e l'assicurazione non avrò mai quattromila dollari da spendere in una cosa del genere. Scusa, come hai detto che ti chiami? Non ci siamo presentati, mi sembra».

«Dylan».

«Julia». Fruga nel cappotto finché non trova un pacchetto di sigarette e un accendino, poi sembra ricordarsi che in questo locale non è permesso fumare e li posa sul tavolo «Tu sei fortunato, Dylan. Giovane e carino... quanti anni hai?».

«Ventiquattro. E non credo che tu abbia bisogno di una plastica al naso, credimi. Sei... bella così come sei». Il mio tentativo di flirt va in porto, lei sorride con aria lusingata e si sistema una ciocca di capelli dietro l'orecchio, ma c'è comunque una luce fredda nei suoi occhi. Non mi crede.

«Una delle caratteristiche che ogni uomo dovrebbe possedere per piacere alle donne è l'abilità nel mentire». Sorride, lievemente maliziosa.

«Tu che voto mi daresti?».

«Otto e mezzo».

Colgo l'attimo di rilassata intimità e cerco di immergermi nella mente di Julia, scivolando nei suoi occhi azzurri come un verme in un pantano di fango viscido. La sua espressione si congela in quella che inizialmente credo semplice catatonia, ma ben presto la realtà della situazione mi colpisce più forte di un pugno.

Non riesco ad entrare.

C'è una specie di barriera, uno schermo d'acciaio che mi separa dalla mente di Julia. Mi affanno per cercare di abbatterlo, e i miei sforzi cessano nel momento esatto in cui lei ‒ con mio grande stupore ‒ inclina la testa da un lato e comincia a ridere come un'ossessa, dondolando contro lo schienale della poltroncina. So che dovrei alzarmi e scappare, ma una forza sconosciuta mi tiene ancorato alla sedia e sento il cuore in procinto di esplodere.

«Oh, mio, Dio». Tra una parola e l'altra infila una risata alta e singhiozzante, da iena, fissandomi con quei suoi strani occhi gelidi «Non ci posso credere. Cosa pensavi di fare, stronzetto?».

Mi sento un topo, un minuscolo topolino da laboratorio in trappola.

«Cosa diavolo sei?». Conosco già la risposta, ma nulla mi impedisce di sperare che questo sia semplicemente un brutto incubo. Cerco di tirarmi in piedi e scopro che i muscoli non mi rispondono più, un attimo prima che un dolore lancinante mi trapassi le tempie e le dita gelide di Julia si infilino nel mio cervello. Mi sono sempre chiesto cosa provino le persone su cui utilizzo l'abilità, e adesso lo so: è una violenza disgustosa, invasiva, uno stupro della mente in cui si resta inermi mentre qualcun altro fruga tra tuoi i ricordi e li accarezza a suo piacimento ‒ tutte le mie emozioni nelle mani di Julia, una creatura che è come me ma, realizzo, infinitamente più potente.

Tra tutti i pensieri che potrei formulare in questo momento, ne sovviene uno particolarmente futile: questa donna mi ha appena privato dell'unica qualità veramente unica che possedevo. Sono di nuovo uno dei tanti, membro standardizzato di un'ampia categoria. Meraviglioso.

«Ah, che vita interessante». Non so come faccia a rimanere ancorata alla realtà mentre si infiltra nella mia memoria, io non ci sono mai riuscito «Quindi ne hai fatto un lavoro, uh? Ed è per quello che sei qui... perché quel coglione di Arthur si preoccupa per me e per i suoi soldi». La sua risata mi fa venire la nausea, mi ricorda quella di Tony Hall.

«Credevi di essere l'unico sulla faccia della Terra? Che pretesa ridicola. Nessuno è realmente unico, Dylan, men che meno che quelli come noi. Siamo come sciacalli, che proliferano quando gli altri soffrono... e la gente soffre così tanto, così tanto... oh, guarda. Eri un bambino problematico anche tu, eh?».

