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Autore: Sylphs    14/07/2013    5 recensioni
I Lawrence, antica, ricchissima e corrotta famiglia svedese, si sono macchiati di innumerevoli peccati, il peggiore dei quali è stato l'imprigionamento del figlio quartogenito Raphael, trasformato in un mostro da un patto stretto dal padre e per questo nascosto al mondo. Quindici anni dopo che ha ucciso il genitore e il terzo fratello, fa ritorno alla dimora di famiglia per vendicarsi definitivamente e pretendere di essere riconosciuto e, a questo scopo, rapisce la fidanzata dell'unico fratello rimasto in vita, Jesper, ricattandolo con la vita di lei. Ma Jesper, alleatosi con la cognata Christine, ha bisogno della ragazza per motivi ben più oscuri di un semplice matrimonio, motivi legati al passato, ed è deciso a riprendersela, mentre lei e Raphael si scoprono più complici di quanto credessero e una bambina coraggiosa decide di indagare.
Sequel della mia storia "Follia d'amore e d'oscurità", ispirata al celebre romanzo "Il Fantasma dell'Opera" di Gaston Leroux.
Genere: Dark, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Amore di sangue'
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Capitolo 12
 

 
 
 
 
Sul conto della torre più alta di Lawrence Borg circolavano parecchie leggende, molte delle quali sfioravano i limiti della fantascienza, che Erin aveva sentito raccontare spesso dalle domestiche, strette in un crocchio bisbigliante e pettegolo e avide di scambiarsi, durante le faticose ore di lavoro, ogni sorta di speculazione o ipotesi sui segreti dei loro celebri e ambigui padroni. I Lawrence, del resto, erano amati e odiati in pari misura da quasi tutto il paesino che dominavano dall’alto del loro antico palazzo e incutevano non poco timore con quella bellezza algida e imperscrutabile, la quale non aveva saltato neanche una generazione, e quei modi d’una cortesia pericolosa e intrisa di minaccia, quei loro piccoli, invisibili sistemi per graziare o condannare chiunque osava entrare in affari con loro o soltanto porsi sul loro cammino. Era risaputo che avessero fondato il loro patrimonio su stuoli di cadaveri e accordi nient’affatto puliti, specialmente in passato, quando la loro stella brillava più fulgida che mai, eppure nessuno aveva mai trovato una sola prova che li marchiasse come colpevoli, nessun indizio che potesse minare la loro incrollabile posizione.
Perché la cosa in cui i Lawrence riuscivano meglio era nascondere ogni sorta di “sporcizia” che avrebbe potuto deturpare il buon nome di famiglia ed estirparla dalla faccia della Terra, cancellarla come se non fosse mai esistita. In questo, non avevano pari.
Si diceva che la torre fosse stata costruita nel 1765 apposta per ospitare una famosa antenata, lady Katherine Lawrence, che aveva smarrito la ragione a causa della morte del marito. Confinata in quella che era divenuta a tutti gli effetti la sua prigione, lady Katherine vi aveva vissuto per ben nove anni e i suoi malinconici lamenti, le sue grida, i suoi singhiozzi avevano perseguitato dall’alto gli abitanti del maniero, infiltrandosi attraverso i muri, i soffitti, i pavimenti e risuonando nei momenti più impensati. Dopo quella lunga cattività, la donna si era, secondo la versione ufficiale, buttata giù dalla torre, con addosso il suo abito da sposa e circondata dall’impalpabile velo di tulle ricamato, ma c’erano stati alcuni, molto temerari, c’è da dirlo, che avevano ipotizzato che i suoi familiari l’avessero eliminata, affinché la piantasse di rendersi tanto “visibile” con tutti quei gemiti e quei pianti. In ogni modo, la storia era finita ben presto nel dimenticatoio, e la torre lasciata in abbandono. Naturalmente, erano nate in poco tempo una gran quantità di dicerie sul conto del fantasma di lady Katherine che ancora abitava quel macabro luogo, riempiendolo dei suoi lamenti e delle sue grida di rabbia.
Ma Erin ai fantasmi non credeva. Non a quelli morti, s’intende. Giacché aveva imparato che non sempre gli spiriti sono defunti.
Poi c’era stata la vicenda dei due gemelli di sette anni, Karl e Greta, risalente al più vicino, ma ugualmente remoto, 1854. Una vicenda che le aveva fatto molto più effetto di quella della folle Katherine perché riguardava da vicino due bambini pressoché della sua stessa età e della sua stessa famiglia, e che le aveva fatto trascorrere non poche notti insonni.
Karl e Greta erano stati, almeno secondo le chiacchiere locali, le due pecore nere della famiglia Lawrence, a partire dal colore dei capelli. La caratteristica fondamentale della celebre genia era, infatti, la chioma dorata come quella degli angeli del paradiso, le iridi chiare e l’incarnato di porcellana. Vista la propensione dei più antichi Lawrence a sposarsi tra fratelli e cugini per preservare la purezza del sangue, i biondi capelli erano stati tramandati di padre in figlio, e di madre in figlia attraverso i decenni, e nessuna capigliatura era mai stata più scura di un color cenere. Eppure, malgrado i loro genitori fossero rigorosamente dotati di riccioli chiari, i gemelli erano venuti alla luce con una folta, ricca massa di capelli neri come ali di corvo. E già solo questa peculiarità, di cui non avevano alcuna colpa, aveva assai maldisposto lord e lady Lawrence. Come se non bastasse, i bimbi avevano osato crescere con una serie di difetti che mai nessun Lawrence prima aveva mostrato: Karl soffriva di crisi epilettiche e aveva estreme difficoltà a digerire ciò che mangiava e Greta aveva paura di tutto, persino della sua ombra. Negli sporadici ritratti conservati sul fondo di scaffali polverosi o negli angoli invisibili di scansie nascoste, apparivano come due esserini cadaverici e denutriti, con le ossa che quasi bucavano la pelle e gli abitini dimessi, i visetti tristi e docili segnati dalle occhiaie e dal dolore.