Questo è mille volte peggio di qualsiasi cosa Tony Hall mi abbia mai fatto. La sento avvicinarsi al punto nevralgico, al nodo di rabbia e risentimento che si annida al centro della mia mente ‒ ma non voglio, non voglio che lo tocchi. Non voglio che veda, che sappia quello di cui non ho mai osato parlare nemmeno a me stesso ‒ e cerco di dibattermi, ma la mia abilità è la mano impotente di un bambino contro gli artigli di una tigre affamata. Ha già vinto.

«Ma pensa, non sei nemmeno riuscito ad ammazzarti. Questo sì che è da falliti, bimbo».

Vorrei morire. La rabbia che mi assale è così tanta che per un attimo Julia indietreggia e io riesco quantomeno a parlare, anche se di alzarmi e fuggire come vorrei non se ne parla nemmeno.

«Lasciami andare, stronz−»

«Zitto». Riprende subito il controllo, chiudendomi la bocca mentre si accarezza le labbra con aria civettuola «Sai, di solito riesco a percepire la presenza di quelli come noi, ma il tuo potere è così debole che a stento si avverte. Quello che riesci a fare, però, è... ammirevole, direi. Quasi geniale. Curi gli altri per non pensare ai tuoi problemi».

Maledetta puttana, non sai niente di me.

«Oh, non so niente di te? Non direi proprio, caro il mio intossicazione da fenobarbital. Avresti fatto prima a buttarti sotto una macchina in corsa, se proprio non volevi che la gente capisse che la tua era solo una disperata richiesta di attenzioni. L'hai già detto a Marvin?».

Solo adesso capisco la portata della situazione, la minaccia melliflua sepolta nelle parole di Julia.

«Che cosa vuoi fare, adesso?». Ringhio, quando lei mi lascia intenzionalmente libero perché possa risponderle − è come se qualcuno avesse eliminato una pressione di diverse centinaia di chili dal mio cranio.

«Ho sempre seguito una politica aggressiva nei confronti dei piccoli cazzoni come te, bimbo». Più che un sorriso, quello di Julia è uno snudare le zanne «E sono piuttosto vendicativa nei confronti di chi cerca di fregarmi. Ma tu sei troppo patetico perché possa pensare di prendermela con te, non trovi? Fai finta che la realtà non esista, ti trovi persino questo pseudo-amore pieno di problemi... oh, gli ostruzionisti. Forse un po' vi invidio».

«Ti ho chiesto che cosa vuoi fare». Inspiro, mi aggrappo al bordo del tavolino con tutte le mie forze e mi sento quasi mancare «Ce ne sono degli altri come noi, vero?».

«Oh, ce n'erano degli altri, in questa città, prima che li uccidessi uno per uno». La voce calma e impersonale di Julia ha il potere di terrorizzarmi. Raggelato, la guardo in attesa che riprenda possesso della mia coscienza e la renda una poltiglia di materia grigia e sinapsi distrutte, esattamente come io ho fatto con Tony Hall.

«Perché...» faccio fatica a parlare, un sudore freddo come ghiaccio scorre sulla schiena «... perché hai fatto una cosa del genere?».

«Forse non lo sai, ma noi portatori del dono possiamo prenderci la forza degli altri una volta che li abbiamo ammazzati. Come le zanzare o le pulci, succhiamo via il potere dal cervello di chi lo possiede». Sorride di nuovo, e io perdo del tutto la capacità di ragionare coerentemente. Sono morto.

«Ma non mi servirebbe a niente prendermi il tuo, bimbo. È così poco che non lo sentirei nemmeno». Si alza in piedi, raccoglie sigarette e accendino, mi volta le spalle e fa per uscire. Proprio quando sto per tirare un sospiro di sollievo e un timido barlume di speranza si affaccia nella mia  mente, Julia mi regala uno sguardo che mi fa accapponare la pelle e sussurra: «Non credere che non ci rivedremo, bimbo. So già che mi mancherai».

Solo quando è uscita dal locale mi rendo conto delle scie umide che ho sulle guance.

Sto piangendo. Sto piangendo di paura, e non c'è assolutamente niente che possa fare per tirarmi fuori da questo incubo.


ψ


Ho staccato il telefono.

Marvin mi ha chiesto il perché, ma non gli ho risposto. Per cinque giorni ho aspettato che si materializzasse una soluzione al problema, raggomitolato tra le coperte nella mia stanza che puzza di chiuso, ma per quanto mi arrovellassi non ho trovato vie d'uscita; così ho strappato un foglio a quadri da un vecchio quaderno, ho acceso il computer e ho deciso di compilare la lista.

Fosforo rosso, trecentonovantanove dollari e novantanove centesimi.

Costa troppo.

Veleno per topi, tredici dollari e novantotto centesimi.

Doloroso.

Stricnina, irreperibile a meno di non possedere una ricetta.

Cianuro, irreperibile.

Candeggina.

Varechina.

Barbiturici.

Rasoio.

Benzina.

«Ar-se-ni-co». Sillabo, tracciando le parole con mano più ferma di quanto credevo possibile. Stavolta non devo sbagliarmi, non devono potermi salvare − soprattutto Marvin, spero che abbia l'accortezza di buttare il mio cadavere in un fosso con l'aiuto di Iosif e stabilirsi vita natural durante nell'appartamento. Forse dovrei avviare una qualche sorta di procedura testamentaria, ma sono al verde e non posso permettermi un notaio.

Mi è rimasto un centone, e con quello comprerò la sostanza destinata ad ammazzarmi. Non posso vivere con il ricordo delle grinfie gelide di Julia nel mio cervello, con il suo sguardo che compare in ogni incubo e la sua risata agghiacciante che mi riverbera nelle orecchie; soprattutto, non riesco ad uscire di casa se penso che potrei trovarmela davanti a qualsiasi ora. La paura mi paralizza soprattutto quando realizzo che non importa quanto mi nascondo, lei prima o poi verrà a cercarmi.

Percepisce la presenza di quelli come noi.

Fisso il foglio, lo studio, rileggo i nomi impilati ordinatamente ed equidistanti dal margine sinistro, passo le dita su Stricnina e arriccio il naso quando il pollice scivola inavvertitamente su Varechina; sospiro, infine, prima di stracciare la carta sottile con mani nervose e appoggiare la nuca al muro alle mie spalle, sospirando.

Marvin obietterebbe che le mie prediche si allontanano un bel po' dalle mie azioni, ma lui non si trova a fronteggiare un mostro impazzito e infinitamente forte. Lui ha le sue medicine che gli danno una speranza di salvezza, mentre ogni appiglio a cui io cerco di aggrapparmi sfugge sotto le dita come se fosse cosparso di olio.

Se la spada di Damocle pende sulla mia testa, allora sarò io stesso a tagliare il crine che la sostiene.

Non permetterò a Julia di avere il monopolio sulle mie azioni.

«Vaffanculo, troia psicopatica!». Quasi grido, appoggiando la fronte sulle ginocchia, e mi manca immediatamente il fiato. Da quant'è che non faccio un pasto degno di questo nome? Da quando è cominciata la mia reclusione volontaria, probabilmente.

«Sei diventato più rumoroso da quando hai portato qui quel nuovo coinquilino. Per fortuna ci hai fatto la grazia di staccare il telefono».

Sollevo la testa di scatto, cercando frenetico la fonte di quella voce sottile e acuta come quella di un bambino, e la trovo in una piccola bestiola dalle zampe lucide appoggiata con grazia sul copriletto, le antenne che sfiorano il pacco di caramelle balsamiche con una cupidigia quasi tangibile.

Uno scarafaggio.