Qualche anno dopo la loro nascita era venuto al mondo il terzogenito, un Lawrence “degno di questo nome” con un faccino da putto, una bionda chioma riccioluta e una salute di ferro, ed era stato l’orgoglio e il sollievo dei suoi genitori. Herbert, questo era il suo nome, era stato esibito a tutti i balli, le feste e i ricevimenti dell’epoca, vestito degli abiti migliori e tutto ben sistemato, mentre Karl e Greta rimanevano in casa a giocare con vecchi balocchi e a recitare salmi e omelie, celati come qualcosa di immondo, vergognoso e turpe.
Era stato il commento di una certa Lady Bergman a scatenare tutto, rivolto a lord Lawrence in occasione di una festa di beneficenza: “Vostro figlio è adorabile, senza dubbio, ma…il titolo non andrà al primogenito? A…Karl?”
Per l’appunto. Le terre, gli affari di famiglia e il titolo di barone erano destinati a quel bimbo malaticcio e debole che lord Lawrence avrebbe volentieri fatto sparire, e il suo Herbert, quel fiore destinato a grandi cose, invece, non era altro che un cadetto.
Circa sei mesi dopo, si era sparsa la notizia che i due gemelli, approfittando della distrazione della governante, erano andati a curiosare nella torre più alta del maniero e, chissà se per disattenzione, o nella foga del gioco, o per la paura di quel luogo tetro, Karl era inciampato ed era precipitato di sotto, esattamente come la defunta lady Katherine. Quanto a Greta, era stata ritenuta “sotto shock” e nessuno aveva prestato ascolto ai “deliri” in cui sosteneva che il fratellino fosse stato spinto. La governante che aveva permesso una simile tragedia era stata messa a morte e al funerale dello sventurato Karl lord e lady avevano pianto lacrime di coccodrillo, avvolti nel loro perfetto, incontestabile cordoglio di genitori afflitti. Herbert era diventato l’erede legittimo del titolo nobiliare e Greta si era ammalata di tisi pochi anni dopo, morendo da sola, con la sola compagnia di una fidata domestica, in modo a dir poco iniquo.
“La signorina non stava così male” aveva singhiozzato la suddetta domestica in una locanda, a seguito del licenziamento: “Se il dottore l’avesse curata per davvero forse avrebbe potuto vivere, almeno un po’ di più”.
Ma il dottore di famiglia era un amico intimo di lord Lawrence e la giovane Greta non aveva smesso di “delirare”, così era andata a far compagnia al fratello.
Per questa vicenda e per quella di Katherine si era diffusa la voce, tra quelli che più odiavano i Lawrence, che la torre fosse il posto in cui essi facevano sparire i loro scheletri nell’armadio. I loro “fantasmi scomodi”.
Erin non l’aveva mai visitata. Era stata sbarrata e bollata come “luogo proibito” da quando lo zio Jesper vi aveva trovato i cadaveri del nonno e dello zio Viktor. Da allora, la porticina a cui si accedeva tramite un angolo isolato del vasto giardino era stata rigorosamente chiusa a chiave e tra  il personale era circolato il rigido e assoluto divieto di sostare nei pressi. Non che fosse mai stata frequentata, non dai domestici, almeno: anche ai tempi in cui Hugo era ancora vivo, l’unica chiave che conduceva alla torre l’aveva custodita solo e soltanto lui, e gli unici a cui aveva dato il permesso di entrare erano stati Viktor e la moglie, che tuttavia aveva usufruito una sola volta della concessione. Avevano qualcosa da nascondere, nessuno aveva dubbi al riguardo, ma l’ancestrale timore per i Lawrence aveva frenato ogni possibile curioso dallo scoprire di cosa si trattasse. E adesso, la torre era diventata definitivamente un “tabù”. Troppi brutti ricordi. La vecchia Eva diceva sempre che le tracce di un avvenimento malvagio non se ne vanno mai del tutto, che restano nell’aria, sui muri, e contaminano più di quanto uno si immagini. Erin aveva paura della torre, non poteva negarlo. Ma ne era anche affascinata. Provava un misto di attrazione e repulsione.
Persino mentre sostava sulla sua panchina preferita, sotto ai rami in fiore dell’albero di pesco, non riusciva a staccarle gli occhi di dosso. Si ergeva, scarna e solitaria come il braccio avvizzito di una mummia, sopra ai balconi e alle guglie del sontuoso e impressionante castello, i mattoni scrostati e irregolari che sembravano sul punto di cedere da un momento all’altro e il tetto a punta, e proprio sulla cima l’unica finestrella la fissava, come l’enorme occhio infuocato di Sauron. Nelle orecchie le echeggiavano le minacce di sua madre, quelle poche parole che si era degnata di rivolgerle di tanto in tanto: “Se mi secchi ancora una volta, ragazzina, giuro che ti sbatto nella torre e ti chiudo dentro, e allora vedremo se avrai ancora voglia di rompere il cazzo!”