«Ero convinto di averti ammazzato». Sussurro, mentre il mio ospite indesiderato entra nella busta di plastica trasparente e comincia a palpeggiare le caramelle scadute, dubbioso.

«Tu eri convinto di molte cose». Risponde, la vocina soffocata dagli innumerevoli strati di leghe polimeriche che ci separano «Le blatte sopravvivono alle esplosioni nucleari, pensavi di potermi finire con una confezione di shampoo da discount?».

«Ma c'erano le tue budella». Sussurro «Le tue budella sparse nel lavandino».

«Forse». Concede lui, agitando un'antenna «Ma non capisco perché la storia delle sette vite sia appannaggio esclusivo dei gatti. Voglio dire, puzzano e occupano un mucchio di spazio, non meritano tutta quell'attenzione».

«Quindi tu saresti... risorto».

«Mai sentito parlare di un certo Gesù di Nazareth?».

«Ok, Gesù. Vuoi qualcosa da me o sei qui soltanto per rompermi i coglioni? Non è il momento più adatto».

Non ho niente con cui schiacciarlo, e poi davanti a me c'è la prova lampante che non servirebbe comunque a nulla. Mi chiedo perché tutti gli elementi di disturbo della mia vita siano impossibili da sradicare.

«Sono qui per darti un consiglio, umano».

«Sentiamo».

Gesù striscia fuori dalla busta − evidentemente le caramelle fanno schifo pure a lui − e volta la testa verso di me. Credo che mi stia fissando.

«Veleno per topi». Sussurra, mefitico, prima di schizzare via tra le coperte appallottolate e sparire in qualche angolo inesplorato della stanza. Ragiono sul suo consiglio per qualche secondo, poi annuisco in silenzio: se una blatta torna dagli inferi per aiutarti a morire, cazzo, vale proprio la pena di darle retta.

Mi vesto con tutta calma, raccattando i vestiti più puliti che ci sono tra tutti quelli impilati vicino alla porta − e non è una ricerca semplice, considerate le condizioni igieniche precarie in cui versa la camera da letto; quando mi guardo allo specchio vedo un me stesso sfatto, malaticcio, con le occhiaie arrossate e la barba incolta, il colorito giallastro e le mani tremanti per la pressione bassa. Sembro Iosif.

Sorrido.

La chiave provoca uno stridore fastidioso quando la costringo a girare nella serratura, quindi non c'è di che stupirsi se, nel momento in cui metto un piede sul pavimento del corridoio, Marvin è già davanti a me. Mi punta addosso i suoi enormi occhi spiritati e posa le mani sottili sulle mie spalle, fissandomi come se le parti fossero invertite e io mi portassi dentro un qualche male incurabile; stai forse guardando la mia follia, Marvin? La vedi, finalmente? Perché io me la sento scorrere sotto la pelle, negli occhi, nel cuore e nel cervello, insieme ad una paura così acuta da destabilizzarmi.

«Ehi, finalmente. Stavo per chiamare la polizia. Si può sapere che cazzo è successo?».

Oggi, stranamente, non è truccato. Mi piace di più così, con i capelli rossi in disordine e il viso bianco, pulito, qualche lentiggine dorata sul naso.

«Mi sono preso una... pausa di riflessione». Ho la bocca impastata, neanche avessi passato gli ultimi giorni ad ubriacarmi come un qualsiasi vecchio pezzente. Mi dispiace, Marvin, per la prima volta in vita mia mi dispiace dover costringere un altro essere umano ad assistere a questa sottospecie di catarsi senza fine che è la mia vita. L'unica, parziale consolazione è che finirà presto.

«Stai uscendo?». Chiede, speranzoso, senza levarmi le mani di dosso.

«Seh. Devo comprare delle cose».

Annuisce: «E poi ho praticamente svuotato il frigo. Ci sono rimasti un paio di barattoli di maionese e un pezzo di formaggi. Dai, ti accompagno».

Ha paura che mi faccia del male, il cretino, e risponde con premure che normalmente aborrirei. Ma lui è Marvin, e ormai entrambi sappiamo che non posso negargli nulla − tra l'altro se ne approfitta in un modo tanto infantile da non lasciare spazio al risentimento.

«No. Cos'è, mi hai preso per un vecchio? Non ho bisogno della badante».

Il pallido tentativo di sviare le attenzioni appiccicaticce del mio adorato coinquilino si infrange contro il muro in calcestruzzo della sua testardaggine: incrocia le braccia sul petto, mi guarda con un'aria a metà tra il malizioso e il divertito, soffia: «Guarda che devo prendere la metro per andare al lavoro, non esco di casa apposta per accompagnarti. Non vorrai mica lasciarmi in balia di tutti gli stronzi incivili della città... potrei prenderla sul personale, sai?».

«Non sei l'articolo più richiesto, gringo». Sorrido «Al primo posto ci sono io».

Ricevo la spallata con un gemito soffocato, appoggiandomi alla parete per non barcollare.

«Ok, dammi cinque secondi e sono pronto!». Marvin si infila in salotto quasi correndo, ma i suoi cinque secondi si trasformano ben presto in quasi mezz'ora di straziante attesa. Accasciato contro il muro, con il sangue viscoso come miele che scivola lentamente nelle vene, rivedo con cura i dettagli del mio piano: accompagnerò Marvin alla fermata della metro e mi comporterò il più normalmente possibile finché non sarà scomparso dalla circolazione, poi mi dirigerò nel primo negozio disponibile e comprerò una confezione di veleno per topi in bustine, quei piccoli pacchetti quadrati pieni di una sostanza simile a pongo che causano pesantissime emorragie interne. Mi infilerò in un vicolo, tra i sacchi della spazzatura, e ne manderò giù una mezza dozzina.

Il lato positivo della questione è che non darò una scusa alla polizia per ispezionare l'appartamento e, magari, accorgersi dello stile di vita non propriamente ortodosso di Iosif; non ci saranno indagini di nessun tipo, sparirò da qualche parte in una città che conta il maggior numero di omicidi annui dell'intero Stato e Marvin potrà tenersi la casa finché qualcuno non lo farà sloggiare − il che mi auguro succeda il più tardi possibile. Julia non riuscirà mai a trovarmi e, di conseguenza, ad arrivare a Marvin.

Spero che tu sia contento, Tony Hall. Il pezzo di merda che hai cercato di far fuori per anni si sta togliendo di mezzo da solo.

«Andiamo?». Marvin ha con sé la borsa in cui so che tiene la divisa della pizzeria in cui lavora, io ho infilato un modesto rotolo di banconote da dieci dollari nella tasca anteriore del pantaloni. Cerco di imprimermi la sua figura snella nelle retine, perché so già che è pensando a lui che manderò giù il veleno.

«Tu aspettami giù, io devo fare una cosa».

Mi rifila un'occhiata sospettosa prima di scendere le scale, arreso a quello che, con un po' di poesia tragica assolutamente superflua, potremmo considerare il mio ultimo desiderio.

La porta dell'appartamento di Iosif penzola dai cardini, in procinto di staccarsi, e la aggiro senza fare rumore; affacciandomi alla porta del salotto posso vederlo dormire, rannicchiato tra cuscini sudici, con il petto che si alza e si abbassa lentamente. Avvicinarsi e appoggiare ottanta dollari accanto al divano è semplice, un po' meno guardare il suo viso percorso da spasmi sottili e sapere che questo è l'ultimo momento che passerò in sua compagnia.

Tutta quella storia sulla sublimazione della morte mi sembra una grandissima stronzata, adesso.