Christine rideva sguaiatamente, dopo averle prospettato una simile tortura, e lei si sentiva lo stomaco in subbuglio, le gambe molli e la bocca invasa dalla bile al solo immaginare quanto terribile dovesse essere starsene intrappolati là sopra, nel buio più assoluto, in mezzo al tanfo di chiuso e di morte, con i fantasmi di lady Katherine e dei gemelli che sussurravano nelle tenebre e le tue peggiori paure che venivano a galla. Era sicura che sarebbe impazzita, e credeva abbastanza alla possibilità che la madre la rinchiudesse lì da provare un acuto, paralizzante terrore; in fin dei conti, anche lei era una pecora nera, pur avendo i capelli biondi, e non sarebbe poi stato tanto assurdo se fosse andata a scontare la sua difettosità in quel luogo maledetto. Non si era mai sentita una degna Lawrence. Una degna Lawrence è divertente, esuberante, allegra, estroversa, furba. Lei era noiosa, timida da far pena, sul malinconico andante, introversa e cretina. E dopo gli ultimi avvenimenti, dopo che nella sua testa avevano preso a formarsi certe strane domande, il pensiero di finire nella torre non era poi così remoto.
Staccò a fatica lo sguardo dalla sagoma sbilenca ed enigmatica della torre, affascinante quanto un film o un racconto spaventoso, che le faceva venire gli incubi ma che doveva vedere (o ascoltare) fino in fondo, e controllò rapidamente che non ci fosse nessuno intorno. Non c’era nessuno. Il parco era vuoto, se si escludeva il giardiniere, che però stava potando alcuni cespugli di rose in un punto abbastanza distante da quello dov’era lei, e qualche domestico di passaggio. Da quando il signor R aveva rapito Harriet (cosa che sapevano solo lei, lo zio e sua madre ma che non aveva detto a nessuno, intuendo che non sarebbe stata una buona idea), Christine e Jesper erano stati più indaffarati che mai e non li aveva più visti né sentiti. Comunque aveva fatto i suoi compiti, era andata a letto presto, e quando le era venuta fame si era presentata in cucina e aveva sbocconcellato qualche fetta di pane e miele, senza dar fastidio a nessuno. Intanto, aveva rimuginato.
Ma da sola non era brava a rimuginare. Aveva bisogno di Johnny. Solo che Johnny veniva soltanto quando non c’era nessuno, ma proprio nessuno nei paraggi, e spesso neanche in queste circostanze si faceva vedere. Era davvero esigente e sospettoso!
“Johnny” lo chiamò sottovoce, guardando nervosamente in direzione del giardiniere; le dava la schiena: “Johnny!”
Quando sentiva il bisogno di parlare con lui, indossava sempre una maglia verde, larga e sformata, con una striscia gialla all’altezza del polso. Ritirò la mano all’interno della manica e trasformò la striscia nella bocca di una specie di pupazzetto che le sue dita animavano dall’interno. Johnny aveva una voce rauca e gracchiante, un po’ sgradevole: “Cosa vuoi, stupida?”
Erin trasalì, dispiaciuta, e incurvò un poco le spalle: “Non chiamarmi così!”
“Ma è quello che sei” ribatté pronto Johnny, con quell’astuzia velata di malevolenza che la disarmava ogni volta: “E comunque non la devi prendere così male. La stupidità ti ha salvato la vita, baby. Se fossi stata intelligente, sai da quanto ti avrebbero già fatta fuori?”
La bimba aggrottò la fronte, suo malgrado esitante: “Non…non devi parlare in questo modo”.
“Parlo come cazzo mi pare!” s’inviperì lui, avvelenato. Fece il verso a Christine: “E piantala di seccarmi, ragazzina! È così che dice sempre la strega, vero? Cazzo, merda, culo, palle!”
“Smettila!” sibilò. Avrebbe voluto urlare, ma aveva troppo timore di essere udita dal giardiniere: “Non lo sopporto quando fai così!”
“Oh, ma davvero? Eppure mi sembra di ricordare che quando volevi fare il rito voodoo contro di lei dei miei suggerimenti avevi bisogno, giusto? Sennò da sola ti saresti solo squarciata la mano con quegli spilli!”
Erin arrossì violentemente, per la vergogna e il senso di colpa che tuttora, a due anni di distanza dal fattaccio, la tormentavano: “È stato un incidente! Io non volevo farlo davvero! Poi ho raccontato tutto al prete e ho fatto penitenza, ha detto che ero assolta…”
La bocca di stoffa di Johnny si torse in un ghigno sardonico: “Sì, lo so bene che, fifona come sei, hai finito per spifferare tutto a quel panzone…ma io lo so quanto ci hai goduto a fare la bambola e a trafiggerla da tutte le parti. Fu quando ti dimenticò in macchina per, vediamo, quattro ore, e tu hai urlato e strepitato fino a non avere più voce?”
Erin affondò i denti nel labbro tremante: “Smettila”.
“Che fai, piangi?”
“Perché devi essere sempre così cattivo con me?!”
“Perché sono cattivo. Come la strega e lo zio Jesper. Mentre tu sei solo una fifona piagnucolosa”.
“Non è vero!”
“Sì che è vero. E lo sai”.
Chinò il capo, lasciando che i capelli le coprissero il viso: “Già. È vero”.
Johnny poteva essere una carogna fatta e finita, ma chiamava le cose col loro nome, ed era intelligentissimo. La metteva in soggezione e provava un gusto particolare ad insultarla e umiliarla, eppure…eppure aveva bisogno di lui, quando i pensieri erano troppi e si accavallavano senza una logica, o quando era accecata dalla confusione, la rabbia o il dolore. Possedeva la straordinaria capacità di fare chiarezza nella sua mente e dissipare la matassa.
Johnny era il ragazzo che viveva nella sua maglia. Lui le faceva capire le cose, a volte addirittura gliele mostrava. Era molto più navigato e furbo di lei, sebbene usasse spesso tutte le imprecazioni di sua madre e tendesse ad arrabbiarsi per un nonnulla. Era il suo unico amico. Certo, un amico poco lusinghiero…ma pur sempre un amico che la stava ad ascoltare e le dava dei consigli. Non ridacchiava mai come le bambinette stupide del corso di danza. Non bisbigliava alle sue spalle per poi interrompersi di botto quando lei arrivava. Non la chiamava “strana”. Se aveva un problema, lo esternava subito, senza sotterfugi né giri di parole.