«Ty moe dychanije». Sono le uniche parole russe che conosco, me le ha insegnate lui; significano qualcosa come "tu sei il mio respiro", e suonano dannatamente smielate in questa situazione. «Vedi di non morire troppo presto». Aggiungo, giusto per mantenere una parvenza di onestà intellettuale.

Raggiungo Marvin che la mia testa sembra priva di peso, con il battito cardiaco così accelerato che la cassa toracica potrebbe scoppiare da un momento all'altro − adesso, mi dico, comincia la parte difficile, la parte in cui dimostro di non avere un minimo di palle. La verità è che Julia potrebbe essere ovunque e io mi sto pisciando sotto dalla paura.

«Cazzo, c'hai messo un secolo. Guarda che sono già in ritardo».

«Scusa». Borbotto, laconico. Vorrei essere più espansivo, ma ogni passo che faccio fa parte di un conto alla rovescia che conduce dritto al patibolo − di conseguenza, amico, perdonami se non ho tutta questa voglia di ridere.


ψ


Marvin non smette un secondo di parlare.

Passa da un resoconto dettagliato dei suoi ultimi cinque partner occasionali − al che sono grato al cielo di non avere nulla sullo stomaco − alla descrizione pedante delle sue giornate lavorative, con annessi aneddoti sostanzialmente inutili su capo e colleghi. Gesticola, balbetta, si impappina in continuazione.

«E poi lui mi dice... cioè, lei mi fa...»

«Mh-mh». Nel frattempo mi guardo intorno, cercando la sagoma familiare di una donna alta con i capelli biondi, ma fortunatamente i marciapiedi sono quasi deserti, fatta eccezione per alcune bande di adolescenti che non si curano di noi.

«Sai, Frank,» percepisco il cambio di discorso e dedico un po' di attenzione a Marvin, senza perdere di vista la strada «mi dispiace che tu ultimamente stia... male, ecco. Si capisce che stai male. E io ti devo un mucchio di cose... cioè, io stavo per fare una cazzata tremenda e tu mi hai aiutato, perciò se c'è qualcosa che posso fare per te chiedi pure, ok?».

«Io sto benissimo». Sono particolarmente bravo a scodellare menzogne spudorate, e questa non fa eccezione «Avevo solo bisogno di riprendermi dallo stress, capito? Mi sono preso qualche giorno di vacanza. E non annuire con quell'aria poco convinta».

Ride, passandosi una mano tra i capelli con evidente imbarazzo.

«Scusa, so che probabilmente sono una rottura di coglioni appiccicosa. È che non vorrei che ti succedesse niente di male».

«Figurati».

Hai il potere di distruggermi da dentro, Marvin. Sei tu la cosa che mi fa più male di tutte.

Vorrei gridargli di smetterla di comportarsi come un ragazzino fragile e ingenuo, ma l'entrata della metro − una voragine di miasmi e frastuono che conduce sottoterra, la porta dell'Inferno ‒ si frappone tra me e il mio proposito sostanzialmente stupido.

Ci sistemiamo sulla banchina in attesa del treno, che come al solito è in ritardo, e Marvin ricomincia immediatamente con la sua sgradita filippica.

«Dimmi se ti pare normale,» borbotta «che quello stronzo di Robb McCarthy possa darmi del frocio sul posto di lavoro. Che cazzo, siamo o non siamo nel ventunesimo secolo?».

Vorrei rispondergli che è già tanto se Robb McCarthy non lo prende a pugni fino spaccargli la mascella. Marvin, però, è forse l'unica persona al mondo su cui non ho voglia di scaricare tutto il mio cinismo, quindi mi limito a inarcare un sopracciglio e  attendere che ricominci il discorso.

Ci vuole qualche secondo perché mi accorga che ha lo sguardo completamente perso nel vuoto.

«Ehi, Marv?». Agito una mano davanti alla sua faccia, ma non reagisce «Marv, si può sapere di che cosa sei fatto?».

Non sembra che se ne sia accorto. Le sue pupille sono fisse in un punto poco al di sopra della mia spalla e... un momento. Quegli occhi sono tutt'altro che persi: Marvin sta guardando qualcosa alle mie spalle. Marvin non riesce a staccare lo sguardo da quel qualcosa alle mie spalle.

La sua espressione mi mozza il respiro, perché col tempo ho imparato a riconoscerla su milioni di facce. Fa parte di me, del mio lavoro, di quella che credevo un'abilità completamente unica e soltanto mia.

"Credevi di essere l'unico sulla faccia della Terra? Che pretesa ridicola".

Quando mi volto so già cosa cercare; la banchina della metro è praticamente deserta, fatta eccezione per un paio di ragazze stravaccate sulle uniche sedie intatte, quindi impiego un attimo per inquadrare la figura longilinea che sta, ritta, a qualche metro da me. Con le mani affondate nelle tasche di un parka azzurro e un sorriso crudele che le taglia il viso in due, Julia sembra quasi la caricatura grottesca di un angelo vendicatore ‒ e non sta guardando me, realizzo. I suoi occhi sono puntati in quelli di Marvin.

Che cosa gli stai facendo?

Annullo la distanza che ci separa con pochi passi affrettati e mi lancio su di lei, buttandola a terra con tutta la forza che ho. La rabbia è talmente tanta che non riesco a parlare, l'unica cosa che vorrei fare è ringhiare come un cane rabbioso e affondarle le dita nel petto, strapparle via il cuore, ma Julia scivola sul pavimento usurato dagli anni e in un attimo è di nuovo in piedi. Sicuramente è furiosa, ma ormai sono convinto che nulla possa toglierle quel sorriso irritante dalla faccia.

Lancio un'occhiata a Marvin, e con la coda dell'occhio lo vedo scuotere la testa, confuso. Per fortuna sta bene, mi dico, giusto in tempo perché la coscienza di Julia afferri la mia e la tenga ferma come un pitone che soffoca la preda. Stavolta la morsa è soverchiante, invincibile: nell'attimo cristallizzato in cui Julia mi costringe a girare la testa verso di lei riesco ad emettere un breve urlo soffocato, poi più niente. Le ragazze ci guardano con aria terrorizzata e so che non interverranno.

«Ti starai chiedendo come vi ho trovati, immagino».

Perché Marvin non viene a controllare cosa sta succedendo? CHE COSA GLI HAI FATTO?!

«Ho capito di che zona si trattava grazie al prefisso del tuo numero di telefono... sai, ci è voluto un po' perché Arthur si decidesse a darmelo». La pressione sulle tempie diventa così forte che temo di impazzire «Mi sono appostata da queste parti finché non sei uscito allo scoperto. Mi ci è voluta un bel po' di concentrazione per percepire la tua presenza, bimbo».

Cerco disperatamente di usare l'abilità, mi scontro contro il muro invalicabile del potere di Julia e capisco che è tutto inutile.

«Ti sei mai chiesto quali altri applicazioni possa avere il nostro dono, al di là del curare le persone o ridurle alla morte cerebrale? Mi spiego: tu manipoli le persone eliminando le emozioni negative per far sì che quelle positive risaltino, influenzi il loro comportamento... hai mai provato a eliminare soltanto le emozioni positive e vedere che succede?».

Mi chiedo dove vuole andare a parare, e improvvisamente capisco.

No. Non sta succedendo davvero.

«Girati, bimbo. Goditi lo spettacolo».

Non sta succedendo davvero, vecchio mio, è solo un brutto incubo. È solo la stanchezza, lo stress.

Le mie patetiche bugie sfumano come miraggi quando Julia mi costringe a torcere il collo e gli occhi di Marvin sono nei miei, colmi di una disperazione così esulcerata che mi arriva come un pugno anche a diversi metri di distanza. Ha il viso di un uomo che si è arreso, le guance afflosciate in un atteggiamento di profonda tristezza, le braccia distese lungo i fianchi e la schiena un po' curva, come quella di un vecchio. Mi sorride con aria mesta, una smorfia che sa di rassegnazione e dolore, poi fa un passo in direzione dei binari.