Non aveva detto a nessuno di lui, perché era perfettamente consapevole che non esisteva. Non era pazza…non fino a questo punto. Sapeva bene di esserselo inventato, che era solo un “amico immaginario”. Ma la faceva sentire bene. La aiutava. E quando lo evocava, era molto più reale delle sue bambole o dei personaggi delle sue storie. Era come Tilly-Tilly, la gemella-fantasma della protagonista di un romanzo che Harriet le aveva letto.
E perché non poteva avere uno stupido amico immaginario, se questo le dava sostegno? Un sacco di bambini se ne facevano uno.
Certo, a suo padre aveva provato a dirlo. Così magari…chissà, forse si sarebbe reso conto di quanto si sentisse sola, con lui sempre lontano, all’estero. Magari avrebbe notato il collegamento, Johnny-Jonas. Ma appena l’aveva saputo, l’uomo l’aveva presa con una risata e uno scuotimento di testa e aveva iniziato a chiedere cose tipo: “Johnny cosa ne pensa del mio prossimo viaggio? Johnny cosa pensa della mamma?”
“Papà, Johnny non è me” aveva spiegato a fatica, paonazza in faccia: “È solo il ragazzo che vive nella mia maglia”.
“Beh, ma avrà le sue idee, sì o no? E cosa pensa di…”
Non aveva più affrontato l’argomento con Jonas. Aveva deciso, definitivamente, che da ora in poi Johnny sarebbe stato soltanto suo.
“Johnny?” chiese piano, titubante, dondolando i piedi nel vuoto.
“Cazzo vuoi, ragazzina? Ancora mi secchi?”
Ignorò la rispostaccia: “Johnny…ho un po’ paura”.
“Wow, ma che novità!” la sfotté lui, muovendo la bocca in una serie di smorfie derisorie: “E di cos’hai paura stavolta, baby? Fammi indovinare…di tua madre?”
“Anche…Johnny, io…penso che lei e lo zio Jesper abbiano in mente qualcosa …qualcosa di brutto”.
“Congratulazioni, Sherlock! E da cosa l’avresti dedotto?”
“B-beh…Harriet è in pericolo e hanno detto a tutti che è partita per Londra, non hanno fatto niente per chiedere aiuto…”
“E quindi?”
“E quindi…e quindi è sbagliato! Lo so, lo sento che il signor R non è cattivo, che l’ha rapita per un motivo, ma dovevano comunque chiamare qualcuno che aiutasse Harriet. E poi sono sempre così indaffarati…”
Johnny assunse un tono amaro: “Baby, c’è qualcosa sotto, è chiaro. Qualcosa che riguarda tanto loro quanto il signor R. E che adesso riguarda anche la tua preziosa Harriet. Ricordi quando lo zio Jesper si chiudeva sempre in biblioteca e tua madre si appartava a parlare con lui? Ricordi il libro che portava sempre sotto al braccio?”
Erin corrugò la fronte, tentando di risvegliare la memoria. Non si era soffermata molto, all’epoca, su quei particolari, benché li avesse registrati. Dato che quasi tutti al castello la ignoravano, era sua abitudine scrutarli non vista e prendere nota di tutti i loro comportamenti e spostamenti, grazie alla protezione dell’anonimato. E sì, rammentava che per un lungo periodo lo zio Jesper si era barricato in biblioteca, comparendo immancabilmente con un volume appresso…un volume…molto antico, le sembrava…con la copertina in pelle nera…e delle borchie…di cui però non aveva letto il titolo.
“Pensi…pensi che sia importante?” chiese, incerta.
“Certo che è importante, scema! Sono i dettagli che contano! Trattava quel tomo con troppa cura…e non ha mai amato i libri, lo sai bene”.
“Ma che c’entra Harriet?”
“Sei lenta, eh? Harriet gli serve. E ora che il signor R l’ha rapita se la vogliono riprendere, così la potranno usare. E magari già che ci sono accoppano il signor R”.
“No!” prima che potesse trattenerlo, un grido le sfuggì dalle labbra. Avvampò, portandosi di scatto una mano alla bocca, e notò che il giardiniere aveva interrotto la propria potatura e la stava guardando, con una lieve ombra di preoccupazione sul volto sudato. Cadde in preda al panico e lo stomaco le si strinse in una morsa.
“Sorridigli!” sibilò Johnny: “Dì a quel babbeo che va tutto bene!”
Piegò all’insù gli angoli delle labbra, producendo una smorfia nient’affatto convincente, e sollevò la manina in un gesto stentato: “Va…va tutto bene!”
L’uomo ristette qualche secondo, poco convinto, poi, con un’alzata di spalle, tornò alle sue rose.
“Caspita, sei stata di un realismo impressionante!”
“Sta zitto” borbottò, imbarazzata: “E non ti provare a dire che uccideranno il signor R!”
“Perché? È la verità. Hanno ammazzato Eva che non aveva solo controllato Harriet, figurati cosa fanno al suo rapitore”.
“Eva è morta di vecchiaia”.
“Come no”.
“E comunque io non gli permetterò di fare del male al signor R!”
“Squillo di trombe per la superba eroina!”
Lo scherno di Johnny la feriva, ma non quanto altre volte. Perché la sola prospettiva che sua madre e lo zio Jesper potessero mettere le loro manacce luride addosso ad R la ripugnava, così come la ripugnava l’idea che volessero approfittarsi della povera Harriet. Lei e il misterioso giovane uomo sfigurato erano stati gli unici che non l’avevano giudicata strana, che nel loro piccolo le avevano offerto qualcosa di simile al conforto e alla felicità, e non era solita dimenticare i favori. Né gli insulti. Era piccola, stupida e incapace, ma non aveva niente da perdere ad indagare.