«NO, MARVIN!». Non so se sia stata Julia a liberarmi o se mi sono conquistato il diritto alla parola grazie alla scarica di adrenalina che è esplosa nelle mie vene, e grido come un ossesso mentre i fari del vagone della metro in rapido avvicinamento illuminano parzialmente la galleria buia.

«Tu non ti ammazzerai per uno così, bimbo. Vuole morire più di te, sai?».

«Sta' zitta, maledetta puttana!». Ringhio, fuori di me dalla rabbia «Lui non avrebbe mai‒»

«Si vede che non sei entrato nella sua mente, bimbo».

Julia mi costringe a tenere lo sguardo fisso sui binari anche quando Marvin salta oltre la linea di sicurezza, anche quando il vagone arriva sferragliando e schizzi di sangue denso tingono di rosso la banchina. Urlo, le dita gelide di Julia si conficcano nel mio cervello e lo incidono a fondo mentre mi strappo via i capelli, striscio sul pavimento sudicio e disegno impronte insanguinate alla ricerca dei brandelli di una vita che non esiste già più. Non credevo che si potesse provare un dolore così acuto e totalizzante, un brivido denso che scuote le ossa e mi trascina ai margini del baratro della follia ‒ perché Marvin, tutto quello che lo rendeva una persona unica e speciale e soprattutto viva, è scomparso sulle rotaie di una metropolitana. In un battito di ciglia.

Il mondo è sfocato. Io sono sfocato.

La mia coscienza e il mio cervello non sono altro che aggregati di viscida bruma.

Marvin è morto.

Non è stata colpa mia. Io non volevo. Ma è stata comunque colpa mia, perché ho attirato questa pazza psicopatica e l'ho portata da lui.

Marvin è morto.

Potevo evitarlo? No. Sì. Perché facciamo sempre l'errore di legarci a persone che invariabilmente perderemo?
Marvin è morto per colpa mia.

Marvin è morto perché non so fare altro che male alle persone.

«Ah... ah...» Bava viscida mi cola sul mento, mista a lacrime miste a singhiozzi che sembrano gli ansiti di una bestia in agonia. Proprio quando sto valutando l'opzione di lasciarmi morire di dolore qui, sul pavimento della metro, una mano dolcemente autoritaria si posa sulla mia spalla e una voce calma e gelida come la prima neve sussurra: «Quelli come te e me non sono fatti per l'amore, bimbo. Non siamo come gli altri, capisci? Siamo creature solitarie, che si cibano del dolore e sguazzano nella miseria. Cosa volevi dimostrare a te stesso? Che potevi essere come loro? Amare qualcuno significa dargli la possibilità di farti del male, e noi temiamo la sofferenza più di tutti gli altri».

Ti ammazzerò, Julia. Ti ammazzerò nel modo più lento e doloroso che conosco.

Ma ora non posso focalizzarmi alla vendetta, non con la bile che punge sul fondo della gola e il cuore che sanguina nel petto. C'è un solo pensiero a cui aggrapparsi, adesso, l'unica cosa che mantiene un minimo di significato nonostante il nonsenso totale che sembra avere invaso la mia vita.

«Io basto a me stesso». Sussurro, e poi di nuovo, più forte «Io basto a me stesso».

Arriva la polizia, qualcuno grida. Qualcuno mi tira su e mi costringe a drappeggiarmi una coperta sulle spalle, mi ficca in mano un bicchiere di caffè.

Non mi importa. Non mi importa più niente.

Continuo a ripeterlo, il mio piccolo mantra personale, convinto che mi salverà.

Io basto a me stesso.

Io basto a me stesso.

Io basto a me stesso.


   
 
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