“A parte la vita”.
Osservò truce la striscia gialla tessuta sulla manica: “Sei un fifone, Johnny”.
“Non sono un fifone, sono realista”.
“Comunque io troverò quel libro. E andrò anche nella torre”.
Era sicura che il “luogo maledetto” avesse a che fare con quella vicenda inquietante. Un’intuizione, più che altro.
“Non farmi ridere, hai una paura tremenda della torre”.
Arrossì lievemente, ma drizzò il capo, dandosi un tono, o almeno cercando di farlo: “Le paure si possono vincere. Il papà lo diceva sempre”.
“Il papà è morto, scema”.
Sussultò: “Non è vero”.  
Suo padre non era morto. Johnny era veramente cattivo a ipotizzare una cosa del genere. Jonas aveva avuto solo…un contrattempo. Non sarebbe stata la prima volta. Ma sarebbe tornato. Sapeva che sarebbe tornato. E a quel punto lei avrebbe risolto il mistero, scoperto ogni cosa e salvato la situazione. Gli avrebbe raccontato tutto e lui sarebbe stato fiero di lei, le avrebbe fatto un sacco di coccole, stringendola forte e facendole il solletico con la barba. La bambina gli avrebbe fatto capire che anche se la mamma in sua assenza baciava lo zio Jesper lei, Erin, sarebbe sempre stata dalla sua parte, e non lo avrebbe tradito mai. Sarebbero stati tutti insieme, lei, suo padre, Harriet e il signor R.
“Sicuro, felici e contenti”.
Strinse i denti, asciugandosi furiosamente la lacrima traditrice che le era scivolata, chissà per quale stupido motivo, lungo la guancia. Ripeté con forza: “Il papà non è morto”.
“Invece sì!”
“Invece no!”
“Invece sì!”
“Invece no!”
“Invece potresti tacere un attimo, bambina?”
Le si gelò il sangue nelle vene, mentre Johnny, stupefatto quanto lei, taceva di colpo, e la mano scattava fulminea fuori dalla maglia.
Qualcuno l’aveva sentita parlare con Johnny.
Qualcuno l’aveva sentita parlare con se stessa.
Il “qualcuno” in questione era un uomo, anziano ma ancora ben portante, con le spalle larghe, la schiena dritta e una postura ferma, sicura, che niente e nessuno avrebbe potuto far crollare. Indossava un cappotto piuttosto logoro e sdrucito e il volto aveva lineamenti duri e marcati, così severo da istillarle immediatamente un senso di soggezione. Non la guardava come facevano gli altri quando la sorprendevano nei suoi giochi strani, con il sopracciglio inarcato e una piega malevola delle labbra, si limitava anzi a scrutarla con severità e con una lieve punta di impazienza, quasi fosse esasperato da lei. Il calore affluì violento e impetuoso alle gote e alle orecchie della bambina.
In un primo momento, provò addirittura ad opporsi mentalmente alla sua presenza, a dirsi che non era reale, non l’aveva beccata davvero a parlare con Johnny, non le aveva carpito il suo più intimo e imbarazzante segreto…perché per lei, essere sorpresa nel corso di una conversazione col suo amico immaginario era penoso quanto, per un adolescente, lo era farsi scoprire a masturbarsi dalla madre.
L’uomo attese per qualche istante una risposta che non sarebbe mai arrivata, poi lo sollevò sul serio, il sopracciglio, ma più con aria scocciata che derisoria: “Non è esattamente salutare starsene così a bocca spalancata, piccola. Va a finire che ci entrano le mosche”.
Erin la richiuse di scatto, rannicchiandosi su se stessa come una tartaruga nel suo guscio e nascondendosi in fretta e furia dietro ai lunghi capelli sciolti e arruffati che le cadevano davanti al viso. Se sua madre fosse stata come quelle di Charlotte, Astrid o Mia, sempre a fianco delle figlie nelle situazioni difficili, avrebbe usato le sue gambe come barriera, nascondendosi dietro di esse, ma così non era, per cui aveva preso l’abitudine di coprirsi coi capelli, tipo una bambina indemoniata. Poteva quasi illudersi che dietro a quella cortina gialla non ci fosse nessuno.
“Ma lui c’è, scema” le sibilò nel pensiero Johnny: “E devi rispondergli, o crederà che sei ancora più matta!”
Deglutì, cercando invano di rinfrescare con la saliva la gola secca come il deserto, e si sforzò di tirare fuori la voce, di rimediare alla terribile figuraccia e porsi sotto ad una luce migliore agli occhi di quello sconosciuto: “Uh?”
Uh.
Aveva ragione sua madre. Era una ritardata. Un fenomeno da baraccone. Non era affatto una Lawrence degna di questo nome, era la vergogna della sua famiglia. Meritava di essere rinchiusa nella torre.
L’uomo la esaminò in silenzio per qualche minuto. Si contorse a disagio sotto quello sguardo attento e scrutatore, a cui sembrava non sfuggire nulla. Provò nei suoi confronti un barlume di rancore, senza poterci fare nulla. Era capitato nel cosiddetto posto sbagliato al momento sbagliato, l’aveva scoperta a discorrere amabilmente con se stessa e adesso se ne stava lì a fissarla come se fosse un’attrazione turistica. Chi accidenti era? Prima il signor R, e ora lui… Lawrence Borg si stava riempiendo a dir poco.
Alla fine, l’uomo si schiarì la voce: “Che tu sappia, il portone d’ingresso è aperto?”
Gli occhietti di Erin, di quell’azzurro chiarissimo identico a quello di Raphael, al sicuro dietro ai capelli, schizzarono a fissare l’entrata del maniero, poi tornarono a concentrarsi sull’ospite. Perché voleva sapere una cosa del genere? Era venuto anche lui a tramare, complottare e bisbigliare? E cercava di carpirle informazioni come avevano fatto il signor R e sua madre?
Scosse la testa, in un gesto che poteva voler dire tutto o nulla, e si tirò indietro.
Berg sospirò, alzando gli occhi al cielo. Poi, come se avesse intuito i suoi pensieri, spiegò seccamente: “Devo svolgere un lavoro per conto del signor Lawrence. Mi chiamo Sigmund Berg. Mi ha promesso che avrei avuto libero accesso ad ogni angolo di Lawrence Borg”.
Erin trattenne il respiro. Era stato lo zio Jesper a chiamare quel tipo? Forse lo aveva incaricato di salvare Harriet!
“O forse” insinuò mellifluo Johnny: “È qui per accoppare lei e il tuo caro e adorato signor R”.
Rabbrividì dall’orrore. Per molti aspetti Johnny la aiutava a districarsi nei ragionamenti complicati, ma poi si dimostrava estremamente restio ad andarsene dalla sua testa, e non faceva che riempirgliela di brutti pensieri e di cattive insinuazioni. Era come il diavoletto di Kronk nelle “Follie dell’imperatore”. Ma perché non c’era anche l’angioletto, pronto a dispensare massime e a rassicurarla con gentilezza?
La voce secca e autoritaria di Berg la strappò brutalmente alle sue congetture: “È buona educazione rispondere quando ti viene fatta una domanda, bambina”.
Non era stato un vero e proprio rimprovero, quanto piuttosto una specie di insegnamento, burbero e spiccio, che l’uomo le aveva trasmesso con l’aria di chi sta facendo qualcosa di spiacevole ma necessario. Per Erin fu come una doccia fredda e provò il desiderio di fuggire, andare via, lontano dallo sguardo penetrante di quello sconosciuto che le scavava dentro. E lei non era abituata ad essere guardata con tale intensità, spesso a malapena si accorgevano della sua presenza. Sembrava che Berg volesse scoprire i suoi segreti.
“Come ti chiami?” le chiese. Lei capì che era il caso di rispondere, e subito, tanto che lo fece mangiandosi le parole, e le uscì una specie di: “’Rin”.  
Berg contrasse la mascella: “Erin?” scandì.
“S-sì” balbettò la bambina di rimando, rossa al di là dei capelli.
“Bel nome” borbottò Berg, con tono noncurante: “È una divinità celtica. Incarna la fertilità della terra”.
Erin piegò il capo di lato, stupita: “D-davvero?”
L’uomo scrollò le spalle: “Una triplice divinità, di cui Erin rappresenta solo un aspetto, a dirla tutta. Ma non è questo il punto”.
“E quali sono gli altri aspetti?” la domanda le sfuggì di bocca prima che potesse fermarsi. Si morse il labbro. Forse allo sconosciuto non andava di spiegare. Forse lo stava scocciando, come scocciava sua madre quando le poneva un quesito. Però le piaceva l’idea della divinità celtica. Forse c’era un mito al riguardo, come quelli greci che le piacevano tanto!
Berg le rifilò un’occhiata in tralice: “È un discorso troppo lungo!”
“Oh!” fece lei, delusa, trovando conferma ai suoi timori. Era meglio stare zitti, se stavi zitto non rischiavi di ottenere un rifiuto.
“Sei la figlia di Jesper?” le domandò lo sconosciuto.
Scosse la testa con foga, affannata come una stupida: “No no, lo zio Jesper è mio zio…”
“Lo zio Jesper è mio zio!” le fece il verso Johnny: “Dovrebbero incoronarti regina di eloquenza!”
Avvampò: “Cioè…lui non…Jonas è mio padre, e Christine mia madre”.
Perché quel Sigmund Berg non la lasciava in pace?! Era evidente che con lui era partita male. Si sentiva patetica proprio come le succedeva le rare volte in cui parlava con Christine. Anche se…le era piaciuto in maniera insospettata, il commento sulla divinità celtica.
“Erin” sospirò Berg, con una lieve sfumatura di gentilezza: “Prendi un bel respiro”.
Ubbidì meccanicamente, perché aveva usato lo stesso tono del suo professore quando facevano lezione, e a quel tono era abituata ad ubbidire. L’ossigeno che le entrò nei polmoni era pesante come piombo, ma l’anidride carbonica che buttò fuori le parve meravigliosamente leggera.
“E ora” proseguì Berg, quasi annoiato: “Ripeti la tua risposta in modo forte e chiaro”.
Di nuovo, fece come le era stato detto, e si stupì moltissimo quando pronunciò una frase perfetta, cristallina e intendibile come quelle che diceva in presenza di Harriet e delle sparute persone con cui si sentiva a suo agio: “No, sono figlia di Jonas e Christine”.
“Capisco” commentò l’uomo, mentre una strana luce gli si accendeva un attimo negli occhi, prima di svanire e lasciarli nuovamente duri e impenetrabili: “E il portone è aperto?”
Le era bastato prendere un bel respiro per parlare bene! Come mai non ci aveva mai pensato? Forse perché era troppo ovvio? O perché Berg aveva un aspetto tanto solido e autoritario che quando ti diceva le cose, queste erano? Il suo professore non era affatto così! Biascicava gli argomenti con tono monocorde e spento e appena lei si distraeva, o poneva una domanda troppo strana, si inalberava terribilmente e poi andava a lamentarsi con suo padre e a insistere che viveva “scollegata dalla realtà, in un mondo tutto suo”.
“E ha ragione” berciò Johnny: “Tant’è che Sigmund Berg è ancora lì che aspetta una risposta ma tu sei troppo presa dai tuoi pensieri per dargliela”.
Trasalì e le uscì una specie di grido, quasi, alzando la voce, potesse compensare la pausa di silenzio: “Sì! Sì, è aperto!”
“Bene” fece Berg: “Allora vado”.
Accennò un passo in direzione del castello, ma poi parve ripensarci. Si chinò su di lei, senza mutare espressione di una virgola, e con una mano forte e vigorosa le scostò i capelli dal viso. Fu un gesto così sorprendente e inaspettato che Erin rimase a bocca aperta, improvvisamente priva di barriere che la difendessero dal mondo, o che le dessero l’illusione di essere sola.
Berg la guardò dritto negli occhi (a pensarci, non le aveva chiesto nulla sulla conversazione con Johnny) e disse: “Non devi vergognarti del tuo viso, piccola. Nessuno dovrebbe”.
Erin lo fissò, ammutolita, con le mani che le sudavano copiosamente in grembo e gli occhietti strabuzzati nella faccia pallida. Quasi pentito di ciò che aveva fatto, lui si scansò con un movimento rapido e brusco, lasciando che la chioma bionda della bambina tornasse a ricadere in avanti, e le voltò le spalle senza neanche salutarla, avviandosi a grandi passi verso il portone d’ingresso.
Lei lo seguì con lo sguardo, rigida come una statua sulla panchina.
“Non devi vergognarti del tuo viso. Nessuno dovrebbe”.
“Seguilo!” esclamò Johnny.
Spalancò gli occhi: “Cosa?”
“Seguilo, no? Lo zio Jesper l’ha mandato a indagare sul signor R!”
Scrollò il capo come per allontanare una mosca molesta: “Tu sei pazzo…”
“E tu più di me! Volevi provare a salvare lui e Harriet, giusto? Bene, segui quell’uomo!”
“E se poi mi scopre?”
“Non ti scopre. Sei bravissima a nasconderti, e poi sei molto più piccola di lui. Fidati del vecchio Johnny, seguilo!”
Erin ripensò a come le aveva spiegato che il suo nome fosse quello di una divinità, al fatto che non le aveva posto domande sul dialogo a tu per tu con se stessa, e al modo in cui le aveva scostato i capelli dal volto. Le faceva un po’ paura, ed era diffidente, ma forse…se davvero era stato incaricato di cercare informazioni sul signor R…
Prima di poterci ripensare, saltò giù dalla panchina, sulla ghiaia scricchiolante, e accennò una corsetta goffa e stentata, sulla scia di Sigmund Berg, l’istitutore che quindici anni prima aveva cresciuto e salvato Raphael Lawrence.
 
Jesper correva nel bosco, in quel bosco. Non ci era più tornato, da quando era successo, eppure adesso che tutto era sul bilico di un baratro profondo, adesso che il demone era tornato a maledire ancora una volta il suo futuro, non aveva potuto farne a meno. Perché nella sua mente, sapeva che c’era la possibilità di perdere Harriet per sempre, che forse non l’avrebbe ripresa in tempo, che il mostro era furbo, molto furbo, e che dunque occorreva trovare un piano alternativo, una scappatoia che nella sua boria, la sua arroganza, non aveva mai considerato, sicuro che tutto si sarebbe svolto secondo i programmi, che niente sarebbe andato storto, solo perché lui lo desiderava tanto.
Proprio come suo padre, si era sopravvalutato, aveva sopravvalutato il proprio potere, e a causa di questo avrebbe potuto perdere tutto. Ma era capace di imparare dagli errori del genitore. Era capace di pensare con la sua testa, checché ne dicesse quella puttana di Christine! E non era disposto a rinunciare a lei, solo perché quell’essere disgustoso aveva deciso di rovinargli l’esistenza!
Avrebbe riaperto il libro. Erano anni che non lo faceva, che lo teneva nascosto persino a se stesso, terrorizzato all’idea che qualcuno, Christine, lo trovasse, che gli strappassero un segreto che era e doveva restare soltanto dei Lawrence, ma non aveva altra scelta. Doveva scoprire se era possibile ottenere la ricompensa in altro modo, se c’era un sistema, qualsiasi sistema…una bestia in fondo al suo stomaco gridava sciagura, ma non intendeva ascoltarla, non questa volta.
Questa volta, la bestia sarebbe rimasta sopita.
Dal libro era incominciato tutto, la rovina di Raphael, di Viktor, di suo padre, di lui, di Ursula…e dal libro tutto sarebbe finito. Lo aveva consultato una sola volta, e poi lo aveva portato con sé, chiuso con un lucchetto, visibile agli altri, ma inaccessibile al loro tocco…inaccessibile alle sue stesse mani, giacché la chiave che lo apriva, l’aveva nascosta in un posto innominabile.
Posto che avrebbe dovuto visitare, senza possibilità alcuna di scelta.
E il percorso attraverso la foresta sembrava inesistente, tanta era la velocità che egli utilizzava per correre. Gli alberi divenivano un’unica macchia verde, mentre la luce del sole lo inondava a tratti, facendo rilucere la sua ampia e fiera fronte, imperlata di sudore. Le radici sembravano tendere agguati al giovane corridore, ma lui le superava, i piedi tanto leggeri nel toccare il suolo che parevano quasi volare.
Ursula, Ursula, Ursula…
Ogni sentimento di paura, desolazione e dolore che aveva sperimentato in quegli ultimi giorni trovava un minimo di requie in lei, nel suo nome, ma allo stesso tempo si decuplicava, tanto senso di colpa quelle tre sillabe stillavano. Un Lawrence non avrebbe dovuto amare, suo padre glielo aveva detto tante volte, perché avrebbe finito per distruggere l’oggetto del suo amore, condurlo alla rovina…
“Io non sono mio fratello, porca puttana!! Non sono lui!”
“Sei proprio come lui! Vattene via, vattene via!”
Gli ultimi alberi gli si pararono di fronte, come in un incubo. Si lanciò in una folle corsa verso la roccia, quella roccia, non avrebbe potuto sbagliarsi, anche a distanza di anni. Quella dove il terreno era più molle e cedevole, quella su cui lui e Ursula si erano seduti tante volte a fare un picnic, ridendo spensierati e ignorando l’ombra che incombeva su di loro.
“Non sai con chi hai a che fare, sgualdrinella che non sei altro!”
“Sei impazzito?! Cosa vuoi fare?!”
Si gettò sul terreno singhiozzando, e con le ultime energie che gli rimanevano dopo la corsa frenetica iniziò a spostare la terra soffice, che gli si infilava sotto le unghie, grattando sassi e erbe selvatiche, tirando via, insieme con le zolle, anche la sua stessa angoscia e disperazione.
Vide affiorare dalla terra qualcosa di più duro.
Lo scheletro della ragazza giaceva lì da anni, eppure, nonostante la mente di Jesper fosse consapevole del tempo trascorso, rimase impietrito nell’accorgersi di cosa era divenuta. I fluenti capelli biondi erano totalmente scomparsi, il cranio era sporco di fango e terriccio. Le orbite vuote, tana di piccoli vermi bianchi, avevano perso tutta la loro dolcezza, e assomigliavano alla finestrella della torre più alta, quella da cui il mostro li aveva sempre scrutati, covando piani di vendetta. Sembravano scrutare lui, e accusarlo, mentre i denti scoperti ghignavano con maligna soddisfazione. Un conato di vomito lo assalì, ma si costrinse ad ignorare l’orrore, a relegarlo in un angolo di sé, a convincersi che quello non fosse nient’altro che un oggetto, mentre strappava con gesti decisi gli stracci muffi che un tempo erano stati gli abiti della ragazza, cercando di non far caso alla sporcizia e la desolazione di quel momento, di non dare ascolto ai ricordi, soprattutto di dimenticare il motivo per cui Ursula si trovava lì, nella terra fredda e inospitale.
“No, lasciami!”
“Vuoi che sia uguale a lui? Eh, puttana?! È questo che vuoi?!”
Improvvisamente toccò un oggetto di metallo. Lo afferrò e, liberatosi della stoffa bagnaticcia e piena di terra, lo alzò alla luce del sole. Una chiave, una piccola chiave d’ottone. La chiave che apriva il maledetto libro. Sepolta insieme allo scheletro della ragazza che amava, nell’unico luogo in cui nessuno l’avrebbe cercata.
La strinse al petto, mentre le lacrime rigavano silenziose il volto perfetto, e sussurrò, a quel teschio grottesco e roso dal tempo: “Troverò un modo, amore…qualsiasi modo”.
 
Angolo autrice: Ciao a tutti! Okay, non uccidetemi, so già di aver promesso un po’ di Rarriet (come direbbe Niglia) o di Rietael (come direbbe Jo_TheRipper) ma, ecco, il brodo si è allungato parecchio e secondo me avrebbe appesantito (anche perché da ora in poi i due cominceranno ad innamorarsi e vorrei che i loro momenti risultassero i centrali in un capitolo), così ho deciso che il prossimo chapter sarà nuovamente incentrato su di loro e sulle evoluzioni del loro rapporto : ) cominceremo a correre su due binari paralleli, da una parte Raphael e Harriet nei sotterranei, e dall’altro i magheggi vari a Lawrence Borg…finché le cose non torneranno ad unirsi! Coomunque, spero di riuscire a postare il prossimo capitolo entro giovedì, data in cui partirò per la cara vecchia Parigi, ma lì avrò un pc quindi non disperate, non partirò di nuovo per la Costa Concordia!
Allora, qui siamo tornati nella mente della piccola, stramba e inquietante Erin…che, devo ammetterlo, adoro. Non ci posso fare niente, ogni volta che mi immergo nel suo punto di vista mi ci perdo a capofitto. Scusate per il mezzo disastro venuto fuori! Ah, la storia dell’amico immaginario Johnny si rifà al Tony di “Shining”, quello che faceva avere a Danny le visioni…non ho potuto resistere ad un collegamento con uno dei miei film preferiti! Quanto al fatto che abbia dato al suo “amico” un nome simile a quello del padre, è un rimando all’Esorcista (tanto per rimanere su argomenti allegri XD) nel quale la protagonista chiama il demone Capitano Howdy, abbreviazione di Howard che è, appunto, il nome del padre…tutti casi di bimbi con carenze affettive che sviluppano curiosi meccanismi mentali, insomma XD però Erin ha un animo buono, ci tengo a precisarlo! Come in fondo lo ha anche Raphael :D che Johnny imprechi e la insulti secondo me è legato alla figura materna che si lascia sfuggire certe belle bestemmie in sua presenza e non fa che trattarla male! Coomunque…si è messa ad indagare, sulla scia di Berg…i due in qualche modo si avvicineranno?
Jesper, Jesper…su Jesper c’è poco da dire, immagino, e poi sto sproloquiando troppo :’) ringrazio tantissimo Niglia, Homicidal Maniac, dobralik e Jo_The Ripper per aver recensito, e tutti coloro che seguono questa follia <3 ragazzi, senza il vostro sostegno non ce la farei! Niglia, poi, mi ha fatto da poco un bellissimo regalo, e dico in tutta sincerità che se dovessi dedicare le avventure di Raphael a qualcuno, le dedicherei a lei e a Homicidal, che le hanno seguite con costanza, disponibilità e affetto e senza le quali non saprei proprio che fare, anzi, che scrivere! Ragazze, avete dato un senso a questo personaggio brutto, sporco e cattivo, era più di quanto potessi sperare!
Un bacione a tutti,
Sylphs 

  
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